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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Dicembre, 2023
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Nothing compares 2U

Pubblicato per la prima volta in Italia nel 2021 nella collana I Narratori e nel 2022 nell’Universale Economica di Feltrinelli, Apeirogon, il romanzo di Colum McCann, bellissimo nella sua complessità, affronta il dibattuto e problematico tema del rapporto Palestina-Israele.
Il titolo stesso, Apeirogon, che allude ad un poligono dal numero infinito di lati, ci introduce in un mondo dagli innumerevoli aspetti per lo più in contrasto tra loro. È il mondo di Bassam e Rami, l’uno palestinese, l’altro israeliano, che si trovano accomunati da un dolore immenso generato dalla perdita improvvisa e violenta delle figlie, Abir e Smadar, uccise in due attentati avvenuti in tempi e luoghi diversi. È il dolore per la più grave perdita che l’individuo possa soffrire, un dolore, unica vera espressione di democraticità in quanto può colpire chiunque senza distinzione di origine, di sesso, di ceto o di colore, che dà la forza di superare l’istante dell’odio e della ribellione, per unificare gli animi, invece di dividerli, per operare nell’interesse del resto della società perché casi simili non si ripetano. Ciò significa perseguire un ideale di pace così difficile da realizzare, soprattutto per l’ignavia e gli egoismi della politica. Risulta evidente, dalle pagine di questo romanzo, come vittime non siano solo coloro che cadono sotto i colpi delle armi, ma vittime altrettanto degne di pietà sono coloro che restano, lasciati soli nella loro sofferenza.
Emerge, in quest’opera, tutta la storia della nascita dello stato di Israele e dell’inevitabile contrasto con il popolo palestinese, senza, tuttavia, che l’autore faccia di essa un romanzo storico. È così, certamente, che la narrazione acquisisce maggiore spessore.
Un testo ricco di metafore, in cui traspare tutta la grande eredità della migliore letteratura irlandese, da Sterne, a Swift, a Joyce, con l’inserimento di innumerevoli digressioni e paragrafi bianchi. Non a caso la stessa struttura del libro è estremamente originale: diviso in due parti, ciascuna composta da capitoli, che a volte si riducono a brevi paragrafi, dalla numerazione crescente nella prima parte, decrescente nella seconda. Dal numero uno si inizia, col numero uno si conclude. Tutto ciò si spiega con quella affermazione apparentemente ermetica: “Se dividi la morte per la vita troverai un cerchio”. Il cerchio, la figura geometrica perfetta, dove l’inizio della circonferenza si conclude con la sua fine, in un congiungimento ideale di vita e morte, dove tutti gli innumerevoli lati dell’apeirogon si appiattiscono in quella linea che formerà infine la circonferenza del cerchio.
E ancora le digressioni, così care a Sterne e allo stesso Joyce, sono parte importante della narrazione, perché la vita non ha un solo tema. È questo il motivo per cui Le mille e una notte, un testo così importante sia per la cultura araba, come ormai anche per quella occidentale, torna tanto spesso nel racconto.
Non meno colpisce come il leitmotif del romanzo sia “Nothing compares 2U” scritta da Prince, ma resa immortale dalla voce e dall’interpretazione di Sinead O’Connor, anche lei irlandese, anche lei devastata dalla morte del figlio diciasettenne. Una interpretazione che è un vero urlo di dolore.
Un romanzo da leggere, sia per la sua struttura originale, ma soprattutto perché ogni parola fa riflettere su quanto sia difficile costruire la pace, quanto più coraggio ci voglia a mantenerla di quanto ce ne voglia ad imbracciare le armi

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    01 Dicembre, 2023
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Senso della vita cercasi

In un'editoria sempre più settoriale e specialistica è insolito imbattersi in un titolo che travalichi i limiti del target, intrecciando una storia adatta un po' a tutti perché capace di ispirare delle riflessioni negli adulti come nei ragazzi coetanei dei protagonisti. Teller però è riuscita in questa impresa, e l'ha fatto con una novella dalla prosa brillante e ricca di spunti; perché seppur "Niente" si possa leggere nell'arco di poche ore, è anche vero che veicola delle idee affatto scontate e riesce a creare un'atmosfera in trasformazione, spensierata nella prima pagina e a dir poco disturbante nell'ultima.

La narrazione si apre sul primo giorno di scuola nella cittadina danese immaginaria di Tæring, quando lo studente Pierre Anthon ha una desolante epifania: la vita non ha veramente un senso, ma è soltanto una pantomima che distrae le persone dal nulla in cui presto scivoleranno. Il ragazzo comincia pertanto a passare le sue giornate su un susino, da dove deride i suoi ex compagni che ancora perdono tempo sui libri; a questo punto gli altri studenti decidono di dimostrare il suo errore, iniziando a costruire una catasta con tutto ciò che per loro ha un significato. Non si tratta però di contributi spontanei: pian piano questo progetto diventa una scusa per costringere gli altri a cedere quanto hanno di più caro, e il tutto degenera fin troppo velocemente.

Questa rapidità eccessiva è forse uno degli aspetti che meno mi hanno convinto nella lettura. È anche vero che, se la cara Janne si fosse presa più tempo per sviluppare la storia, probabilmente il risultato sarebbe stato fin troppo bizzarro ed inverosimile: questo testo richiede già una corposa dose di sospensione dell'incredulità, soprattutto per la totale mancanza di controllo da parte delle famiglie dei protagonisti, visto che la vicenda è ambientata nei primi anni Novanta e non secoli fa.

L'altra mancanza più palese del testo è rappresentata dalla caratterizzazione dei personaggi, che risultano quasi indistinguibili gli uni dagli altri. Neppure la narratrice Agnes dimostra una vera personalità oltre al desiderio di vendetta verso la compagna che la obbliga a cedere i suoi sandali nuovi; volontà di ferire il prossimo che in questo insolito contesto la accomuna al resto del gruppo anziché renderla speciale. La sola cosa che permette di identificare i vari studenti è la ripetizione ossessiva di soprannomi e caratteristiche fisiche, perché anche nelle reazioni praticamente tutti mostrano una terribile assenza di empatia e solidarietà reciproca.

Pur celando una storia ben più spaventosa di quanto ci si potrebbe aspettare, questo volume ha molti punti a suo favore, tra i quali mi azzarderei ad includere anche il coraggio di mostrare dei personaggi così giovani prendere decisioni tanto crudeli, con la consapevolezza di danneggiarsi a vicenda in questo modo. Mi è piaciuto come l'autrice abbia saputo delineare una storia in aperto contrasto con il mito dell'innocenza infantile, riuscendo comunque ad essere credibile.

Ho trovato poi interessante leggere del modo in cui i ragazzi reagivano alle provocazioni di Pierre Anthon; dopo le sassate iniziali, pensano subito ad utilizzare degli oggetti per provargli l'esistenza del senso della vita, mentre un adulto avrebbe probabilmente tentato di ribattere sul piano concettuale. Promuovo senza dubbio anche la prosa di Teller: asciutta eppure evocativa e d'impatto, ottima per rendere sia la spietatezza dei protagonisti che la rapidità con cui la sfida sfugge loro di mano. E questa sensazione di ineluttabilità arriva chiara e forte al lettore, che non può far altro se non assistere mentre Agnes si aggrega di buon grado alla follia collettiva.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    30 Novembre, 2023
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Santa Rosalia, patrona di Palermo.

L’autrice ci conduce con questo nuovo romanzo in una Palermo seicentesca, una città già allora ricca di imponenti palazzi e di folklore, tanto da mandare in estasi un celebre visitatore, il pittore Anton Van Dyck che, appena sbarcato, ebbe a dire che “ non si poteva spiegare Palermo proprio come non si poteva spiegare Dio”. La storia inizia intorno al 1615, in un momento storico particolare: il Regno di Sicilia era dominato dagli spagnoli, la Compagnia di Gesù si stava sempre più affermando alla corte di Spagna ed in Europa, mentre la riforma protestante dilagava dalla Germania e la peste, che metterà in ginocchio Palermo dieci anni, più tardi, dava i primi allarmanti segnali. A Palermo vive una ragazza povera ma dal cuore puro, Vincenza, detta Viciuzza, figlia di una prostituta: ha un’unica amica, Rosalia, povera come lei, benvoluta da tutti, che, saltuariamente, le fa compagnia, la consola e rappresenta la Santuzza che i palermitani invocano nei momenti di pericolo. Viciuzza viene stuprata da un bruto, amico della madre, è cacciata da casa, dà alla luce una bimba, Liuzza, e viene accolta in un ex convento dove incontra un personaggio chiave del racconto, don Cascini, padre provinciale dei Gesuiti. Costui, pur avendo un carattere burbero e scostante, prende le due poverette sotto la sua protezione. Padre Cascini viaggia molto ed ha l’opportunità di conoscere Suor Maria, una giovane alla quale, nel corso di alcune estasi soprannaturali, appare la Madonna che racconta la storia, risalente a mezzo secolo prima, di una verginella, Rosalia, destinata a nozze principesche: la rinuncia e la consacrazione a Gesù indurranno la giovane a scegliere il romitaggio, isolata in un bosco. Palermo non ha una vera e propria Santa protettrice, ma quattro patrone poco amate dal popolo: ecco allora farsi strada in padre Cascini l’idea (anzi, l’ideuzza!) di promuovere passo dopo passo Rosalia ad unica patrona della città. Intanto la sepoltura della romita Rosalia è stata trovata sul Monte Pellegrino, Vincenza e Liuzza sono cresciute ed affidate alle cure di una famosa pittrice, Sofonisba Anguissola, mentre padre Cascini, nel corso dei suoi viaggi in Europa, ha modo di conoscere Rubens ed il suo migliore allievo, Anton Van Dyck, che invita a Palermo con il pretesto di un ritratto al viceré Emanuele Filiberto di Savoia, ma con l’intenzione di preparare un quadro con l’effigie di Rosalia.
Naturalmente tutta la storia è più complessa, le vicende dei singoli personaggi si intrecciano, la peste arriverà a sconvolgere la città ed i suoi abitanti, mentre padre Cascini, nonostante la salute malferma, riuscirà a portare a termine una sua opera fondamentale, la “Storia di Santa Rosalia, vergine palermitana”. Sarà organizzata, imposta da Vincenza e dalle donne di Palermo, una sontuosa processione, nonostante gli ostacoli frapposti da un titubante arcivescovo, che porterà per le strade addobbate a festa i resti riesumati della Santa: la peste calerà di intensità, Santa Rosalia sarà la nuova e unica patrona della città.
Giuseppina Torregrossa riesce mirabilmente a narrare una storia, anzi alcuni eventi storici, mettendo assieme personaggi realmente esistiti con personaggi creati per l’occasione, offrendoci un racconto articolato e credibile, dove le vicende di un particolare momento storico, che spazia da Anversa, la città degli artisti citati, a Roma e Palermo, si fondono con la fantasia creativa dell’autrice. Emerge su tutto e tutti l’amore della scrittrice per la sua Palermo, unica e inimitabile, e per la storia e le vicende delle donne del romanzo. Sono donne che lottano, che si impongono, proprio come Rosalia: “… Rosalia si è opposta al matrimonio con il principe Baldovino, ha vissuto come voleva, perciò la amiamo, perché è un esempio, una speranza. Pure per noi prima o poi le cose dovranno cambiare”.
Alla fine del romanzo, l’autrice racconta di un suo viaggio a New York, durante il quale scopre che il grande ritrattista Van Dyck, autore del dipinto di Santa Rosalia, aveva soggiornato a Palermo durante la peste ed aveva indirettamente assistito al ritrovamento dei resti della Santa, Da qui lo spunto per il romanzo, costruito su eventi storici e su intrighi frutto della fantasia della scrittrice.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    30 Novembre, 2023
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NON E' PIU' IL TEMPO DEGLI DEI

“Ho dimestichezza con l’odore della morte.”

