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Deserto bianco
Mi fermo a tre stelle piene per quanto riguarda questo lungo racconto dell’austriaco Adalbert Stifter (1805-1868), il quale fu autore di poesie, novelle, romanzi e anche saggi, nonché pittore e precettore; di umili natali, ebbe un’esistenza travagliata e una morte alquanto tragica e impressionante (si cerchi, per curiosità, la sua biografia) che stride con la pace e la grande bellezza naturale affiorante nelle pagine del volumetto in questione.
La sua è una scrittura che si mantiene lontana dagli apici letterari del Romanticismo tedesco, così pure da certe elucubrazioni legate al vivere dell’epoca, mostrando un’attenzione tutta particolare verso la quotidianità umile e semplice, le tradizioni, i piccoli mondi antichi d’atmosfera provinciale distanti anni luce dai fasti (e dal caos) della capitale asburgica o di altre grandi città dell’impero.
Testimonia per bene tutto ciò quanto descritto in “Cristallo di rocca”, dove la dimensione per così dire urbana si riduce a piccoli villaggi sparsi su vallate isolate racchiuse tra le montagne.
Scritto a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento e pubblicato inizialmente su un quotidiano di Vienna, questo racconto comparve in versione definitiva nel 1853 all’interno della raccolta “Pietre colorate” (“Bunte Steine”) insieme ad altri cinque testi, tutti intitolati con un nome di pietra.
Sebbene l’inizio dello scritto si perda in lunghe, minuziose descrizioni anzitutto legate alle feste religiose e all’ambiente montano, risultando in generale ben poco vivaci e ancor meno avvincenti, la narrazione si riprende dal punto in cui il lettore può spingersi meglio tra le case e le attività dei paesini di Gschaid e Millsdorf (in Stiria, nell’Austria sud-orientale) e fa così conoscenza con il calzolaio del primo e il tintore del secondo borgo. La vicenda entra con decisione nel vivo con la comparsa dei due piccoli protagonisti, Corrado e Susanna, figli e nipoti rispettivamente dei sopraccitati calzolaio e tintore; al centro del racconto, la loro disavventura alla vigilia di Natale, quando s’incamminano verso Gschaid di ritorno da casa dei nonni a Millsdorf, lungo il consueto percorso che seguivano abitualmente tra le due valli. Ed è proprio da quel momento che la trama, sotto una nevicata sempre più copiosa e con il buio che avanza, ha il sapore tipico di una fiaba senza tempo.
“Ma intorno non c’era che il bianco abbagliante, il bianco e null’altro, e anche questo tracciava intorno a loro un cerchio che si faceva sempre più piccolo e si perdeva poi in una nebbia pallida e striata che inghiottiva e avvolgeva ogni cosa, e che infine altro non era che la neve che continuava a cadere instancabile.”
Smarriti tra i ghiacci sullo sfondo di una natura che si fa a poco a poco inquietante, inospitale e pericolosa per la sopravvivenza umana, i due bambini resistono e non perdono la speranza di ritrovare la strada di casa, sfidando con la loro innocenza il pericolo concreto della morte. La minaccia rappresentata dal ghiacciaio e dal crepaccio, a cui essi arrivano, si stempera tuttavia con lo straordinario fascino di sua maestà la montagna, principale protagonista di queste pagine che si ammanta di sfumature, luci e suoni che Stifter ci narra con passione attraverso una prosa – occorre riconoscerlo – molto curata e nel complesso davvero di pregio.
Una lettura che ben si adatta alle atmosfere della stagione invernale e delle feste natalizie. Una piccolo classico che pone al centro il rapporto uomo-montagna, la sfida delle alte cime innevate che va colta con rispetto e responsabilità, la simbologia della pietra, e non meno la pura semplicità di un mondo e dei suoi valori oggi forse scomparsi per sempre.
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L'elaborazione del lutto in un romanzo di grande a
“Inizio dalla fine. Dalla mia fine. Non importa l’ora, la data e nemmeno l’anno. È il mio ultimo giorno e questo basta. Indosso la divisa e non sono solo. La nostra è una storia complicata, due come noi avrebbero dovuto essere nemici e invece siamo diventati amanti, ovvero i migliori nemici”
Una bella scoperta questo ultimo lavoro di Cinzia Leone.
Micol e Daniel, coppia di origine ebraica che vive a Roma e da tempo separata, riceve la notizia che il figlio Ariel, da tempo trasferitosi in Israele su impulso della nonna Stella e arruolatosi nell’esercito, è morto in un attentato kamikaze. E’ morto per inseguire un sogno e un ideale.
I due ex coniugi si precipitano a Tel Aviv e dopo le formalità di rito sono costretti ad attendere che i resti del figlio vengano separati da quelli dell’attentatore al quale Ariel si trovava molto vicino al momento dell’esplosione.
Micol e Daniel vivono in modo diverso la voragine di dolore che li consuma, Daniel riuscendo anche a trovare spazio per il suo lavoro da pubblicitario, Micol nel tentativo di ricostruire la vita di un figlio che ha scoperto di non aver mai conosciuto davvero. E ne scopre i sentimenti, il suo essere stata sentita davvero come madre, anche se era lontano. Scopre come il suo Ariel sia stato capace di un amore in grado di superare i muri di odio e di pregiudizi costruiti dagli uomini.
Si avvicina anche alla madre Stella, con la quale da tempo non si sentivano più, e al suo sentire, alla sua vita, a cosa poteva aver tanto affascinato il figlio.
Il lutto unisce, come ci spiega l’autrice, e anche se ognuno lo vive a suo modo, l’enorme sofferenza che si prova riesce a creare legami anche improbabili.
A Micol e a Stella, vere protagoniste del romanzo, si uniscono in un nodo indissolubile Tariq, il compagno di Ariel, Sharon, la sua migliore amica e Malak, il gatto.
Dalla morte si possono far nascere nuove vite e nuove relazioni in nome di quelli che si è perso? Può la morte consentirci di non solo di riprendere a vivere ma regalarci una vita rinnovata?
Il romanzo ci accompagna nella lunga elaborazione del lutto dei protagonisti, vissuta da ciascuno in modo diverso e originale ma che li porterà tutti alla ripresa piena della vita nel nome di chi hanno perso.
Sullo sfondo del romanzo una caldissima Tel Aviv, moderna e piena di contraddizioni nel suo conservare tracce del passato e la perenne ostilità tra israeliani e palestinesi. Un romanzo in qualche modo profetico.
La scrittura è elegante ma concisa, ragionata, dettagliata per quanto basta, mai banale e molto ricca. I sentimenti narrati con profondità. L’amore, indipendentemente da chi ne è l’oggetto, non ha bisogno di molte parole, basta venga avvertito.
Un bel romanzo, perfettamente equilibrato e ben scritto. Un originale percorso di riscatto di validità universale.
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Profetico
Una storia mozzafiato sullo sfondo del conflitto mediorientale
“A che serve la felicità quando non è condivisa, Amin amore mio? La mia gioia si spegneva ogni volta che tu non la condividevi. Tu volevi dei figli. Io volevo meritarli. Nessun bambino è al sicuro senza patria… Non odiarmi. – Sihem”.
Molto bello e avvincente questo romanzo di Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, ex ufficiale dell’esercito di origine algerina. Chiede di essere letto tutto in fiato tanto la storia sa trascinare con sé.
Amin Jaafari è un affermato chirurgo di origine araba ma naturalizzato israeliano che vive e lavora a Tel Aviv. Si trova a soccorrere i feriti di un attentato provocato da un kamikaze terrorista imbottito di esplosivo. Scopre poi che non solo la moglie tanto amata, Sihem, non era andata a trovare la nonna come aveva raccontato a lui ma è morta nell’attentato. Non solo, dai rilievi effettuati risulta essere proprio lei l’attentatrice.
Come è possibile che una donna così adorata, felice almeno in apparenza, piena di sentimento nei confronti del marito e che lui stesso pensava di conoscere così bene, che mai aveva lasciato capire di aver preso la strada dell’estremismo integralista potesse aver ucciso ed essersi uccisa? Come ha potuto commettere un gesto così atroce?
Inizialmente Amin rifiuta l’idea ma poi, dopo aver ricevuto una lettera scritta dalla moglie prima dell’attentato si deve rassegnare ai fatti. Gli rimane però il terribile senso di colpa per non aver capito, per non aver colto quei segnali che sicuramente, a suo parere, la moglie deve per forza avergli lanciato, perché un dubbio, almeno uno, deve averla attraversata prima di arrivare ad una scelta così radicale e terribile.
Aiutato quindi da Kim, amica di vecchia data per quanto il racconto mostra innamorata di lui, e con l’amicizia di un poliziotto al quale però non rivela nulla, parte alla volta di Betlemme, città dalla quale è partita la lettera. Vuole ripercorrere gli ultimi passi percorsi da sua moglie, vuole capire perché abbia compiuto un atto così estremo ma, soprattutto, conoscere chi l’ha vigliaccamente spinta a quel gesto rimanendo ipocritamente vivo. A Betlemme ha parenti, quindi parte da lì.
Non otterrà granché in apparenza, ma il dubbio continua a tormentarlo. Proprio lui, che sempre si è rifiutato di prendere posizione sul conflitto, si trova ora a doverci fare i conti.
Ho trovato la narrazione molto capace di tenere avvinto il lettore in qualsiasi situazione: anche quando Amin discute della differenza tra l’approccio di chi uccide e di chi cura, di come cercare di mantenere in vita sia meglio di dare la morte, il dialogo, profondo, mantiene avvinti. E le riflessioni che l’autore offre, attraverso le parole di Amin, così vere e così sentite, rimangono impresse.
La scrittura e veloce, cruda, il ritmo molto elevato e mozzafiato.
Chi legge è totalmente trasportato dalla figura di Amin, dai suoi stati d’animo, dal suo percorso interiore e dal suo smarrimento per non aver capito ciò che chissà, forse avrebbe potuto sospettare se il suo amore fosse stato amore e non adorazione, idealizzazione. Se solo si fosse reso conto di quanto stava avvenendo, la storia sarebbe stata ben diversa. Ma cosa stava realmente avvenendo?
E quanta sofferenza anche in Kim, l’amica, che vorrebbe allontanarlo dalla sua folle ricerca, che lo spinge a riprendere a vivere, ad elaborare il lutto, senza però ottenere risultato.
E anche l’amico poliziotto soffre con lui.
La storia apre a riflessioni profonde su un problema ben noto, il conflitto arabo israeliano, per il quale non si riesce a costruire la via per una pace giusta ma si continuano a condannare a morte innocenti da parte di entrambi gli schieramenti. Amin poi, si è sempre posto come ideale modello pacificatore tra le due parti del conflitto mediorientale: forse è proprio questo a rendergli ancora più intollerabile l’evento. E l’idea era che sua moglie fosse con lui in questo modello. Quanto lontano era dalla verità!
Una lettura molto consigliata, un libro da leggere.
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Caccia con finale a sorpresa.
E’ il sesto episodio della serie che riguarda Colter Shaw, il cacciatore di ricompense reso famoso da Jeffery Deaver, uno scrittore di thriller che, con John Grisham, rientra nel novero dei miei preferiti. Questa volta è incaricato da un ricco imprenditore, Marty Horman, titolare di una ditta specializzata in reattori nucleari di piccole dimensioni ( i “Soli tascabili”), di indagare sulla scomparsa di un particolare accessorio sottratto al magazzino. Si dà il caso che quasi contemporaneamente scompaia, con la figlia sedicenne, un’ingegnera del suo staff, Allison Parker, inventrice e progettatrice, risorsa indispensabile per la ditta: l’incarico di cercarla è affidato sempre a Colter, ed è soprattutto questa indagine ad essere narrata, con risvolti complessi ed inattesi. La scomparsa della donna è in realtà una fuga dal marito, Jon Merritt, descritto come un alcolizzato violento e vendicativo, uscito anzitempo dal carcere ed apparentemente intenzionato a sterminare la famiglia. La Allison, in fuga, cerca un posto sicuro ove rifugiarsi, chiede aiuto, tenta di depistare chi la vuole morta: è in contrasto con la figlia, che ha un buon ricordo del padre e lo ricorda con nostalgia. E’ una vera e propria caccia alla malcapitata Allison: il marito la cerca, Shaw vuole salvarla, altri due balordi sono sulle sue tracce incaricati di eliminarla … L’inseguimento è disseminato di ostacoli e di scontri, fino ad un rifugio in riva ad un lago dove la donna, finalmente trovata dal cacciatore di ricompense, organizza un’ultima difesa: qui la trova finalmente anche il marito e qui avviene un inaspettato e magistrale colpo di scena che lascerà tutti increduli. Gli ultimi capitoli chiariranno tutta la vicenda e riveleranno ancora una volta tutta l’abilità dello scrittore nel dipanare una storia che metterà in luce motivazioni diverse e ben altri colpevoli.
Il romanzo si legge restandone emotivamente coinvolti, lo stile è quello tipico di Jeffery Deaver: alterna momenti descrittivi o di riflessione con scrittura piana, pacata, scorrevole, a fasi più concitate e incalzanti con il suo più caratteristico stile secco, fatto di frasi brevi e risolutive. Del resto proprio l’autore, in un’intervista, aveva affermato che la scrittura di un romanzo giallo deve seguire onde emotive, come accade in una sinfonia di musica classica (alludeva a Beethoven), dove si alternano emozioni contrastanti, momenti di eccitazione alternati a fasi di rallentamento.
Un paragone, a mio parere, calzante. La lettura di un autore come Jeffery Deaver è sempre da consigliare agli amanti del genere, il personaggio di Colter Shaw ha un particolare impatto, è un solitario con un carattere non facile, sempre mosso da buone intenzioni.
Un buon thriller, in conclusione, anche se l’investigatore Lincoln Rhyme, protagonista affascinante e profondamente umano di tante avventure, resta il mio preferito.
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Anna in trasferta
Per Anna Melissari, la donna che parla con gli animali, si prospetta uno stimolante miglioramento di carriera: Giovanni Cantoni, il titolare dell’agenzia investigativa per cui lavora, è propenso ad assumerla in pianta stabile come membro effettivo dello staff. Inoltre, quando una vecchia amica di Cantoni, Cecilia, si rivolge a lui per chiedergli aiuto nella ricerca di Yasser (un giovane profugo siriano che lavora al rifugio che lei gestisce assieme al marito Tullio), sembra che le si prospetti l’occasione ideale per fare bella figura col capo: indagare dove i migliori testimoni sono proprio animali e piante.
Il rifugio di Cecilia, infatti, si trova sugli appennini, in mezzo ai boschi. Dà accoglienza provvisoria a molti profughi in attesa che si completi l’iter per la concessione dell’asilo politico. Yasser era uno dei ragazzi più promettenti: dopo aver passato mille traversie, era giunto al rifugio dove aveva subito cominciato ad ambientarsi. Gentile, servizievole, alacre e volonteroso, si dava continuamente da fare e stava diventando indispensabile nella conduzione dell’attività alberghiera, oltre a formarsi come abilissimo ebanista che produceva sculture e mobili di fattura mirabile. Inspiegabilmente, il giovane, da un giorno all’altro, era scomparso, senza portarsi dietro nulla, nemmeno un vestito o qualcuna delle sue opere più raffinate. Inutili si sono rivelate le ricerche degli amici nei boschi che circondano il rifugio, mentre i Carabinieri si erano subito disinteressati della faccenda perché, secondo il maresciallo, “si sa come sono fatti quelli là…”.
È l’indagine ideale per Anna: in mezzo alla natura chissà quanti animali potranno aiutarla a scoprire cos’è avvenuto di Yasser? Invece, appena arrivata in montagna la donna ha un collasso: c’è troppa natura attorno a lei. Milioni di esseri viventi le urlano in testa e lei non riesce a reggere quel micidiale frastuono; sviene in continuazione. Così quello che doveva essere un caso facile da risolvere si trasforma in una tortura per la donna e una bega difficile da sbrogliare per Cantoni che, oltre a badare che lei non si esponga troppo (con rischi per la sua salute), deve districarsi tra la diffidenza dei profughi e l’ostilità di Tullio, che reca, nei suoi confronti, un rancore antico e bruciante.
Nuova avventura per la stramba investigatrice che scuce informazioni ai più improbabili testimoni e, in teoria, nuova occasione per una lettura divertente e distensiva. Purtroppo, sin dalle prime pagine si percepisce che non c’è quel mutare di ritmo che sarebbe stato utile per ravvivare l’interesse nella serie ed evitare che scivoli verso una routinaria ripetitività delle opere precedenti.
Lo stile continua a rimanere piacevole giovandosi, come fa, del consueto linguaggio che oscilla tra il familiare e il colloquiale leggero, con le frasi che scorrono rapide sotto lo sguardo del lettore. Talora l'A si concede la licenza di accomodarsi su visioni piuttosto convenzionali e di generale accettabilità, quando l’argomento trattato scivola su questioni più serie, che meriterebbero un approfondimento più ragionato, mostrando quasi il pudore di turbare coscienze o sollevare quesiti inquietanti. Ma ciò è in linea con questa lettura che dev’essere, sostanzialmente, di svago.
Il serraglio floro-faunistico che sputa sentenze alla donna si arricchisce di nuove campioni: il riccio che pretende di essere un fine astronomo, la capretta che spera di essere rapita dagli alieni, la banda di scoiattoli taglieggiatori che pretendono il pizzo in nocciole, il cinghiale che si crede uno scoiattolo o una vacca alpina e una piantina di sedum che vorrebbe entrare in agenzia come stagista e agente sotto copertura. Insomma tutto assurdamente divertente, ma anche spudoratamente esagerato. E questo forse è il difetto più grande del romanzo. L’idea iniziale da cui è partita la serie era molto divertente: far parlare gli animali e consentire loro di giudicare in modo acuto e irriverente i nostri comportamenti – che pretenderemmo essere frutto della nostra superiore intelligenza e, invece, spesso sono solo illogici e bislacchi – è sempre una carta vincente della narrativa. Però il ricercare a ogni costo la battuta comica, la trovata paradossale inventandosi caratteri bizzarri, individui psicotici o bestie che pontificano in modo sofistico e dottorale, se non viene dosato in modo equilibrato e cauto, rischia di rendere il tutto più simile alla farsa, spogliando quelle considerazioni anche del loro nucleo serio, acutamente critico.
Poiché la vicenda è ambientata in trasferta, sono meno frequenti le presenze dei personaggi di contorno che, a volte, in passato, avevano appesantito il racconto evidenziandone ancor di più il carattere buffonesco. Però, nonostante quest’azione di snellimento la storia regge sino a un certo punto. Comprensibile, ai fini dello sviluppo del racconto, che si sia deciso di utilizzare l’escamotage di rendere Anna handicappata di fronte allo strapotere delle voci della foresta. In caso contrario l’enigma sarebbe stato risolto con una semplice passeggiata nei boschi, ma si sarebbe appiattito ogni intreccio narrativo. Purtroppo, in tal modo s’è esaltato pure la caratteristica imbranataggine della donna, il suo essere perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, la inettitudine personale, il continuo stato di stress per i micro-guai suoi e della famiglia lontana, le sue paranoie… Insomma la si è resa ancor più ridicola e, se vogliamo, irritante. Se da un lato ciò è funzionale alla trama, dall’altro, alla lunga, stanca.
Complessivamente, però, il romanzo resta gradevole e divertente, pur essendo inferiore di qualche livello a quelli che lo hanno preceduto. Ma sul serio, adesso, c’è la necessità di un cambio di marcia per evitare che la serie si imballi in una collana ripetitiva di storie tutte cloni l’una dell’altra.
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Non entusiasmante
“Il padrone diceva che l'unica cosa più pericolosa di un negro con la pistola è un negro con un libro in mano.”
Un po’ deludente questo romanzo di Colson Whitehead. Forse le mie aspettative erano troppo alte dopo aver letto I ragazzi della Nickel. E’ avvincente e avventuroso di sicuro, forse però sarebbe stato più azzeccato intitolarlo “Le avventure di Chora”, perché di questo alla fine si tratta.
Giovane schiava nella Georgia del 1800, Chora, rimasta senza madre perché fuggita prima di lei e mai ritrovata, vive cercando di difendersi in una vita fatta di violenza e sopraffazione. Si lascia attrarre dal sogno di fuga di un altro giovane schiavo che le parla della ferrovia sotterranea, una rete ferroviaria appunto che serve agli schiavi in fuga per rendersi invisibili. Non manca poi il desiderio di cultura da parte di una popolazione nera tenuta volutamente nell’ignoranza.
Il viaggio di Chora verso la libertà, inframmezzato da catture, nuove fughe e violenze di ogni genere, è la sostanza di questo romanzo che si conclude con l’ennesimo tentativo di fuga del quale non conosciamo l’esito.
A parte qualche divagazione che ne rallenta il ritmo per il resto il racconto è piacevolmente avvincente ma nulla di più. La violenza non manca nella sua descrizione più cruda, esercitata verso i neri e verso i bianchi che li aiutano. Impiccagioni, stazioni della ferrovia devastate, case incendiate. I cacciatori di schiavi sono spietati e interessati solo al denaro che possono ricavare dal loro lavoro.
L’autore ci ha sicuramente lasciato un manifesto di denuncia sociale nel quale i buoni sono nettamente e chiaramente diversi e separati dai cattivi, nel quale la libertà è intesa nel suo senso primordiale e pieno, che non lascia dubbi sulla parte dalla quale occorra stare.
Eppure, nonostante i buoni ingredienti, al romanzo manca qualcosa. Sicuramente non si riesce ad empatizzare con la protagonista con la quale, se non per i principi, non si riesce a lasciarsi coinvolgere fino in fondo. La scrittura non impressiona, non aggiunge e non lascia nulla al lettore. Alla fine il romanzo risulta ripetitivo perché nulla di completamente nuovo arriverà a modificare la sostanza della vicenda.
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Benvenuti nel Paese degli stereotipi
Un'eterna ricerca contraddistingue la vita di ogni lettore, ed è quella per individuare i propri scrittori preferiti; se possibile, autori con delle bibliografie corpose, che forniscano un buon numero di volumi da poter recuperare. Per me, Tracy Chevalier rappresentava proprio la candidata ideale per questo ruolo: una scrittrice parecchio apprezzata, impegnata in uno dei miei generi preferiti (il romanzo storico), con una decina di volumi pubblicati, e tutti già tradotti in italiano! Cosa mai poteva andare storto? Vediamolo partendo dalla trama de "La Vergine azzurra", il suo romanzo d'esordio, nonché il titolo con cui ho scelto di cominciare la valutazione della sua prosa.