Colm Toibin è l’autore di alcune interessanti biografie romanzate (una per tutte, forse la più notevole, “The Master” su Henry James), l’ultima delle quali, “Il Mago”, mi piace ricordare in apertura di questa recensione perché Thomas Mann (il Mago, appunto, come veniva chiamato per scherzo dai figli) ha secondo me segretamente influenzato “La casa dei nomi”. Leggendo il romanzo di Toibin, ispirato alle ben note, mitiche vicende di Agamennone e Clitennestra, di Oreste ed Elettra, non ho potuto infatti non pensare alla tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli”. A parte una chiara, anche se forse involontaria, citazione (Clitennestra viene seppellita per un giorno intero in una fossa per toglierla di torno durante il sacrificio della figlia Ifigenia, allo stesso modo in cui Giuseppe viene gettato dai fratelli in una cisterna abbandonata), analogo è il modo di prendere una storia antichissima, patrimonio indiscusso dell’immaginario collettivo, spogliarla della sua aura mitica, del suo afflato leggendario, e riscriverla con una sensibilità affatto moderna. Se già l’Orestea di Eschilo presentava di per sé indubbi elementi di modernità (basti pensare, nelle “Eumenidi”, al tribunale chiamato a giudicare l’atto contro natura di Oreste, il quale può essere considerato il primo processo della storia), Toibin vi aggiunge uno psicologismo che, mentre mette in primissimo piano le figure dei tre protagonisti principali, elimina definitivamente tutto il coté divino, così importante nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Nelle “Coefore” di Eschilo, ad esempio, Oreste torna ad Argo per uccidere la madre ed Egisto su ordine di Apollo, mentre nelle “Eumenidi” è Atena ad assolverlo, respingendo le accuse delle Erinni. Ne “La casa dei nomi” invece l’epos è riportato a motivazioni esclusivamente umane e naturali, come la brama di potere, il desiderio di vendetta o la ragion di stato. Agamennone sacrifica sì la figlia primogenita per conciliarsi il favore degli dei, ma egli (un po’ come Labano, per tornare al paragone con “Giuseppe e i suoi fratelli”) è l’uomo vecchio, superato dai tempi e giustamente destinato a essere soppresso e dimenticato. La nuova mentalità è piuttosto l’ateismo ante litteram di Clitennestra, che non crede più nell’esistenza degli dei, o per meglio dire non crede nella loro influenza sui destini umani. “Gli dèi sono distanti, alle prese con altre cose. Si preoccupano dei desideri e delle buffonate umane come io mi preoccupo delle foglie di un albero. So che le foglie sono lí, che appassiscono, ricrescono e appassiscono, come le persone nascono, vivono e poi sono sostituite da altre come loro. Non posso fare niente per aiutarle o per impedire che appassiscano. I loro desideri non sono affar mio”. L’uomo moderno, in assenza di un dio a cui rivolgersi, è desolatamente solo e vive quella che Georges Bataille chiamava la “morte del sacro”, ossia l’angosciosa, “tremante consapevolezza che non è più tempo degli dei”. Fare affidamento agli dei è diventata una pura formalità, una mera convenzione esteriore. Se essi continuano ad essere invocati e pregati è solo per un’antica, inveterata abitudine, ma in fondo più nessuno crede veramente in loro, in quanto “le nostre suppliche agli dèi sono come le suppliche che una stella rivolge al cielo sopra di noi prima di cadere, un suono che non ci è dato sentire, un suono che, se pure lo sentissimo, ci lascerebbe del tutto indifferenti”.
La maledizione degli Atridi, quel “veleno nel sangue” che sembra condizionare l’esistenza dei personaggi de “La casa dei nomi è il punto di partenza canonico della storia, cui Toibin si guarda bene dal sottrarsi, ma poi il romanzo imbocca la strada di una tragedia elisabettiana, piena di congiure, cospirazioni, rivolte e lotte per il potere. Se lo scrittore irlandese mantiene tutto sommato intatta la cornice della storia, egli si prende tuttavia enormi libertà narrative, come si può vedere nel capitolo dedicato ad Oreste, di cui racconta l’adolescenza (da sempre trascurata dagli autori classici, come se fosse un misterioso buco nero lungo ben dieci anni) alla stregua di un coming of age dickensiano (con vaghi echi, mi è parso, anche di più recenti romanzi aventi come protagonisti delle figure di orfani, come la “Trilogia della città di K.” o “Il cardellino”). Ritornando ancora una volta all’esempio di partenza di “Giuseppe e i suoi fratelli”, è come se Toibin avesse voluto trasporre sulla pagina una propria versione, più verosimile e psicologicamente plausibile, della tragedia, spiegando – come diceva Mann – “come i fatti realmente si svolsero”. Così Egisto non viene ucciso da Oreste, ma è più prosaicamente risparmiato per poter sfruttare le sue conoscenze pregresse e le sue capacità di amministratore del regno, e Oreste stesso non impazzisce per il matricidio compiuto, ma viene tristemente relegato in una condizione di emarginazione e di solitudine, sposato a una donna che aspetta un figlio non suo. Una delle novità più considerevoli del romanzo è il continuo cambio di prospettiva, con i personaggi di Clitennestra, di Oreste e di Elettra che si alternano per raccontare la storia dal proprio punto di vista. Se nel caso di Oreste Toibin utilizza la terza persona, facendo prevalere un registro più aneddotico e narrativo, per Clitennestra ed Elettra egli sceglie la prima persona. Il tono si fa in questo caso più introspettivo, con un approfondimento psicologico dei personaggi che il flusso di coscienza rende estremamente interessante. L’autore ci consegna il sorprendente e affascinante ritratto di due donne che sono diventate, con il loro fatale antagonismo, un simbolo della moderna psicanalisi (il famoso complesso di Elettra), ma che alla fine si rivelano più simili che contrapposte: lo spiritualismo di Elettra (l’assidua frequentazione con i fantasmi del padre e della sorella) fa ben presto i conti con la ragion di stato e la donna che prima viveva nell’ombra, in “un rapporto intimo con il silenzio”, diventa una disinvolta e spregiudicata reggitrice del regno. Del resto le donne sono le autentiche protagoniste del romanzo, facendo dei lutti e delle ingiustizie patite il loro punto di forza (al prezzo però della inesorabile perdita della loro umanità), mentre gli uomini, di cui pure, a causa della struttura sociale che le penalizza, hanno bisogno per portare a termine i loro piani (così Egisto per Cassandra e Oreste per Elettra), gli uomini – dicevo – sono, nonostante il potere fallocratico che è nelle loro mani, poco più che fantocci, che si illudono di essere i motori della storia, mentre sono solo delle marionette in balia del destino.
La scrittura di Toibin è fluida, scorrevole, a tratti delicata e poetica, ma dietro le parole si nasconde una realtà sanguinosa e cruenta, con orrendi sacrifici umani, stragi raccapriccianti e bambini che vengono rapiti per intimidire e sottomettere le loro famiglie. E’ un mondo barbaro e violento, quello narrato da Toibin, che ha sullo sfondo un perenne stato di guerra. La guerra de “La casa dei nomi” non è quella di Omero, di Elena, di Menelao e di Achille, la quale tutt’al più è una favola da raccontarsi la sera intorno al focolare, ma è una guerra senza nome (“-Dove sono adesso? – chiede Oreste. – In guerra. – Quale guerra? – La guerra, disse lei – La guerra”), quasi uno stato ontologico dell’umanità, che lascia dietro di sé solo dolore e fatica, odio e povertà, carestia e disperazione, tutto il contrario di quello a cui l’epica antica, con l’orgoglio guerresco e l’eroismo elevato a massima virtù, ci aveva abituati. Qui c’è soltanto una volgarità di fondo, una mediocrità di valori e una falsità di intenzioni, che tutto svilisce e tutto riduce a macabra farsa. Resta, in fondo a tutto questo, una intensa nostalgia di amore, che il mondo non consente di esprimere e che solo nell’aldilà (come nel breve, bellissimo capitolo in cui Clitennestra parla in una sorta di bardo, in uno stadio cioè liminale tra vita e dissolvenza dell’io) è forse possibile sperimentare, al prezzo però della solitudine più agghiacciante e dell’oblio più profondo. Con questa lettura originale e seducente, Toibin firma un’opera più che dignitosa, capace di distinguersi per elevatezza di linguaggio e acutezza psicologica, e si pone a pieno titolo nel novero di quegli scrittori che, come Christa Wolf, Madeline Miller e Pat Barker, hanno riscritto negli ultimi decenni con sensibilità contemporanea i miti dell’antichità.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    29 Novembre, 2023
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Una gita finita male.

I fratelli Scaccola, panettieri in Bellano, non si aspettavano certo l’improvvisa visita del segretario
del sindacato panettieri, per comunicare loro che proprio Bellano sarebbe stata il prossimo 21 aprile ( si festeggia il Natale di Roma) meta di una gita dei panettieri comaschi. Si dessero quindi da fare per comunicare l’evento in municipio, e per organizzare accoglienza e manifestazioni varie. Siamo nel 1930, in pieno ventennio fascista, e Bellano non brilla per quanto riguarda il regime, non essendoci neppure un vero e proprio segretario del partito. Sconcerto dei poveri Scaccola, introversi e dediti solo ai lavori del forno, il municipio prima tentenna, propenso a rifiutare la manifestazione, poi, per ordine del podestà locale, è obbligato a ricevere i gitanti, per dare finalmente lustro e visibilità ad un paese che vivacchia nell’anonimato.
Inizia qui la storia singolare ed esilarante dei preparativi per l’accoglienza, preparativi resi ancor più frenetici dall’annunciata partecipazione addirittura del Federale di Como, occasione unica per riportare Bellano agli onori della cronaca. Ma, ahimè, non ne va bene una: bisogna rifare la scaletta degli appuntamenti, ristampare i manifesti per una “f” minuscola di “Federale”, annullare alcune visite (all’Orrido ed alla casa natale di bellanesi famosi), piegarsi ai capricci dell’altezzosa e isterica moglie dell’illustre ospite, decisa a raggiungere Bellano tramite idrovolante ma anche dotata di quel pizzico di buonsenso pronto a frenare i deliri di onnipotenza del marito … Ma non è finita qui: il battello dei gitanti non riesce a partire per un guasto, si attendono soccorsi, tutti gli orari sono spostati, il Federale non ne può più e decide di andarsene anzitempo, non intervenendo al pranzo sociale e neppure, figuriamoci!, al ballo pomeridiano. Anche perché, ecco il colpo di scena che tramuta la festa in tragedia, perde inopinatamente un “pezzo” … Ovviamente non dirò di che pezzo si tratta, per lasciare ai lettori la curiosità di scoprirlo: basti accennare che è un pezzo importante, il cui smarrimento manda su tutte le furie il proprietario. Il pezzo in questione rischierà anche di mandare a monte un matrimonio, verrà cercato in tutti modi, ritrovato, consegnato alle autorità competenti, conservato in cassaforte e riportato alla luce in modo rocambolesco a guerra finita , nel 1946 …
Questa è in sintesi la trama della storia principale, ma la fantasia di Andrea Vitali non si ferma qui. Altri eventi impreziosiscono la narrazione: ci sono i fratelli Scaccola, quelli del forno, che si aprono finalmente alla vita e si fidanzano con una intraprendente ragazza madre il più giovane, con un’amica claudicante il più anziano, e poi le vicende dei carabinieri del posto, Beola e le sue timide vicende amorose, Mannu con un’appendicite acuta operata d’urgenza, e soprattutto il maresciallo Maccadò, che saggiamente tutto vede e controlla, controllato a sua volta dalla moglie, la nostalgica e dolce Maristella. Fanno da contorno gli abitanti del posto, con difetti, virtù e stravaganze: l’autore li conosce benissimo, e sa trarre il meglio da ognuno di loro, ben consapevole che il paese racchiude un microcosmo con abitudini ancestrali che sfidano il trascorrere del tempo. Il periodo in cui si svolgono i fatti è quello della dittatura fascista, e Vitali sa cogliere con pungenti accenti satirici il servilismo ostentato di chi obbedisce e la ridicola ostentazione del potere di chi comanda.
Lo stile narrativo ritaglia figurine godibili, con la grande consueta abilità che contraddistingue l’autore, innamorato perso della sua Bellano e delle acque placide del lago che fanno come sempre da sfondo a tutto ciò che accade sulle non sempre placide rive. Straordinari, mai forse come in questo romanzo, i nomi dei personaggi coinvolti. Da Elomeo a Chiurlo, da Anco (in ricordo di uno dei sette re di Roma?) a Omario e Armadio per i maschi, per le femmine Sicuretta, Caronna, Aeria, Anenia, Vestina: il colmo lo scrittore ha però voluto riservarlo ad alcune strette parenti dello spocchioso Federale, la mamma Climide, l’isterica moglie Assioma, la di lei madre Filetta con la zia Orina (!).
Il solito ottimo e divertente Vitali, buona lettura!




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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Novembre, 2023
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Vita, morte e “miracoli” di una faina

Archie è una faina. È nata poco prima di quando sua madre è restata vedova. Infatti il compagno, noto ladro di galline, era stato ucciso a fucilate da un contadino, stanco per l’ennesimo furto. Così Archi e i suoi fratelli sperimentano la fame e i patimenti, giacché la madre fatica a trovare cibo per tutti loro. Quando un giorno Archie decide di contribuire al sostentamento della famiglia e, avvistato un nido di pettirossi, si avventura lungo un ramo, gli capiterà un infortunio che lo segnerà per tutta la vita. Il ramo si spezzerà e lui, caduto a terra, resterà per sempre zoppo e dolorante a una gamba. La madre, decisamente pragmatica, deciderà, allora, di “cedere” Archie all’usuraio Solomon, per una gallina e mezza.
Solomon è una vecchia volpe, saggia e astuta che, dopo una vita da bandito, s’è convertita a una vita più onesta. Ora commercia con tutti gli animali del bosco, scambiando vegetali del suo orto, uova e polli del suo allevamento (che amministra con scrupolo) in cambio di altri beni e relativi interessi. E semmai il debitore dovesse tardare nel saldare le pendenze, il grosso cane Gioele provvederebbe a recuperare il dovuto, con le buone o con le cattive.
Ma Solomon è molto più di questo: sa leggere e scrivere ed è affascinato dagli uomini (è convinto di essere un uomo reincarnato) e crede in Dio. Nella sua tana conserva gelosamente una bibbia che legge con devozione e colleziona tutti i manufatti umani su cui riesce a mettere le zampe. Archie, dopo settimane da “schiavo” entra nelle grazie di Solomon che gli insegnerà a leggere e che ne farà un suo apprendista. Ma la vita di una faina non è mai semplice e ad Archi capiteranno mille avventure, spesso niente affatto piacevoli.

Ho sempre molto apprezzato i romanzi con protagonisti gli animali, per quel fondo di incontaminata ingenuità che tendiamo ad attribuire ai nostri vicini pelosi e per quel modo che hanno di mostrarci i nostri pregi e i nostri difetti, attraverso una diversa prospettiva. Ma ci sono mille modi per rendere un animale protagonista di una storia che lo riguardi e parli pure di noi. Si può, assai semplicemente, raccontare di lui dal nostro fallace punto di vista, narrandone le vicende così come noi le percepiamo, senza sforzarci di immedesimarsi in lui. All’estremo opposto è possibile arrischiare una storia mostrando il mondo attraverso i suoi sensi e le sue impressioni; tentando di interpretare in qual modo lo stesso percepisca ciò che lo circonda (noi compresi) e si adatti ad esso. Tra i due estremi ci sono, poi, ovviamente, innumerevoli sfumature. Ma c’è pure un metodo ancor più radicale di parlare degli animali, usarli come maschere dietro cui celare noi umani, le nostre qualità e, soprattutto, le nostre mancanze. Lo si può fare nell’ingenuo e edulcorato modo della Disney, ma pure con una più attenta valutazione di sentimenti e comportamenti.
Il romanzo di Zannoni si pone in una terra di mezzo tra tutte queste tipologie di romanzi “animaleschi”: il mondo degli umani è posto sullo sfondo come una presenza immanente, ma discreta e la società degli animali si atteggia secondo regole non scritte. Gli attori di questo libro sono sì parzialmente umanizzati: parlano tra loro, di qualunque specie essi siano, e comunicano in modo articolato e complesso; usano utensili, vivono in tane che sembrano più case rurali che rifugi naturali. Hanno cucine dotate di stoviglie e focolare, camere con letti, sedie e arredi vari; praticano il commercio, l’agricoltura e l’allevamento (le uniche che, stranamente, sono restate allo stato totalmente bestiale sono le galline, macchine per uova e carne). Alcuni, come Solomon, leggono pure, si dicono religiosi e credono nell’Aldilà. Tuttavia nessuno di loro ha dismesso i primordiali istinti ferini. Uccidono per difendersi o per procacciarsi il cibo, senza alcuna remora morale, anzi con un’intima gioia e appagamento, senza neppure il tabù del cannibalismo. Si accoppiano proni alle pulsioni stagionali ignorando cosa sia l’incesto. Provano sentimenti “umani” come l’amore, l’amicizia, l’odio, la bramosia, il desiderio di vendetta; Solomon, addirittura è un intransigente bigotto (almeno quando gli fa comodo), ma rimangono animali selvaggi per i quali l’unica legge che conti davvero è quella della Natura.
Questa dicotomia, anzi questo crogiuolo di elementi contrastanti e confliggenti gli uni con gli altri, se da un lato è la ragion d’essere della storia, dall’altro non sempre sembra funzionare perfettamente, raggiungere lo scopo, per altro niente affatto chiaro. Più di una volta, il fluire del racconto sembra incepparsi, incappare in contraddizioni, assurdità, esagerazioni. Insomma il meccanismo non appare ben oliato, ma stride e fatica a procedere. Gli animali “colti” paiono ossessionati solo dalla consapevolezza di dover morire, dal fatto che la morte non sia una cosa che riguarda solo gli altri. La connotazione fiabesca della storia viene continuamente turbata dal carattere tragico delle vicende, la continua immanenza della morte violenta, cala una cappa plumbea sul racconto, senza che sia chiaro il messaggio che si vuol trasmettere. Soprattutto l’evidente intento di voler trattare troppi grandi temi (il rapporto col divino, con la verità e la conoscenza, con il potere della letteratura di tramandare le nostre esistenze dopo la morte e di elevarci a uno stadio superiore a quello puramente bestiale), senza poter, d’altronde, fornire risposte, è un carico eccessivo per una storia che poteva essere molto più agile e fruibile.
Considerando la giovanissima età dell’A. l’opera è sicuramente di notevole interesse, ma forse il tema avrebbe meritato un approccio più maturo e ragionato.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Novembre, 2023
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Storia di umanità

“La mamma aveva ragione quando diceva che al mondo c’è chi è bravo a parlare, chi a raccontare, a convincere, a cantare o incantare, ma a me veniva bene la cosa più rara: ascoltare”
La scoperta dell’America è stato davvero un passo avanti per l’umanità? Se sì a che prezzo?Questa è la storia della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo dal punto di vista, modernissimo, dell’ultimo mozzo della Santa Maria. Ma, soprattutto, è un grande romanzo di mare, vero protagonista dalla prima all’ultima pagina e metafora della vita.
Non siamo di fronte a un capolavoro, questo va detto subito, però il romanzo rimane godibile e, per quanto riguarda me, l’ho letto volentieri.
Se qui l’originalità non è nella scrittura, che non affascina ma si lascia leggere, lo è a mio parere molto il punto di vista di un uomo contemporaneo (tale è immaginato Nuno, il protagonista) su un fatto del 1492 tanto rivoluzionario.
Figlio di una ex prostituta che sa leggere e scrivere, Nuno impara quest’arte insieme a lei al porto di Palos, dove la madre, che ha lasciato la professione alla nascita del figlio, scrive lettere d’amore su indicazione dei marinai di passaggio.
Costretto a lasciare Palos per la persecuzione di chi non era di religione cattolica Nuno si trova per un caso non voluto ad essere assoldato come ultimo dei mozzi sulla Santa Maria, la più grande delle tre caravelle in partenza verso mari e terre sconosciute con altissimo rischio di non tornare mai più. Proprio lui, che ha sempre amato rimanere attaccato alla terra come i granchi!
Il Capitano Colombo scopre che Nuno sa leggere e scrivere e lo assolda durante il viaggio come suo scrivano per tenere il diario di bordo.
Il romanzo, nel descrivere il viaggio, narra anche dell’umanità persa che è a bordo delle caravelle (molti sono condannati a morte che tra la morte certa e la morte probabile hanno optato per quest’ultima), nell’attesa, nella paura, nello sconforto e nel desiderio di tornare a casa, se mai ciò fosse possibile, fino all’arrivo in un’isola sconosciuta e all’incontro con gli indigeni. Popolazione buona e che li adora come divinità, pronta a regalare ai nuovi arrivati ciò che per loro è più prezioso, benché nulla di tutto questo abbia valore per Colombo e gli altri.
I naviganti continueranno a cercare ciò di cui a loro parere le Indie, dove credono di essere arrivati, dovrebbe essere ricca, l’oro. Non trovano invece nulla che a loro parere meriti ma si accorgono di quanti frutti, alimenti e cose nuove le isole dove sono arrivati siano portatrici.
La bellezza, il mare limpido, la pace di queste isole le rende comunque un paradiso che Colombo e i suoi non vedono l’ora di fare proprie, conquistare e saccheggiare, considerando gli indigeni loro proprietà, quasi oggetti.
Nuno si innamorerà perdutamente di una di loro, assisterà al male che possono fare gli uomini ad altri uomini incolpevoli, soffrirà questo processo con lo sguardo sgomento da ultimo tra gli ultimi ma che vede più lontano degli altri.
Oro puro ci accompagna poi nel travagliato e periglioso viaggio di ritorno fino ad accennare alle spedizioni che seguiranno quella di Colombo mentre Nuno invecchia e si domanda come diversamente sarebbero potute andare le cose.
Il racconto non vuole essere una precisa ricostruzione storica ma solo un romanzo che nel narrare un evento di così grande portata, in mezzo a tante luci ha avuto anche molte ombre. Non va cercata quindi la precisione dei fatti ma va letto con l’animo di chi vuol provare a leggere la scoperta del nuovo mondo con gli occhi disincantati di chi è consapevole di quanto male possa fare l’uomo nel suo progresso. Ma Oro puro è anche una grande storia di umanità perché sono proprio tutti gli uomini con i quali Nuno avrà a che fare, ad essere protagonisti della storia.

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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    27 Novembre, 2023
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Lenù, inattendibile come Zeno

Al suo terzo volume, ti prende sempre più questo romanzo, ora che i personaggi ti vengono incontro dalla pagina sempre meglio sbalzati e definiti, lasciandoti un’impressione di vita e di verità.
Alfonso Carracci sa guardarsi dentro con spietata lucidità e, quando rivela a Lila la propria omosessualità, lo fa senza mezze misure, utilizzando la parola più greve e pesante che il dialetto gli mette a disposizione in quell’area semantica :”Lila, so’ ricchione”. Michele Solara trova accenti a loro modo “poetici” nel descrivere “quella cosa viva” che sta dentro la mente di Lila, quell’essere che la rende brutta e sgradevole quando non è giornata, creativa e geniale nei momenti felici. E le dichiara, lui sessista, triviale, chiuso negli schemi di una mentalità retrograda e malavitosa, un amore che a suo modo è acqua cristallina, persino spogliato della brama materiale di possesso, ammirazione e contemplazione come davanti ad un’artista. Intanto Gigliola, la moglie, è sempre più consapevole che nell’esistenza del marito lei non occupa altro ruolo che quello di madre, procreatrice, organizzatrice della vita domestica. E’ lui stesso che glielo ripete continuamente, senza riguardi, inducendola a farsi, per reazione, sempre più sgraziata, volgare, insopportabile, come per una protesta illogica e rabbiosa contro un'esistenza infelice. Emerge, tra le tante figure, la madre di Elena: un miscuglio contraddittorio e rabbioso di orgoglio materno, ma anche di odio nei confronti della figlia, di soddisfazione per la sua scalata sociale e culturale e di frustrazione per non aver saputo o potuto fare altrettanto, lei che pure si ritiene provvista delle medesime qualità: ne risulta un continuo, rancoroso dibattersi contro la vita e contro gli altri, una diversità “maledetta” di cui la zoppia è quasi il segno tangibile. Silenzioso, schivo, generoso nel dare e rassegnato nel chiedere, sofferente della sua passione non ricambiata per Lila, che teme di perderlo ma non lo desidera sessualmente, testardo nel tentare un avanzamento sociale, ma sempre rispettoso dell’intelligenza superiore della sua compagna: questa è la cifra che caratterizza Enzo. Non gli è estranea la dimensione politica, che percorre l’intero romanzo e questa sezione in modo particolare. Accanto a lui c’è l’amico Pasquale, segretario rionale del partito comunista, in rotta con la linea moderata di Berlinguer, presto schieratosi su una linea dura e oltranzista che lo accosta al terrorismo e, nel privato, lo spinge ad assumere toni via via più arroganti nei confronti di chi vive la stessa fede politica da una diversa posizione sociale e con atteggiamento più moderato e “borghese” (si pensi alle ripetute offese rivolte a Pietro, il marito di Elena, durante una breve visita, o piuttosto una fuga, condotta all’insegna della più sfacciata arroganza e maleducazione).
Anche sull’asse politico si snoda il rapporto tra i due personaggi centrali del romanzo: Lenù e Lila. La prima sembra anch’essa propendere per le posizioni estreme, almeno in teoria. In questo le si oppone il cauto riformismo del marito, Pietro Airota, nemico dell’estremismo rivoluzionario o pseudotale: un personaggio preso a calci da tutti, dalla moglie, da Pasquale, da Nino, e forse compreso solo da Lila. Egli non ha altra colpa se non quella di un rigore intellettuale che avversa e svela pressappochismo ed empiti incendiari destinati a fallire. Patetico ma anche, a suo modo, eroico.
Dall’altra parte c’è Lila, restia a scendere nell’agone sindacale e politico e a mettersi in gioco, pur essendo l’unica a conoscere di persona cosa siano sfruttamento operaio, condizioni di lavoro insopportabili, violenze e maltrattamenti in fabbrica. Tirata per i capelli nel vivo del conflitto padrone-operai dall’azione incauta dei suoi compagni, la giovane confermerà il suo lucido realismo, la capacità di analisi, la duttilità nel cogliere le situazioni, saperle descrivere, e in un batter d’occhi, sulla base della sua esperienza vissuta, riuscirà ad elaborare un documento sulla violenza e sullo sfruttamento operaio di gran lunga più vero e aderente alla realtà degli astratti proclami dei suoi compagni, “marxisti immaginari”.
Ovviamente questa folla di personaggi che popola il racconto, si realizza e si compie quando l’uno entra in rapporto con l’altro. E’ per questo che i ritratti di gruppo sono tra le invenzioni più belle della Ferrante. Domina, tra tutte, il pranzo a casa di Marcello Solara e della sua compagna Elisa, sorella della protagonista, in cui ciascuno si inserisce perfettamente in un grande coro dove ognuno canta con la sua voce solista, ma si fa porgere al momento opportuno la battuta dall’altro e a sua volta, alla stessa maniera, gliela porge . Qui davvero l’autrice si è superata ed il romanzo delle parole diventa un’armonia di voci che non ti annoieresti mai di sentire, tanto sono vere e tanto bene si definiscono nel loro reciproco accostarsi e contrastarsi. Ne risulta una rappresentazione sociale forte e potente come raramente si vede nella nostra letteratura e che trova riscontro solo nei grandi (non si può fare a meno di pensare all'episodio del ballo nel Gattopardo).
Raccontato in prima persona, probabilmente sulla base di fatti realmente accaduti, ma debitamente rielaborati, il romanzo, proprio per la ricchezza dei suoi personaggi e per la coralità dei rapporti e della rappresentazione, sfugge al triste destino di questo genere in Italia: sfociare in un racconto autobiografico rachitico e solipsistico, tutto incentrato sui drammi dell’io, lontano dalla ricchezza, dalla varietà, dalla complessità del mondo reale e dai conflitti della storia. Non a caso è piaciuto tanto fuori d'Italia.
A proposito della interrelazione dei personaggi, non si può non sottolineare quella che lega tra loro Lenù e Lila. Le due protagoniste ti sorprendono continuamente, ti spiazzano, per l’amore si direbbe quasi ancestrale che si dimostrano, il patto di sangue che ha retto le loro esistenze fin dall’episodio iniziale delle bambole perdute, il continuo essere l’una riferimento per l’altra, ma anche l’improvvisa cattiveria, il rinfacciarsi verità amare, il reciproco, amaro deludersi, perfino il colpirsi nella sfera dei rapporti sentimentali, fino all’estremo limite del tradimento. Si pensi al legame tra l’amica geniale a Nino Sarratore, “tolto” da Lila a Elena, che ne ha fatto il mito della propria esistenza, ma niente affatto privo di difetti che ella sa solo a tratti cogliere, scoprendolo seduttore nato, non diverso per certi aspetti dalla squallida figura paterna, opportunista, alla ricerca di consensi in quegli ambienti intellettuali e politici in grado di riconoscerne le doti e apprezzarne le capacità: uomo dalla vita affettiva e sentimentale discontinua e inaffidabile, ma forse proprio per questo corteggiato, cercato, voluto. Non sarebbe stato fuori luogo in un romanzo di Balzac o Stendhal, tra gli uomini mossi nella loro esistenza unicamente da un indomabile desiderio di scalata sociale.
E chiudiamo con Lenù, colei che narra, ricuce, collega, mette insieme i pezzi della storia, pone a confronto luoghi, spazi, ambienti, diversità antropologiche, in un continuo andirivieni tra Pisa, Firenze, Napoli. Ma quando analizza se stessa, la protagonista balbetta, entra in contraddizione, fino ad entrare anch’essa nella schiera dei narratori inattendibili, inaugurata da Zeno nel capolavoro di Svevo. Tocca al lettore cogliere il filo conduttore di questa esistenza fragile, incerta, piena di contraddizioni, di insicurezze, di senso d’inferiorità rispetto ai suoi interlocutori privilegiati, Nino e, soprattutto, Lila: il bisogno di un’affermazione intellettuale e culturale che la riscatti dalle sue origini popolari nella Napoli del rione Gianturco. Una bipolarità mai del tutto superata, perché questa storia che l’autrice ci ha regalato, parafrasando il titolo, è la storia di chi fugge, ma è anche e soprattutto la storia di chi, pur essendo fuggito, in realtà, in un modo o nell’altro, è restato.

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Ovviamente i primi due volumi. Interessante il confronto con l'ottimo adattamento televisivo, nel quale il linguaggio attinge a piene mani al dialetto, qui invece sottinteso, a tratti richiamato, ma quasi sempre riformulato in lingua italiana dalla voce narrante di Elena Greco. Inoltre la voce fuori campo del film non rende giustizia alla ricchezza del monologo interiore di Lenù.
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    27 Novembre, 2023
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Il pagliaccio furente

Il commissario Ricciardi è un altro personaggio d’eccellenza di questo autore, che con questo libro inaugura una serie di noir italiani sicuramente di notevole pregio letterario. La vicenda si svolge a Napoli ed in particolare al Teatro San Carlo, nel mondo della lirica, ma anche nel mondo della Napoli ferita, dove le persone si barcamenano fra mille difficoltà economiche. La fame e l’amore sono i due principali moventi di questo delitto ed in questa vicenda in un qualche modo si fondono, perché ogni delitto è comunque la faccia oscura di un sentimento. Il commissario è un personaggio particolare, un’anima tormentata, un uomo apparentemente freddo ed inespressivo, che ha il dono e nello stesso tempo la dannazione di vedere i morti di morte violenta nei loro ultimi istanti di vita, li sente, percepisce i loro sentimenti ed il loro non detto e questo si rivela essere per lui un tormento in vita, perché la percezione quotidiana del dolore è per lui una vera dannazione. Eccellenti sono le sue doti investigative, perché crea uno schema, una geografia delle emozioni che incontra, non le rielabora, per non falsarle, le riascolta, le concatena. Con questo libro si apre una serie, di cui non voglio mancare alcuna puntata.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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alessio Opinione inserita da alessio    26 Novembre, 2023
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PARANOIA

Rinchiuso in un ospedale psichiatrico, Lucas Chardon chiede per la prima volta di raccontare gli eventi del giorno in cui la sua vita cambiò per sempre. Quel giorno, la polizia ha scoperto otto corpi assassinati nel rifugio. Lui era lì, in lacrime, coperto di sangue e senza memoria.

Altrove, Ilan Diducette riceve una chiamata: è dalla sua ex ragazza Chloe. Dice di aver trovato l'ingresso di Paranoia un ambitissimo gioco di ruolo gestito da un’entità misteriosa: tutti lo stanno inseguendo, ma nessuno conosce le regole. Ilan è stato un giocatore compulsivo, in passato e la tentazione è troppo forte. Così dopo un inquietante processo di selezione, Ilan e Chloe, insieme ad altri sei candidati, vengono convocati in un ospedale psichiatrico in disuso isolato tra le montagne.

Regola numero uno: nulla di ciò che stai per sperimentare è reale; è un gioco.