La narrazione si ambienta principalmente in Francia e Svizzera ed alterna due linee temporali: nella prima seguiamo la popolana Isabelle "la Rossa" du Moulin alla metà del Cinquecento, nella seconda arriviamo ai giorni nostri ed all'ostetrica Ella Turner; quest'ultima si è da poco trasferita nella Patria della quiche e della tour Eiffel per seguire il marito, un architetto di successo. Le due storie hanno moltissimi punti in comune, a cominciare dalle ricorrenze nei nomi dei personaggi per arrivare alle svolte più significative negli intrecci, inoltre si intuisce da subito che le donne sono imparentate ed hanno un aspetto fisico molto simile.
E già da qui si potrà indovinare come la trama prenda una piega surreale che personalmente non sono riuscita ad apprezzare, soprattutto per la poca coerenza e la totale assenza di chiarimenti. In parole povere bisogna accettare che tra Isabelle ed Ella (ma non solo?) esista un legame mistico grazie al quale la seconda riesce a ricostruire fuori scena la vita della prima, o almeno alcuni elementi. Tutto questo risulta a mio avviso forzato ed inutilmente contorto, tanto da rendere a più riprese incomprensibile una narrazione per il resto lineare.
Per quanto riguarda la prosa della cara Tracy in senso lato, l'ho trovata a tratti decisamente bizzarra, e penso in particolare ad alcuni dialoghi ed alla dinamica di certe scene, quasi incomprensibili per quanto i personaggi agiscono in modo caotico, senza tenere in minimo conto le conseguenze delle proprie azioni. Personaggi che risultano poi problematici anche per la mancanza di una vera caratterizzazione: la maggior parte di loro vive soltanto in funzione del ruolo che sono destinati a svolgere nell'intreccio; una volta raggiunto quell'obiettivo, l'autrice non esista a farli praticamente scomparire tra un pagina e l'altra.
Analizzando invece le due vicende in modo individuale, la maggior problematica nella storia di Ella è il comportamento infantile della protagonista stessa, nonché la presenza di un certo trope romance che trovo molto discutibile. Per quanto riguarda Isabelle, la narrazione dei capitoli che la riguardano mi è sembrata troppo frammentaria, con salti di anni ed anni tra un paragrafo e l'altro; il lettore è così costretto ad indovinare come i personaggi reagiscano dopo determinate rivelazioni. Un esempio su tutti è il momento in cui Isabelle ed Etienne annunciano alla famiglia di lui che si sposeranno; purtroppo non sapremo mai cos'aveva intenzione di fare il padre uscendo con un'ascia in mano perché la scena successiva ci porta direttamente alla terza gravidanza della donna, ormai sposata da anni.
Devo ammettere però che in questa lettura non ho individuato solo difetti. In primo luogo mi sono piaciuti molto i collegamenti tra le storie di Isabelle ed Ella, specialmente quando vengono affrontate le difficoltà dell'essere madri e del sentirsi accettate da una nuova comunità. Ho trovato inoltre solida l'ambientazione storica, il che rende più credibile la parte dedicata ad Isabelle. Nel complesso, la prosa di Chevalier presenta diversi elementi interessanti che magari, con la maggior esperienza acquisita in anni di pubblicazioni, mi permetteranno di apprezzare la lettura de "La ragazza con l'orecchino di perla", aka il romanzo con cui progetto di darle una seconda possibilità.
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Juliet e il vetro soffiato di Murano
«La bellezza era sempre stata importante nella sua vita. Le aveva permesso di notare aspetti che ad altri sfuggivano, e che per lei invece erano puntelli sui quali costruire il suo avvenire. Credeva di essere preparata alla bellezza.»
È un romanzo onirico “La collana di cristallo, decimo titolo a firma Cristina Caboni, edito da Garzanti, ambientato a Venezia tra riscoperta di sé e vetro soffiato di Murano.
Siamo a Venezia, il vetro soffiato di Murano regala magia e sogni con le variegate sfaccettature che si presta a realizzare. Protagonista della vicenda è Juliet Meriwheter che ama l’arte e ha una particolare predilezione per il lavoro del vetro. È proprio grazie a questo suo talento che riesce a conquistare un dottorato in Arti visive e la conseguente ammissione all’Accademia del vetro di Murano.
Come spesso accade, la famiglia è contraria. Lei che da sempre, per loro, è incapace di affrontare qualsivoglia difficoltà perché troppo fragile e indifesa, come può ora affrontare un’avventura del genere e per di più oltreoceano? Juliet non demorde, però. Ha già deciso cosa vuole e farà di tutto per ottenerlo.
«Voglio decidere della mia vita. Murano potrà darmi delle risposte. Perché lavorando il vetro mi sento me stessa.»
A differenza di tutti è la tata a credere in lei e a lasciarle un regalo che custodisce un mistero. Juliet giunge a Venezia e ne resta affascinata. Per lei è un luogo magico, fatto di colori, umori, intrighi e tante umanità distinte e contraddistinte. Non faticherà a distinguersi nemmeno all’interno dell’accademia e questo perché lei, a differenza di altri, sa realizzare oggetti capaci di emozionare.
«Lei applicava la tecnica al concetto che voleva esprimere, e così produceva un oggetto capace di emozionare. Era quella la sua particolarità rispetto ai colleghi. Lei si dedicava al dettaglio, giocava con il colore e la trasparenza.»
Lavora sodo Juliet eppure si sente incompleta. Prova un senso di disagio che la porta ad essere irrequieta, non felice. Deve capire cosa è capace di fare, chi è, qual è il suo posto nel mondo e deve anche riuscire a interpretare questa sensazione profonda che l’attanaglia sino a riuscire a darle un nome e una risposta. Chi è veramente Juliet? Cosa il futuro le riserva? Cosa voleva dirle la tata con il suo misterioso dono? Perché è così attratta dal vetro soffiato di Murano?
“La collana di cristallo” di Cristina Caboni è un romanzo maturo, profondo e intenso. Al suo interno il tema centrale è il cristallo di Venezia e cioè un vetro di altissima qualità la cui lavorazione si tramanda di generazione in generazione da oltre sette secoli. È un vetro straordinariamente trasparente che ha la capacità di assumere l’aspetto di un cristallo e di affascinare ancor di più proprio grazie alla sua purezza. Quest’ultima, se unita a una sapiente e minuziosa lavorazione, si presta alla realizzazione di opere di indubbia bellezza che vanno da pregiati specchi a lampadari.
Cristina Caboni si dimostra essere ancora una volta un’ottima narratrice dalla penna leggera ma minuziosa. Propone ai suoi lettori uno scritto magnetico, che conquista tanto per storia che per costruzione dei personaggi. Il lettore è affascinato, coinvolto, conquistato dalla magia della penna e dalle ambientazioni. Non manca, ancora, l’immedesimazione verso una protagonista evocativa e che suscita una naturale ricerca interiore. “La collana di cristallo” è un testo adatto a chi cerca l’emozione, chi ha desiderio di scoprire e chi cerca parole mai scontate ma capaci di trasportare in un altro mondo.
Ecco allora che le parole assumono un significato diverso, che conducono per mano, che spiegano il cuore e catturano.
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Libertà dai desideri
"Mi sento pervaso da una gioia come da un alone"
Un libro intenso, molto interessante, di grande umanità.
Si tratta di una lunga conversazione fra Tiziano Terzani e il figlio Folco nella bella cornice della terra natìa.
Il celebre giornalista e scrittore, pur gravemente malato, è come illuminato di lucida e serena sapienza.
E' soddisfatto della propria vita. Ora guarda alla morte come a un approdo al quale la vita stessa tende.
Tra le varie esperienze vissute, indelebile porta in sé il fascino dell'India. Quei vecchi ispiratori di saggezza, che noi troviamo nei libri, là s'incontrano viventi, magari per strada oppure andando a cercarli. E per lui quegli incontri, afferma, sono stati alquanto fruttuosi.
"... una delle poche cose che ho imparato (...) è la rinuncia ai desideri, che è la vera, ultima grande forma di libertà".
Anche Folco ovviamente interviene, ponendo domande e sollecitando risposte. Talvolta è lui stesso a pronunciare una frase particolarmente profonda : "Io mi domando se l'illuminazione non sia proprio l'arrivare a guardare il mondo così com'è e trovarlo perfetto" .
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per chiunque
Toh, un gatto!
In un locale a Tokyo, stretto come un budello, si scommette sui gatti. Nel locale è appeso un ritratto di famiglia dei gatti e dentro il locale assistiamo ad una carrellata di strani personaggi, fra cui si tessono relazioni umane anche impensabili. E’ una vera enciclopedia illustrata del genere umano, che sorprende così come solo certe cose giapponesi ti possono sorprendere. In questo budello prende forma, con poesia, una stretta amicizia fra la barista ed un cliente, daltonico, entrambi un po' disadattati nel mondo moderno. Sarà questo che li unisce. Sarà l’amore per i gatti. Sarà la reciproca delicatezza che permette loro di sentire bolle di calore corporeo in un modo fatto di sabbie mobili che risucchiano. Fatto sta che ne esce una storia surreale, che, a modo suo, comunque ti cattura, con uno sguardo felino che ti fa le fusa.
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"Non eravamo mica buoni, a fare la guerra”
Nella tradizione della letteratura resistenziale questo scritto di Meneghello si pone, è riconosciuto da tutta la critica, in posizione molto originale. In primo luogo perché la scrittura non è immediata, il recupero dei fatti vissuti sull’Altopiano di Asiago avviene quasi un ventennio dopo, il libro fu infatti scritto nel 1963; in secondo luogo perché l’identità di chi scrive, ricordando, ha subìto una naturale evoluzione: Meneghello non è più un giovane acculturato che è salito sull’altopiano con i suoi amici vicentini per fare la guerra civile, ora è un professore universitario in Inghilterra. La sua memoria filtra il vissuto a debita distanza con l’intento dichiarato di “dare un resoconto veritiero dei casi miei e dei miei compagni negli anni dal ‘43 al ‘45: veritiero non all’incirca e all’ingrosso, ma strettamente e nei dettagli” (nota al testo in seguito alla revisione del sett. 1974 - aprile 1975).
Una cronaca stringente, particolareggiata ma anche frammentaria, quasi una giustapposizione di episodi scritti a partire dagli anni cinquanta e con estrema difficoltà, una difficoltà causata dal ricordo ancora vivo e pungente di una guerra mai cercata e voluta ma che lo ha attratto irrimediabilmente, stregandolo negli aspetti più violenti e di conseguenza segnandolo. La scrittura troppo precoce mal si sarebbe saldata con la rielaborazione intima dei fatti vissuti che non erano stati ancora elaborati. Quando poi è sopraggiunta la scrittura, lo sforzo più grande per Meneghello è stato quello di dargli una struttura narrativa rimanendo però fedele alla sua visione antiretorica.
La narrazione si apre con la ricerca di una scafa sotto il Colombara, Meneghello è in compagnia di una ragazza che ha trascinato sull’Altopiano per ritrovare oggetti lasciati nel pertugio sotto terra durante un rastrellamento, all’apice della sua partecipazione alla guerra civile: un libretto e il "parabello". Li trova e in quell’atto si conclude la sua guerra, “tutta una serie di sbagli”; all’emozione subentra la comprensione degli eventi e la capacità di lasciarli andare, per quelli che sono stati, congedandoli finalmente. Trovare il "parabello"abbandonato coincide con il capire di aver vissuto una guerra anomala a cui non erano affatto preparati: “non eravamo mica buoni, a fare la guerra”.
É dunque ora di raccontarla questa non guerra, questa frattura all’indomani dell’armistizio. Anche qui, come in Fenoglio, è chiaro il senso di sbandamento provato dalla nostra gente, Piemonte o Veneto non fa differenza. I renitenti alla leva, la gente comune che li aiuta e vuole voltare pagina, gli irriducibili fascisti, la ricerca di un nuovo inizio, lo scivolare deciso verso la clandestinità. E i giovani che precocemente diventano vecchi senza essere stati giovani e salgono in montagna. E la montagna qui è l’Altopiano. Protagonista assoluto, essenza intima della narrazione, un luogo dell’anima capace di aprire scorci descrittivi evocativi e di calmare l’animo inquieto, teso, eccitato da eventi fuori dall’ordinario, incomprensibili mentre li si vive.
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Diane: chi è costei?
Torna Charlotte Link, con la sua investigatrice di carta: Kate Linville, sergente investigativo alla North Yorshire Police, nel libro intitolato La notte di Kate, edito da Corbaccio. Un giallo classico, curioso e assai intrigante.
Il romanzo potrebbe essere riassunto con queste poche frasi:
“Un’auto abbandonata nel buio, una donna accoltellata, un’impronta digitale. Nemmeno la neve copre tutte le tracce.”
Siamo quasi a Natale, e la neve copre tutti i misfatti umani. O almeno ci prova. Una donna viene brutalmente uccisa e trovata con la sua macchina in mezzo ad un’area naturalistica. Si chiamava Diane. Ed era una donna sola. Troppo sola. Chi era, in realtà questa donna? E perché è stata uccisa?
“Quanta solitudine circondava la donna morta. Nella sua vita c’erano state delle persone, ma lei era riuscita ad aprirsi veramente con nessuna di loro. Il suo appartamento, la sua vita, tutto ciò che raccontavano di lei quelli che la conoscevano erano intrisi di solitudine, quasi fosse un odore intenso, fastidioso, che aleggiava dappertutto e permeava ogni cosa.”
Ad occuparsi della indagine è Kate con la sua squadra, capitanata dall’ispettore Pamela, brava e molto capace. Kate intuisce subito che qualcosa di misterioso e altrettanto nefasto circonda questo omicidio. Lei stessa è molto scossa, e sente di non essere al pieno delle proprie capacità investigative:
“Aveva una figura graziosa, sebbene qualcuno avrebbe potuto trovarla troppo magra. Ma nient’altro. Per il resto spiccava per il suo essere invisibile. Le donne come lei erano scialbe, insignificanti, né brutte né belle. Semplicemente niente.
Ho l’impressione che non prenda troppo sul serio i regolamenti e che sia incline ad agire di propria iniziativa.”
Kate riuscirà a trovare il fil rouge che lega le indagini, assai intricate? A che prezzo?
La notte di Kate è un vero e proprio giallo, per gli amanti del genere. Un romanzo un po’ prolisso, molto intimo ed intimistico. L’autrice si rivela essere, particolarmente brava nella narrazione di personaggi, dipinti nella loro intima essenza, nel loro pensare e vivere quotidiano. Una lettura di genere, un po’ lunga e particolareggiata, ma molto intrigante e curiosa. Si fa attendere con ansia un finale inaspettato.
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La quinta donna
Franck Thilliez con Labirinti completa la trilogia iniziata con i libri intitolati Il manoscritto e proseguita con C’era due volte. I libri possono anche essere letti singolarmente, ma sarebbe opportuno seguire il corso per capire meglio i rimandi che quest’ultimo contiene.
Il libro si apre con una giovane poliziotta che dice di chiamarsi Camille Nijinski ( come il grande ballerino russo, malato di schizofrenia) che nello studio dello psichiatra Fibonacci cerca di comprendere il perché abbiano trovato una donna quasi morta di freddo, con accanto il cadavere di un uomo, che stringe tra le mani un pezzo degli scacchi, e più precisamente l’alfiere nero. La paziente, soccorsa, non ricorda nulla, tabula rasa. Ma prima di dimenticare la stessa ha condiviso con lui una storia strana e complessa. Dopo di che nulla è più. La vicenda ha cinque protagoniste, tutte donne: la giornalista, la psichiatra, la rapita e la scrittrice. Tutte accomunate da cosa? E la quinta? Chi è? Lei:
“Arriva solo in seguito ed è la chiave di tutto. La sua identità verrà rivelata solo alla fine della storia. E si concentri, perché questa storia è un vero labirinto cui tutto si intreccia. E la quinta persona è il filo del dedalo che, ne sono certo, fornirà le risposte a tutte le domande.”
Un romanzo sconcertante, dove nulla è come appare. E’ , sicuramente, un rompicapo letterario. Ma non solo. E’ una lettura avvincente, una storia nella storia. I colpi di scena sono continui, e la narrazione trascina il lettore in un vortice, dove nulla è. I personaggi raccontano la loro storia di vita e il romanzo ha connotazioni fortemente introspettive.
Labirinti è lo specchio della mente umana e delle sue caratteristiche, non sempre limpide e lineari. Per cui:
“Il cervello umano può ricorrere alle strategie più incredibili per proteggere la mente. Si adatta di continuo, si ricostruisce sulle proprie rovine… E’ perfino capace di ingannare se stesso.”
Ho faticato a leggere questo romanzo, ma sono stata rapita dalla curiosità di sapere e di conoscere la verità. Sempre che questo sia mai possibile. Un romanzo per chi ama la psicologia, tortuoso e assai complesso. In definitiva un ottimo thriller, ad alto tasso adrenalinico, di non sempre facile e scorrevole lettura. Nel complesso una lettura che si distingue.
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Il mondo dentro, il mondo fuori
“Non ho l’abitudine di piangere, non lo nego, ma l’affidabilità si misura soprattutto dal comportamento. Mettetemi alla prova, e valuterete se il risultato vi soddisfa.”
È un romanzo molto particolare “Resta con me, sorella”, opera di recente pubblicazione a firma Emanuela Canepa e ambientata negli anni Venti del Novecento.
Protagonista è Anita Calzavara, donna che per coprire il fratellastro e salvare la famiglia, si accolla la colpa di un furto al giornale dove lavorava insieme all’ingrato e insolente congiunto. Anita viene condannata, finisce in carcere alla Giudecca per diversi mesi e deve abituarsi a una nuova vita, quella della reclusa. La convivenza con le prigioniere non è semplice e solo Noemi, tra tutte, non le è ostile.
Ella ha il “demonio dentro” e quindi è da tutte scansata. Non rivela però perché si trova lì. Anita sa che sta maturando un debito con l’altra e segue la promessa del ritrovarsi una volta fuori. Ma cosa succederà davvero una volta fuori dal carcere?
In “Resta con me, sorella” Emanuela Canepa offre ai suoi lettori una storia particolare e molto articolata dove non perde la sua anima già conosciuta in “L’animale femmina” e ritrovata in “Insegnami la tempesta” ma dimostra anche una profonda maturità introspettiva e intellettuale prospettando l’analisi su più piani.
Notevole tratto distintivo è la crescita dei volti femminili che, tra queste pagine, sono caratterizzati da una maggiore analisi psicologica. Non manca la componente storica assente nei precedenti scritti, pregnante in quest’ultimo. Ad essere analizzato è il Novecento ma anche la condizione femminile in questo primo ventennio. Interessante è anche l’approfondimento sulla dimensione carceraria nonché l’analisi del rapporto con il potere, il tema dell’amicizia, la Chiesa.
“Resta con me, sorella” è un romanzo stratificato, complesso, godibile e ricco di spunti di riflessione che portano il lettore a interrogarsi ma anche a interrogare. Il perfetto affresco di una realtà storica con tanti lati oscuri.
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Un classico della letteratura fantastica
Prendendo le mosse dal ritrovamento di un manoscritto da parte di due amici che, per trascorrervi le vacanze, giungono nei pressi di un villaggio “all’estremo limite dell’Irlanda occidentale” (come recita l’incipit), questo breve romanzo dello scrittore inglese William Hope Hodgson (1877-1918) è senza dubbio un classico della letteratura mondiale di genere horror fantascientifico.
Non sapevo niente riguardo all’autore e sono rimasta molto colpita dalla sua vicenda personale, conclusasi tragicamente sui campi di battaglia francesi della grande guerra. Un destino drammatico per un quarantenne che sin dall’adolescenza non ebbe vita facile; sebbene Hodgson sia scomparso prematuramente, la sua è una produzione letteraria cospicua che ha lasciato un solco fecondo.
Il cuore della narrazione de “La casa sull’abisso”, testo pubblicato nel 1908, è rappresentato dal contenuto dello stesso manoscritto omonimo rinvenuto dai due amici tra le macerie, custode di un racconto che sa davvero dell’incredibile.
Mi sono avvicinata alla lettura con grandi aspettative, ma purtroppo – devo riconoscere con franchezza – non ne sono stata rapita e giungo alla conclusione che il genere letterario in questione non faccia per me, pur riconoscendo il valore di una trama ben congegnata e di una scrittura importante ricca di fantasia che non certo tutti possiamo avere. Con tutta onestà, mentre leggevo, non ho sentito il terrore artigliarmi il cuore né sono stata presa dalla impazienza di sapere come andasse a finire la storia narrata, anzi ammetto di aver fatto fatica in più punti a portare avanti la lettura trovando di una grandissima noia quei capitoli in cui il tempo scorre più che rapidamente attraverso anni, secoli e forse millenni e subentra una sorta di glaciazione e la fine del sistema solare. Segnalo, tuttavia, che alcune parti (quelle relative all’assedio della casa da parte degli esseri-suini e alla inquietante presenza che, sul finire del manoscritto, riesce a penetrare e sta per aprire la porta della stanza del vecchio narratore) sono riuscite a tenermi attaccata al libro con maggior attenzione.
Una lettura di sicuro più adatta agli appassionati di letteratura fantastica e dell’orrore; spero in seguito di potermi riconciliare con il povero Hodgson leggendo altri suoi titoli (si accettano con gratitudine eventuali suggerimenti).
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Un racconto che fa riflettere
Accabadora si potrebbe definire una favola dai contorni noir ambientata in una Sardegna di metà 900 molto ben caratterizzata dall’autrice. Soreni, paesino dove hanno luogo i fatti del racconto, ha i contorni tipici che potrebbero essere propri di un qualsiasi paesino del sud italia: un ecosistema chiuso in cui ciascuno dei suoi abitanti è ben inserito e svolge un ruolo, dove tutti sanno di tutti ma le apparenze devono essere mantenute perchè il pettegolezzo rappresenta ancora una sorta di controllo sociale che tutti temono. Soprattutto se è per “stupidità” a finire sulle bocche dei compaesani. Ed è proprio un fatto “stupido” (una disputa terriera finita in tragedia) a rappresentare la rottura della normalità per una famiglia molto sui generis composta da Bonaria Urrai, sarta del paese, e la sua fillus de anima Maria Listru.