Regola numero due: uno di voi morirà.

Il gioco ha inizio e quando il gruppo inizia a sospettare la presenza di un intruso, la paranoia prende lentamente corpo. Con il passare delle ore, la competizione assume forme sempre più perverse, in una sorta di folle e angosciante meccanismo.

Dove finisce il gioco e dove comincia la realtà?

Chi accetterebbe di morire per un gioco?

Chi riuscirà a vincere i trecento mila euro messi in palio?

Questo è il primo libro di Franck Thilliez che leggo e devo ammettere che è stata una scoperta interessante. Le mie aspettative per questo libro erano alte, visto l'interesse per la trama, e devo ammettere che ne sono rimasto piuttosto soddisfatto.
La sua scrittura è molto precisa, ricca di dettagli, sa coinvolgere il lettore, la storia è coinvolgente ed emozionante, si legge bene, fatta eccezione per alcuni brevi passaggi, che risultano un po' lenti secondo me.
La descrizione dei personaggi è brillante. Questi ultimi, infatti, hanno una loro precisa personalità e vengono presentati con molti dettagli tanto da farci immaginare il loro andamento nei vari scenari. A volte il contenuto è oscuro e descritto nel modo migliore per adattarsi alla progressione della storia, senza mancare di colpi di scena, il che esalta ulteriormente il gusto della storia raccontata e le permette di procedere con un ritmo più spedito.
Un altro "ingrediente" che rende tutto in "Puzzle" ancora più affascinante è l'elemento psicologico, anche se è la parte in cui la storia si trascina e perde il mordente utile che rende il tutto più avvincente.
Una particolarità di questo libro è che ogni capitolo inizia con un pezzo del puzzle. Questo è un ottimo modo per restare fedeli al tema del titolo e arricchire la storia complessiva, anche visivamente, come avvolgendola in un grande puzzle.

Buona lettura.

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Opinione inserita da claudio gard    25 Novembre, 2023

Un capolavoro d'altri tempi

Definitelo uno scrittore di montagna e vedrete il Cognetti incazzarsi come una iena. E ne ha ben donde. Dice il nostro:
Ragazzi, ma voi i miei libri li leggete come Dio comanda o, come sospetto, li sfogliate alla cazzo? Buona senz’altro la seconda, ma non preoccupatevi, vi do io adesso qualche dritta che vi chiarirà le idee.
Punto primo. Dei miei libri si deve dire ciò che diceva il mio amico Rabelais dei suoi, e cioè che bisogna rompere l’osso e succhiarne il sostanzioso midollo. Fuor di metafora, amici cari, voi non dovete rimanere alla superficie delle mie storie, non dovete limitarvi ad estasiarvi di fronte all’indubbio talento con cui vi propino le mie ambientazioni, si tratti delle faticose scarpinate alle quali mio padre mi costringeva alle falde del Monte Rosa ovvero dei panorami mozzafiato della mia Val d’Ayas, non basta che andiate in solluchero dinnanzi alla mirabile sapienza con cui vi dipingo lo squallore del fondovalle della Valsesia oppure che lanciate gridolini di soddisfazione davanti alla perfetta resa cinematografica di alcune parti del racconto (alludo alla vicenda del cane selvatico che fa strage di suoi simili per poi finire trucidato anche lui).
Conoscete senz’altro tutti il significato del termine filigrana. Ebbene, voi dovete mettere a fuoco la filigrana che si intravvede dietro alle mie pagine. Così facendo, vi accorgerete che quello che mi sta davvero a cuore e che mi preme raccontare non sono gli scenari alpestri tipo salta il camoscio tuona la valanga. Non sono né il Cervino formato grappa del Mike nazionale, né le alte quote da cui sgorga l’acqua levissima altissima e purissima di messneriana memoria. Altri sono i territori che a me interessa esplorare, altre le vette che mi attraggono, altri gli abissi che mi terrorizzano. A me interessa addentrarmi nei legami, spesso sotterranei e pertanto di difficile accesso, che mi legano o che mi hanno legato ai membri della mia famiglia, in particolare a mio padre buonanima, il padre costituisce la vera e propria chiave di volta per capire la mia esistenza e, di conseguenza, la mia narrazione e il mio mestiere di scrittore. E’ mio padre, meglio, sono l’analisi dei miei rapporti con lui e delle difficoltà che, come accade spesso ai figli, ho incontrato per rendermi autonomo da lui, che conferiscono coerente unità ai miei romanzi. (Tra parentesi io sono un inguaribile fan di Aristotele e della sua regola aurea dell’unità di azione). A questo proposito consiglio ai miei venticinque lettori di far precedere la lettura di Giù nella valle da quella di Le otto montagne.
Ma veniamo a bomba ed entriamo nel merito.
Ma davvero credete, amici cari, che il titolo “Le otto montagne” mi sia imputabile? Davvero pensate che un tale obbrobrio letterale semantico sia farina del mio sacco e non provenga piuttosto dal mulino di quel balengo del mio Editore? Buona evidentemente la seconda.
Ora converrete con me che il titolo di un romanzo deve avere un minimo di sex appeal letterario, deve catturare l’attenzione del lettore, deve far leva sul suo desiderio di sollevarsi dalla spesso faticosa realtà quotidiana per planare verso le sconfinate praterie della felicità. E’ una questione di marketing. Il titolo deve essere indizio della bontà del prodotto, il lettore consumatore deve convincersi ad acquistare quel tomo perché qualcosa nel titolo lo persuade della validità della scelta.
Di là dal fiume e tra gli alberi, Per chi suona la campana, Addio alle armi, Pian della Tortilla, Uomini e topi, I pascoli del cielo, La capanna dello zio Tom, Racconti straordinari, Viaggio al centro della terra, Fiorirà l’aspidistra, Vedrò Singapore?, La stanza del vescovo, Il sergente nella neve, La fattoria degli animali, Il conte di Montecristo, Gita a Tindari, Il mulino del Po, La ragazza di BUBE, Papillon, Cronache marziane, La regina d’Africa, Nome d’arte Doris Brilli, Sofia si veste sempre di nero, Sentieri sotto la neve, La felicità del lupo, Il campo del vasaro, L’ultimo dei Mohicani sono esempi di titoli accattivanti, la cui forza attrattiva mi pare risieda in una certa solida concretezza semantica, che suggerisce una pari solidità e concretezza del volume.
Intendiamoci, non vi è nulla di matematicamente certo in quello che dico, qui siamo in un campo, quello della suggestione commercial pubblicitaria, che non appartiene all’universo delle scienze esatte ma piuttosto confina con quello dei messaggi subliminali.
Detto questo non vi è ombra di dubbio che un titolo quale “Le otto montagne” possieda il fascino evocatore di un bilancio societario o di un inventario notarile. Mi vengono in mente rassegne numeriche dall’indiscutibile charme ragionieristico quali I dieci comandamenti, Le sette virtù cardinali, I sette vizi capitali, Le dieci piaghe d’Egitto e via elencando.
Ad essere sotto accusa è l’uso dell’articolo determinativo seguito dall’aggettivo numerale cardinale che dovrebbero qualificare un sostantivo, montagne, estremamente generico e anonimo, e che lasciano il lettore imbarazzato e disorientato. Si chiede il lettore: di quali montagne stiamo parlando? Il termine spazia dagli Appennini alle Ande, dalle Alpi agli Urali, dalle Cevennes alla catena himalayana, dai Pirenei agli ALLEGANI. E perché le montagne sono otto e non dieci o cinquanta?
Ben altra potenza evocativa riveste il titolo “La montagna incantata”. La curiosità del lettore è stimolata dall’aggettivo qualificativo, che fa riemergere dai meandri della memoria echi di fiabe che lo riportano indietro nel tempo: l’aspettativa è che il libro compia il miracolo, annullando il trascorrere del tempo, di consegnarlo ad una eterna fanciullezza.
Io non ho letto il romanzo di Mann e può darsi che, leggendolo, le mie aspettative sarebbero disattese. Certo è che il clamoroso successo della mia penultima fatica non è dipeso dal suo titolo bensì dalla intrinseca bontà del prodotto oltre che, se mi permettete, dal forte richiamo pubblicitario rappresentato dalla mia persona e dagli indubbi exploit dei miei precedenti romanzi.
“La settima montagna” come titolo sarebbe stato più seduttivo, anche perché avrebbe riecheggiato il capolavoro BERGMANIANO Il settimo sigillo e il romanzo di evasione Il settimo papiro.
Insomma, amici cari, qui non stiamo a disquisire del sesso degli angeli. E’ vero che esistono sempiterni capolavori della letteratura con un titolo che fa letteralmente cagare. Ma nessun editor con un minimo di sensibilità commerciale si sognerebbe oggigiorno di pubblicare La divina commedia o La Gerusalemme liberata con siffatti titoli.
Ma passiamo adesso alla mia ultima fatica, costituita appunto dal romanzo Giù nella valle.
Non sfuggirà certo ai miei venticinque milioni di lettori il palese richiamo contenuto nel titolo ad una celeberrima canzone degli alpini risalente alla prima guerra mondiale, ma che fa ancora prepotentemente parte dell’immaginario collettivo canoro degli alpini . Eccone alcune strofe:

Giù nella valle
c'è un'osteria
l'è l'allegria
l'è l'allegria
giù nella valle
c'è un'osteria
l'è l'allegria
di noi Alpin.
E se son pallida
nei miei colori
non voglio dottori
non voglio dottori
e se son pallida
come una strassa
vinassa vinassa
e fiaschi de vin.

Giù nella valle
c'è un punto nero
l'è il cimitero
l'è il cimitero
giù nella valle
c'è un punto nero
l'è il cimitero
di noi Alpin.
E se son pallida
nei miei colori
non voglio dottori
non voglio dottori
e se son pallida
come una strassa
vinassa vinassa
e fiaschi de vin.

A dirla tutta, in realtà la canzone recita Là nella valle e non Giù nella valle, ma per piacere fatemi la cortesia di non sottilizzare troppo. Su, giù, qui, là, lì sempre di avverbi di luogo si tratta e poi guardiamo alla sostanza del discorso. Siamo in presenza di una geniale strategia di marketing. I lettori consumatori che hanno avuto, ed hanno, la fortuna di fare il servizio militare nel corpo degli Alpini si contano ancora a milioni. Per ognuno di essi il termine Giù nella valle è un riflesso condizionato di tipo pavloviano che li catapulta immediatamente in un passato fatto di amicizie virili, marce, di muli, di omeriche bevute e di altrettante omeriche cantate. Lo stimolo a fiondarsi in libreria per accaparrarsi il prezioso cimelio della memoria sarà irrefrenabile, facendo schizzare alle stelle le quotazioni delle mie royalties. Va da se che rivendico questo titolo come esclusiva farina del mio sacco, a differenza di quello su cui vi ho intrattenuto sopra che, ripeto, disconosco in toto.
Vi è poi un aspetto che giudico di grande interesse e sul quale voglio attirare la vostra attenzione.
Sia nella canzone che nel mio romanzo si respira un’atmosfera profondamente dionisiaca, ma di segno opposto.
La canzone parla di un’osteria che fa rima con allegria, parla del vino che è non solo fonte di allegria ma anche un toccasana, un rimedio per curare i mali del corpo e dello spirito. La potenza salvifica del vino ha la meglio sul pallore fisico ma anche sul pallore dell’animo, entrambi destinati a riacquistare colore e vivacità.
In parte diverso è il ruolo delle osterie, del vino e, in genere, dell’alcool, nel mio romanzo. Le osterie, trattorie, ristoranti, locande e bettole sono sì luogo di ritrovo e di socializzazione, dove peraltro il rito della bevuta trascende sovente in atti di cieca e insensata violenza. L’assunzione di alcool in quantità industriali e condotta con metodo meticoloso è la nota caratteristica e identitaria dei due fratelli protagonisti della storia.
Alfredo, il più debole dei due, quello al quale ho assegnato il ruolo un po' bohemien di bello e dannato, si stordirà a tal punto da compiere un tentativo di omicidio assolutamente gratuito, tra l’altro nei confronti di un suo amico, la cui unica spiegazione risiede nello stato di totale ottundimento causato da un mix micidiale di gin e prosecco.
Ma anche Luigi, il fratello buono, al quale ho assegnato un posto di guardia forestale tutore della legalità soprattutto ambientale, è un convinto seguace del dio Dioniso.
Va peraltro aggiunto che con l’aiuto di Dioniso i due riusciranno comunque a superare le difficoltà caratteriali di instaurare un rapporto positivo tra di loro e saranno in grado di manifestarsi reciprocamente un simulacro di stima e di affetto.
Poi mi preme evidenziare che nella canzone degli alpini è presente un altro elemento che ritroviamo altresì nel mio romanzo.
Parlo della morte. Nella canzone la morte è rappresentata dal cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati caduti in guerra.
Nel romanzo la morte fa la sua apparizione in molteplici occasioni.
Fin dall’esordio muoiono otto cani (e dagli con la cabala dell’otto!) assassinati da un loro collega, forse un incrocio con un lupo, assatanato e desideroso di sfogare sui suoi simili la rabbia accumulata in corpo, rabbia che trova probabilmente origine nelle sevizie e maltrattamenti cui è stato sottoposto.
Di ognuno descrivo il decesso con dovizia di particolari, sembra quasi che io provi un qualche morboso piacere nel rendicontare queste morti.
Descrivo poi la morte del killer ad opera di un branco di cacciatori e anche qui non mi risparmio i particolari.
Ma la morte che nell’economia del romanzo riveste una rilevanza particolare è la morte del padre dei due fratelli, Grato, che si suicida sparandosi il fucile da cacciatore in gola.
Anche in Le otto montagne vi è un padre protagonista. E’ un padre invadente, egoista, preoccupato unicamente di gareggiare con se stesso e con gli altri per il gusto di arrivare primo in cima alle vette. E’ un padre che il protagonista di quel romanzo mal sopporta, ma che un malinteso senso di devozione figliale costringe a rispettare e ad assecondare.
In Giù nella valle, questo padre finalmente si toglie di mezzo, libera i figli della sua ingombrante presenza e i figli possono finalmente respirare. In particolare Luigi riuscirà a dare una positiva svolta alla sua esistenza, supportato dalla gradevole e benefica presenza della moglie Elisabetta, che lo renderà padre di un bel maschietto, e colla quale ricomincerà una nuova e forse appagante esistenza nella casa di montagna ereditata dal padre, che provvederà a ristrutturare.
Diversa la sorte di Alfredo, condannato ad una esistenza di perpetuo fuggiasco latitante.
Per concludere, dirò, "pappagallando" Flaubert, che sia Le otto montagne che Giù nella valle c’est moi.
Quando poco sopra consigliavo di leggere i due romanzi uno di seguito all’altro volevo dire questo: nel primo il protagonista si muove un po' alla cieca, a tentoni. Pietro cerca disperatamente di annullare le barriere che lo dividono dal padre, ma senza successo. E’ così che cerca un surrogato di padre, o di fratello maggiore, nella figura di Bruno, col quale stringerà una amicizia solida e inossidabile, fino alla morte dell’amico. Si tratta peraltro di un rapporto senz’altro autentico ma che, nella sua essenza simbiotica, evidenzia un rapporto di dipendenza psicologica di Pietro da Bruno.
Per contro, in Giù nella valle Luigi diventa adulto, finisce per non avere più bisogno né di padri, né di fratelli, né di amici. La stella polare che da allora in avanti lo guiderà sarà una donna, Betta, e la prospettiva di diventare a breve padre.
Leggo pertanto in entrambi i romanzi una filigrana di tipo psicoanalitico.
Le montagne, come potete vedere, rivestono pertanto un ruolo decisamente da comparsa e non da protagonista.
Il primo che si azzarderà a darmi dello scrittore di montagna, giuro che lo prendo a calci in culo.
Ma voglio concludere questo ameno florilegio di sproloqui con una confessione.
In realtà io sono perfettamente consapevole che la montagna non ha mai avuto finora una grande fortuna nella storia della letteratura, non ha mai praticamente funzionato come set di particolare successo.
Gli autori la cui Musa alberga sulle innevate vette sono rarissimi e ho qualche difficoltà ad individuarne qualcuno di qualche spessore.
C’è il vecchio buon Rigoni con le sue cronache di alpino in guerra sulle montagne della Valle d’Aosta e dell’Albania, c’è qualche passo del buon vecchio Ernst che va a sciare in Svizzera, c’è il caro buon vecchio Buzzati e la sua fortezza Bastiani arroccata in montagna ma in verità qui a rubare la scena non è tanto la montagna in quanto tale, quanto il deserto che la circonda. Vi sono i raccontini del buon Giacosa ambientati in Valle d’Aosta, ma sono talmente sbiaditi e privi di charme che è meglio non parlarne.
Le colline, Pavese insegna, devo dire che hanno riscosso maggiore successo e sono decisamente più gettonate.
E se passiamo dalla prosa alla poesia le cose non vanno poi meglio, anzi. A parte il camoscio che salta e la valanga che tuona non vedo altri grandi exploit.
Rimanendo in tema di valanghe, la montagna ha avuto invece maggior successo nella cinematografia, soprattutto in quella catastrofista, con la pletora di valanghe assassine. Per non parlare del vecchio Herzog, beninteso su di un piano decisamente più alto.
Per contro, volete mettere invece la popolarità di cui mari e oceani hanno goduto e continuano a godere in letteratura ?.
A cominciare dal buon vecchio Omero e dalla sua Odissea ambientata nel Mediterraneo.
E che ne dite di:
Il vecchio e il mare, L’isola misteriosa, L’isola del tesoro, I mari del sud del vecchio Jack, buona parte dei romanzi del buon vecchio Salgari e del buon vecchio Cecil Scott Forester col suo capitano di lungo corso Hornblower, per non parlare di Moby Dick , di Conrad, di Melville, di Ventimila leghe sotto i mari e via veleggiando ?
Il mare è evidentemente più fotogenico rispetto alla montagna, attira di più il pubblico.
Il vecchio caro buon Sigmund spiegherebbe che forse il mare, e soprattutto la mer, rimandano alla madre (mère), all’inconscia nostalgia del grembo materno e via cazzeggiando.
Tanto premesso, non stupitevi se il mio prossimo romanzo deciderò di ambientarlo sull’isola d’Elba.

P.S.
Voi tutti accaniti frequentatori di blog social fessbuc e amenità simili sapete che uno dei miei Virgili, lo mio principale duca e lo mio autore, il padre letterario di cui mi compiaccio di essere figlio, erede e fedele esecutore testamentario è il buon vecchio Jack LONDON. Sapete anche che al secondo posto figura il caro Ernst. Sapete anche, e se non lo sapete, vi aggiorno io, che entrambi hanno lasciato questa valle di lacrime suicidandosi.
Hemingway sparandosi col fucile da caccia, LONDON come ultimo atto di una vita passata a nuotare nell'alcool. In somma, un po' la fine che ha fatto il padre di Luigi e che probabilmente è destinato a fare suo fratello Alfredo.
Buona sera a tutti.
Claudio GARD

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    25 Novembre, 2023
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Una storia un pò stanca

Questa è la storia di un amore impossibile che diventa realtà, un amore fra una ragazza semplice ed un ragazzo ricco e di buona famiglia, con il contrasto della madre di lui e del padre di lei. Con una gravidanza inattesa e con la scelta personale di questa ragazza, che decide di vivere la sua vita, senza alcun ricatto. E’ la storia di più amori che si intrecciano, di amicizie e anche di dolori, perché la vita è sempre un puzzle delle emozioni più diverse. Le più forti vincono ed in questa storia è l’amore a vincere. Ho trovato però la lettura un po' stanca e un pochino trascinata. Più un romanzo stile adolescenziale che frizzante come l’autrice ci aveva abituati. Penso che sia stato scritto in un periodo particolare della vita dell’autrice, come si deduce anche dai ringraziamenti. E questo ne ha influenzato notevolmente lo stile narrativo.

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Romanzi
 
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    24 Novembre, 2023
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Chiamatela umanità

L'esodo, successivo alla Grande Depressione, che colpì le campagne degli Stati Uniti e che fece emigrare decine di migliaia di disperati verso l'Ovest, nella speranza vana, di trovare lavoro e cibo.
Un libro durissimo, con descrizioni feroci della fame e della disperazione di bambini, donne, anziani, uomini comuni.
C'è un film tratto dal romanzo.
E' un bel mattone, cui bisogna approcciarsi con cautela, poichè tocca temi molto spinosi, di natura etica e religiosa.
L'uomo come strumento di produzione e consumo. Le nascite di esseri, già segnati nel destino, che sarà drammatico.
La follia generata dalla privazione, la fame, la mancanza di speranza: emblematica la scena durissima, di un disperato che preferisce lasciarsi al suo destino, perdendosi tra i Canyon del Colorado, in solitudine, piuttosto che proseguire questo viaggio senza speranza verso una terra ostile, violenta, marchiata dalla brutalità delle autorità e degli uomini.
Il povero che giudica e flagella il suo simile.
Il ricco che perde la cognizione della realtà e accumula quantità spropositate di terre lasciandole marcire piuttosto che cederle a questi miserabili accampati affamati e furenti sulle strade arse dal sole.
Bambini che si lottano un mestolo di zuppa, che sopravvivono nutrendosi di radici e frugando nelle immondizie.
Corpi scavati dalla pellagra.
Denutrizione, denti che marciscono, parti in mezzo alle discariche.
Si muore su un materasso marcio, appoggiato in terra. Non si hanno i soldi neanche per una croce e si seppellisce il corpo sotto a un ponte.
Le macchine che sostituiscono l'uomo al lavoro. Le nascite incontrollate nelle classi sociali più povere. L'ignoranza in cui viene tenuta la maggior parte della popolazione.
La sovrappopolazione per creare una nuova forma di schiavismo, legato alla mancanza di lavoro e di cibo per tutti.
Libro che tocca temi attualissimi, universali e che lascia con l'amaro in bocca, pensando a come questa società si sia edificata senza morale alcuna, sfruttando gli oppressi, arricchendo degli eletti e gettando al macero ogni parvenza di moralità e di umanità.

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Lo scannatoio di Zola
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    24 Novembre, 2023
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Nino sarà mica discendente di Priapo?

Nonostante qualche piccolo difetto, "L'amica geniale" si era rivelata la lettura affascinante e coinvolgente che tutti mi avevano promesso. Eppure ho esitato parecchio prima di prendere in mano la mia copia di "Storia del nuovo cognome"; vi potreste chiedere come mai, specie se avete in mente l'emozionante conclusione del primo libro. La ragione è estremamente sciocca e superficiale, ma non per questo meno vera: trovo le copertine di questi volumi la quintessenza della depressione! appena le vedo, ogni interesse per il contenuto al di sotto viene eclissato dal senso di malinconia che mi trasmettono queste foto, adatte al massimo per un opuscolo religioso.

Ma andiamo alla trama, che la casa editrice annuncia di non volerci spoilerare nella sinossi. Più semplicemente, non c'è proprio nulla da spoilerare: come nel primo volume, la narrazione segue la vita quotidiana delle giovani Raffaella "Lila" Cerullo ed Elena "Lenù" Greco, la nostra voce narrante. Il primo capitolo riprende in parte la premessa del libro precedente, con l'anziana Lenù che ripensa a quando, verso la metà degli anni Sessanta, l'amica le affidò un plico di quaderni contenenti i suoi pensieri della giovinezza; grazie alla lettura di questi diari, la donna riesce a colmare diverse lacune nella narrazione, mostrando anche il punto di vista di Lila o descrivendo degli eventi ai quali non assiste in prima persona. Le vicende raccontate partono dal matrimonio di Lila e Stefano Carracci, passano per gli ultimi anni di liceo ed il periodo universitario di Lenù ed approdano a quando quest'ultima -ormai diventata una giovane donna dal futuro promettente- fa ritorno al rione e scopre com'è cambiata nel frattempo la vita della sua amica d'infanzia.

A contornare le vite delle due protagoniste, abbiamo il solito cast di parenti ed amici, che si fa via via sempre più numeroso e variegato. Leggere le interazioni tra questi personaggi è uno degli aspetti che più ho apprezzato: che si tratti di momenti d'affetto o di contrasti astiosi, Ferrante riesce ad evocare sempre delle reazioni genuine nelle quali è semplice interpretare i sentimenti delle parti coinvolte. Questo porta ovviamente ad dover sopportare la presenza di parecchi caratteri terribili -scritti di proposito per ispirare delle emozioni molto negative-, ma non credo incida sulla godibilità del testo.

Esattamente come i personaggi, anche le ambientazioni vengono tratteggiate con cura, tanto che ogni luogo riesce a trasmettere delle sensazioni diverse: dalla caoticità del rione napoletano, all'elitarismo dell'università di Pisa, alla spensieratezza della spiaggia ad Ischia; rendendo la narrazione più dinamica, l'autrice ha anche più margine di manovra in questo senso. Allo stesso modo i rapporti tra i personaggi si fanno più complessi, senza per questo dare un senso di realizzazione alle loro vite: tutto può ancora succedere, tutto può ancora cambiare, chi oggi si sente arrivato domani potrebbe scoprirsi il vinto.

A frenarmi dall'assegnare il massimo della valutazione sono il POV di Lenù ed il focus un po' eccessivo sulle relazioni sentimentali, specie quando erano presenti tanti altri spunti interessanti da poter affiancare al tema centrale dell'amicizia tra Lenù e Lila, come il valore dell'istruzione, la situazione politica dell'epoca o le disparità sociali. Per quanto riguarda la voce narrante, la mia critica è data dal modo eccessivamente ingenuo con cui descrive le azioni degli altri: lo capirei se ne stesse parlando al presente da giovane, ma è ormai una donna anziana ed ha già vissuto le conseguenze di queste azioni, quindi non ha senso simuli una simile ignoranza.

Altro piccolo neo è la prevedibilità delle svolte di trame, tutte facili da indovinare o perfino suggerite dalla prosa stessa. Pur amando gli intrecci più complessi, non lo considero però un difetto vero e proprio, perché la narrazione stessa ha un'impronta prevalentemente domestica e non punta certo a sorprendere il lettore con degli avvenimenti eccezionali. In compenso, apprezzerei davvero una sfoltita al cast: non dico di introdurre un serial killer, ma in questa serie c'è fin troppa gente per i miei gusti!

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Romanzi autobiografici
 
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68 Opinione inserita da 68    23 Novembre, 2023
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Thriller psicogeno

….” se quelle canzoni parlavano, come un tempo avevo pensato, di un bambino che diventava uomo, ora parlavano anche, per il cinquantaseienne che ero, di un uomo che era rimasto bambino”…

“ Schegge “ è un ritorno ai primi anni ‘80, al Bret studente diciassettenne all’ ultimo anno dell’ elitaria Buckley School, una trama intrecciata e incastrata nel delirante e psicogeno mondo holliwoodiano tra feste, droga, alcool, sesso, filmografia, che sguazza in un’ epoca minimalista ispirata alla new wave e al punk, è Robert Mallory, un nuovo compagno di classe intrigante, sexy, bugiardo, è l’orrore e la paura che incute uno spietato serial killer detto il Pescatore a Strascico che si aggira nell’ ombra torturando e sventrando giovani corpi.
Giochi proibiti, desideri impuri, assenze genitoriali, ricchezza sfacciata, gesti estremi e annoiati, un mondo di niente che aspira al tutto, il desiderio di diventare uno scrittore, vuoto esistenziale in un’ anestesia del presente che vive di narrazioni parallele, confluenti e discordanti, di vicinanze lontane, di incubi, maschera artefatta di una dissoluzione famigliare accettata e protratta che ha prodotto e produce dolori e sofferenze .
Chi è realmente Bret, cosa nasconde Robert Mallory, quale il volto dell’ assassino, che cosa sta accadendo tra reale e immaginario, la trama di un film, una recita a soggetto, semplice invenzione narrativa, le memorie di uno scrittore in difficoltà, una consapevolezza ritardata a quarant’anni di distanza?
Di certo l’ autunno del 1981 ha segnato il momento dell’ ingresso nel mondo edonista e noncurante degli adulti con l’ accettazione di una serie di eventi che avrebbero condotto in città una certa dose di follia e che si sarebbero pagati a duro prezzo. Ci addentriamo nella perfetta trama di un film, un thriller dai contorni horror che origina dalla reiterata noncuranza di una classe elitaria che si nutre dei propri privilegi, legalmente amorale, legittimamente cinica, giovani in fuga da un dolore non riconosciuto, circondati e immersi in un senso di vuoto che ha il volto di una maschera di noncuranza.
Ciascuno si specchia nell’ altro vivendo la propria solitudine, Bret, la voce narrante, è travolto da impulsi erotici, recita la parte del fidanzatino amorevole, accarezzando e respingendo la propria declinazione erotico-sentimentale, travolto da un’ ondata di efferatezza, aspira alla fama letteraria, strafatto da un micidiale cocktail di alcool, farmaci, droghe, sesso, in parte ancora sconosciuto a se stesso, un adolescente completamente solo in un’ enorme casa svuotata della presenza genitoriale.
È lui la voce narrante, a quarant’anni di distanza, è lui a esporre i fatti, a porsi domande e risposte, a tracciare le linee di una trama semplice sempre più complessa.
È lui a ricordare i fatti, a tessere una tela che sembra svanire ma che ogni volta ritorna, accarezzando l’ inverosimile, spingendosi oltre, terrorizzato da supposizioni che non hanno riscontro se non nella proprio testa appesantita. La narrazione si protrae a lungo senza che nulla accada, rinchiusi in una piccolezza che si crede grande, immobilizzati dalle proprie certezze e da quel mondo imperiale nel quale si vive.

….Il sesso, i romanzi, la musica, i film rendono la vita sopportabile, non la famiglia, la scuola, la scena sociale, le relazioni”….