Il povero Nicola Bastiù, mentre tenta di dar fuoco al campo dei confinanti, viene colpito da una fucilata ad una gamba, in seguito amputata a causa delle ferite riportate. Il suo forte temperamento e la strabordante vitalità giovanile vengono annientati dalla sua nuova condizione fisica, portandolo ad una profonda depressione. Dunque è in questo frangente che Maria scopre un segreto molto importante riguardo la sua madre acquisita, ovvero lei è l’accabadora, colei che finisce: Bonaria, colpita dalla storia del ragazzo in cui rivede il suo promesso scomparso anni addietro, decide di mettere fine alla sua vita cedendo alle sue insistenze, tradendo un pò i dogmi che la sua professione gli impone, ovvero di aiutare a compiere il destino dei morenti in assoluta accondiscendenza con la famiglia dell’infermo, che in questo caso viene tenuta all’oscuro.
La scoperta turba la giovane Maria che, presa da un atto di profonda indignazione, decide di lasciare il paese per andare a lavorare come tutrice a Torino.
Passano un paio d’anni e la ragazza si ambienta nella nuova realtà e (quasi) scopre l’amore ma una chiamata improvvisa la costringe a tornare in Sardegna: Bonaria ha avuto un ictus e non è più autosufficiente. Maria decide quindi di tornare a prendersi cura della madre adottiva. Nei due anni che seguono la situazione diventa per entrambi sempre più insostenibile e nella mente della giovane comincia a maturare l’idea di porre fine a tanta sofferenza. Con le parole in testa di Bonaria pronunciate tempo prima durante il litigio che ha portato la famiglia a separarsi, ovvero “non dire mai: di quest’acqua non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”, Maria decide di compiere l’estremo atto nei confronti della madre sofferente, atto che tanto aveva criticato in passato.
Il libro si legge tutto d’un fiato, complice uno stile asciutto ma efficace, che non annoia. I dialoghi dei protagonisti, molto ben scritti e cuciti in maniera impeccabile attorno al carattere dei vari personaggi, sono incalzanti e danno ritmo alla lettura.
Sono proprio i dialoghi a mio avviso il fulcro su cui poggia la struttura del libro perchè scritti in modo tale da indurre il lettore alla riflessione, senza che l’autrice rischi di imporre in maniera esplicita il suo pensiero. I fatti in sé sono dunque solo la cornice che dà l’opportunità ai protagonisti di poter riflettere e maturare di conseguenza le proprie idee.
Come ogni favola che si rispetti, Accabadora ha un suo insegnamento, ma sta a voi saperlo cogliere!
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ma quindi... gli archibugi?
Che fatica portare a termine una serie quando non ci sta convincendo del tutto! Ecco perché ho procrastinato negli ultimi mesi la lettura de "La dea in fiamme", capitolo conclusivo di The Poppy War, una trilogia che tutti sembrano adorare alla follia. E questo mi fa sentire ancor più una voce fuori dal coro, non solo perché la trovo decisamente migliorabile, ma anche per i difetti oggettivi sui quali la maggioranza degli altri lettori sembra aver chiuso tranquillamente un occhio, mentre io non ce l'ho proprio fatta.
Passando a questo terzo volume, l'azione si sposta avanti di pochi mesi, durante i quali la Coalizione del sud alla quale si è affiliata Fang Runin "Rin" ha intrapreso una campagna per liberare le province meridionali dalle bande armate dei federati, nella timorosa attesa che la Repubblica termini la guerra di repressione al nord e -di conseguenza- possa puntare l'attenzione su di loro. La trama va via via concentrandosi sui tentativi fatti da Rin per liberare il suo Paese dai coloni esperiani e dai loro alleati, ricorrendo ad azioni militari ed espedienti magici a seconda del frangente. Al termine del romanzo, è stato incluso anche "L'abisso della fede", a metà tra raccolta di racconti e flusso di coscienza dal punto di vista di Yin Nezha, per mostrare la sua prospettiva su alcuni eventi; un contenuto extra carino, ma sicuramente non indispensabile per comprendere la trama e neppure il suo personaggio.
Devo dire che non so bene come valutare questo libro, perché temo di comunicare un'idea sbagliata. In breve, io c'ho trovato una caterva di difetti eppure rimane parte di una serie che nel complesso consiglierei, tenendo sempre conto dei tanti TW presenti. Vediamo quindi per primi i pregi: innanzitutto, il romanzo può vantare un buon ritmo, supportato da molte scene d'azione ben scritte che donano dinamicità alla storia. Sorprendentemente mi ha convinto anche la conclusione, che reputo adatta alla piega presa dalla trama non solo in questo terzo volume; per mio gusto personale, avrei preferito che la protagonista arrivasse per gradi all'epifania finale, ma apprezzo comunque il percorso fatto.
Assieme alle ambientazioni sempre deliziose da scoprire, le tematiche rimangono il punto di forza principale della trilogia; in questo libro ci si concentra sulla critica al colonialismo, solo marginale nei capitoli precedenti. Forse non verrà presentato nel modo più discreto e sottile di sempre, ma è un tema ben sviluppato e viene presentato sotto diverse prospettive, mettendo in luce punti forti e deboli della vita più semplice condotta dai nikaniani contro il progresso tecnologico promesso dagli esperiani.
Purtroppo, per quanto mi riguarda i pregi finiscono qui: per qualcuno potranno sicuramente bastare, ma visto il successo riscosso da questa serie io mi aspettavo qualcosina di più. Il difetto peggiore può essere tranquillamente riassunto in una sola parola: informazioni. Le informazioni che vengono fornite sul passato di questo mondo fantastico, togliendo quell'elemento fiabesco così intrigante nel primo libro e sostituendolo con nozioni concrete in contrasto con quanto affermato in precedenza. Le informazioni fornite dal narratore -teoricamente oggettivo e onnisciente- che puntualmente si dimostrano fasulle, ad esempio quando all'inizio del romanzo afferma che Rin ha ormai imparato a non fidarsi ingenuamente degli altri, per poi essere smentito in pieno nelle centinaia di pagine seguenti. Le informazioni logistiche, che sembrano arrivare alla protagonista ed i suoi alleati di turno per intercessione divina; davvero non si spiega la facilità con cui riescono ad ottenere determinate conoscenze: mi sarei stupita di meno se fosse comparsa Nüwa, la mistica lumaca della creazione, per riferire loro le ultime notizie. Le informazioni di cui Rin sembra scordarsi in modo a dir poco conveniente, come il ruolo giocato da Su Daji fino alla fine de "La repubblica del drago", per poter indirizzare la storia in determinate direzioni. In sintesi, le informazioni date ai lettori causano confusione e fanno emergere incongruenze, tra l'altro facilmente individuabili con una semplice rilettura fatta dall'autrice, dall'editor, dalla traduttrice o da chiunque altro abbia messo le mani su questo testo.
L'altro grosso problema riguarda l'intreccio narrativo. Pur apprezzando l'esperienza di lettura nel suo insieme, non ho potuto fare a meno di notare la presenza di moltissimi filler: scene ripetitive che già dalla sinossi sai non porteranno avanti la trama, quindi perché investire decine e decine di pagine per la lotta contro le bande di federati, se poi i protagonisti stessi sembrano dimenticarsi della loro presenza? Un ragionamento simile vale per le altre minacce sul percorso di Rin, perché ognuna viene eliminata senza che lei debba fare alcunché e a dispetto della sua mancanza di piani concreti e lungimiranti. Infine, ci sono le sottotrame sprecate, in una frenetica corsa verso l'epilogo, come quelle dei nuovi sciamani o delle armi esperiane; l'elemento narrativo che più mi è dispiaciuto veder sciupato riguarda la Triade: un vero spreco di potenziale (e di pagine)!
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Romanzo di tante umanità
«Forse, semplicemente, dovrei chiamarla paura: di essere ricordato male, o per niente. Come uno scomparso da vivo, uno che non è mai esistito.»
Le temperature scendono di quasi venti gradi sotto lo zero, le emozioni mancano da giorni; sono disperse. Il batticuore degli animali è solo una conseguenza dell’ipotermia. Un freddo pungente esce dalle pagine e viene percepito sulla pelle dal lettore che si avvicina all’ultimo e complesso lavoro di Paolo di Paolo intitolato “Romanzo senza umani” (Feltrinelli 2023). Paolo ci prende per mano e ci riporta in un tempo lontano, la fine del XVI secolo, durante l’inverno del 1573 quando una piccola glaciazione investì l’Europa centrale gelando il lago di Costanza. In questo frangente temporale morirono uccelli, si congelò il vino nelle botti, il paesaggio diventò infido e lacustre, inospitale e ancor più pericoloso, minacciando la morte di quegli umani sopravvissuti. Un evento apocalittico ma che ben segna il dato della memoria e che si riallaccia alla nostra più intima e personale glaciazione.
Di Paolo torna poi al presente presentandoci il suo protagonista, Mauro Barbi, di professione storico. Barbi si stacca da Fiore, l’amico, e intraprende un breve viaggio, viaggio che “spaccia” per indeterminato quando in realtà c’è già una prenotazione per il rientro. La destinazione è il lago di Costanza, oggetto dei suoi studi, partirà da Mestre verso Monaco per poi rientrare da Zurigo. Viene anche contattato da un redattore di una trasmissione televisiva che vuole ospitarlo in studio e che dovrebbe in tale occasione trattare proprio la glaciazione del lago di Costanza. Sarà Barbi a ricontattarlo dopo un breve lasso di tempo e a scontrarsi con un ghiaccio che sembra aver attraversato i secoli per sedimentarsi nel presente.
Mauro vive nel presente ma pensa costantemente e incessantemente al passato. La memoria è uno degli aspetti che più fanno leva sulla sua esistenza. Nel suo pensare affiorano i nomi di persone che lo fanno tornare indietro e che lo mettono davanti al dato compiuto che si sostanzia in una memoria che lui percepisce in un dato ma che differisce da quella degli altri. E quale traccia ha lasciato lui negli altri? Lo studente a cui è stato supplente non si ricorda di lui, la donna che ha amato non lo ha mai sentito presente. C’era ma era come se non ci fosse, come se fosse sempre e perennemente altrove. Ritrova l’amico Fiore ma anche la compagna Susanna con cui non è mai riuscito a lasciarsi andare davvero a una storia, il professor Cardolini che vive con ora con la moglie in Germania e lei, Anna, di cui già ho anticipato, e che rappresenta l’amore distrutto. Sofia, la figlia di questa, ricorda Mauro, ricorda i giorni trascorsi insieme, la festa di compleanno peggio riuscita ed ancora compare Consuelo che lo ha preso in pieno con la macchina e che ora cerca di additargli ogni colpa.
Ricordi molteplici e disparati di una vita intera, un tentativo di riannodare fili ormai interrotti ma anche di capire perché si sono snodati e come sono percepiti. Mauro non è un uomo semplice. È un uomo che vive una piccola era glaciale, quasi come se questa si ricollegasse a quella con cui viene ad aprirsi lo scritto, in un processo di sempre maggiore raffreddamento che spopola e ha spopolato la sua esistenza in un continuum che non si ferma. Dove trovare le conferme? Dove trovare le tanto attese risposte? Come nel 1573 si è usciti dalla glaciazione? Come riuscire ad uscirvi oggi ma nella dimensione più intima e introspettiva?
«Uno dei tanti nessuno che occupano una stanza d’albergo e poi spariscono: senza lasciare tracce, se non le poche, organiche, su cui agiscono le mani guantate degli addetti alle pulizie la mattia del check-out. È un’evenienza confortante o disperante, a seconda delle urgenze e dei punti di vista, ma la solitudine la fa risaltare.»
Ad essere protagonisti sono proprio i disastri climatici delle nostre singole vite che qui vengono rianalizzati da più prospettive, tra loro diverse e molteplici. E c’è anche una urgenza di andare avanti che si affaccia anche solo dal punto di vista grafico nel lettore. “Romanzo senza umani” è in realtà un romanzo con molti umani e molta umanità, una umanità che esce in tutte le sue contraddizioni, evoluzioni e involuzioni del quotidiano.
Viviamo in un tempo in cui non solo è difficile fidarci ma anche affidarci, un tempo in cui è difficile ricordare e far tesoro di ciò che sappiamo. La memoria è un altro perno fondamentale di questo scritto, un filo conduttore che cerca il suo disgelo e la sua rinascita. E forse è vero, l’unica cosa che possiamo predire è il passato.
In “Romanzo senza umani” Paolo Di Paolo ci interroga come Barbi viene interrogato dal suo mentore, ci ripropone dubbi, incertezze, ipotesi, contraddizioni, utopie e disillusioni e ci invita a guardarci dentro. E vi riesce con un personaggio ruvido, che sa farsi amare nel suo non riuscire ad amare e amarsi.
«E non ha più domande da fare, forse non ha nemmeno pretese.»
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Il colore grigio
Primo libro di una serie noir, con protagonista una donna non giovane, che si rivela essere, fin dalle prime battute di questo primo caso, un personaggio veramente di nicchia. Sara, con il suo volto senza trucco, con i suoi capelli grigi, cerca l’invisibilità, nel lavoro e nella vita. E’ un segno tipico di chi ha sofferto tanto e di chi pensa di fare addirittura danni con la sua presenza. Lei di questa invisibilità ha fatto anche virtù, perché, anche grazie alla sua capacità di essere anonima, riesce ad avvicinare comunque le persone, a captarne discorsi, segnali, gesti, capaci di rivelarle i loro segreti, i loro pensieri. Ed è una dote che l’aiuta, non poco, nelle sue investigazioni per conto dell’unità di cui non fa più parte, ma con cui continua a collaborare. Sara passa molto tempo in compagna dei suoi fantasmi che le ricordano, urlando, le sue responsabilità. Sara è capace soprattutto di ascoltare ed in questo primo contatto con lei scopriamo, alla luce del tramonto, che anche se ama vivere nel grigio, il suo viso ha colori caldi, che abbiamo voglia di conoscere sempre di più. Molto bravo l’autore anche a costruire l’entourage dei personaggi minori, che nelle prossime indagini prenderanno via via il loro autonomo spazio.
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Un viaggio lungo 20 secoli (o forse solo una vita
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
Il libro inizia in modo difficile: ci si immerge così, senza aver preso fiato, nella Gerusalemme degli anni ‘40, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che la città viveva in quegli anni. Sin dal primo momento fanno capolino personaggi importanti della letteratura israeliana (pressoché sconosciuti ai lettori europei, come il poeta Cernicowskij); il primo membro della famiglia Klausner che viene presentato è l’ingombrante zio Yosef, con il salotto culturale che ruota intorno alla sua tavola, la silenziosa e servizievole zia Zipporah sempre un passo indietro a lui, le aspirazioni fallite del padre di Amos (imputate a un eccesso di zelo dello zio accademico, che taglia le gambe al meritevole nipote pur di non essere accusato di nepotismo).
Il libro, quindi, inizia con difficoltà. Ma, superato lo scoglio iniziale, Oz mette in fila una serie di personaggi della sua famiglia, paterna e materna, che meriterebbero ognuno un romanzo a sè. C’è l’adorabile nonno Alexander, che sopravvive a tutta la sua famiglia, instancabile amatore, appassionato ascoltatore delle donne, irrimediabilmente attaccato alla vita. Sua moglie Shlomit, che muore per “troppa pulizia” dopo aver sentenziato l’iconica frase “il Levante è pieno di microbi”. La temibile nonna mame, bambina viziata fino alla fine dei suoi giorni, e il laborioso nonno pape, quasi contento di aver perso tutte le sue ricchezze, per potersi finalmente dedicare alla vita da semplice operaio che ha sempre perseguito.
La storia prosegue in modo lineare, in linea cronologica, prima per parte di padre e poi per parte di madre, fino ad arrivare alla nascita di Amos. Da qui, il racconto prosegue diseguale, a passi di gambero, estremamente sbilanciato verso i primi anni della giovinezza, con un capitolo squarciato sul presente, nel momento in cui l’autore sta scrivendo il libro, seduto alla scrivania ereditata dal padre, in una torbida mattina di luglio del 2001.
Amos, che descrive con dovizia di particolari ogni singolo momento della vita dei suoi avi, non pronuncia una parola su come si sono incontrati i suoi genitori, come si sono innamorati, quando si sono sposati. L’unione dei due è presentata come un dato di fatto, descritta attraverso gli occhi di un figlio chiacchierone e magrolino, troppo attento per la sua età. La storia della giovinezza della madre, però, risulta fon dal primo momento diversa da quella degli altri personaggi: Oz la racconta attraverso la voce della zia Sonia, sorella della madre, non parlando quasi mai in prima persona. Come se non ci riuscisse, come se parlare della madre fosse ancora un tabù. La storia di Fania resta così appesa, dice che si è suicidata senza spiegare come, quando, perché. Il libro procede raccontando la vita di Amos bambino in tutte le sue tappe, il rapporto con il padre, le favole “fantasiose” della madre, l’incontro con la scrittura, l’accettazione di essere uno scrittore. Eppure la vita non si snocciola fino alla fine dei suoi giorni: alla sua vita nel kibbutz Hulda (che è durata ben 30 anni) sono dedicati pochi capitoli; alle guerre combattute in trincea, neanche una riga. Tutto è concentrato in quei primi anni di vita, e la storia della madre, della sua malattia, del lutto, fa capolino tra i capitoli, alternandosi alle vicende del giovane Oz. Fino alle ultime pagine, quando finalmente l’autore racconta il momento della morte. Parla prima della malattia, poi del lutto, e l’ultimissima pagina è dedicata a quella notte tra il 6 e il 7 gennaio del 1952, quando la madre assunse una dose eccessiva di sonniferi nella stanza degli ospiti a casa della zia Haya. Allora è chiaro che tutto il libro, tutte le storie in esso raccontate, non sia altro che l’ultimo tentativo di un figlio di fare pace col passato, di elaborare quel lutto taciuto e illacrimato (per stessa ammissione di Oz) per oltre 50 anni. Il lutto che lo aveva portato ad allontanarsi dal padre, a cambiare cognome, a vivere lontano da Gerusalemme alla sola età di 14 anni. Un lutto che ancora oggi gli impedisce di lasciare oggetti sparpagliati per casa: il disordine fu il modo in cui lui e suo padre manifestarono il dolore. L’incuria della casa fu l’unico modo in cui i due uomini, che non ne parlarono mai, esternarono il dolore immenso per quella perdita che non sarà mai rimpiazzata.
Nessuna parola sulla matrigna, poche righe sull’amatissima moglie, solo qualche accenno ai figli nati da quella longeva unione. L’intero libro è il racconto di dolore di quel figlio che a 12 anni si sentì così impotente e arrabbiato per quella madre che non era riuscito ad aiutare.
Nel frattempo Oz ci insegna la letteratura ebraica, le correnti politiche interne al sionismo, la difficile convivenza con i vicini arabi, la gioia per la creazione del nuovo stato di Israele, le contraddizioni legate a questo delicato momento storico.
È un libro potente, colto, difficile, estremamente umano. Ti tocca l’anima, e si può dire solo grazie.
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Fasi della natura e della vita
Libro che racconta in modo leggero e nello stesso tempo toccante l’amicizia profonda e pulita tra una giovane bambina ed un uomo adulto, nella fase in cui questa bambina è ormai una donna e questo uomo è ormai una persona molto anziana. E’ il primo romanzo di una tetralogia ispirata alle stagioni, scritto a più voci, con salti temporali che disorientano ed uno stile che non rende molto snella la lettura e che non mi ha catturato. Emerge però in modo prepotente l’appassionata meditazione dell’autrice sul senso dell’incontro con il diverso e sul potere trasformativo della creatività umana ed offre spunti di riflessione importanti. La ragazza e l’uomo si comprendono, hanno un’affinità ed una sintonia rare, lei pensa che nessuno sappia parlare come lui e nello stesso tempo che nessuno sappia non parlare come lui. E’ molto bella anche la digressione relativa all’innamoramento, ovvero a come è appagante innamorarsi non di una persona, ma dei suoi occhi, ovvero del modo in cui due occhi che non sono i tuoi ti permettono di vedere dove sei, chi sei.
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DONNE, NATURA E LIBERTÀ
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
Weyward racconta la storia di tre donne (o, forse, di tutte le donne) a cavallo tra tre secoli: Altha, incantevole guaritrice del 1600; Violet, irriverente adolescente del 1940; Kate, insicura donna londinese degli anni Duemila.
Ciascuna di loro vive un’esistenza ai margini, pagando lo scotto della propria diversità. “Weyward”, come spiega anche l’incipit filologico-letterario tratto da una breve citazione di Macbeth (poi sostituita nell’edizione finale), significa proprio “bizzarro, stravagante, strano”, esplicitando il modo in cui tutte le donne appartenenti alla casata W. siano percepite dalla società in cui vivono.
Una società che, a prescindere dall’epoca storica, è fatta dagli uomini per gli uomini. Uomini che tentano di sopprimere e reprimere donne forti e indipendenti per natura, imponendo loro decisioni e destini al fine di ridurle ancora una volta sotto il loro potere.
Inoltre (un po’ come ad esplicitare il legame ancestrale e atavico tra forza generatrice delle donne e quella della natura), le Weyward manifestano una particolare inclinazione alla magia: non un semplice legame viscerale con la terra e i suoi abitanti del mondo animale, quanto una vera e propria capacità di governare la natura entrando in sintonia con essa. Tale diversità, così manifesta, costituisce la disgrazia e allo stesso tempo la fortuna di una intera stirpe, personificando, dal punto di vista narrativo, l’animo indomito e fiero del genere femminile.
E così Altha, che ha ereditato le sapienti doti di guaritrice da sua madre, crea ungenti e pozioni per curare gli abitanti del suo villaggio, in aperta opposizione con i metodi del medico della valle. Per questo subirà un processo per stregoneria (di cui ci racconta i dettagli in prima persona), durante il quale viene torturata, umiliata e seviziata in vari modi da uomini morbosamente attratti dalle sue capacità.