Per Bret, che presto sarà uno scrittore acclamato, l’ autunno del 1981 segna il passaggio dall’ adolescenza all’ età adulta, quando il dolore e la morte portano a una neo consapevolezza di se’, segnano il punto di rottura, il collasso, la perdita dell’ innocenza, l’ inizio della fine, un trauma portato avanti per sempre.
Un accadimento che ha cambiato la vita e non c’e’ nulla che si possa fare, soli con se stessi, oggi si guarda a quella storia con occhi diversi in anni generosi, una storia nella quale il mistero e il dubbio restano e resteranno, per sempre.
“ Schegge” e’ un ritorno agli anni di “ Meno di zero “ dell’ autore del famoso “ American Psyco “, è un lungo viaggio in quel 1981 che ha segnato un’ epoca e indirizzato una vita. La lunghissima recita degli accadimenti, noiosamente assorta in un cinicismo crudele ostentato sfacciatamente e orientato al proprio disfacimento, un microcosmo che nega il dolore e ne è sommerso.
I protagonisti sono giovani, sani e forti, nulla sembra toccarli, attori di un film di cui loro stessi sono in parte spettatori, una recita che a un certo punto miscela e confonde il vero e il presunto, i sogni dagli incubi, l’ amore dalla violenza se non quando li tocca direttamente.
Eppure, anche lì, toni e contorni si fanno sfumati, tutto si dissolve, nessun giudizio di merito, nessuna certezza, semplici accadimenti, il film volge ai titoli di coda, tutto è successo e riparte portando con se’ il proprio senso di disfacimento e una gravosa presenza.

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Fantasy
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    21 Novembre, 2023
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Le orge dionisiache le immaginavo più trasgry

All'inizio dell'estate mi ero ripromessa di sfruttare questa stagione per recuperare alcuni retelling di miti classici che da un po' languivano nella mia libreria, e -basandomi sulle sinossi- contavo di essermi tenuta per ultimo il migliore. Con un ribaltamento che renderebbe fiero Alessandro Borghese, "Arianna" si è invece rivelato il più deludente dei tre titoli, dimostrando tutte le debolezze tipiche delle riscritture tanto in voga negli ultimi anni.

La narrazione si mantiene grossomodo fedele al mito e segue la principessa Arianna dall'infanzia trascorsa presso la corte del padre a Cnosso, passando per gli anni dell'età adulta a Nasso ed arrivando al confronto tra Dioniso e Perseo, nel quale l'autrice la immagina coinvolta in prima persona. Nella parte centrale del volume, al punto di vista di Arianna viene affiancato quello della sorella minore Fedra, con un ruolo che preferisco lasciarvi scoprire nella lettura, ma sempre attinente nei punti principali alla storia originale. La principale differenza sulla quale ha scelto di focalizzarsi Saint è la crudeltà dei personaggi maschili, tutti descritti come bugiardi, opportunisti ed indifferenti alle conseguenze delle proprie azioni; lungi da me voler dire che fossero perfetti, ma questa generalizzazione mi è risultata fastidiosa.

Non mi posso dire fan neppure della prosa della cara Jennifer, caratterizzata da dialoghi tanto lunghi quanto retorici sfruttati per raccontare degli avvenimenti che magari sarebbe stato più interessante veder mostrati in modo diretto; in questo modo invece, si assiste ad interminabili monologhi in cui il personaggio di turno illustra ad Arianna gli eventi che riguardano ad esempio Dedalo, Medusa o Ippolito. A mio avviso, con un po' di impegno, si sarebbe potuto ovviare o almeno arginare questa problematica.

Anche la caratterizzazione dei personaggi non mi ha convinta affatto, e penso in particolare ai coprotagonisti. L'autrice cerca di dare loro una personalità, ma allo stesso tempo vuole a tutti i costi rispettare la lore: ecco perché ci ritroviamo con una Pasifae apatica che però maledice comunque le amanti di Minosse, oppure un Teseo -abbastanza sveglio per sconfiggere mostri e dar lustro alle proprie gesta- raggirato da una ragazzina di tredici anni. Ad aumentare il senso di confusione contribuisce il modo bizzarro con cui sembra trascorre il tempo.

Pur considerando valida la scrittura di Arianna, ho trovato poi fastidiosa la sua propensione per l'indolenza; Fedra risulta leggermente più interessante ma compare troppo poco, ed il tanto sbandierato affetto fraterno che dovrebbe teoricamente legarle non ha delle solide basi in queste pagine, nelle quali entrambe lasciano trascorrere anni interi prima di tentare di ritrovarsi. Ultima, e forse peggiore, nota dolente è l'intreccio, per cui questo non sembra un vero romanzo ma piuttosto una raccolta di episodi con dei personaggi ricorrenti; per questo motivo si rimane perplessi di fronte alle mal strutturate svolte di trama.

È proprio un titolo dal quale stare alla larga, quindi? non credo. Potrebbe piacervi se non conoscete questi personaggi e siete curiosi di scoprire la loro storia, o al contrario se già vi piacciono moltissimo e volete leggere una versione leggermente romanzata (ma quasi sempre fedele) dei loro miti. Inoltre il messaggio di fondo -sull'ingiustizia patita da tante donne a causa dei loro uomini- non è per nulla malvagio, e si accompagna anche a delle riflessioni sulla maternità, mostrata da diverse prospettive.

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Classici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Novembre, 2023
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Hede

«[…] No, chi fa felice un’altra persona è già un artista e lei, Ingrid, doveva conservare i suoi occhi e il suo sorriso per un solo essere umano, riservarli unicamente a lui, e quell’essere umano non l’avrebbe mai abbandonata al contrario, le avrebbe offerto un rifugio sicuro finché fosse vissuto. […] Hede si congedò da loro e tornò a casa. Non cercò più di trovare un significato nascosto della sua avventura. Tutto sommato, non c’era altro senso a tutta la vicenda che l’aver salvato quella povera ragazzina triste dal tormentarsi a morte sulla propria inadeguatezza.»

Prima donna insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1909, ex maestra, Selma Lagerlof propone ai suoi lettori un testo che prende per mano e accompagna in un universo a metà tra il romanzo e il fiabesco grazie all’uso di uno stile tipicamente del genere. Ed è una storia, “Il violino del pazzo”, che si articola su più piani. Tutto parte da un violino e dalle sue note così seducenti da riuscire a inibire la mente e a staccarla da ogni altro pensiero e impegno. La musica è vita, è fonte di dolcezza, amore, speranza ma può essere anche condanna se diventa una ossessione. Gunner Hede, protagonista, è un giovane studente baciato dalla bellezza e dal talento ma anche un unicum con il suo strumento. Tale è la sua dipendenza da questo da restare indietro sugli studi, l’isolarsi dal mondo, il vivere una realtà fatta di note musicali e niente altro. Anche apprendere che la madre vive di stenti per permettergli di studiare, loro che appartengono (o appartenevano) a una famiglia benestante, ben poco lo scuote. Questo sino a che il suo strumento non viene affidato ad un amico tanto da costringere il musicista a separarsene. Da questo momento in poi per Gunner inizia un periodo di perdizione, un arco temporale in cui deve aiutare la famiglia a risollevarsi da sorti infauste ma in cui avrà come venduto l’anima al diavolo: Gunner perde totalmente e interamente la cognizione di sé, della ragione. Sarà preda di una follia che lo porterà a vivere la sua condizione nella più totale inconsapevolezza.

«I cimiteri erano perfino meglio dei boschi, perché nei boschi la solitudine era così grande che gli faceva paura.»

Nemmeno la giovane e bella Ingrid, ambulante dagli occhi magnetici, riuscirà a scuoterlo. Lei che da lui è stata strappata dalla strada riesce a strapparlo dalla malattia. Anche se ci sono dei momenti in cui l’uomo torna a rivivere la propria integrità, non sono che attimi. La memoria sembra essere svanita, il ricordo è sbiadito. Hede dialoga con gli animali, apprezza le silenziose presenze all’interno dei cimiteri, ignora il ricordo. La memoria non sembra sopravvivere.
Ingrid farà leva sull’amore, l’arte, la musica, la resilienza, la pazienza per cercare di risvegliare Hede e riportarlo alla vita. Hede a suo tempo ha salvato Ingrid da una morte certa, adesso è Ingrid che vuole salvare Hede da quella follia che cela l’angoscia. Ma come restituire vita a chi è malato di nostalgia? È possibile staccarsi dai ricordi dolorosi, imparare a conviverci, sopravvivere a un mondo che sembra essere fatto solo di tenebra?
Con “Il violino del pazzo” Selma Lagerlof dona ai suoi lettori un romanzo di una apparente semplicità ma in realtà di una forza devastante. I sentimenti sono di una semplicità unica, la vita si snoda nelle sue declinazioni più variegate, la “speranza” è il leitmotiv che accompagna una narrazione intensa e intrisa di potenza narrativa.

«Ma era soprattutto un indefinito senso di gioia che si risvegliava in lui, per la pattinata e per la bellezza della sera. In serate di chiaro di luna come quella non si poteva non andare a pattinare.»

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    18 Novembre, 2023
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Una casa (e un telefono!) da horror.

Molta perplessità dopo la lettura, non facile, di questa prima esplorazione nel genere horror di Jo Nesbo. Perplessità dovuta soprattutto ai diversi piani narrativi che caratterizzano il romanzo. Nella prima parte incontriamo un giovane, Richard, che, dopo la morte dei genitori, viene ospitato dagli zii: il ragazzo appare introverso, non ha molti amici, preferisce vagare da solo in campagna, seguito da un altro ragazzo, Tom. Da una cabina isolata chiamano un numero misterioso, scelto, a quanto sembra, casualmente: ed ecco il primo colpo di scena, Tom viene in ingoiato lentamente dalla cornetta del telefono e, poco dopo, un altro ragazzo che li seguiva si trasforma in un insetto e vola via, scomparendo nella foresta. Ovviamente nessuno crede alla versione di Richard sulla scomparsa dei due giovani. Chiuso in un riformatorio, Richard fugge e arriva in una misteriosa villa dall’aspetto cupo e decadente: le radici dei tronchi di alberi giganteschi sembrano afferrarlo, un incendio divampa, nuova fuga e rientro in riformatorio …
Nella seconda parte Richard è cresciuto, sono passati quindici anni, è uno scrittore affermato ed organizza una rimpatriata al paese. Ricorda vicende dell’infanzia, la tragedia dei genitori, un padre violento che, allontanato da casa, ritorna fingendosi pentito: uccide però la moglie e vuole gettarsi nel vuoto con Richard, che si salva. I vecchi amici si ritrovano in una villa, ove tutto sembra trasformarsi: circondano Richard come lupi affamati, sembra che vogliano divorarlo ma lui fugge, cade in un torrente, ne esce, viene raggiunto e …
Arriva la terza parte del thriller, quella che sembra chiarire tutto. Il povero Richard emerge dal sonno e da un lungo periodo di ricovero in una clinica psichiatrica: addirittura da quindici anni, per episodi di schizofrenia e psicosi con deliri, durante i quali era stato più volte sottoposto ad elettrochoc per dimenticare episodi traumatici. Per dimenticare la casa nel bosco, il telefono assassino, i sogni inquietanti , il branco di amici famelici come lupi : eppure tutto sembrava vero, i ricordi non sono del tutto sbiaditi. Fortunatamente Richard torna alla realtà anche grazie ad una terapeuta già viva nel passato e pronta ad accompagnarlo in una nuova rinascita, Karen, alla quale racconta la tragedia familiare vissuta all’età di tredici anni …
Che dire? L’atmosfera è cupa e coinvolgente, il thriller si mescola ad elementi sovrannaturali e fiabeschi, tuttavia il disagio post-traumatico di Richard impegna Jo Nesbo in uno “sforzo” narrativo che, almeno a mio parere, non convince appieno.
Pur consigliandone la lettura, preferisco il Jo Nesbo autore della famosa serie di Harry Hole, che l’ha consacrato “re del giallo norvegese”.

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Romanzi
 
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camillaru Opinione inserita da camillaru    15 Novembre, 2023
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La squallida passione di un uomo ordinario

Che storia vuole raccontarci Simenon con questo romanzo? Una storia d'amore? Di passione? Oppure, più verosimilmente, una squallida parentesi di vita di un uomo ordinario?

"Il treno" inizia con uno spaccato di felice vita familiare: l'odore del caffè che si diffonde in una casa di un villaggio di campagna, abitata da una bambina, una donna incinta e un padre che si prepara ad una giornata di lavoro nella bottega adiacente all'abitazione. Sembra una normale e soleggiata mattina di agosto a Fumay, piccola cittadina sul confine francese, quando la Guerra irrompe con tutta la sua violenza costringendo gli abitanti all'evacuazione. Tra questi c'è anche la famiglia di Marcel, che, dopo aver chiuso rapidamente i bagagli, si dirige alla stazione insieme a sciami di profughi per salire su uno dei pochi treni disponibili. Moglie e figlia da una parte, marito dall'altra: Marcel si ritrova all'interno di un carro bestiame che, a causa degli stravolgimenti della guerra, sarà addirittura separato dal resto del convoglio, finendo, infine, a La Rochelle.

Quello che succede nel vagone del treno rispecchia perfettamente la sospensione della morale in tempo di crisi raccontata dai più celebri autori della letteratura di tutti i tempi (da Tucidide con la peste di Atene, a Manzoni con gli avvenimenti di Milano). E così anche Marcel, in poche ore, dimentica i propri doveri coniugali e si abbandona alla passione insieme ad Anna, una donna ceca di origine ebrea salita a bordo dopo l'evacuazione di una prigione.

Sicuramente straniante è, dal primo momento, l'indolenza (per non dire indifferenza) del protagonista di fronte agli stravolgimenti imposti dalla guerra: non un momento di esitazione, né di avvilimento o disperazione, anzi, quasi una certa compiacenza nei confronti del destino che lo allontana dalla propria apparentemente idilliaca vita quotidiana. È un uomo banale, Marcel: cagionevole fin da bambino, privo di qualsiasi specifica qualità, fortemente miope (la sua unica preoccupazione è quella di ritrovarsi senza gli occhiali di scorta nella tasca), sembra essersi trovato per caso nella sua vita borghese, tanto da non dispiacersi affatto di doverla abbandonare. Anche nella ricerca del vagone che ospitava sua moglie e sua figlia, Marcel agisce con un certo automatismo: si reca ogni giorno a controllare gli elenchi degli sfollati senza mostrare particolare apprensione, e torna indietro serenamente quando si accorge che i nomi da lui cercati non sono nella lista.

Anna, dal canto suo, si attacca a lui con l'ostinazione di un cane fedele: lo segue ovunque, in silenzio, senza fare domande e senza spingersi oltre il limite invalicabile che è la vita fuori dalla condizione in cui si trovano. Vivono clandestinamente in un campo profughi per cittadini belgi, e quel luogo di disperazione diventa la loro oasi d'amore, in cui fanno colazione al bar, comprano vestiti e si abbandonano a lunghi picnic sulle spiagge del porto. Entrambi consapevoli della mancanza di un domani, sospesi in un limbo i di quella che Anna chiama, puerilmente, felicità.

Quei momenti sono destinati a finire e, infatti, finiranno. La storia ci viene raccontata da Marcel nella speranza di lasciare al figlio un'immagine diversa di sé stesso, dimostrandogli che, anche solo per un breve periodo, è stato in grado di provare delle passioni. Ma è davvero così?

Marcel non ha, in realtà, passione per nulla. Vive in una bolla, completamente estraniato dal mondo che lo circonda, come se la miopia gli affliggesse più il pensiero che la vista in sé. Non si preoccupa della figlia e della moglie lontane, né del figlio in arrivo in un ospedale di guerra; non si preoccupa di aver abbandonato il proprio laboratorio a dei predoni stranieri, tantomeno di lasciare gli animali della sua fattoria incustoditi e destinati alla morte. E non si preoccupa nemmeno di Anna, che abbandonerà (apparentemente) con più dispiacere rispetto al resto, salvo poi riservarle la stessa indifferente brutalità alla fine del romanzo.

È un libro che scorre lento, nonostante i continui stravolgimenti della sorte, proprio per la mancanza di trasporto del protagonista su cui sono incentrati gli avvenimenti. Sembra di assistere costantemente alla rivincita di un uomo che, nella sua vita, non ha mai potuto fare ciò che realmente voleva (per fortuna, aggiungerei). La sua libertà si manifesta nella possibilità di deresponsabilizzarsi, di vivere solo per sé potendo trascurare le conseguenze delle proprie azioni. Quando, al contrario, la quotidianità ritrova il suo ordine e ogni azione ha il peso che le spetta, non esiterà a mettere a repentaglio la vita di chi dice di amare pur di non modificare niente della sua ordinaria esistenza borghese.

Non il migliore romanzo di Simenon, nonostante meritino una menzione speciale i meravigliosi momenti di lirismo nel descrivere gli atti della passione erotica.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    15 Novembre, 2023
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Copiare da se stessi è considerabile plagio?

Ormai tra i miei obiettivi da lettrice mi sono posta in via definitiva quello di recuperare tutti i romanzi ed i racconti su Miss Marple (e anche su Hercule Poirot, ma in quel caso il traguardo è decisamente più lontano). Seguendo sempre l'ordine cronologico, rimaniamo ancora nei primi anni Cinquanta quando venne pubblicato "Polvere negli occhi", ennesimo caso di un titolo storpiato senza ragione. O forse la ragione è da ricercare nel termine inglese rye, che nello stesso periodo stava facendo sospirare i traduttori de "Il giovane Holden".

Il romanzo ci porta come in molte altre opere della cara Agatha nella campagna inglese dove sorge la dimora dell'imprenditore Rex Fortescue. L'uomo d'affari muore a causa di un strano malore dopo aver fatto colazione; ciò spinge la polizia a sospettare di un avvelenamento, e ad avviare la conseguente indagine. Il delitto del capofamiglia dei Fortescue non è purtroppo l'unico presente nel romanzo, e questo porterà una certa vecchina appassionata di lavoro a maglia ad interessarsi al caso.

Di base ci troviamo quindi in un contesto familiare ai christiani, che di certo apprezzeranno la struttura del mistero ed il delicato acume con cui Miss Marple riesce a districare l'intreccio. Il romanzo ha dalla sua anche la presenza di alcuni personaggi decisamente brillanti e svincolati dai soliti stereotipi: è il caso della professionale governante Mary Dove, del bislacco dottor Bernsdorff e dello stesso ispettore Neele, che conduce l'indagine in modo alquanto intelligente.

Mi è piaciuta molto la scelta di alternare tanti POV, perché in questo modo si riesce sia a portare avanti la trama mystery, ma anche a far sorgere il dubbio nel lettore per quanto dichiarato da alcuni personaggi, oltre a poter inserire dei momenti più leggeri e divertenti: la scena iniziale, con il caos generato dalle dattilografe di Fortescue, risulta parecchio comica.

Eppure nel complesso il volume supera di poco la sufficienza... perché? Innanzitutto soffre di un problema comune a diversi altri capitoli della serie su Miss Marple, ovvero la scarsa presenza proprio di Miss Marple; pur riuscendo a venire a capo del mistero, la presunta protagonista compare solo in una manciata di scene, e questo rende le sue deduzioni un po' troppo rapide per essere credibili, specialmente perché non si presenta come un genio dell'investigazione in stile Poirot.

In secondo luogo, la risoluzione del caso è parecchio scontata, e non perché io abbia sviluppato uno straordinario intuito, ma perché ha diversi elementi in comune con un romanzo precedente di Christie stessa; la complessità dell'intreccio è penalizzata anche dal modo in cui l'autrice sottolinea degli indizi nella narrazione. Abbiamo inoltre delle sottotrame rimaste in parte irrisolte, quasi lasciate alla libera interpretazione del lettore: capisco che l'intento fosse quello di complicare la trama, ma solitamente nei gialli si cerca di spiegare al meglio le motivazioni di tutti i personaggi, per arrivare con chiarezza alla scoperta del colpevole.

Infine, un difetto che riguarda solo la sottoscritta, e chi come me acquista i libri della cara Agatha all'usato: la traduzione. Negli anni successivi è stata fortunatamente rifatta, ma nella mia vecchia copia sono presenti diversi refusi, nonché termini tradotti in modo scorretto. Però parliamo di un volume pubblicato negli anni Settanta, quindi nessuna meraviglia.

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WottaCambija Opinione inserita da WottaCambija    14 Novembre, 2023
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Uno spasso

Come buona parte dei libri di Bukowski, se ci si lascia trascinare dalla scrittura senza troppi moralismi, l'esperienza della lettura diventa uno spasso. Post Office, insieme a Panino al prosciutto e Pulp, trovo che sia uno dei libri meglio riusciti di Bukowski. Ha una struttura simile a quella di Factotum fatta di capitoletti molto brevi che scivolano via veloci tra risate, sgomento e amarezza. A differenza di Factotum, Post Office è decisamente più dinamico e meno monotono, con un'evoluzione (o involuzione a seconda dei punti di vista) del personaggio. Certo bisogna entrare nell'ottica del personaggio, spesso sboccato, alcolizzato e a tratti misantropo. Se volete prepararvi al meglio a questo libro, capendo meglio il personaggio, leggetevi prima Panino al prosciutto, ovvero l'infanzia e l'adolescenza del buon Henry Chinasky (alter ego di Bukowski in questi racconti).
Bukowski ha una capacità che pochi scrittori hanno: far scoppiare dalle risate con le sue scenette tragicomiche, i "vasi di gerani sul culo" vi dico solo questo.

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Consigliato agli amanti del genere schietto, a tratti sboccato e a chi cerca una lettura leggera riuscendo a scindere la lettura dalla morale.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Novembre, 2023
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Abel Crow

«Lo facevamo in silenzio nelle grandi solitudini che dicevo, ai bordi del mondo conosciuto: così lontani da tutto che noi eravamo tutto, e il nostro nulla l’unica notizia.»

Il suo nome è Abel Crow ed ha ventisette anni. Tutto quel che sa lo ha imparato da suo padre, il Maestro, e si riduce in un gesto semplice: sparare. È un tutto e un niente ma in cui eccelle grazie al Mistico, un colpo che non ammette errori e che vede l’incrociare di due pistole colpendo il bersaglio di sinistra con la destra e viceversa e disegnando due segmenti pulitissimi e perfetti. È anche il suo colpo preferito oltre che uno sparo perfetto.
Abel deve però ricostruire una vita e una geometria ben più complessa che lo porta a indagare sul suo destino sino a ricomporlo e scoprirlo forse per la prima volta. Le pistole potrebbero non essere il suo divenire ma sarà solo dopo l’incontro con la bruja che egli arriverà a realizzare che ancora non è nato, che deve nascere davvero.
L’Ovest è un luogo di polvere e ombre. È un luogo dove vivono ingranaggi di bussole e orologi rotti, è un luogo dove il fischio di un fucile è eco persistente. Il presente si mixa con il futuro anteriore, il passato remoto non è più solo passato perché nel fondersi dello ieri e dell’oggi delinea una dimensione metafisica che porta il lettore a viaggiare nel tempo e nello spazio, a scandire il ticchettio dell’orologio rotto e a restare sospeso con esso.

«[…] Perché, gli spiego, il nostro mondo, di noi due, è solo un frammento tenuto insieme non da una mia volontà, o sapienza, ma dalla presenza di quell’uomo che ancora per un po’, non so quanto, conosce ciò che ignoro ed è per me la pietra solida su cui appoggiare la mia immaginazione mentre costruisco l’uomo che sarò.»

Molteplici sono le tematiche trattate tra queste pagine, tematiche che sono care all’autore e che già spesso, in passato, sono state riproposte. La sensazione leggendo questo western metafisico è di essere dentro al testo, di essere materia stessa di questo. Il tempo è l’altro baricentro che conduce nello spazio, governandolo e plasmandolo a sua immagine e somiglianza.
E tanti sono ancora i personaggi costruiti dall’autore e che portano Abel Crow a comprendere il bisogno di una nuova consapevolezza. Perché come anticipato, Abel non è ancora nato e solo osservando, uscendo da quel che è sempre stato, riscoprendosi anche per mezzo del volto della donna che ama e che possiede spesso con violenza non consapevole, potrà davvero assumere il suo posto nel mondo.

«Per il resto, quando cerco un senso a tutto questo finisco per rivedere una bruja che, sulle colline, mi guarda, ride e poi dice: sarà molto doloroso, ma un giorno, Abel, te lo prometto, nascerai.»

L’opera ultima di Alessandro Baricco si dipinge negli occhi del lettore in modo chiaro e cristallino. Volontariamente vengono a quest’ultimo lasciati spazi vuoti, in tal modo egli può interrogarsi, porsi domande, cercare risposte. In questi spazi di vuoto regna il silenzio e da qui l’interpretazione più intima di chi legge.
Se cercassimo di circoscrivere “Abel. Un western metafisico” non ci riusciremmo perché questo è tridimensionale, filosofico, usa l’espediente del western per delineare un qualcosa di più grande. Il risultato è un testo che non è solo un libro, che non è un romanzo, che è tempo che si scandisce e che trattiene come se il lettore vivesse una sorta di dilatazione temporale, di sospensione di questa.
Ecco allora che questo romanzo, iniziato diversi anni fa da Baricco, interrotto prima per il Covid-19 e poi dalla scoperta della patologia leucemica, giunge in profondità. Respinge, trattiene. Incuriosisce, affascina. Appaga e riempie. Un Baricco che fa sua ancora una volta la parola e crea una multidimensionalità unica. Da leggere.

«C’è da rimanere secchi dalla gratitudine e dalla consolazione. Voglia questo istante non abbandonarmi mai, e diventare parte di me, vita contro la morte, sangue sotto la pelle.»

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    13 Novembre, 2023
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Un sequestro da cento milioni di dollari.

Romanzo potente, affascinante, che mette in luce ancora una volta l’abilità narrativa di un maestro indiscusso del legal thriller, John Grisham. Il protagonista è l’avvocato Mitch McDegree, già noto per aver smascherato ne “Il socio” dello stesso autore uno studio legale di Memphis coinvolto in attività criminali. Molti anni dopo, Mitch è figura di spicco in uno dei più affermati studi legali di New York, Scully&Pershing, con centinaia di avvocati e filiali in tutto il mondo. La storia inizia con la richiesta di aiuto da parte di un associato di Roma, Luca Sandroni, per risolvere un caso intricato: un cliente turco titolare di un’importante impresa edile ha costruito in Libia, governata dal colonnello Gheddafi, un maestoso ponte nel deserto a più corsie, una follia nel nulla (si spera in una fantomatica sorgente sotterranea), ne attende il pagamento (centinaia di milioni di dollari) che Gheddafi rifiuta. Luca ricorre all’amico Mitch, che giunge a Roma, studia il caso, decide di recarsi in Libia per visionare la costruzione ma un’intossicazione alimentare ne impedisce la partenza: al suo posto partirà Giovanna, figlia di Luca e giovane avvocata della filiale di Londra.
La vicenda entra nel vivo: durante il viaggio nel deserto, una banda di terroristi blocca la vettura, sequestra Giovanna e si dilegua. Mitch torna in America sconvolto, si confida con la moglie Abby che avrà in seguito un ruolo di primo piano: è infatti con lei che i rapitori iniziano a trattare, chiedendo una prima volta cento milioni di dollari per la liberazione dell’ostaggio, poi dieci entro pochi giorni come anticipo. Inizia una angosciosa corsa contro il tempo, anche perché i rapitori hanno occhi dappertutto, sanno tutto di Mitch e della sua famiglia, costretta a fuggire dalla città per rifugiarsi in un’isola remota sulla costa atlantica. Il thriller non ha un attimo di tregua: la ricerca disperata di una somma così considerevole mette a dura prova le capacità di Mitch di trattare, ricercare, supplicare un aiuto, lo costringe a viaggiare più volte in Italia (Giovanna è figlia di Luca) e in Inghilterra (Giovanna è socia nella filiale inglese), in Turchia per sollecitare la pratica di riscossione del pagamento dovuto alla ditta di costruzioni. I terroristi intanto incendiano le sedi di Atene e Barcellona dello studio legale e inviano filmati di uccisioni e decapitazioni: la stessa sorte toccherà alla donna rapita se il pagamento non avverrà entro la data stabilita.
Naturalmente tutto è bene ciò che finisce bene. Abby dovrà volare a Marrakech, Mitch alle Isole Cayman, ben noti paradisi fiscali, a depositare una somma raccolta con grande fatica e da diverse fonti. Non dallo studio legale miliardario Scully&Pershing, eclissatosi nei momenti più difficili con motivazioni pretestuose. Per questo Mitch non ne vorrà più far parte e rassegnerà le sue dimissioni.
La trama del romanzo indubbiamente coinvolge il lettore, che non può non seguire emotivamente le vicende di Mitch e di Abby, alla frenetica ricerca di una soluzione: il tempo scorre inesorabile, le situazioni sono le più disparate, dall’incontro con personaggi autorevoli disposti a collaborare a riunioni con autorità che ascoltano per dovere professionale ma non intendono essere coinvolte in un complesso caso internazionale e per una somma di denaro così elevata. Più Paesi sono interessati, e per ognuno di essi Grisham dimostra una profonda conoscenza di usi e abitudini. Superfluo aggiungere che, laureato in legge e valente avvocato, John Grisham mostra un’invidiabile dimestichezza con vicende che coinvolgono studi legali di alto livello dove si lavora abitualmente sedici ore al giorno, il denaro scorre a fiumi e la competizione è ai massimi livelli; per i non addetti ai lavori, certi argomenti forse non sono di facile comprensione attenuando in alcune pagine la piacevolezza del racconto. Questa è forse l’unica pecca della narrazione, anche se la componente “thriller” è molto avvincente, una corsa
contro il tempo ricca di sorprese e colpi di scena.
Si consiglia senz’altro la lettura.