Violet Ayres, che vive con suo padre e suo fratello Grham in una tenuta signorile nella campagna fuori Londra, sarà sedotta, illusa e infine stuprata da un suo cugino in congedo dalla guerra. Rimasta incinta, dovrà scontrarsi con le ire del padre, pagando con l’estromissione dall’eredità il prezzo del suo rifiuto.
Infine, Kate Ayres vive in una prigione dorata nel centro di Londra dove, tra lusso e ricchezza, è vittima del suo compagno e aguzzino Simon. La sua è una storia di violenza domestica del ventunesimo secolo: lui la picchia, la stupra, la priva di qualsiasi forma di libertà, impedendole persino di andare a fare la spesa senza il suo consenso. Quando Kate rimane incinta, decide di scappare nel cottage ereditato da sua zia Violet (di cui ricorda a stento le sembianze), dove riscoprirà le sue origini e troverà la forza di iniziare una nuova vita.
Tre storie collegate da un fil rouge, quello del patriarcato nudo e crudo, in cui le donne appaiono per la prima volta protagoniste assolute della loro storia. Non c’è spazio per uomini giusti, nel romanzo della Hart: Grahm (nonno di Kate e fratello di Violet) avrà un piccolo riscatto nel finale, ma nell’universo Weyward non esiste una presenza maschile in grado di suscitare le simpatie del lettore. Perfino l’amore romantico è escluso in questa visione dei rapporti uomo-donna: Altha, anche se non dichiaratamente, vivrà tutta la propria vita all’ombra del suo amore per la vecchia amica Grace; Violet e Kate, nonostante ci raccontino le sensazioni di una iniziale infatuazione per i loro uomini, subiscono velocemente la rottura dell’incantesimo in favore di violenze e abusi, decidendo di proseguire ciascuna la propria vita in solitudine, lontane dal rapporto con l’altro sesso.
Questa visione così polarizzata dell’esistenza femminile, insieme alla forzatura dell’esperienza magica, fanno storcere leggermente il naso di fronte ad un romanzo che risulta complessivamente ben scritto e ben costruito. L’espediente narrativo del finto manoscritto di Altha, chiuso in un cassetto di una antica scrivania opportunamente aperto al momento del bisogno, aiuta a mantenere insieme tutte le donne Weyward, guidate nel loro agire dalla comune antenata; le vicende che porteranno Violet a scoprire gli abusi del padre sulla madre, e quelle che condurranno Kate a scoprire la maledizione di cui è vittima il vecchio Friedrick, sono tutti dei piccoli misteri che tengono il lettore incollato al romanzo durante l’intero svolgimento del racconto. Anche il finale, in cui le storie di Violet e Kate si sovrappongono nel momento cruciale della morte del padre di quest’ultima, aiuta a simpatizzare con il senso di “sorellanza” che l’autrice vuole comunicare (tra le donne W. in primis, e successivamente tra tutte le donne del mondo).
Eppure, resta qualcosa di poco incisivo; qualcosa di quasi surreale e allo stesso tempo molto prevedibile, che non consente una reale identificazione con nessuna delle protagoniste del racconto (nonostante si percepisca chiaramente che l’intento dell’autrice sia quello di accomunare in un unico cerchio di abusi e violenze tutte le donne di tutti i secoli).
In conclusione: un buon libro di esordio, che fallisce nella sua pretesa di essere un racconto “universale” dal momento che racconta una visione estremamente personale e parziale del rapporto uomo-donna e di quello tra donne e società.
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DIARIO DEI MALANNI DI MENTE
Cosa ci emoziona repentinamente, ci tocca il cuore di colpo, ci desta all’improvviso amore, incanto, delizia, sorpresa? Tante cose, o tante persone, e di ciascuna diciamo: che meraviglia!
“Grande meraviglia” è, di nome e di fatto, l’ultimo romanzo di Viola Ardone, una lettura bellissima che ci prende, ci turba, finanche ci sconvolge, inevitabilmente commuove e sa suscitarci un sorriso, scioglie ogni nostro preconcetto, illumina la pagina e insieme il cuore di chi legge, lo rende partecipe delle vicende narrate, stimola l’empatia e l’umanità insita in ciascuno nei confronti dei propri simili più sventurati. Magari un solo ed unico briciolo di umanità, di affezione, solo un lampo, certo non una potente scarica elettrica, d’altra parte l’elettrochoc è molto sopravvalutato, è deleterio e non serve a nulla, nemmeno è una proiezione di impulsi interiori.
Questo è per davvero un racconto delizioso, per gran tratti aspro e spigoloso, triste ed ingiusto, eppure è una storia attraente, importante, eletta, l’autrice conduce su e giù il lettore per quasi mezzo secolo di storia, gli sciorina davanti agli occhi una realtà paradossale, spesso sconosciuta perché volutamente celata. Un vissuto letteralmente alienato e dissennante, riversato sulla carta con garbo, con un suo stile amabile, con tatto e premura, con una scrittura fluida ma sempre rispettosa, in punta di piedi. Con dolcezza, con delicatezza estrema, Viola Ardone delinea e presenta i suoi personaggi, qualcuno anche mentecatto e fuori di testa, la maggior parte comunque folli, brutti, sporchi, impertinenti, con un vergato netto e preciso, testuale e veritiero, rigoroso, ma mai, nemmeno per un momento, il narrato deborda, va fuori rigo, la sua è una prosa sensibile, sempre quanto scritto è ammodo, discreto, impeccabile e diligente, visto e riportato tale e quale, delicato e solidale.
La scrittrice napoletana con questo suo lavoro sembra voler concludere, e alla grande per davvero, il fortunato trittico dei suoi lavori precedenti, iniziato con “Il treno dei bambini” e “Oliva Denaro”.
Questo suo ultimo è un fortunato compendio, racconta di una bambina, parla di infanzia disastrata come nel “Treno dei bambini”, e la declina al femminile, come in “Oliva Denaro”, in “Grande Meraviglia” la protagonista è una bambina, poi giovane ragazza e infine donna adulta.
Il suo nome, Elba, richiama espressamente l’omonimo grande fiume del nord, freddo, grigio, decorrente in territori difficili per paesaggi aspri e geopolitica dominante, tutt’altra cosa della ridente isola dell’arcipelago toscano.
Tutti i fiumi originano da una sorgente, si versano in mare, profilano un territorio: per la giovane Elba, invece, origine, destinazione e trascorso della prima parte della sua esistenza, quella quindi quanto più essenziale, rilevante e fondamentale per una sana e normale crescita soprattutto psicoaffettiva, si svolge tutto in un mezzomondo. Non un gran mare dell’esistenza, neanche un lago o uno stagno, semmai una breve palude con acque putride e ristagnanti, in realtà una struttura fisica ben delineata, neanche tanto grande dove l’Elba persona è come un Elba fiume gravemente inquinato all’origine, si dipana in maniera sballata e assurda, termina letteralmente fuori dal mondo.
La giovane protagonista è infatti nata e cresciuta in un manicomio, un luogo di reclusione per malati di mente, ma sarebbe più esatto definirlo un immondezzaio dove gli sbagliati, gli indesiderati, i malaccetti dalla società, veri o presunti o solo in sospetto, vengono a discarica della loro anormalità.
Siamo infatti negli ultimi anni Settanta, i primi Ottanta, quanto sono ancora di lì a venire le teorie della moderna psichiatria a misura d’uomo, e la rivoluzione posta in atto da menti illuminate della medicina come Franco Basaglia, che riconsiderano le malattie nervose come quelle che in effetti sono, patologie, ed esistono perciò i malanni della mente e non i malati di mente.
Tali semplici idee, non ideologie, porteranno poi alla chiusura dei manicomi in quanto tali, per essere sostituita dai più logici, e umani, centri di igiene mentale.
Ma qui non esistono ancora gli ospedali che curano la psiche, ma solo le prigioni che rinchiudono tra le sbarre gli alienati, costringendoli a forza a terapie allucinanti, grottesche, crudeli, campate in aria, senza alcun fondamento scientifico, come le docce gelate, i letti di contenzione, le sedazioni forzate, e la peggiore di tutte, l’elettrochoc encefalico, una sorta di morte civile causata dall’equivalente di una sedia elettrica applicata all’encefalo, in grado di trasformare un essere senziente in un vegetale catatonico, sbavante e demente per davvero.
Non sono luoghi di cura, sono galere, o peggio, sono campi di concentramento, sono piccole Auschwitz dove sono certamente internati i pazzi, questo sì, coloro che hanno dato ripetutamente prova di essere pericolosi per sé e per gli altri, e però si sono ben presto trasformati in una comoda via d’uscita, di eliminazione non fisica dalla società dominante, ma ugualmente efficace, di tutta un progenie di “disturbatori” dell’ordine costituito, della morale dominante retriva e bigotta, dello status quo perbenista ed ipocrita dei tempi. Con i pazzi veri vengono chiusi anche quelli solo presunti, per esempio gli alcolisti, i sobillatori politici, le persone complicate che vivono ai margini, le adultere, le persone scomode e sgradite ai potenti, tutti immersi nello stesso calderone e resi docili dai farmaci sedativi, dalle scosse elettriche, dalle punizioni anche corporali, tutti scientemente spogliati gradualmente della loro dignità ed intelligenza, perché siano buoni, passivi, annullati.
Non curati dalla pazzia, ma fatti impazzire: a forza, pur che sia.
In questo deserto dell’anima e della mente, Elba è nata, sana di mente come lo è la madre, rinchiusa a forza nel manicomio perché è una “diversa”, niente di più che una profuga politica, una donna tedesca in fuga dai territori dell’est ai tempi della guerra fredda. Una persona scomoda, non gradita, imbarazzante, per di più di dubbia moralità, è incinta senza avere un legittimo consorte, tutto questo basta per rinchiuderla in manicomio, così come va rinchiusa la prole, secondo legge.
Elba però ha vicino la sua Mutti, la sua mamma, l’amore di una madre immunizza, fa in modo che la figliola cresca preservando la sua sanità di testa, d’anima e di cuore, riceva un minimo di istruzione al di fuori delle mura del manicomio. Solo che, quando la bambina ormai ragazza ritorna dopo gli anni della scuola dell’obbligo nel lager, non trova più la sua Mutti.
Non per niente il suo è nome di fiume, come un fiume si comporta: travolge le scuse accampate dal personale, si ostina a cercarla nell’istituto, ed intanto si prodiga come l’amore della madre le ha insegnato, lei non è un fiume, ma fa di più, è acqua pura che prova a dissetare le nuove, perché non inaridiscano l’ultimo semino di intelligenza, si interessa e si immedesima nei malanni dei suoi compagni, provvede a modo suo ad irrorare di vitalità gli altri ospiti perché tengano viva la loro essenza di persone, senza le quali davvero sarebbero degli alienati.
Cambiano i tempi, cambiano le stagioni, i manicomi vengono chiusi, le strutture aperte, grazie al professor Basaglia ed ai suoi discepoli, si apre una nuova era per i malati di mente, al perfido, malvagio e retrivo primario Colavolpe, al suo disgraziato assistente come Lampadina, addetto all’elettrochoc, si sostituiscono teorie nuove, nuovi modi di gestire i malanni della mente così come Elba già da piccola elencava in un suo diario personale.
Tutto questo è rappresentato in concreto dall’arrivo per la nuova gestione del reparto di Fausto Meraviglia, basagliano convinto della prima ora, che per i suoi pazienti va ben oltre quello che può fare un medico. Perché Meraviglia non sa, non vuole, e nemmeno è giusto che lo faccia, limitare il suo agire alla sfera professionale, sa che in psichiatria non si può dividere la mente dalla persona, sono un tutt’uno, non è in difficoltà la testa, è in crisi la persona, ha un blocco, una difficoltà, un impiccio l’uomo nella sua interezza, ed è una conseguenza se è problematico il suo pensiero.
Così Elba ritrova la sua Mutti, ed anche una parvenza di famiglia come il dottor Fausto, che la accoglie nella sua di famiglia, la incita a studiare, la conduce alle soglie della laurea.
Ma la vita non è tutta una meraviglia.
Fausto Meraviglia è una brava persona, dopotutto: certo, ha i suoi difetti, un pochino istrionico, egoista, egocentrico, plateale. Un dongiovanni, anche mentitore, ma è perché è una persona vera, reale, non è una meraviglia, è un uomo normale, con i suoi pregi, i suoi difetti, i suoi limiti.
Elba è per Fausto la grande Meraviglia, quella che ha avuto salva la sua esistenza con la meraviglia dell’amore di Mutti e che quindi è la conferma vivente della nuova psichiatria, che la sola parola d’amore salva più delle benzodiazepine. Fausto Meraviglia vorrebbe che Elba, proprio come un fiume, segue un percorso più o meno lineare, magari con qualche rapida, forse una cascata, qualche curva tortuosa, per poi giungere al mare della salvezza.
Ma Elba non è un fiume, è una persona: ed una persona si salva da sola, ha tutto il diritto di uscire fuori dal suo letto, allontanarsi dal suo mentore, cambiare foce, punto di sbocco, mare d’ingresso. Gestire in proprio la propria esistenza, se lo desidera, con libertà e amore.
E farne solo allora, allora sì, una meraviglia.
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VIAGGIO TRA MONDI MULTI DIMENSIONALI
Questo breve libricino, scritto da un pastore anglicano alla fine dell’ottocento, merita di essere collocato accanto agli assai più celebri capolavori della letteratura fantastica anglosassone: dai Viaggi di Gulliver ad Alice nel paese delle meraviglie. A mio parere anzi, si guadagna il gradino piu' alto.
La brillante fantasia di Abbot immagina un mondo bidimensionale, Flatlandia, popolato da rette triangoli poligoni e circoli. Numero e regolarità degli angoli determinano la posizione in una società grottescamente strutturata in caste tra loro impermeabili. A narrarci questo mondo è un rispettabile cittadino esponente della middle class di Flatlandia: un quadrato, felice padre di pentagoni "assai regolari".
Ne emerge una società straordinariamente crudele eppure di una crudeltà cosi razionalmente intesa da apparire quasi inevitabile e giustificata. La raffinatezza del racconto di Abbott sta proprio nelle precise argomentazioni logiche portate a sostegno di regole e costumi di un mondo che d'altro canto è puramente fantastico e nel quale fluttuanti figurine geometriche intessono complesse relazioni sociali.
Al gradino più basso della scala, con malcelata e comica misoginia, stanno le donne-rette. Esseri irrazionali ed irascibili, esse presentano puntute estremità che costituiscono una minaccia costante a chi, ignaro, si avvicina loro. Saggezza vuole sia preferibile blandirle che contrastarle.
Appena sopra si assestano i soldati-triangoli isosceli tanto più ottusi quanto più è acuto è il loro deplorevole angolo irregolare. Carne da macello per guerre, semi-schiavi instupiditi, talvolta usati come cavie per esperimenti nelle scuole, i triangoli isosceli. tendono a riprodursi in quantità e costituirebbero una minaccia per la quieta Flatlandia non fosse che la mancanza di consapevolezza della propria forza li rende sostanzialmente innocui.
Seguono quadrati, pentagoni, esagoni su su fino alla casta più nobile, quella sacerdotale, costituita da poligoni con un numero così elevato di angoli da essere assimilabile a circoli.
Ma Flatlandia non e' l'unica visionaria invenzione di Abbot. Terminatane la descrizione il nostro quadratino narrante comincia un viaggio attraverso altre realtà multidimensionali.
Egli si ritrova catapultato suo malgrado nel mondo tridimensionale, Spacelandia, la cui esplorazione oltre ad aprirgli la mente, lo rende edotto della propria natura limitata di figurina piana. Memorabili sono poi le pagine dedicate al mondo mono dimensionale, Linelandia, in cui segmenti di rette comunicano e si accoppiano tramite alti segnali vocali così pure quelle in cui si descrive Pointlandia, un mondo adimensionale, dove l’unico abitante, il punto-Re, è entità autosufficiente e ridicolmente tronfia nella sua vacua vanità.
Ma Abbot non si limita a questo. Ignaro di come di lì a poco la teoria della relatività avrebbe sconvolto il nostro modo di interpretare la natura aggiungendo la dimensione temporale a quelle spaziali, lo scrittore fa vivere al suo piccolo e quadrato protagonista visioni di mondi a quattro o più dimensioni. E' questa l'apoteosi di una mente ormai libera da preconcetti e capace di viaggiare negli spazi siderali della conoscenza. Il nostro piccolo quadrato ha ormai varcato le colonne d'Ercole dell'angusto spazio Euclideo e poco importa se, una volta tornato a Flatlandia, la sua nuova consapevolezza incontrerà soltanto incomprensione e derisione tra i suoi simili.
La sottile ironia tutta anglosassone che strappa continui sorrisi, la feroce sagacia nel descrivere norme e usanze spietate, i sottointesi e polemici richiami al classismo della società contemporanea all’autore, il gusto per l’argomentazione logica, la razionalità analitica e l'impianto pseudo scientifico son tutti elementi che fanno di questo breve racconto un classico ed un capolavoro nel suo genere.
I mondi fantastici di Flatlandia resteranno per sempre nella memoria del fortunato lettore.
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Tuo affezionatissimo, Vincent
In soli dieci anni di attività artistica, Vincent Van Gogh ha prodotto opere miliari scolpite nell'immaginario collettivo. Anche chi non è appassionato di pittura conosce questo nome, associato spesso all'idea di un autodidatta, folle, il cui gesto artistico scaturisce da puro istinto ed emozione, privo di studio. Leggendo queste lettere si scopre che Van Gogh era tutt’altro che un analfabeta della cultura, al contrario si è nutrito per anni di innumerevoli letture, di arte, di lavoro, ammirando i maestri e riproducendone le opere con modestia. C'è tanto studio, oltre che genialità e sentimento, dietro quel giallo squillante, quelle pennellate vorticose o quei volti di lavoratori, oltre che l'umiltà di un uomo alla ricerca della propria strada artistica.
"Perché io sono assolutamente certo che come pittore non rappresenterò mai nulla di importante".
Quel che fa più tenerezza in queste pagine è infatti scoprire la solitudine di un uomo che ha sempre inseguito invano il proprio posto nel mondo, vittima di una psiche fragile ma anche di una società che l'ha sempre emarginato come diverso, anticonvenzionale, fallito. Unica presenza costante, che ha sempre creduto nel suo talento sostenendolo anche economicamente, è il fratello Theo, capace di una comprensione e un affetto tutt’altro che scontati.
Vincent era indubbiamente un uomo dal carattere difficile, che ha lottato e sofferto per tutta la vita, ma a Theo parla sempre con affetto, liberamente, senza trattenere sentimenti e pensieri, confidandogli le proprie pene della mente e del cuore. Preziosissime allora sono queste lettere per comprendere davvero Van Gogh, come artista e come uomo. Non si tratta dell'opera di un narratore pensata per la pubblicazione e non si può certo negare che, trattandosi di scritti privati, ci siano anche molte pagine di scarso valore letterario, dedicate a eventi quotidiani, noiose liste delle spese o continue richieste di denaro per carta e colori. È quindi un'opera da centellinare, per evitare di subire la stanchezza di lettura di alcuni passi, ma sapendo che tra essi si nascondono vere e proprie perle, come le parole con cui Vincent racconta i propri quadri più famosi, dando indicazioni su ricerche, colori, ispirazioni, così come difficoltà e fallimenti incontrati. Il lettore soffre insieme a lui la povertà e l'insuccesso, apprezzandone l'animo sensibile e sempre attento agli umili.
"Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole, l'infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c'è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno".
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"Non bisogna avere paura"
Indubbiamente Isabel Allende sa raccontare storie che restano nel cuore, con uno stile tutto suo, facile da leggere, realista, tanto da essere considerata punta di diamante di un nuovo tipo di far letteratura e di un nuovo movimento letterario (la cosiddetta “novisima literatura”). Apparentemente opaco e monocorde, il suo stile sa coinvolgere il lettore, lo avvinghia in una morsa commovente, merito principale delle storie che si dipanano pagina dopo pagina, e che narrano di vite perse, di violenze, di riscatti e di nuove speranze nascenti. Sono vicende lontane tra loro nel tempo e nei luoghi: vicende di sofferenza umana, di ricerca di una nuova umanità, di speranze mai spente, tenaci, profonde che possono avere, ma non sempre, soluzioni appaganti.
I protagonisti non si dimenticano facilmente. Il primo è Samuel Adler, un mite ebreo viennese, che, da bambino, mentre i genitori agli albori della seconda guerra mondiale venivano deportati nei campi di concentramento, riesce ad evitare la persecuzione nazista fuggendo in Inghilterra: qui inizierà per lui un percorso difficile, passando da una famiglia all’altra fino a trovare chi saprà veramente volergli bene. Suona il violino, si salva con la musica, la sua ancora di salvezza, che lo porterà poi lontano, in America, dove troverà in un nuovo modo di fare musica, il jazz, la ragione per riconciliarsi con il prossimo.
Non meno tormentata la storia di Leticia, una bimba di El Salvador: il suo villaggio viene assalito da battaglioni addestrati da militari statunitensi, gli abitanti, colpevoli di aver aiutato gruppi di guerriglieri comunisti, vengono massacrati in modo orrendo (il tristemente noto massacro di El Mozote), tutto il paese è messo a ferro e fuoco. Leticia fugge, inizia un suo percorso tormentato che la porterà anni e anni dopo ad accudire un vecchio signore benestante: è Samuel, che, dopo tre matrimoni, vive nel ricordo di Nadine, l’ultima moglie, morta dopo una lunga malattia.
Il caso più commovente è quello di Anita, una bambina ipovedente: tenta di emigrare dal Messico negli Stati Uniti, alla frontiera viene separata dalla madre Marisol, finisce in un centro di accoglienza e poi in varie case famiglia, il ricongiungimento le viene sempre negato. La piccola soffre in silenzio, comunica con una sua personale “angela”, sa reagire saggiamente alle avversità della vita, con la speranza di rivedere un giorno la mamma. Il suo sogno non si avvererà, nonostante l’aiuto di Selena, una giovane messicana che si batte per i diritti dei migranti, aiutata da un coraggioso avvocato: la madre finirà brutalmente uccisa, ma il destino riserverà ad Anita una sorpresa: si scoprirà che Leticia è cugina del padre di Anita, Leticia e Anita si ritroveranno. Così, ecco un finale consolante: nella casa di Leticia e Simon, la bimba troverà finalmente affetto, calore umano e un avvenire sereno.
Non è facile seguire le vicende narrate, anche perché si svolgono in piani temporali diversi, dalla seconda guerra mondiale ai tempi nostri: i collegamenti a volte sfuggono, ma i protagonisti non si dimenticano facilmente, ognuno con le sue peculiarità, un’indomabile voglia di vivere e di superare un cammino irto di difficoltà. Isabel Allende pone in primo piano il mondo di chi vuole sopravvivere, cercando con ogni mezzo una “terra promessa”, che sembra opporre sempre ostacoli d’ogni genere. Il prezzo da pagare è sempre altissimo: per Simon il distacco forzato dalla famiglia, finita nei campi di sterminio, per Anita la tragica morte della mamma ed il calvario da una famiglia d’adozione ad un’altra. Lo stile narrativo non è forse all’altezza delle opere migliori, configurandosi più come una cronistoria di eventi, senza introspezioni psicologiche o momenti di riflessione. Fanno eccezione i lunghi soliloqui della piccola Anita, la tenerezza dei suoi ricordi, la sua commovente speranza di ricongiungersi con la mamma lontana, l’incrollabile fiducia nella sua “angela” personale: qui la Allende tocca corde di sentimenti profondi, resi veri e credibili da un racconto ingenuo e sincero.
Resta, forte e indimenticabile, il messaggio: violenze e persecuzioni, povertà e sfruttamento sono ancora piaghe che distruggono vite e che non è facile raccontare, insabbiate spesso perché non se ne abbia memoria. Ma Anita, Simon, Leticia sono ancora lì, tra le righe, a raccontare, perché, come sussurra Anita, “… il vento conosce il mio nome … tutti sanno dove siamo … io sono qui con te, so dove sei tu e tu sai dove sono io … Lo vedi? Non bisogna avere paura”.
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Testo quotabilissimo
Quest'anno ho avuto la fortuna di poter partecipare alla mia prima readalong in occasione dell'uscita della nuova edizione di "Va' dove ti porta il cuore", realizzata da Solferino a quasi trent'anni dalla prima pubblicazione di uno dei romanzi italiani più celebri all'estero. Prima di questa lettura, il mio solo incontro letterario con Tamaro era stato "Ascolta la mia voce", un libro ben scritto ma con una trama farcita di convenienze narrative; con questo nuovo approccio sarà andata meglio? Nì, ma diciamo che qui si tratta principalmente di gusto personale.
Il volume si presenta come una lunga lettera scritta da Olga alla nipote, al momento impegnata in un viaggio negli Stati Uniti, altrimenti nota come la terra dei cactus e dei coyote. L'anziana si sta faticosamente riprendendo dopo un malore, e proprio da questa situazione nasce l'idea di mettere su carta i pensieri di oggi ed i ricordi di ieri, per lasciare qualcosa alla ragazza nel caso dovesse rimanere sola. Con questa premessa, Olga inizia un viaggio nel passato: cominciando dalle difficoltà nel dover crescere la nipote, continuando con vari ricordi -dall'infanzia alla sua vita da adulta-, per arrivare infine a svelare il suo più grande segreto.
Inquadrato il contesto, partiamo dagli aspetti positivi e -nella fattispecie- da una grande conferma: la cara Susanna scrive benissimo: la sua prosa è estremamente scorrevole, nonostante non pecchi di diversi guizzi peculiari. Il tono della voce narrante risulta inoltre verosimile, perché la presenza di pochissime battute di dialogo è in linea con il concetto di memoir. Ho appezza anche le efficaci metafore, che mostrano i pensieri di Olga attraverso degli esempi alla portata di tutti.
L'altro grande punto a favore di questo romanzo sono le valide descrizioni dei rapporti interpersonali. Puntando la luce soprattutto sui contrasti generazionali, l'autrice riesce a raccontare delle relazioni genuine, che ben riflettono quelle presenti nella vita reale. Di conseguenza, anche i problemi sorti tra la narratrice e le persone nella sua vita sembrano molto concreti, simili ai conflitti che tutti noi ci troviamo ad affrontare.
Come anticipato però non sono riuscita ad appezzare l'esperienza di lettura. Lo scoglio principale per me è stato la caratterizzazione della protagonista: già dalla premessa (decidere di non dire nulla alla nipote sul suo stato di salute, privandola della possibilità di avere un ultimo confronto) si capisce come Olga sia una persona codarda ed arrogante, sempre pronta a riversare sugli altri le proprie colpe. Per ogni suo errore non manca di incolpare i genitori troppo esigenti, il marito troppo assente, la figlia troppo stupida, la società troppo giudicante; a rendere ancora più fastidiosa questa sua retorica è l'assenza di un'altra prospettiva, per cui bisogna prendere per buona la sua versione dei fatti a scatola chiusa.
Passando però a delle critiche meno soggettive, abbiamo una ricercatezza lessicale un po' eccessiva -se consideriamo il contesto semplice e spontaneo di una lettera scritta di getto- e delle riflessioni che al giorno d'oggi stonano parecchio. Penso in particolare a come vengono demonizzate la figura dello psicologo e la scelta di andare in terapia; la voce narrante è estremamente autoreferenziale, e per questo vede la psichiatria come un'attività truffaldina che peggiora soltanto la condizione mentale dei pazienti. Una situazione analoga riguarda il femminismo, del quale Olga stravolge il significato stesso: a suo avviso questo movimento ha l'obiettivo di ridurre gli uomini a mero accessorio delle donne, uccidendo nel mentre i sentimenti genuini. Sentimenti genuini che invece abbondavano nei matrimoni combinati o di interesse, giusto?
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“È così breve l’amore, ed è sì lungo l’oblio”
Una bellissima lettura, quella offerta da "Venti poesie d’amore e una canzone disperata" di Pablo Neruda (1904-1973), poeta cileno che non ha certo bisogno di alcuna presentazione.
Tra le più importanti voci della poesia del Novecento a livello mondiale e Premio Nobel per la Letteratura all’inizio degli anni Settanta, Neruda (pseudonimo di Ricardo Neftalí Reyes Basoalto) pubblicò questa sua raccolta poetica nel 1924, ottenendo uno straordinario successo di pubblico e critica.
L’edizione italiana della casa editrice fiorentina Passigli premette all’opera una presentazione dell’autore sudamericano pronunciata all’Università di Madrid da García Lorca nel 1934, nella quale si consiglia “di ascoltare con attenzione questo gran poeta”. Tra le pagine di questa raccolta del periodo giovanile, venti componimenti senza un titolo effettivo, se non le prime parole del primo verso di ogni singolo testo. Venti poesie che, come anticipa il titolo della pubblicazione stessa, mettono al centro principalmente l’amore, tema ripreso anche dalla breve e conclusiva "Canción desesperada", dove inoltre viene posto l’accento sulla condizione di abbandono e solitudine vissuta dal poeta. Malinconia, tristezza, dolore attraversano i versi in un intreccio sublime, sullo sfondo di un paesaggio marino che si fa paesaggio dell’anima.
“Ah vastità di pini, rumore d'onde che si frangono,
lento gioco di luci, campana solitaria,
crepuscolo che cade nei tuoi occhi, bambola
chiocciola terrestre, in te la terra canta!
[…]”
Questo lavoro viene considerato fondamentale poiché da esso, come sottolinea nella prefazione il curatore Giuseppe Bellini, tra i massimi studiosi dell’opera nerudiana, “prende avvio il rinnovamento radicale della poesia ispano-ameticana successiva al modernismo”, con una notevole influenza esercitata anche sui poeti europei.
Meraviglioso il linguaggio utilizzato, ricco di metafore e immagini affascinanti che dipingono l’interiorità del poeta e non possono non colpire il lettore attento: dalle spighe che si piegano “sulla bocca del vento” alle nuvole che divengono “bianchi fazzoletti d’addio”, dagli uccelli che nella notte “beccano le prime stelle” alle “tristi reti” gettate in un mare che scuote “occhi oceanici” di una lei indefinita.
Una scrittura di notevole profondità. Un classico intramontabile della poesia del secolo scorso, imperdibile per gli appassionati delle letture in versi!
Voto: 5 stelle e lode!
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FLIRTED WITH YOU ALL MY LIFE
“Se non fosse diventata una matematica cosa le sarebbe piaciuto essere?
Morta.”
Il titolo di questa recensione allude a quello di una canzone di uno dei miei musicisti preferiti in assoluto, Vic Chesnutt, morto suicida a 45 anni, il giorno di Natale del 2009. Come nel brano di questo sfortunato e raffinatissimo cantautore, realizzato pochi mesi prima di morire, anche nelle pagine del dittico di Cormac McCarthy, composto da “Il passeggero” e da “Stella Maris”, aleggia costantemente, come un incombente convitato di pietra, la presenza della morte. “Il passeggero” si apre proprio con il ritrovamento, la mattina di Natale (che strana, atroce coincidenza!), del corpo di Alicia che penzola da un albero, “gli occhi gelidi e duri come pietre” e la fusciacca rossa che spicca sul bianco della neve. D’altra parte, “Stella Maris” fa subito riferimento al fratello di Alicia, pilota di Formula 2, che giace da settimane nel letto di un ospedale italiano, in un coma cerebrale apparentemente irreversibile (anche se noi sappiamo, a differenza della sorella, che poi Bobby è sopravvissuto all’incidente automobilistico, diventando il protagonista de “Il passeggero”). Di solito non mi piace sovrapporre la figura dei personaggi con quella del loro autore, ma qui è innegabile che McCarthy, giunto al capolinea della propria esistenza terrena (anche se l’opera di cui si parla era in realtà in gestazione da molti anni), abbia voluto fare di Alicia una proiezione di se stesso e della propria nichilistica concezione della vita, quasi che parlare così tanto della morte, pur essendoci così vicino, avesse un effetto per così dire palliativo, come se lo scrittore di Providence così facendo riuscisse in qualche modo a esorcizzarla. Nei sette colloqui con il dottor Cohen, registrati con l’asettica e imperturbabile freddezza di un verbale, Alicia sa che la clessidra dei suoi giorni si sta esaurendo e, dopo aver dato l’addio al Talidomide Kid (il congedo con questa bizzarra apparizione, che lungi dall’essere un troll maligno ha rappresentato una sorta di inconscio ed estremo tentativo di resistere alla tentazione dell’autoannientamento, è stato uno dei momenti più belli e strazianti del libro precedente), sta facendo altrettanto con il resto del (poco) mondo che le rimane. La ragazza non coltiva più alcuna speranza per il proprio futuro, e se è approdata alla Stella Maris, una rinomata clinica psichiatrica del Wisconsin, non è per farsi curare (ella nutre infatti una profonda sfiducia nei confronti degli psichiatri, i quali sembrano ignorare del tutto il mondo che sono chiamati a comprendere e che “percorrono i contorni della pazzia come il prete quelli del peccato…, a studiare con una smorfia una realtà che non sussiste”), ma perché “non avevo nessun altro posto dove andare”. Quella di Alicia è una solitudine assoluta, irrevocabile (“Forse è solo questione di non avere nessuno nella propria vita. Di rendersi conto che qualunque cosa sia quella a cui stai per dare addio non ricambierà l’addio”), e d’altro canto la sua interiorità è una fortezza inespugnabile, che non lascia intravedere, se non in modo ingannevole e fugace, varchi di sorta (“Quello che vuole sapere io non sono in grado di dirglielo. E anche se lo fossi probabilmente non glielo direi.”). Il dottor Cohen è un brav’uomo e un medico competente, le tenta tutte pur di essere in qualche modo di aiuto alla ragazza, di cui intuisce l’orrore agghiacciante da cui è attanagliata, ma paradossalmente l’unico suo contributo sarà quello di procurarle quel cappotto e quelle galosce che Alicia utilizzerà (come si può leggere ne “Il passeggero”) nella sua fuga dall’istituto per realizzare nei boschi limitrofi il suo piano suicida.
E’ soltanto parlando di musica, di matematica, di filosofia che Alicia riesce a stabilire un qualche simulacro di contatto umano. Il libro di McCarthy (ché di romanzo in senso proprio non si può veramente parlare, essendo costituito da soli dialoghi, senza nessuna descrizione esterna dell’autore, neppure le sporadiche indicazioni di scena di un testo teatrale) affronta così un dotto campionario di argomenti “elevati” (frutto presumibilmente degli interessi nutriti negli ultimi anni dallo scrittore, il quale ha assiduamente frequentato la comunità di scienziati del Santa Fe Institute nel New Mexico), e risulta pertanto in alcuni punti alquanto ostico per il lettore (lo stesso dottor Cohen, che è un uomo di cultura e di scienza, ammette più volte candidamente di non capire niente delle cose che la sua paziente dice). In “Stella Maris” si discetta di epistemologia, di topologia, di teoria dei giochi e di meccanica quantistica, si discute di come avviene il passaggio dalla mente al mondo o di cos’è la memoria, e si citano Grothendieck, Godel, Von Neumann, Wittgenstein, Russell, Husserl, Feynman e molti, molti altri matematici, fisici e filosofi. Non si tratta a mio avviso di una pura esibizione di erudizione enciclopedica, tutt’altro. Da una parte è infatti quasi ovvio che un personaggio così mostruosamente intelligente come Alicia, che da molto tempo non mantiene più alcun rapporto con la gente, abbia scelto di rifugiarsi nella scienza come unica possibilità per appagare il suo inguaribile solipsismo. Dall’altra, queste riflessioni scientifiche chiamano direttamente in causa le posizioni di McCarthy sulla propria arte. Si pensi ad esempio a tutto ciò che viene detto intorno al linguaggio. Quando Alicia afferma che “l’intelligenza sono i numeri. Non le parole. Le parole sono cose inventate. La matematica no”, viene asseverata l’impossibilità ontologica del linguaggio di addivenire a una qualche verità ultima, il che, se ci si pensa, è, per un uomo che di professione fa lo scrittore e vive quindi di parole, una vera e propria dichiarazione di poetica, ancorché in negativo. La matematica, così come la musica, non hanno veramente bisogno del linguaggio, in quanto i loro procedimenti si compongono in gran parte a un livello inconscio (in un suo saggio del 2017, “The Kekulé problem”, McCarthy aveva citato come esempio illuminante proprio il caso del chimico tedesco Kekulé, il quale aveva raccontato ai suoi amici e colleghi come la struttura molecolare esagonale del benzene, la cui definizione lo aveva reso famoso, gli fosse stata ispirata dal sogno di un serpente che si mordeva la coda). L’inconscio, per McCarthy, ha funzionato benissimo per milioni di anni, rispondendo perfettamente ai bisogni biologici dell’evoluzione, ma l’arrivo del linguaggio è stato come una sorta di invasione parassitaria, “un’epidemia folgorante”, che ha colonizzato gli esseri umani, a scapito proprio dell’inconscio, spingendoli ad anteporre al mondo la sua rappresentazione, a sostituire “la realtà con l’opinione”. Non mi sento di escludere che una parte considerevole del pensiero nichilista di McCarthy possa farsi discendere proprio da queste considerazioni. Se infatti, parafrasando ironicamente il famoso aforisma di Wittgenstein (“ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”), si arriva tautologicamente a dire in “Stella Maris” che “di ciò di cui qui non sappiamo niente non sappiamo niente”, allora, con lo stesso ragionamento, giungere a dimostrare l’assoluta inanità, la totale sterilità dei colloqui tra Alicia e il dottor Cohen è un passo davvero molto, molto breve da compiere.
In “Stella Maris” la scrittura di McCarthy è densa come piombo, scura come la notte profonda. Leggere questo libro è un po’ come un’estenuante immersione in apnea, in cui si sa oltretutto di avere solo pochi secondi per riemergere alla luce del sole e riprendere il fiato. McCarthy è arrivato, attraversando una no man’s land rarefatta e inesplorata, fino al limite estremo della letteratura (già sfiorato anni prima con “Sunset Limited”, opera per molti versi apparentabile a “Stella Maris”), e si è affacciato su un altro universo sconosciuto agli altri scrittori, un posto da cui, voltandosi, ha probabilmente potuto dare un ultimo sguardo al nostro mondo così distante dal nulla sconfinato in cui si trovava. Alcune sue pagine sono veramente agghiaccianti, come quelle in cui Alicia descrive nei più minuziosi dettagli fisiologici le varie fasi che portano alla morte per annegamento. Quello di Alicia è un personaggio “sovrumano”, nel senso che ha ormai varcato quelle colonne d’Ercole che per il resto dell’umanità, quella “normale”, costituiscono un confine invalicabile, e si è irrimediabilmente affacciata sull’orlo di un mondo spaventoso ed inquietante. Alicia ha guardato dritto negli occhi l’orrore: nel sogno kafkiano di Archatron che racconta al dottore, ella ha potuto intravedere quel demone tremendo che si annida sotto la superficie della realtà. “Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere”. Per lei, figlia di uno dei fisici che hanno lavorato al Progetto Manhattan, perfino la guerra nucleare è inevitabile (“Probabilmente è come per qualsiasi bancarotta. Più riesci a rimandarla e peggio sarà… La gente non combatte con le pietre quando ha dei fucili”). Se è possibile essere felici solo fino a un certo punto, il dolore sembra invece non avere limiti. Alicia e il dottor Cohen si soffermano persino sul perché i neonati piangano e sul perché, raggiunta una certa fase della loro crescita, smettano di farlo. Per la ragazza la risposta è inesorabile: piangendo i bambini esprimono la rabbia nei confronti di un mondo che è diverso da quello che avrebbe dovuto essere. Ma siccome a suscitare la rabbia sono solo le cose che possono essere riparate, a un certo punto essi capiscono che all’ingiustizia non c’è rimedio, e la rabbia si trasforma in dolore. La cosa peggiore di questo mondo spietato e crudele è però che esso ci ignora e ci ha sempre ignorati (“il mondo non sa che siamo qui”), per cui, come altrettanti condannati a morte, non ci resta che rifugiarsi in un ultimo, utopistico desiderio, non tanto di non esistere più, ma addirittura di non essere mai esistiti.
In questa opera di inaudita sofferenza, capace di toccare vette di inenarrabile pessimismo, è tuttavia ancora possibile scorgere, come fioche fiammelle che brillano in lontananza nell’oscurità circostante, alcuni barlumi di umanità, se non proprio di speranza. L’amore per la musica (la ragazza ha speso gran parte dell’eredità della nonna per acquistare un antico e prezioso violino) e, soprattutto, quello per il fratello (benché fosse sempre stata consapevole della natura incestuosa del suo desiderio, ella avrebbe voluto sposare Bobby, di cui era profondamente innamorata, e farlo “entrare in lei come in una cattedrale”) sono ancora in grado di far commuovere Alicia. Ma la verità, incontestabile e irreversibile, è che Alicia si sta congedando definitivamente dal mondo. Come una navicella spaziale che sta perdendo progressivamente il contatto con la base prima di smarrirsi nel vuoto cosmico, la cinica, scettica e intelligentissima Alicia, apparentemente ermetica come una corazza a prova di proiettile, lascia dietro di sé, prima di sparire definitivamente, soltanto flebili tracce che, come frammenti di una misteriosa meteora, forse nessuno sarà mai in grado di interpretare: la nostalgia per una fede che non solo non si è mai posseduta, ma che a stento è possibile concepire come una implausibile possibilità astratta, e soprattutto il desiderio di un calore che possa scaldare anche soltanto per pochi attimi un cuore ineluttabilmente ghiacciato, e che nelle ultime righe del libro si materializza in un’estrema, commovente e disperata richiesta di stabilire una forma, anche la più semplice, anche la più banale, di contatto umano.
“Credo che il nostro tempo sia scaduto.
Lo so. Mi tenga la mano.
Tenerle la mano?
Sì. Voglio che lo faccia.
D’accordo. Perché?
Perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa.”
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Cormac McCarthy: "Sunset Limited"
Un anno
Una gran bella scoperta, per me, la scrittura di Aramburu, nome di spicco della letteratura spagnola (ed europea più in generale) odierna, del quale prima d’ora non avevo avuto occasione di leggere niente.
Una lettura, questa de “I rondoni”, che mi ha tenuto buona compagnia per diverso tempo, portandomi nella Spagna e, in particolare, nella Madrid dei nostri giorni. Ad animare le ben settecento pagine del libro, il dramma esistenziale di Toni, un professore ultracinquantenne di filosofia delle scuole superiori che, al culmine della delusione, prende la decisione di suicidarsi pianificando a poco a poco, in modo razionale, la propria dipartita che fissa a distanza di un anno. Dodici mesi per disfarsi di ogni cosa materiale della sua vita pregna di solitudine, ma anche per scavare a fondo nei suoi ricordi; infatti, la narrazione, sotto forma di memorie in prima persona annotate meticolosamente alla fine di ogni giornata per un anno intero, procede su più piani temporali poiché, oltre a raccontare la quotidianità del presente vissuta tra il lavoro a scuola e le chiacchierate al bar di Alfonso con l’amico Bellagamba, torna indietro nel tempo per ripercorrere il periodo in famiglia dall’infanzia alla giovinezza e quello della travagliata quindicina d’anni di matrimonio con l’ormai ex moglie Amalia, prepotente e piena di rancore. Tutti ricordi che, ovviamente, sono spesso assai dolorosi, ma che si rivelano necessari per “tirare fuori tutta la sporcizia accumulata dentro”.
La penna dell’autore è molto abile a intrecciare in maniera armonica piani temporali diversi, rendendo il lunghissimo e dettagliato racconto dell’esistenza del protagonista particolarmente coinvolgente per il lettore che, alla fine, si affeziona a questo aspirante suicida di mezza età e cerca di comprenderne il vissuto tormentato da cui emergono anzitutto affetti e odi familiari. La trama è ricchissima di episodi in cui si muovono personaggi molto ben caratterizzati che, a seconda dei casi, ispirano simpatia, avversione, compassione; tra loro, a pieno titolo, anche la cagnolina Pepa, fedele compagna di Toni alla quale sembra che manchi soltanto il dono della parola.
Un romanzo che cerca disperatamente il senso dell’umano vivere tra gioie (poche) e dolori (tanti), mentre il volo dei rondoni, dopo aver svernato in Africa, solca una volta ancora i cieli dell’anima seppur disillusa e diviene simbolo di profonda libertà.
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“Noi e Anna Achmatova”
Sebbene più volte l’autore lo definisca un romanzo, man mano che mi addentravo nella lettura de “Vi avverto che vivo per l’ultima volta” non avevo l’impressione di trovarmi tra le pagine né di questo né di una biografia in senso stretto.
Fatto sta che la più recente pubblicazione di Paolo Nori, uscita lo scorso mese di febbraio con la Mondadori, è un libro sorprendente, potente e di grande originalità che riesce ad andare ben oltre le sopraccitate categorie letterarie intrecciando sapientemente vivacità narrativa e approfondimento storico-biografico, e che sa inoltre farsi amare. Un libro che, come già precisa sin dalla copertina il sottotitolo, pone al centro dell’attenzione la straordinaria figura di donna e poeta che fu Anna Achmatova, ma nel contempo pure noi e questa scellerata, rinnovata epoca bellica che, nostro malgrado, stiamo vivendo. Il titolo riprende un verso della stessa Achmatova, tratto dalla Poesia 5 del ciclo “Nell’anno Quaranta”, tra i cui testi confluiscono il suo destino personale e la profonda tenebra calata con la guerra sull’Europa:
“Ma io vi avverto
che vivo per l’ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco, né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò le persone
né visiterò i sogni altrui
con gemito insaziato.”
[citazione dal volumetto “È flebile la mi voce e altre poesie”, a cura e traduzione di Paolo Galvagni, Edizioni Via del Vento, edizione ampliata 2021]
Classe 1963, Nori è un noto scrittore emiliano e traduttore dal russo. Il suo amore viscerale per la Russia, la sua lingua, la sua letteratura pervade ogni singola pagina di questo volume. Nell’inverno del 2022, poco dopo l’inizio del conflitto armato tra Mosca e Kiev, gli venne bloccato, “per evitare tensioni”, un intero seminario di quattro incontri su Dostoevskij che lui avrebbe dovuto tenere all’Università degli Studi Milano-Bicocca; a suo tempo, si parlò a lungo di quel caso, e l’autore medesimo non manca di esporre tale assurdità nel suo libro.
E Anna Andreevna Achmatova, chi era costei? Il suo è stato uno dei grandi nomi della poesia russa del cosiddetto “secolo d’argento” e del Novecento in generale, nonché di quella a livello mondiale, in Italia conosciuto senz’altro dagli appassionati di versi, ma non famoso proprio come quello di Tolstoj o altri autori celebri della letteratura russa. La sua scrittura, così autobiografica e pregna di dignitoso dolore, conduce nelle ferite profonde inferte alla Russia dal regime sovietico. Lei stessa – come moglie, madre e artista – patì in prima persona l'oppressione della terribile epoca staliniana.
Nata nei pressi della città di Odessa nel 1889, l’Achmatova legò la sua vita in modo particolare alla città di Pietroburgo (ribattezzata dapprima Pietrogrado e poi, dal 1924, Leningrado), dove iniziò a prendere forma la sua poesia. Achmatova non era il suo vero cognome (Gorenko), ma lo prese da una nobile antenata tartara quando il padre, venuto a conoscenza dell’attività poetica della figlia, le proibì di disonorarlo in tal modo. L'Achmatova, estremamente colta, si mosse in seno al movimento letterario russo acmeista insieme al primo marito Nikolaj Gumilëv, padre del suo unico figlio, Lev, e giustiziato nel 1921, tre anni dopo la loro separazione. La vita familiare dell'Achmatova sarà segnata anche da altri arresti e detenzioni (anzitutto, quelli del figlio negli anni Trenta); malgrado la lunga censura, il trasferimento in Uzbekistan durante il secondo conflitto mondiale e le gravi difficoltà economiche (era stata privata della tessera alimentare) non lasciò la patria, vedendosi "riabilitata" soltanto a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Morì nel marzo del 1966, all’età di settantasei anni, in un sanatorio vicino a Mosca.
Tutto questo (e anche altro) viene raccontato in dettaglio da Nori attraverso una prosa molto coinvolgente che scivola volutamente nel colloquiale, mentre i paragrafi dei venti capitoli di cui si compone il volume alternano con ammirevole naturalezza passato e presente, la Russia di ieri e quella di oggi, così pure la vita dell’Achmatova scavata fin nel profondo e la vicenda personale dello scrittore stesso ripercorsa spesso con nostalgia, non senza lanciare preoccupazioni e interrogativi in merito al futuro che l’Occidente si sta costruendo con l’insensatezza, l’aggressività e il ritorno alle armi. Un libro davvero molto bello, questo, in cui non può non trovare ampio spazio la letteratura (non solo russa), così come l’orribile guerra sul fronte russo-ucraino (“tra fratelli e sorelle”) che si trascina ancora dopo ben oltre un anno e mezzo di combattimenti e di veleni per così dire mediatici. Leggerlo significa anche acquisire informazioni particolari su ciò che sta accadendo, farsi un’idea più precisa su una realtà molto più complessa di quanto appaia alla miopia del nostro sguardo.
E Paolo Nori, come infine confessa, ha paura: paura che per le generazioni future sia ancora necessario augurarsi la pace come si faceva un tempo; paura che noi, che viviamo per l’ultima volta, “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati.”
Un sentito plauso all’autore, dunque, poiché ha anzitutto il merito di raccontare e raccontarsi con semplicità e umiltà, suscitando curiosità, riflessioni e, cosa notevole, appassionare addirittura il lettore abitualmente poco o nulla appassionato – come la sottoscritta – di letteratura russa. Quella letteratura rivelatasi, a conti fatti, “più forte dell’esercito sovietico, del Politburo, del terrore, della guerra, dei gulag”. La stessa che resisterà anche alla piccolezza e all’ipocrisia dei “poveri burocrati occidentali”.
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Romanzo di formazione contemporaneo
Un romanzo che merita indubbiamente di rientrare nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, “Canada” di R. Ford. Una storia in cui si capisce subito, fin dalle prime righe dell’incipit, che all’autore non interessa tanto raccontare degli avvenimenti di per sé (“Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi, che avvennero più tardi. La rapina è la parte piu importante, perché fece prendere alla mia vita e a quella di mia sorella le strade che da ultimo avrebbero seguito”), bensì narrare un percorso di crescita, un “romanzo di formazione” direttamente attraverso le parole di Dell Parsons, il protagonista.
Della dolorosa storia di questa famiglia del Montana e delle conseguenze che ebbe sui figli Dell e Berner la scellerata scelta dei genitori di architettare una rapina ad una banca come forma di riscatto sociale, a Ford preme sottolineare, attraverso le parole del poeta irlandese W. Yeats, che “Non può esistere alcunché di unico ed intero che non sia stato strappato”. Lo stesso Dell, diventato adulto e narratore degli avvenimenti fornisce la chiave di interpretazione di questi versi: “le cose sono imperfette e tuttavia accettabili”. La comprensione di queste riflessioni per Dell e la sorella Berner passa dalla fuga, dalla ricerca di nuovi luoghi dove costruirsi un futuro che, in particolare per Dell, si materializza in una sperduta cittadina di provincia del Canada, famosa come luogo di ritrovo dei cacciatori per sparare alle oche. Ecco che improvvisamente il titolo del libro diventa subito chiaro: il Canada non tanto come luogo geografico bensì come luogo di formazione in cui il passaggio (di frontiera) con gli Stati Uniti assume i contorni di un doloroso passaggio dall'età adolescenziale verso l'età adulta. Qui in un posto sconosciuto che necessariamente diventa una nuova casa, con accanto persone sconosciute che diventano una nuova famiglia in sostituzione dei genitori finiti in carcere, Dell prosegue il suo percorso di crescita, la sua esperienza della vita, continuando ad apprendere che la fiducia è un concetto in continua evoluzione ed il prezzo da pagare rimane alto.
Un romanzo assolutamente consigliabile anche se, parere personale, la scrittura di Ford è piuttosto lenta, ripetitiva, nel ribadire i medesimi concetti in modi differenti, con la conseguenza che a tratti la lettura può diventare pesante impattando sulla capacità di concentrazione del lettore.
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Mamma Orso...
La lettura di "Shorefall" mi dimostra quanto sia rischioso aspettare mesi e mesi prima di continuare una serie, specialmente se non troppo famosa e per questo priva di una fanbase che ci martelli il cranio a suon di fanart e meme. Riconosco quindi che, se avessi letto prima il secondo capitolo di The Founders Trilogy forse sarei entrata subito in sintonia con la storia e non avrei sfoggiato per cento e passa pagine un'espressione da pesce lesso che non capisce chi sia chi. A discapito di questo mea culpa, rimango convinta che i romanzi di Bennett in generale e questa trilogia in particolare siano delle vere gemme nascoste, per questo sono stata felicissima della recente pubblicazione in Italia di questo seguito.
Un po' come la sottoscritta, anche la narrazione si concede un bel salto in avanti di quasi tre anni, rispetto al finale di "Foundryside". I protagonisti hanno ormai avviato una solida attività, e non si interessano soltanto a togliere il monopolio dello scriving alle compagnie mercantili, ma anche a diffondere codici di ogni tipo tra le nuove imprese che sono sorte nei Commons, diventando così una sorta di impresa di servizi. A gettare un'ombra sui loro progetti futuri è la minaccia dell'inaspettato ritorno del più potente tra gli ierofanti, deciso a riportare l'umanità sotto il suo controllo.
Tra sequenze d'azione mozzafiato e piani geniali, questo seguito conferma tutti i punti di forza del primo romanzo: un sistema magico complesso, un world building solido e vitale per la storia, e dei personaggi a tutto tondo. Qui troviamo inoltre un maggior approfondimento sulla caratterizzazione proprio dei protagonisti, soffermandosi in particolare sui legami tra loro che prima erano stati solo abbozzati e adesso si dimostrano essere decisivi nell'economica della narrazione, oltre che di impatto a livello emotivo. Confesso che alcune interazioni tra loro mi hanno colpito molto, e ho trovato diversi dialoghi genuinamente commoventi.
Tra i punti di forza di questo titolo possiamo annoverare anche il ritmo incalzante che va a caratterizzare l'intero volume, nonché i nuovi sviluppi nel sistema magico ed i dettagli sul passato del mondo immaginato da Bennett, che ne vanno ad arricchire e rendere più interessante la lore. Personalmente ho poi apprezzato come la storia si apra con l'unica prospettiva di Sancia "San" Grado, ma vada in seguito ad includere quelle degli altri protagonisti e anche di diversi personaggi di contorno; il risultato è una narrazione quasi corale, che permette di comprendere i diversi approcci alle tematiche affrontate.
Fatico sempre a trovare qualcosa che non vada nei romanzi del caro Robert; l'unico difetto potrebbe essere il finale, inaspettatamente aperto a differenza dei suoi titoli precedenti. Dalla prospettiva di un lettore nostrano però, la maggior pecca di questa trilogia temo rimanga la continua presenza di nomi cringe in fanta-italiano, spesso mescolato con spagnolo ed inglese, giusto per dare più colore; il più esilarante per me è stato Participazio: personaggio che compare in giusto tre scene, ma che per merito del suo nome è riuscito a farmi sganasciare per più di metà libro.
NB: Libro letto in lingua originale
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Un lupo di mare
Giallo italiano, ambientato in Liguria, zona in cui è stato trasferito il commissario Berté, un personaggio sui generis, che ispira grande simpatia, per la sua umanità, e che ispira grande rispetto, per la sua intelligenza ed arguzia. In questo episodio si intrecciano le sue vicende personali, con un dolore imprevisto, le vicende della sua carriera professionale, forse ad una svolta, e l’indagine vera e propria, che ruota attorno ad un omicidio, al porto, di uno strano personaggio, molto discusso nel paese, non molto amato, ma non così negativo come si potrebbe supporre. Sensazioni che prova lo stesso commissario, che indaga nella vita privata e nel passato della vittima, per scovare i suoi segreti e quindi per individuare il giusto colpevole, fra tanti papabili, il tutto con un senso di profondo rispetto, che mi ha particolarmente colpito. La vittima ha sempre avuto una fatale predisposizione a cacciarsi nei guai e nella sua famiglia c’è un forte odore di disaccordo, ci sono segreti. Ma la vita riserva sorprese e la chiusura della vicenda è emblematica. Il mio personaggio minore favorito è la nonna. Avrei forse evitato l’appendice finale dei racconti scritti di pugno dal commissario, perché un po' fini a se stessi.
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L'arancione e il violetto
L'indigenza della sua famiglia la chiama al sacrificio e tirarsi indietro non è una scelta possibile. Lo capisce bene Griet, giovane di origine protestante, della piccola cittadina di Delft, che a sedici anni accetta di andare a servizio presso una ricca famiglia cattolica nel Quartiere dei Papisti. Ma non si tratta di una qualsiasi famiglia ricca bensì di quella del famoso pittore Johannes Vermeer e di sua moglie Catharina. Griet si è già imbattuta nella sua maestria ammirandone la Veduta di Delft che le ha restituito uno sguardo così diverso su quei luoghi a lei noti che è come se li avesse visti per la prima volta.
Le nuove giornate di Griet sono scandite dai pregiudizi che gravano sulle fantesche soprattutto se belle e giovani, dal faticoso lavoro domestico in una famiglia con prole numerosa e in crescita, dalla non ingiustificata gelosia di Catharina, dalla perspicacia e dallo spirito pratico di Maria Thins, suocera del pittore, dall'umore altalenante della domestica Tanneke, dai dispetti di una bambina, Cornelia, ben oltre che indisponente, dal peso di una famiglia che si affida a lei per superare lo scoglio dell'indigenza, dalle attenzioni non gradite del più facoltoso e assiduo cliente di Vermeer e da quel buon diavolo di Pieter.
Si incastona in questa cornice il nucleo centrale del romanzo del 1999, per il quale l'autrice si è ispirata a "La ragazza col turbante", opera inizialmente conosciuta come "Un ritratto in stile turco" e solo di recente come "La ragazza con l'orecchino di perla" (perla che, secondo recenti ipotesi, non sarebbe vera ma di vetro, di quelle che erano vendute a quei tempi dai soffiatori di vetro venziani).
Si tratta della più famosa opera della "Sfinge di Delft" come fu soprannominato Vermeer, uno dei maggiori esponenti della pittura fiamminga del XVII secolo in Olanda, per il mistero che da sempre avvolge la sua vita (di cui si sa poco) e le sue opere. (Dopo la morte del pittore si persero le tracce del dipinto che ricomparve nel 1881 quando fu acquistato all'asta per l'irrisoria cifra di due fiorini e trenta centesimi.)
Catturata prima dai colori e dalla luce che ricade sul viso della misteriosa ragazza del tronie e poi dal suo sguardo ambiguo, come da lei affermato, l'autrice ha inteso con la sua penna dare risposta a interrogativi che ancora oggi sono oggetto di teorie e smentite: la ragazza del tronie è davvero esistita o è l'idealizzazione del femminile da parte del pittore? Si tratta davvero, come taluni sostengono, di Maria, sua figlia maggiore, che ai tempi del dipinto aveva all'incirca dieci anni? Si tratta di un dipinto realizzato su iniziativa personale del Vermeer o su commissione di un facoltoso mecenate come suggerisce l'uso del blu oltremare, costoso pigmento (a quei tempi anche più dell'oro) ricavato dal lapislazzuli di provenienza afghana?
Partendo da questi interrogativi la scrittrice delinea una fittizia e plausibile identità della giovane, ce ne racconta la storia regalando al suo pubblico l'incontro tra due mondi distanti che l'arte è capace di avvicinare.
Dietro la figura di un'indigente fantesca si cela un animo - ribelle e - istintivamente votato all'arte, alla ricerca del dettaglio che conquista l'occhio e ne fa la differenza. Si fa strada in Griet il coraggio di porre domande e intervenire nel processo creativo del pittore in nome di un sentimento che va ben oltre l'ammirazione, è devozione totale, illusoria, malriposta, disattesa perché pre-ordinata e funzionale alla maniacale e ossessiva ricerca della perfezione da parte del Vermeer.
"Lui è un uomo eccezionale" proseguì Van Leeuwenhoek. "I suoi occhi valgono quanto una stanza colma d'oro, ma talvolta vede il mondo come lui vorrebbe che fosse, e non com'è. Non capisce quali conseguenze ha sugli altri questo suo idealismo. Pensa solo a se stesso e al suo lavoro, non a te. Quindi devi stare attenta... Attenta a rimanere te stessa".
Del resto "... l'arancione e il violetto non sono vicini. Perché mai? ... "Quei colori fanno a pugni quando sono vicini, signore".
Tra finzione e realtà, Tracy Chevalier regala al suo pubblico una storia che, pur priva dei particolari slanci narrativi, si rivela apprezzabile sia da chi già nutre interesse per l'arte e la pittura sia da chi si avvicina in punta di piedi ad essa e alla conoscenza del pittore fiammingo e della sua "Gioconda del Nord".
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Si può morire per un Bosco (Torto).
A Pineta, sede del BarLume frequentato dai vispi “Vecchietti” protagonisti della famosa serie ideata da Marco Malvaldi, raramente si godono momenti di quiete. In quest’ultimo romanzo della serie i problemi sul tappeto non sono pochi: intanto c’è la vittoria delle destre che spodestano la vecchia giunta comunale, poi la questione dello spazio da occupare al di fuori del bar per tavolini e quant’altro, spazio naturalmente non gratuito che dovrà costringere i gestori a rifare conti, rimodulare tariffe, acquisire eventuale nuovo personale. Ma la notizia clou è il ritrovamento di un cadavere sul retro del palazzo comunale, è quello di un giovane ricercatore universitario, volato giù (buttato?) dai piani alti dell’edificio. Si tratta di Stefano Colamartino, 26 anni, incaricato di svolgere una ricerca su un vecchio carteggio custodito nella fatiscente villa del conte Serra Catellani: vengono anche alla luce una lettera autografa di Giacomo Leopardi, nonché preziose annotazioni su una probabile antica fonte termale in una zona (Bosco Torto) , oggetto di trattativa tra il Comune ed un’importante impresa. La scoperta non va rivelata, i prezzi lieviterebbero, ecco il principale motivo per cui l’assassino ha eliminato il povero Stefano. Chi sarà stato il colpevole? Le indagini condotte dall’abile vicequestore Alice sono lunghe e complesse: sono esaminati ora dopo ora gli spostamenti del personale all’interno del Comune, nei vari piani, con l’ausilio delle fotocamere e, finalmente, l’assassino è scovato e messo alle strette. Ovviamente i Vecchietti del BarLume danno il loro contributo, mettendo in luce buon senso e spirito pratico, tra una battuta di spirito e l’altra: una specie di indagine parallela, rievocando anche pettegolezzi del passato, nella saggia convinzione che spesse volte a pensar male si indovina.
Insomma, si può morire per un terreno boscoso che nasconde tesori naturali e che può far gola: non c’è naturalmente solo questo nel romanzo, altri argomenti affiorano qua e là, come, ad esempio, lunghe e complesse disquisizioni sui cosiddetti “usi civici”, cioè la possibilità dell’uso pubblico di zone di proprietà, uso che ne impedisce in certi casi la vendita. Complicata è anche l’indagine poliziesca: sono molte le persone indagate, tanto da indurre l’autore ad avvalersi di disegnini esplicativi (incomprensibili) dei locali comunali frequentati dai presunti colpevoli. Insomma, il tutto obbliga il lettore a continui esercizi di memoria che, per fortuna, sono stemperati dagli interventi dei Vecchietti con il loro umorismo e la loro ironia.
“La morra cinese” è il nono romanzo della serie del BarLume, il primo che ho letto. Devo ammettere che non mi ha particolarmente entusiasmato, forse colpa mia che non sono riuscito ancora a entrare nel particolare “clima” anche mediatico che circonda il BarLume. Belle le battute, simpatici i protagonisti, azzeccati i riferimenti ai problemi dei nostri tempi (pastoie burocratiche, luminari universitari spocchiosi e approfittatori, politicanti pronti sempre a farsi i propri affari, ecc.ecc.) ma il tutto sembra traballante, disarticolato, anche faticoso da leggere.
Forse è proprio azzeccato il titolo, “La morra cinese”, equivalente al nostro Carta,Forbice,Bastone: indica infatti una situazione disperata che non si sa come affrontare, ma dalla quale si cerca di uscire ad ogni costo. Mettendo a dura prova l’attenzione e la memoria del lettore.
Lo stile narrativo scorre via, a balzi e frenate: frequenti i colloqui nell’incisivo dialetto locale.
Esilarante qualche trovata, come quella del vicequestore Alice, che in cucina sull’etichetta del barattolo del riso scrive un bel “Ah!Ah!Ah!” e su quella del sale grosso “Clorurone di sodio”. Mica male, no?
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Eleganza
Dopo l’edizione del 2004, basata su un manoscritto non rivisto dall’autrice, esce ora una versione basata su un dattiloscritto, con revisioni e modifiche scritte a mano dalla scrittrice e con alcuni cambiamenti significativi di contenuto. Anche il titolo è stato modificato: da Temporale in giugno a Tempesta in giugno.
Il libro può essere considerato un classico, a prescindere.
Il racconto della fuga da Parigi nel giugno del 1940 a seguito della invasione nazista segue diversi personaggi nelle loro peripezie. Ogni frase, ogni parola risulta perfetta, cesellata. Le scene di massa e le emozioni dei singoli sono descritte con cura e mediante metafore originali. Ironia, leggerezza, eleganza dominano il racconto. Un capolavoro.
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Le variazioni Reinach di Filippo Tuena
Nostalgia di infinito
“La mia vita è già vissuta e il mio libro è già scritto, giacché il passato è tutto e il futuro è niente.”
Ci sono alcuni autori che pervicacemente, maniacalmente, forse anche morbosamente, affrontano nelle loro opere sempre le stesse tematiche, parlano sempre delle proprie ossessioni, scrivono in fondo sempre il medesimo, identico, libro. Penso per esempio a Thomas Bernhard e, naturalmente, a Marcel Proust. Mircea Cartarescu fa parte a tutti gli effetti di questa ristretta schiera di scrittori, per i quali ogni scritto è in fin dei conti una sorta di variazione su un unico tema costante. Basta soltanto leggere le prime righe del secondo volume della trilogia “Abbacinante” per essere riportati di peso, quasi che nel frattempo non ci fosse stata alcuna cesura, alcuna soluzione di continuità, alle riflessioni sul passato del narratore, sull’”io” di oggi che contiene come altrettante matrioske i molteplici "io" di ieri; il piccolo protagonista continua inoltre a star seduto sulla cassapanca della sua camera da letto, con i piedi sul termosifone, a guardare con occhi affascinati Bucarest dalla finestra, ed entra ancora una volta nell’appartamento all’ottavo piano di Herman, il vagabondo-filosofo, e così via. Si capisce che il libro di Cartarescu è un pensiero fisso che non abbandona mai il suo autore, ma lo costringe ad aggirarsi sempre negli stessi territori, come se si trovasse di fronte a una mappa nel tentativo inesauribile di decifrarla, come se da ciò dipendesse la sua stessa vita, la sua stessa salvezza. Anche lo stile è sempre uguale (prodigiosamente uguale, va detto), con il lessico che spazia, come in uno spettro elettromagnetico smisurato, dalla fisiologia del cervello, con le sue sinapsi, i suoi assoni e dendriti, fino alla cosmologia ultima del Big Crunch, con i suoi innumerevoli simbolismi biblici e religiosi e le sue continue digressioni misticheggianti. Insomma, leggere Cartarescu è un po’ come ritrovare un amico che magari non vedi per anni, ma che quando poi lo rincontri per caso al bar puoi continuare con lui a parlare come se niente fosse, e proseguire con estrema naturalezza quei discorsi lasciati da tempo in sospeso.
Se comunque si volesse affrontare in modo serio e meticoloso l’esegesi del testo, si potrebbe dire che se nell’”Ala sinistra” Cartarescu era una specie di archeologo dei ricordi, e si sforzava di risalire, con tanta immaginazione, a quei proto-ricordi che riguardavano la remota, leggendaria vita dei suoi avi e dei suoi genitori prima della propria nascita, reminiscenze che erano state in qualche modo ereditate attraverso i geni familiari oppure apprese attraverso una sorta di misterioso procedimento onirico, nel secondo tomo della trilogia la prospettiva è maggiormente orientata verso Mircea bambino, il cui passato il narratore fa rivivere (dagli anni della prima infanzia, passati in stretta, indissolubile simbiosi con la madre, a quelli della scuola, con la progressiva scoperta del mondo esterno al nido domestico) con la vividezza, la minuziosità, la precisione anche topografica di qualcosa che si è profondamente e definitivamente fissato, impresso nel proprio corpo di uomo adulto in cerca di un senso alla propria esistenza. Anche quando, dopo la prima parte più filosofica e astratta, Cartarescu si abbandona all’aneddotica infantile pura e semplice (“credo sia giunta l’ora di accettare un briciolo di realtà”), come un McCourt qualsiasi, anche in queste pagine l’autore non rinuncia però alle sue improvvise, inopinate accensioni fantastiche: salendo le scale del bloc dove Mircea abita ci si può imbattere in mondi sorprendenti e insospettati o perdersi come in un labirinto; il gioco in cui il piccolo protagonista viene issato dai compagni dentro a un secchio per mezzo di una carrucola si trasforma in una specie di avventura soprannaturale; una casa al tramonto può abbandonare le sue fondamenta e mettersi a volare nel cielo crepuscolare di Bucarest; e così via dicendo. La visionarietà dello scrittore romeno è il sintomo di una “propensione mistica o poetica esagerata”, che segna e caratterizza inconfondibilmente tutta la sua opera. “E’ come se avessi non un certo numero di sensi, ma miliardi di sensi”, e ciò produce un vertiginoso moltiplicarsi di sensazioni, di riflessioni, di piani di lettura.
Il narratore, fin da giovane, si dedica a scrivere forsennatamente un manoscritto, accumulando pagine su pagine, come se fosse spinto da un irrefrenabile impulso, da un’irresistibile coazione. Il presupposto che lo muove è che ogni opera scritta deve “essere un Vangelo o non essere affatto”. “Non c’era ragione, per un libro, di essere un congegno per un bel sognare, la sua esistenza non si giustificava se non come una freccia rivolta verso la salvezza”. Da qui a considerare lo scrittore come una sorta di profeta, o addirittura di Messia, il passo è breve. La verità è appannaggio di un’unica anima eletta (così come, per converso, “ogni libro vero seleziona sempre un solo lettore”) e la salvezza è come il concepimento umano, dove un solo spermatozoo, tra milioni di altri spermatozoi, raggiunge e feconda l’ovulo. C’è una pagina magica ed esaltante (una di quelle che ogni scrittore vorrebbe scrivere almeno una volta nella vita, ma che pochissimi riescono effettivamente a realizzare nell’arco dell’intera carriera), in cui Cartarescu immagina la redenzione proprio come una eiaculazione di farfalle, che fuoriescono a fiotti, innumerevoli, dai crani umani per cercare di unirsi a una inafferrabile, iperbarica divinità, ma soltanto una di esse, dopo un viaggio periglioso e terribile, dopo essersi bruciata le ali, dopo essersi trascinata agonicamente, il ventre martirizzato, attraverso canali di carne e di fuoco, ridotta ormai a uno scheletro, riuscirà a fondersi nel prodigio meraviglioso, nella luce pura e abbagliante. Come un equilibrista in bilico tra il serio e il ridicolo, tra il sacro e il grottesco, lo scrittore romeno giunge a trasformare la sua autobiografia in una bizzarra ucronia, immaginando che il gemello Victor non sia morto di polmonite, poco dopo la nascita, in ospedale, ma sia stato rapito dalla fantomatica setta degli Illuminati, per far sì che Mircea, crescendo, non venisse distratto dalla sua vicinanza e dal suo affetto e potesse dedicarsi alla scrittura di quel libro fatidico e indispensabile per le sorti dell’umanità. Come nel primo volume si diceva che Dio è creato dall’uomo per poter essere da Lui a sua volta generato, così ne “Il corpo” i personaggi (gli Illuminati) “inventano” il loro autore, guidandolo in segreto alla elaborazione del suo libro. Questo coté spericolatamente meta-letterario è quanto mai congeniale alla visione dello scrittore romeno, secondo cui ogni mondo è il rovescio di un altro, come se le piante dei piedi di chi sta nel mondo di sopra corrispondessero a quelle, ribaltate, di coloro che vivono nel mondo di sotto (“viviamo in mondi sovrapposti, ciascuno sotto il ghiaccio spesso dell’altro… Siamo i cieli del mondo di sotto e le profondità maledette del benedetto regno di sopra”). L’universo di Cartarescu è in fondo come un nastro di Mobius, in cui le due facce del nastro sono costituite dalla realtà e dalla finzione, ma è impossibile capire quando una trapassa nell’altra. Chi conosce un poco Cartarescu sa fin troppo bene che per il romanziere di Bucarest il mondo in cui viviamo è un inganno, e che solo la limitatezza dei nostri sensi ci impedisce di elevarci dalle nostre tre dimensioni alla dimensione superiore, che è rappresentata dal tempo. Per una sorta di paralizzante, congenita agnosia, l’uomo è in grado soltanto di vedere il passato, mentre ignora completamente il futuro, benché questo venga a volte rivelato per mezzo della premonizione o della profezia. E il tempo non è probabilmente l’ultima, definitiva dimensione, perché forse altre molteplici, inesplicabili dimensioni sono comprensibili da esseri superiori, divini. Il mondo potrebbe allora apparire come quel foglio di carta appallottolato che i maestri dell’origami gettano nell’acqua e che pian piano comincia ad aprirsi rivelando un fantastico fiore di loto. E’ a queste superne, metafisiche dimensioni che lo scrittore deve tendere. E’ per questo che l’immagine della farfalla ricorre ossessivamente nel romanzo, simbolo, con la sua trasformazione da larva vagamente ripugnante a insetto leggiadro e variopinto, del passaggio graduale a stadi più evoluti dell’esistenza. Numerosi sono i simboli, spesso oscuri e difficilmente comprensibili, utilizzati da Cartarescu (il volo e la levitazione, gli ascensori, i tappeti), ma quella della farfalla rappresenta la metafora perfetta, al punto da venire incorporata nel titolo stesso della trilogia. Nei suoi “ricordi” primigeni, anteriori alla propria nascita, il narratore immagina la sua futura madre che ogni mattina si trasforma in farfalla e una volta, volando molto in alto sopra il villaggio natale, arriva perfino a vedere la figura di Dio Padre. La capacità di possedere ali dura però poco: il passaggio alla vita adulta tarpa questa aspirazione a “librarsi nell’aria”, e allontana definitivamente l’essere umano dalla naturale, inconscia condizione di perfezione insita nell’infanzia, quando si è ancora in grado di “vedere” pur senza saperlo. E quando non è la crescita, l’esiziale trascorrere del tempo, ci pensa la realtà, quella realtà che in “Solenoide” si dice che “ci schiaccia osso dopo osso nel suo abbraccio”, a distruggere l’umano sogno della rivelazione suprema. Come le farfalle che si bruciano volando troppo vicino alla luce della fiamma, così le farfalle di Cartarescu vengono costantemente distrutte, uccise o rese impotenti tagliando loro le ali, come fa la madre di Soile, che sacrifica l’insetto mutilato dandolo in pasto al grosso ragno che alleva in casa in un terrario. Fuor di metafora, il piccolo protagonista sperimenta la perdita irreparabile della sua capacità di vedere quando proprio davanti al bloc dove abita viene costruito un enorme falansterio, che gli toglie la vista a perdita d’occhio della città, che egli amava guardare per ore prima di addormentarsi.
Chi è arrivato a due terzi della trilogia di “Abbacinante” ha ormai preso confidenza con la prosa delirante di Cartarescu, in cui le storie si succedono vorticosamente e in modo apparentemente poco plausibile (si pensi all’avventuroso viaggio del piccolo Maarten verso il lontano, fantomatico vascello imprigionato dai ghiacci, attraverso lande immense e desolate percorse con infantile intrepidezza coi suoi pattini, viaggio che si trasforma in un’esperienza soprannaturale, in cui la sua esistenza trascorre nell’arco di poche ore fino ad approdare ad una sorta di mondo infero, dantesco, dove egli assiste alla propria morte e resurrezione; o ancora alla setta degli Illuminati, che di giorno si mimetizza nei tanti uomini-statua che attirano la curiosità dei turisti di Amsterdam). In questa vertigine, in cui una donna può entrare in una casa nella periferia di Bucarest ed uscirne nel pieno centro di Amsterdam, e in cui l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si mescolano e si confondono (come quando l’”occhio” dello scrittore si allarga dal corpo senza vita di Vasile per innalzarsi, come un prodigioso dolly cinematografico, a inquadrare la stanza, il cortile, il quartiere, la città, e piano piano, in uno strepitoso movimento progressivo di allontanamento, i Balcani, l’Europa, il pianeta intero, e via via il sistema solare e le galassie, fino a mettere a fuoco una figura che assume infine i contorni della zampa pluriarticolata di un insetto!), in questa vertigine il lettore rimane stregato, irresistibilmente invischiato come una mosca in una ragnatela. “Il corpo” è sicuramente un libro interlocutorio: non c’è più la sconvolgente sorpresa provata al cospetto del primo volume della trilogia, che era qualcosa di inaudito, di mai letto prima; inoltre i tanti fili disseminati da Cartarescu non convergono ancora (sebbene alcuni personaggi, come il nero Cedric o la prostituta Coca, riemergano a sorpresa da “L’ala sinistra”, e nonostante l’episodio dell’uomo-serpente, in cui il piccolo Mircea, ipnotizzato dall’illusionista, rivive nel subconscio la propria nascita, sembri il perfetto contraltare della cerimonia iniziatica di Fra’ Armando con cui si era concluso il libro precedente), non convergono ancora – dicevo – verso una fine univoca e coerente, la quale ancora non si riesce a intravedere nella nebbia evanescente dei deliri e delle allucinazioni dell’autore; eppure non si può non riconoscere che si tratta pur sempre di un Cartarescu in purezza, un prezioso distillato che la sua sopraffina arte ha faticosamente secreto per consegnare alla letteratura (parafrasando la “Smisurata preghiera” di De André) “una goccia di splendore, di umanità, di verità”.
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Esercito di Liberazione del Pianeta
Galline e maiali liberati sulle autostrade. Mucche lasciate a pascolare in piazza delle Erbe. Folle di giovani che manifestano pacificamente per la salvaguardia del pianeta.
Persino un nuovo saluto, con quattro dita davanti al viso a simboleggiare i quattro elementi e dimostrare la propria simpatia al movimento.
In Italia sono sempre più numerosi i sostenitori dell'ELP - Esercito di Liberazione del Pianeta - che portano avanti una politica anche violenta, sicuramente illegale, ma senza danni alle persone, con il solo scopo di muovere istituzioni e coscienze verso la propria causa.
Una causa, in fondo, giusta.
Ma un poliziotto è chiamato a far rispettare la legge sempre, senza poterla filtrare attraverso il proprio concetto di giusto e sbagliato. Non si può picchiare un uomo, anche se maltratta sua moglie ogni giorno. Non si può rubare, anche se prendere soldi a dei trafficanti di droga per darli a un poveraccio sembra un'azione degna di Robin Hood. Non si può proteggere l'ELP, anche se forse qualcuno sta utilizzando il movimento ecologista per nascondere i propri biechi intrighi.
E se quel poliziotto è Rocco Schiavone, uno sbirro che da sempre si muove ai limiti della legalità, anzi a volte proprio nell'illegalità?
Allora la storia potrebbe avere risvolti inattesi.
Il romanzo offre una narrazione assai complessa dove numerosi episodi criminali si muovono proprio sulla linea di confine tra giusto e sbagliato, proponendoci interessanti spunti di riflessione ma, soprattutto, regalandoci un racconto di ampio respiro. Con tocco leggero e tagliente ironia, punteggiando le pagine di battute irriverenti e momenti tragicomici, Antonio Manzini disegna sulle pagine i cambiamenti e le contraddizioni della società di oggi, dando vita a personaggi veri, alle prese con le paure, le solitudini e le domande di tutti noi. Quando lo specchio restituisce rughe e capelli diradati, è inevitabile interrogarsi sul tempo che passa, sulla vita che ci si è limitati a guardare, sulle barriere che si sono costruite, sulle battaglie perse, chiedendosi infine se si abbia ancora la voglia di ritentare. ELP è sicuramente un libro di bilanci, malinconie e inganni, capace di parlare davvero a tutti, e per questo è, a mio parere, uno dei romanzi più riusciti di questi dieci anni di una serie "di genere" che ha saputo nel tempo rinnovarsi ed elevarsi.
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Tre investigatori per ogni mistero, di media
Dove trovare rifugio dopo un libro farcito di personaggi orribili e psicodrammi assortiti? per me la risposta non può che essere un romanzo della cara Agatha, in cui generalmente imperano i buoni sentimenti, nonostante non manchino mai disgrazie e delitti di ogni tipo. In realtà ero un po' titubante su "Il segreto di Chimneys", perché temevo si sarebbe rivelata una storia di spionaggio simile a "L'uomo vestito di marrone", che non mi era piaciuto particolarmente; in realtà la spy story qui fa sono da introduzione a quello che è il cuore del romanzo, ossia un murder mystery nella miglior tradizione christieana.
La storia si apre in Sudafrica dove la guida turistica Anthony Cade viene incaricato dal suo vecchio amico James "Jimmy" McGrath di consegnare un misterioso manoscritto ad una casa editrice londinese, in cambio di un sostanzioso compenso; una volta arrivato in Inghilterra, l'uomo scopre che molte persone desiderano appropriarsi di questo documento -con mezzi più o meno leciti- e questo lo porta ad essere coinvolto nell'intrigo diplomatico che ha come sfondo la sontuosa magione di Chimneys, dimora di Lord Caterham in cui sta per avere luogo un incontro dal quale dipendono le sorti del fittizio Stato balcanico della Herzoslovacchia.
Come accennato, dopo una corposa prima parte nella quale vengono introdotti i tanti personaggi ed il lettore ha tempo per familiarizzare con la situazione politica e la storia recente herzoslovacca, il volume vira in modo netto verso il giallo classico. Se da un lato questo cambio di rotta ha fatto impennare il mio apprezzamento per il romanzo, dall'altro leggere una sinossi nella quale esso viene presentato come si trattasse dello spunto iniziale -dal quale si svilupperà poi l'intera storia- potrebbe lasciare interdetti: si rischia di essere non poco confusi quando, per i primi dieci capitoli, del fantomatico nobile balcanico ucciso non c'è neppure l'ombra.
A parte una sinossi che anticipa più di quanto dovrebbe, il romanzo soffre di un altro paio di difetti: nulla di grave, ma credo valga la pena nominarli. Il primo è la presenza di troppi POV, che si aggiungono a quello iniziale di Anthony; questa scelta a mio avviso crea dei problemi specialmente andando avanti nella narrazione, perché in pratica ogni personaggio tenta di risolvere qualche mistero, generando così più confusione che risposte effettive. Abbiamo poi una rappresentazione non particolarmente felice di alcune popolazioni, che i protagonisti britannici descrivono con un misto di condiscendenza e luoghi comuni ormai superati; Christie non ci risparmia neppure un velatissimo endorsement al colonialismo e alla monarchia, qui contrapposta alla fallace democrazia post-rivoluzionaria. Se penso poi alla mia edizione nello specifico, potrei opinare anche su una traduzione che arranca in più punti, ma sono certa che dagli anni novanta ad oggi questo problema sia stato tranquillamente risolto.
Tutte queste problematiche sono però marginali, e si accantonano facilmente di fronte ad un mistero orchestrato in modo geniale, che riesce a tenere il lettore incollato fino all'ultima pagina con la curiosità di vedere al loro posto tutti i tasselli del puzzle. Personalmente ho poi apprezzato i caratteri dei personaggi principali: non solo Anthony, ma anche Virginia e Battle -figura ricorrente in altri romanzi dell'autrice-, che riescono a dimostrarsi brillanti e al contempo spiritosi. Mi sono divertita molto a seguire sia loro che i tanti comprimari, tra i quali spicca il povero Lord Caterham, sempre più disperato per le disgrazie accadute sotto il suo tetto e prontissimo a partire per una vacanza appena tutto si sarà risolto. Come lo capisco!
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Corpi.
«Non sapeva che non era dall’oscurità che avrebbe dovuto proteggermi, ma dalla luce.»
Non ha nome la giovane donna che conosciamo tra le pagine de “La valle dei fiori”. Sappiamo che è sempre stata una diversa, che ama le donne, che il suo corpo la mette a disagio perché troppo grosso, che la sua pelle è troppo scura, che la sua famiglia la opprime in un profondo e costante senso di inadeguatezza diffuso, sappiamo anche che vive a Nuuk, capitale della Groenlandia, ma non conosciamo il suo nome. Già questo è un dato importante per la narrazione perché ci fa subito arrivare alla mente un dato di grande e profonda importanza: la giovane donna protagonista di questo luogo non ha una sua identità riconosciuta.
Vive tra ricordi del passato e una dimensione del circostante che non le appartiene. Sta per partire per la Danimarca, luogo che a sua volta è noto per essere trampolino di lancio di molti studenti promettenti e di sinonimo di nuovi inizi. Questo vale anche per lei, tutti sono convinti che stia per prendere il volo per iniziare un percorso di vita fatto di successi e traguardi raggiunti. Ma non è così, per lei. La sua “tana” è l’unico luogo in cui riesce a vivere, le lezioni sono un qualcosa che acuisce il suo sentirsi fuori luogo, i compagni non capisco il suo senso dell’umorismo, il suo sarcasmo, lei non riesce a comprendere i loro usi e costumi, sa di essere diversa da loro, sa di non essere da loro accettata. Quello che dovrebbe essere per lei il trampolino di lancio è in realtà il baratro che silente l’attende. Anche il legame con la sua fidanzata Maliina risulterà non sufficiente a invertire una rotta destinata al naufragio.
«Voliamo in un caos ardente che tenta di penetrare attraverso le tende nere, ma noi siamo al sicuro, intoccabili. L’afferro da dietro mentre mi passa accanto e crolliamo a terra. La guardo in silenzio, vola via con me.»
È una narrazione forte e intimistica quella della protagonista de “La valle dei fiori”, giovane donna che entra subito in simbiosi con il lettore suscitando in lui un profondo senso di vertigine e anche di empatia. Perché il lettore va avanti tra queste pagine, si sente parte, si sente complice, sa di essere accanto a questa antieroina che non riesce a trovare una strada per accettare se stessa e il suo corpo.
Corpi. Corpi imperfetti, corpi fatti di difetti. Corpi che vivono e che abitano le nostre vite e ci presentano a un mondo che spesso non ci accetta per ciò che siamo pretendendo da noi sempre e sempre di più. Estremamente interessante anche la struttura del testo con capitoli in discesa.
Niviaq Korneliussen ha anche un altro grande merito e cioè quello di donare al suo lettore non solo uno scritto vivido quanto anche un testo di denuncia di una realtà sconosciuta. Eh sì, perché il più alto tasso di suicidi al mondo è proprio in Groenlandia e le causa di questo si attesta su ragioni molteplici ed eterogenee ma anche inspiegabili. Non esiste cioè una motivazione unica per un dato concreto che si manifesta senza sosta. Solo negli ultimi anni questo si è palesato nella percentuale dell’8% sulla popolazione groenlandese e colpendo in particolare la fascia 14/25 anni.
Non mi stupisco della scelta di Iperborea; non poteva esistere testo più adatto alla tematica dei corpi de “La valle dei fiori”. Un libro da leggere e se ancora non lo avete letto, non aspettate oltre.
«Eri una bomba a orologeria. Era come se stessero semplicemente aspettando che riuscissi nel tuo intento. Non potevi essere salvato, né potevi salvare te stesso, dato che nessuno credeva che ci saresti riuscito.»
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Tosto, coinvolgente & romantico
È il secondo volume della saga “Shadowhunters”, pubblicato circa quindici anni fa e tra gli amanti del fantasy forse solo io me l’ero perso finora ???? insieme al resto della serie. Ho letto il primo a luglio e mi è piaciuto molto, ed ho apprezzato anche questo, nonostante sia più tosto, nel senso che è un po’ crudo in alcune parti, ma all’interno del contesto fantasy il lettore non si scompone troppo, solo quando sopraggiunge il dramma allora il lettore si scompone un po’ perché affezionato ai personaggi…
Le scene di azione e le soluzioni fantastiche escogitate dall’autrice ti catturano molto, portandoti in un mondo altro in cui ti immergi piacevolmente.
È proprio coinvolgente per l’azione e non solo, lo consiglio dopo aver letto il primo, c’è sempre la tensione amorosa irrisolta e anche questo crea suspense.
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Febbrile
Confesso che per le prime trenta pagine sono stata preda di dubbi e esitazioni. Ho persino appoggiato il volume da parte e ho letto nel frattempo un paio di altri libri. Poi l’ho ripreso in mano e non mi sono più fermata. Ottocentiventicinque pagine, dal 23 marzo 1919 al 3 gennaio 1925.
Ogni capitolo - composto da non molte pagine – inizia con l’indicazione di una data, un luogo e un personaggio e termina con brevi ritagli o citazioni di articoli di giornale, di brani di discorsi, di telegrammi, lettere o comunicati.
Ogni parola riportata, ogni dialogo proviene da fonti storiche, eppure si legge come un romanzo.
I ricordi del liceo su quegli anni ammontano a pochi elementi: il ritorno degli Arditi dalla Grande Guerra, il biennio rosso, la reazioni degli “agrari”, la marcia su Roma, il delitto Matteotti. Il libro di Scurati ci conduce tra questi avvenimenti storici- senza dimenticare l’occupazione di Fiume-ricostruendo le dinamiche, le relazioni, i personaggi, le forze in campo, tenendo al centro Mussolini, che come un magnete funge da calamita nello spazio attorno a sé.
Impariamo a conoscere – tra gli altri- Margherita Sarfatti, Gabriele D’Annunzio, Nicola Bombacci, Italo Balbo, Giovanni Giolitti, Giacomo Matteotti, tratteggiati con grande perizia.
Il testo ci accompagna nel percorso di affermazione del Fascismo in Italia, con un ritmo all’inizio lento e poi via via più intenso e febbrile mano a mano che ci avviciniamo al culmine drammatico dell’omicidio di Giacomo Matteotti.
La violenza permea di sé l’intero libro, che ci mostra anche i momenti in cui la Storia avrebbe potuto prendere una svolta diversa sia per i capricci del caso sia per l’iniziativa di altri uomini che non hanno saputo sfruttare alcune finestre di opportunità.
Di alcune specifiche imprecisioni storiche e di un editing carente rilevati da Ernesto Galli della Loggia ha dato conto il Corriere della Sera. Per quanto mi riguarda posso dire di aver rilevato a pagina 287 la cottura a Ferrara due giorni prima di Natale del cappon magro, che è una preparazione di pesce della tradizione ligure pasquale. Si intuisce che si tratta di un semplice brodo di cappone, ma anche questo piccolo errore conferma che l’editing non è stato accurato.
Questo non togli che si tratti di uno dei migliori libri usciti negli ultimi anni.
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Ironia e ambiguità
Condivido molti dei commenti già espressi nelle recensioni qui pubblicate e per evitare di ripetere osservazioni similari, vorrei concentrarmi sul quello che – a mio parere- è il tema di fondo dell’ultima opera di Franzen, il quale, è utile ricordare, nel presentarla ha affermato che non si tratterebbe di un romanzo singolo, ma del primo volume di una futura trilogia.
Il tema di fondo si presenta come una disamina appassionata della irriducibile complessità della vita etica, cioè delle scelte morali a cui quotidianamente ciascun essere umano è messo di fronte, delle loro motivazioni, della loro ambiguità e delle loro conseguenze.
La prima chiave di interpretazione è suggerita dall’autore a poche pagine dall’inizio (pag. 15) quando fa raccontare al reverendo Russ Hildebrand che il nome Crossroads - del titolo, ma anche del gruppo giovanile parrocchiale, di cui fanno parte tre dei protagonisti - non derivi dalla omonima canzone dei Cream, ma da Cross Road Blues del famoso musicista nero degli anni ’30 Robert Johnson.
Il romanzo non cita la leggenda di come il giovane Johnson avesse incontrato il diavolo in una notte senza luna ad un crocevia nel delta del Mississippi e avesse ceduto la sua anima in cambio di una maestria senza pari nel suonare la chitarra, ma a me pare che il vero tema dell’opera siano i continui crocevia etici, cui i protagonisti si trovano di fronte e le decisioni che vengono prese di fronte ad esse. La stessa canzone ritorna, ad esempio, a pag. 416 quando fa da sottofondo musicale al momento in cui il reverendo viene convinto da una piacente parrocchiana a sperimentare uno spinello e viene tentato dal peccato di adulterio, cui riesce momentaneamente a sottrarsi.
Le contraddizioni e l’ambiguità delle scelte etiche sono il filo rosso del romanzo e il richiamo ai diversi gruppi religiosi cui i protagonisti appartengono o in cui si imbattono ( ebrei, cattolici, mennoniti, battisti, luterani, navajo) è un modo per mettere in luce l’ inalterabilità del tema nell’ambito della psicologia umana, pur nella variabilità dei diversi approcci religiosi.
Franzen, nel mostrarci i suoi personaggi, scava nelle motivazioni di ciascuno per mostrare i tanti momenti in cui essi prendono decisioni moralmente giuste per ragioni sbagliate o decisioni moralmente scorrette seguendo una linea di ragionamento apparentemente condivisibile.
E’ quindi vero che nel romanzo vengono toccati molti temi: il femminismo, la droga, la guerra del Vietnam, in modo particolare la malattia psichiatrica sotto forma di disturbo bipolare (all’epoca chiamata sindrome maniaco- depressiva) che affligge uno dei figli del reverendo Hildebrand, la moglie e il padre di questa, ma nessuno di essi diventa predominante.
I giovani protagonisti si chiedono se sia maggiormente etico mostrare pacifismo sottraendosi alla chiamata alla leva in Vietnam frequentando il college e lasciare che un giovane di famiglia meno abbiente prenda il tuo posto nella “lotteria” della chiamata alle armi o rinunciare all’esenzione per motivi di studio e andare a combattere e si chiedono anche se sia moralmente più giusto preservare la propria virginità e peccare di orgoglio o mostrare umiltà e cedere al richiamo del sesso.
Franzen ci racconta tutto questo uno sguardo ricco di ironia e con un uso magistrale del discorso libero indiretto, che rende la lettura un puro godimento.
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Paul Auster

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UMANITÀ IN GUERRA
La guerra civile spagnola raccontata da Perez - Reverte. La penna del fine narratore si mescola a quella del reporter di guerra che è stato.
Un concatenarsi di eventi per raccontare i giorni dannati della battaglia sull’ Ebro. Un susseguirsi di battaglie senza soluzione di continuità viste alternativamente da una compagine e dall’ altra in un’ escalation di cruenta tragicità resa consuetudine e quotidianità mortifera strabordante di sofferenze fisiche e mentali.
Ciò che emerge sempre, tra bene e male sempre labili ed assoggettati alla contingenza e brutalità degli eventi, è l’ umanità dei personaggi, spesso ovviamente celata dalla violenza, di egual portata, tra nazionalisti e repubblicani.
Si fondono così le vicende dei protagonisti che innanzitutto sono uomini e donne prima che soldati. Ognuno animato dai sentimenti più disparati ed infine accumunato da tutto ciò che la guerra non fa che sottrarre ad ognuno.
L’assurdità della guerra che maschera solo in parte, con ideali e slogan, l’inumanità e brutalità del solo concepirla. Inumanità che apre la strada proprio a quell’ umanità intrinseca ed inscritta in ogni uomo, ignorante o dotto che sia, che tra le privazioni e lo schifo dilagante impressiona per sincerità ed umana misericordia e che ha per contrappunto la violenza cieca e la rabbia che solo una guerra fratricida può svelare.
Amalgama resa meravigliosamente coesa da una scrittura pulita e coinvolgente che fa del realismo il ponte di congiunzione tra i protagonisti ed il lettore che può così sentirsi lurido e sporco come un soldato piuttosto che attanagliato dalla paura o dalla responsabilità degli ufficiali o dal senso di orgoglio di coloro che combattono per un ideale.
La morale è tanto semplice quanto vera, non esistono vincitori, non ci sono mai. E la rassegnazione finale sembra l’unico compromesso possibile.
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Femminismo in cucina e molto altro
Ho cercato recensioni illustri in rete, ma non le ho trovate. Immagino quindi che questo romanzo sia trattato un po' da romanzo rosa e con un po' di puzza sotto al naso. Potrei sbagliarmi ma trovo che sia un libro da regalare alle/agli adolescenti, un libro da assegnare a scuola, oltre che lettura divertentissima per tutti. Nella sua "leggerezza" appassiona dalle prime pagine e travolge, proseguendo nelle sue cinquecento pagine. Quindi un buon incentivo alla lettura per i ragazzi e in generale.
Qui si mette in discussione tutto, la famiglia tradizionale, la scuola, l'educazione, la fede, si rovescia persino il determinismo che sentenzia che a famiglia disfunzionale segua famiglia disfunzionale.
Siamo negli Stati Uniti, anni 50, periodo emblematico per le donne, per le quali la società patriarcale stava disegnando un ruolo non solo sempre e comunque subalterno, ma ridotto ad icona di brava perfetta mogliettina adornata di fili di perle, tendine di pizzo e ripiani di formica nelle cucine.
Elizabeth è una scienziata, ragazza madre di figlia "illegittima" (genio) con cane (genio) al seguito. I personaggi geniali hanno il compito di osservare la realtà con occhi innocenti e rivelarla grottesca, un escamotage per rimanere dentro il racconto senza risultare troppo didascalici.
Il fatto che Elizabeth si ritrovi in televisione a condurre una trasmissione di cucina è del tutto casuale ma necessario alla sopravvivenza. Quello che la protagonista - scienziata, chimica, e in quanto donna, - silurata dalla ricerca sull'abiogenesi- riuscirà a fare di quella trasmissione di intrattenimento per brave mogliettine è il fulcro di tutta la storia.
La cucina smette di essere il luogo con tendine di pizzo e ninnoli di ogni genere, regno indiscusso delle brave mogli votate al sacrificio, ma diventa il luogo in cui la chimica oganica, spiegando i processi di trasformazione, osmosi, di atomi e molecole, non solo trasforma il cibo in nutrimento, che è molto di più del semplice riempire lo stomaco, ma rende il pubblico femminile consapevole delle loro capacità del loro potere e del pezzo di mondo a cui non hanno accesso.
Roba degli anni 50? No no care, siamo ancora indietro un bel po'. Se ci pensate, siamo ancora quote rosa.
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Povero Pirandello
Perché Pirandello ebbe bisogno di scrivere questo scomodo romanzo, apparso per i tipi Quattrini di Firenze, nel 1911? Perché cercò di coinvolgere anche Ugo Ojetti in questa operazione antipatica dedicandogli il libro? Perché non si fermò nemmeno di fronte al rifiuto di Treves che cercava di fargli capire come fosse poco opportuno pubblicare un romanzo che alludeva, nella figura del marito, a Palmiro Madesani, consorte-manager di Grazia Deledda? Perché, ancora, di fronte al rifiuto del Treves, divenne ancora più paranoico nei riguardi della scrittrice sarda, pensando che cercasse di boicotarlo? Gli epistolari rimandano a questi fatti, tacciono però i moventi.
Si potrebbe pensare che Pirandello fosse geloso della fama della Deledda, che vedesse in Madesani una figura insulsa, negli ambienti letterari della Roma di inizio Novecento non era certo l’unico a pensarla così, o che semplicemente nello sfogare un sentimento comprensibile perse la bussola, rendendosi conto forse troppo tardi del fatto che sarebbe potuto risultare molto antipatico o che avrebbe potuto ferire gli interessati. Fatto sta che non permise una seconda ristampa e che, se la morte non lo avesse colto appena quattro mesi dopo quella della Deledda, forse le sue carte avrebbero restituito più del tentativo di rifacimento al quale stava lavorando e che aveva come nuovo titolo “Giustino Roncella nato Boggiòlo”.
Perché leggerlo allora se lo stesso Pirandello forse lo misconosceva? Semplice, è finemente e puramente pirandelliano e se riusciamo a trascendere dal pretesto compositivo, perdonando questo limite tutto umano, abbiamo modo di godere di uno dei suoi migliori drammi.
Silvia Roncella, scrittrice agli esordi, schiva e trapiantata a Roma dalla natia Taranto, è sposata con Giustino Boggiòlo che da modesto impiegato si trasforma nel suo agente letterario mentre lei non tiene il passo a una società modaiola, frivola, pressante, che sente molto distante da sé. Ben presto il marito non percepisce più le esigenze della moglie e la trasforma in una macchina produttrice di soldi mentre la donna matura in sé un sentimento di totale estraneità nei suoi confronti. Il successo del suo primo dramma “La nuova colonia” ( sarà poi il titolo di un’opera pirandelliana) coincide con il suo travagliato primo parto che la mette in pericolo di vita mentre il marito è a teatro a godere il successo di tanto lavoro. La frattura di Silvia Roncella dalla vita e dal marito diventa definitiva, cessa di scrivere, non si cura del figlioletto, fino a quando non escogita una via di fuga da questa prigione e matura un necessario affrancamento.
All’interno della narrazione principale la coppia Madesani-Deledda è riconoscibile ma non si può certo dire che la loro traiettoria di vita abbia avuto punti di contatto con questo tipico dramma pirandelliano nel quale sottotraccia, in una narrazione secondaria, è nascosto il dolore di Pirandello uomo e marito, penosamente afflitto dalla malattia mentale della moglie Antonietta Portulano. Non solo, è palese che la prospettiva assunta dalla voce narrante sia benevola nei confronti della donna vittima del marito e delle sue mire, tutto è raccontato secondo la sua prospettiva con partecipazione viva e sentita del suo disagio psicologico. Chi, meglio di lui, d’altronde? Si può dunque perdonare a Pirandello questo scritto? Lascio al lettore la decisione, intanto ne consiglio la lettura.
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Imperfetta perfezione
Arrivata all'ultimo capitolo della trilogia d'esordio di Green mi trovo ancora una volta a mangiarmi virtualmente le mani: perché ho aspettato così tanto per recuperare questa serie? In realtà una risposta c’è, ed è anche razionale a suo modo: mi è capitato di leggere tanti libri per ragazzi usciti nello stesso periodo che mi hanno spesso delusa per mancanza di originalità. La cara Sally invece è riuscita a stupirmi, ed è questo il motivo principale per cui sono convinta che -a prescindere dai suoi difetti- The Half Bad Trilogy mi rimarrà nel cuore.
In "Half Lost" la narrazione ruota ancora una volta attorno alla guerra tra il dispotico Consiglio degli Incanti Bianchi e l'Alleanza degli Incanti Liberi, notevolmente indebolita dopo la Battaglia di Bialowieza. Dopo varie missioni in solitaria, volte più a ritrovare Annalise che a colpire i Cacciatori, Nathan capisce di dover ottenere un maggiore vantaggio se vuole sgominare una volta per tutte il regime di Soul O'Brien; parte da questa premessa l'ennesima quest che porterà il protagonista e Gabriel oltreoceano in cerca del cosiddetto amuleto vardiano, teoricamente capace di rendere chi lo possiede invincibile.
Com'era prevedibile, punti forti e difetti non cambiano molto in questo ultimo volume, e questo vi farà forse intuire che la mia valutazione è dettata più dalle emozioni che dal contenuto effettivo. Come nei due romanzi precedenti abbiamo infatti un world building volutamente lacunoso, che non viene approfondito neppure quando si parla di come rivoluzionare il governo degli Incanti o nel momento in cui i personaggi devono incontrare Incanti provenienti da altri Paesi. Anche l'intreccio non diventa particolarmente complesso, anzi: alcuni elementi vengono ripescati dai volumi precedenti per ottenere in modo un po' conveniente una nuova funzione; bisogna però ammettere che nel finale si percepisce un bel senso di chiusura per diversi personaggi (tra cui Annalise, in un modo abbastanza inaspettato), segno che il protagonista non è il solo ad essere cresciuto durante la trilogia.
Non c'è dubbio però che Nathan sia il cuore pulsante della storia, e con quest'ultimo volume è riuscito ancora una volta a farmi ridere di gusto alle sue battute sarcastiche, ma anche commuovere. In particolare, ho adorato i suoi confronti con Arran, Celia e Ledger, oltre a qualunque interazione con Gabriel. Raramente ho trovato in una narrazione rivolta in primis ad un pubblico giovane un protagonista così complesso, forte eppure fragile, e ben consapevole delle sue contraddizioni; a mio avviso pochi comprimari riescono a dimostrarsi alla sua altezza (oltre a quelli già citati, forse solo Van e Nesbitt), e sicuramente nessuno degli antagonisti, che per l'ennesima volta si fanno desiderare in scena per poi consegnare una performance alquanto scadente.
È evidente che non faccio per nulla fatica ad individuare dei difetti in questo romanzo, quindi mi sorge il dubbio di essere stata forse troppo generosa con il mio voto; razionalmente penso di sì, e proprio su questo punto ammetto di essere rimasta per un bel pezzo in ambasce. Però in alcuni casi bisogna premiare in qualche modo il coraggio di un autore a creare una storia diversa dal solito, soprattutto se c'è il rischio che finisca nel dimenticatoio o, peggio, venga adattata in una serie Netflix di discutibile qualità.
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Caccia al fantomatico "M".
Ho letto più che altro per curiosità quest’ultimo thriller di James Patterson. La serie è quella di Alex Cross, il cliché più o meno è sempre lo stesso, il bravo detective contro il cattivone di turno, tanti buoni sentimenti, la consolidata famiglia come rifugio dalle avversità della vita: la vecchissima e arzilla nonna Nana Mama, i figli Alì e Janelle che eccellono nello sport, la seconda moglie Bree, poliziotta, alla quale il protagonista ripete ossessivamente “ti amo” anche durante le più banali telefonate. In questa nuova avventura, però, c’è qualcosa di inconsueto: un incalzare degli eventi più accentuato, senza momenti di stanca, una serie ragguardevole di teste mozzate (con particolari raccapriccianti sulle metodiche di decapitazione) ed un colpo di scena finale che non conclude la storia ma lascia spazi per un nuovo episodio.
La storia inizia con Alex Cross ed il collega Sampson che vanno in un carcere della Virginia, dove sta per essere giustiziato un assassino che strangolava le sue vittime con cravatte alla moda: non vi sono dubbi sulla sua colpevolezza, ma poco dopo ecco un altro delitto che avviene con le stesse modalità e che mette in discussione la precedente esecuzione. Sul luogo de delitto viene anche rinvenuto un’inquietante messaggio firmato “M”, che solleva dubbi sulle responsabilità del condannato appena giustiziato. Chi è questo fantomatico M? Inizia qui il movimentato thriller, la caccia al nuovo assassino, che rievoca episodi di un passato tormentato: Cross teme che M sia quel Kyle Craig che l’aveva perseguitato anni prima, ma la cui morte però era stata confermata dal riesame del cadavere. Potrebbe anche essere un macellaio, che nel passato uccideva e decapitava le sue vittime, oppure , secondo alcuni profilers, un violento imprenditore, ricchissimo, che viveva isolato in una specie di fortino in periferia. Tutte false piste: M continua senza esitazioni a uccidere e decapitare, ingannando la polizia e cercando di incolpare altri con false prove. I messaggi che lascia ad Alex sono inequivocabili: il suo scopo è colpire Alex, iniziando da persone che gli sono più care. Viene infine catturato, ma fugge diabolicamente dall’ospedale ove giace gravemente ferito: il colpo di scena finale lascia il racconto sospeso, un ultimo messaggio del killer, uccel di bosco, ma sempre in prossimità delle sue vittime, mette le basi per un nuovo episodio della serie di Alex Cross.
Tutta la storia è ovviamente molto più complessa di quanto sopra accennato, ha un suo ritmo incalzante, tra teste mozzate e messaggi sempre più allarmanti del fantomatico killer che mettono a dura prova l’abilità investigativa di Cross e dei suoi collaboratori: solo in famiglia il protagonista trova un po’ di quella serenità che tuttavia, negli ultimi capitoli, verrà sconvolta dalle intrusioni del misterioso M.
Lo stile narrativo è il solito: banalmente scorrevole, piatto, senza guizzi o introspezioni psicologiche. Un piccolo passo indietro rispetto a “Beach road” del 2023, dove forse il contributo del coautore Peter De Jonge si era maggiormente imposto.
Comunque, “Nel cerchio del male” resta un buon thriller che non deluderà gli amanti del genere e, soprattutto, i fans di James Patterson.
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Inadeguatamente
Il protagonista è un personaggio dalle tante sfaccettature.
Docente universitario in periodo di riposo, "Herzog viveva solo nella casa grande e antica". "Piante d'acero, carrubi e gramigna dei boschi lo assediavano da ogni parte, in giardino. Di notte, se apriva gli occhi le stelle erano vicinissime" . E scriveva lettere ...
Esaminando se stesso, "ammise di essere stato un cattivo marito: per due volte. (...) Con i suoi due figli (...) era stato un padre affettuoso ma non un buon padre".
Un libro sicuramente di buon livello, tuttavia forse un po' sopravvalutato.
Apparentabile con altre opere dell'autore stesso, coi personaggi maschili spesso inadeguati, dilettanti del vivere, di un certo spessore intellettuale ma emotivamente fragili, alle prese con donne volitive e intelligenti benché un po' svagate, qui mi pare si respiri un senso di fondo drammatico rispetto a, per esempio, "Ne muoiono più di crepacuore", testo non tanto dissimile ma ricco di quel lieve umorismo irresistibile, quella 'leggerezza' calviniana, che Bellow sa talvolta infondere.
Sappiamo comunque che con questo grande scrittore il livello letterario è sempre molto alto e non si corre il rischio di essere lasciati a mani vuote.
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