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"Il socio" di John Grisham e altre opere dell'autore.
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WottaCambija Opinione inserita da WottaCambija    13 Novembre, 2023
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L'attesa della primavera dopo l'inverno di povertà

Spaccato di una povertà autentica di una famiglia di immigrati italiani in America. Sogni, rabbia, amori e tradimenti si alternano cullati dallo stile unico, ironico e schietto di John Fante. Le pagine scorrono veloci e mai smielate da inutile idealismo.
La rivalsa dei Bandini non passa attraverso gli ideali nobili di fiabe e favolette. I "poverelli" qui non cercano la pietà di nessuno, sono incazzati e rabbiosi nel loro schiantarsi quotidianamente contro la miseria della loro realtà. Qui nessuno piange su se stesso, nessuno si rassegna a subire i piccoli grandi drammi di una vita di stenti, qui si combatte giorno dopo giorno con unghie, rabbia e preghiere, e se ci si lascia andare alla dolcezza è solo per impulsi momentanei. L'umanità nella sua totalità e non nel suo idealismo.
"Sei un uomo in gamba, papà! Stai uccidendo mamma, ma sei magnifico!"
Una nota finale allo stile di John Fante, a dir poco geniale nel mescolare i diversi punti di vista dei protagonisti del romanzo. Il capitolo relativo al Bandini padre preso dalle sue vicende con la vedova Hildegarde è a dir poco da applausi per come in maniera più o meno indiretta riesce a portar avanti una narrazione fluida e dinamica di eventi in evoluzione alternando il punto di vista della moglie di Bandini con le sue accuse (peraltro non presente direttamente nelle vicende specifiche) e la visione del Bandini stesso, con le sue spiegazioni. Applausi.

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Consigliata a chi ama confrontarsi con il realismo nudo e crudo senza fronzoli. Agli amanti di scrittori come Celine e Bukowski. Non mi meraviglierei di scoprire che Bukowski nel suo "Panino al prosciutto" (libro che ho amato tantissimo) abbia preso forte ispirazione da "Aspetta primavera, Bandini" (risaputa la devozione di Bukowski nei confronti di Fante).
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    12 Novembre, 2023
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Le sorelle

Bel libro degli anni '30 del Novecento italiano di A. Palazzeschi, autore certamente da riscoprire.
Nei pressi di quelle "colline amenissime" che circondano Firenze c'è la dimora delle note e molto ambite ricamatrici Sorelle Materassi, o meglio "come si legge in testa alle loro fatture (...): 'Cucitrici di Bianco-Corredi da Spose' " .
Due sorelle giunte, o quasi, ai 50 anni, "indissolubilmente unite e zitelle" .
Abilissime, ricevono ordinazioni da una clientela variegata : dame aristocratiche, prelati e qualche cocotte.
Veramente, le sorelle non erano due bensì quattro, di cui una defunta con un orfano quattordicenne che sarà l'unico protagonista maschile in quella casa di donne.

Palazzeschi ha una prosa gradevolissima, scoppiettante di humor, capace di rappresentare le attempate signorine con tratti irresistibili, senza tuttavia ridurle a mera parodia : sa cogliere pure l'umanità semplice e complessa di queste singolari figure femminili capaci di trovare un'emancipazione socio-economica fra le rare modalità che l'epoca concedeva alle donne.
Nella loro dignità si troveranno pure coinvolte in momenti inconsuetamente 'moderni' : "'Era la vita, quella, o si recitava una commedia?' . L'una cosa nell'altra: tutte e due le cose insieme" .

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narrativa italiana
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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    10 Novembre, 2023
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Il caso della domestica perf... ah, no!

Ultimo romanzo con la mia adorata Miss Marple pubblicato negli anni Cinquanta, "Istantanea di un delitto" potrebbe aggiudicarsi un posto sul podio dedicato ai volumi in cui compare l'ineffabile sferruzzatrice inglese. Sarò onesta: in un primo momento la premessa inusuale di questa storia mi aveva lasciato un po' spiazzata, ma quando ho visto profilarsi all'orizzonte una decadente dimora vittoriana (o elisabettiana, a voler dar credito al proprietario) con tanto di potenziali eredi squattrinati di un vecchio taccagno, ho capito di aver trovato pane per i miei denti.

Come accennato, l'inizio è però diverso dal solito: mentre viaggia sul treno che la porterà ad incontrare l'amica Jane Marple, Elspeth McGillicuddy assiste ad un omicidio sul treno affiancato al suo. La donna riporta subito il crimine alle autorità, le quali purtroppo possono fare ben poco dal momento che nessun cadavere viene ritrovato; Miss Marple però è certa che la sua amica non si sia immaginata nulla, e per questo comincia un'indagine personale per trovare il corpo. Questo porta all'introduzione nella vicenda di Lucy Eyelesbarrow -una sorta di governante dalle mille risorse- e della famiglia Crackenthorpe, capeggiata dal viscidissimo Luther.

Quando le indagini hanno cominciato a ruotare attorno all'angusta Rutherford Hall il romanzo è diventato davvero interessante, e mi sono messa d'impegno per indovinare l'identità del colpevole; mi sembra inutile precisare che non ci sono andata neanche vicino! Questo rientra tra i pregi soggettivi del romanzo, assieme all'abbondante ricorso al black humor nel corso dell'intero volume -un tipo di ironia che adoro- e alla presenza dell'ispettore Dermot Craddock, personaggio ripreso ed approfondito da "Un delitto avrà luogo", nonché figura che contribuisce a rendere più ricco e credibile l'universo narrativo marpleiano.

Passando a delle osservazioni più oggettive, troviamo ad esempio un intreccio creato in modo magistrale, che dissemina il testo di indizi senza per questo fornire la giusta chiave di lettura, e questo rende il mistero brillante e complesso. Abbiamo poi un cast composto da personaggi decisamente carismatici, che in un paio di casi vengono analizzati più a fondo in modo da creare caratteri intriganti e descrivere dinamiche inaspettate. Come quasi sempre nelle narrazioni christiane sono inoltre presenti delle sottotrame romantiche, che però in questo caso si dimostrano abbastanza originali, nonché ben amalgamate alla vicenda principale.

Al solito, per apprezzare del tutto i libri della cara Agatha è necessario chiudere un occhio sui commenti datati. Personalmente mi sarei inoltre aspettata una presenta più massiccia di Miss Marple, visto che compare da subito nella storia, ma capisco il limite narrativo da questo punto di vista. Per contro non capisco proprio l'utilizzo continuo del prefisso "ultra", che rende a dir poco bizzarre alcune linee di testo; e dire che la traduzione risale a poco più di trent'anni fa! A mio avviso ci sarebbero stati dei modi per tradurre "highly" e "very" meno di cattivo gusto.

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68 Opinione inserita da 68    09 Novembre, 2023
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Vite altrove

…” adesso è seduta al mio fianco e sorride di qualcosa che le è venuto in mente. Il convoglio rallenta, piega verso la spiaggia. Il tempo, le distanze… La vita così come sarebbe potuta essere. Lei si scosta i capelli dalla fronte e posa nuovamente la mano sul bracciolo fra noi. Per toccarla non dovrei fare altro che toccare le dita “…

Un lungo viaggio verso un amore perduto sospeso nei ricordi di giorni che furono, parole scandite da un tacito accordo, una sinfonia intensa e fugace svanita improvvisamente .
Islanda-Giappone, il parallelismo risuona nella risolutezza di paesaggi aspri e caratteri forti, nel timbro sussurrato di parole gentili, l’ unione di due vite altrove, il vivido ricordo di quel 1969 in cui il ventenne Kristofer, approdato a Londra in cerca di futuro, si scontra con una giovane donna, Miko, sulla soglia del ristorante del padre di lei dove si era recato per un colloquio di lavoro e da subito se ne innamora.
Oggi, dopo cinquant’anni, settantaquattrenne, nel pieno di una pestilenza che si aggira per il mondo, riaccoglie il senso di questa presenza e il profondo sentimento di lei decidendo di riabbracciarla.
Intraprende un lungo viaggio verso il Giappone, percorso della memoria in quello che fu e che venne a mancare improvvisamente e attuale nei luoghi e nelle voci che incontra.
Immagini, sguardi, parole, speranza, dolore, lontananza, misteri, rimpianti, il ritorno a quegli anni, quando la vita aveva allontanato Kristofer dall’ Islanda per studiare economia, un presente da subito rigettato alla ricerca di altro.
Fotogrammi scolpiti e mai scalfiti, passione negata, nascosta, a distanza, un anno idilliaco, quando la vita si apre all’ amore e tutto gli parla di Miko, quella giovane donna che da subito ne intuisce i pensieri e gli stati d’ animo.
Tra passato e presente un’ altra vita, una figlia che non lo ha mai accettato completamente, nata da una relazione precedente, una ex moglie scomparsa da sette anni che Kristofer non ha mai amato, un lavoro nella ristorazione che sconta gli esiti della crisi pandemica.
Al centro sempre lei, Miko Nakamura, l’ amore di una vita, idealizzato e sofferto, la donna di cui non ha mai parlato a nessuno, nemmeno ai famigliari più stretti.
Oggi Kristofer naviga in solitudine, percorso dalle sue ombre, dai fantasmi del passato, Miko probabilmente è una persona completamente diversa da quella con la quale credeva di condividere il futuro.
Forse i suoi ricordi sopravanzano e alterano il senso del reale, il passato governato dal caso, il viaggio si copre di un senso di fallimento per lui chi ha cominciato a invecchiare, che a tratti confonde il sonno e la veglia.
Quale il senso del tutto? Recuperare ciò che mai fu? Redimersi? Trovare qualcosa che giustifichi il modo in cui ha vissuto?
La verità in pochi momenti di felicità fissati in quel 1969 a Londra, immaginando un futuro diverso..

….” Me ne sono andata ma quella città l’ho portata con me. Nel mio bagagliaio ho messo la città, i ricordi, la gioia, la tristezza, la rabbia, e quell’ amore che mi è stato di ostacolo in tante cose in tutti questi anni”…

una verità che non esiste, se non in parte in un passato-presente e nel cambiamento di un volto, in parole sussurrate per chiedere scusa, che svelano una dimensione celata e una sofferenza reale sulle orme del proprio vissuto, in qualche modo condivisa a distanza, tutto è frammentato, vicino, plausibile, raggiungibile, ma anche lontano, inaccessibile, sfuocato, avvolto da una misteriosa assenza-presenza.

“ Sotto la pioggia gentile ‘’ è un romanzo poetico-sentimentale dai tratti gentili, che riporta a certa letteratura giapponese ma con tratti di intimismo nordico, che riflette e restituisce una vita crudelmente esposta alla propria storia e a una casualità immanente ma anche a un reale che si credeva altro.
Per lunghi tratti assistiamo a un monologo tra passato e presente per raggiungere l’ irraggiungibile, ascoltando storie non proprie, ridiscutendo atteggiamenti sbagliati, ipotizzando verità nascoste, ricostruendo giorni lontani, imbrattati dal senso di colpa.
Un viaggio che attraversa decenni di separazione e di lontananza, vite nate, immaginate, ignorate, sepolte, solo sfiorate, attraversati dall’ inafferrabile potere dei ricordi e dalla voce inasprita della propria coscienza.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    09 Novembre, 2023
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Non il migliore della Ardone

La storia inizia alla fine degli anni ’70, nel periodo di discussione e poi di introduzione della legge Basaglia ed ha per protagonisti un giovane medico, Fausto Meraviglia, che crede fermamente nei nuovi principi, ed una giovanissima, Elba, nata in manicomio perché figlia di una ricoverata giudicata come molte donne non sana di mente. A quell’epoca bastava poco per finire tra i cosiddetti matti, costituiva un sistema semplice per liberarsi di una moglie infedele o di un parente sgradito. Nulla a che vedere quindi con le malattie mentali vere, eppure curate come se tali fossero veramente e con metodi arcaici e dannosi come l’elettroshock.
Elba trascorre la vita a compilare e catalogare le malattie mentali riscontrate nel “mezzomondo”, come lei chiama il luogo dove si trova, e a chiamare con soprannomi che ne indicano il ruolo o l’atteggiamento il personale e le ricoverate. Non a caso Lampadina è l’infermiere che pratica l’elettroshock.
Il giovane medico si rende conto che Elba tutto è fuorché matta e quando i manicomi non saranno più luoghi chiusi la fa trasferire a casa sua, dove diviene parte della famiglia, e la fa studiare fino a vederla sparire, non si sa perché e dove. Eppure Elba è l’unica figlia che si è scelto e ha voluto, proprio lui che un buon padre non è mai stato. E il dott. Meraviglia è per Elba la famiglia che lei non ha mai avuto, madre a parte: piena di vizi, di difetti, ma anche di bellezza e di umanità. Perché così è fatto l’uomo. E il dott. Meraviglia da tanti difetti non è certo immune.
Elba si porta dietro un dolore enorme, non solo quello per sua madre, che scopre essere stata ricoverata solo perché tedesca rifugiata politica, incinta senza essere sposata e quindi adultera, poi ridotta in stato catatonico dai troppi trattamenti con l’elettricità ricevuti, al punto da non riconoscere neanche più sua figlia. Il dolore che sente Elba è universale, per tutte le donne (a queste soprattutto si rivolge il libro), alle quali è stata negata una vita normale in base a principi senza alcun valore né fondamento. A queste dedica i suoi studi e i suoi interessi, e questo dramma Elba lo incarna e lo vive ogni giorno.
Il racconto è diviso in sezioni, e dopo una prima parte che si svolge in manicomio, vede alternarsi momenti di vita successiva con Elba che studia e che vive inserita nella famiglia del dottore a periodi successivi con il dottor Meraviglia ormai anziano e solo (la figlia vive da sola con un figlio, il maschio si è fatto prete ed Elba, appunto, se ne è andata alle soglie della laurea).
Fili conduttori i soprannomi che Elba dà all’interno del mezzomondo e dalle suore dove è stata mandata a fare i primi studi dell’obbligo (lampadina, gillette, la sposina, le suore culone, Nana la cana, eccetera), e le frasi del dott. Meraviglia, apparentemente suoi pensieri consolidati (“la famiglia è un concetto sopravvalutato”), il suo essere un donnaiolo e un mentitore, benché in fondo sincero.
Da estimatrice della Ardone (mi sono piaciuti tantissimo sia Il treno dei bambini sia Olivia Denaro), ho trovato questo Grande Meraviglia un po’ discontinuo. La prima parte non mi ha entusiasmato, più avanti invece ho trovato momenti davvero all’altezza di questa scrittrice in grado di regalare pathos e bella prosa.
Ho faticato ad empatizzare con i protagonisti: il dottore, visto a sezioni ora anziano, ora giovane, ora di nuovo anziano, rimane sempre un po’ staccato dal lettore forse per questa frammentarietà: eppure quanto sarebbe bella ed umana la sua figura!
Elba, allo stesso modo, ci appare sempre un po’ distaccata, il turbine di sentimenti che dovrebbe attraversarla, il lettore fatica a sentirli e a viverli con lei.
Ci sono fortunatamente nella seconda parte momenti nei quali la Ardone riesce a portarci con sé negli avvenimenti, a trascinarci dentro il momento descritto: e sono le parti più belle e intense, all’altezza di questa scrittrice.
Quindi un bel libro ma non tanto come i primi due. In una ipotetica classifica dei romanzi della Ardone questo sarebbe quindi per me al terzo posto.
Merita di essere letto comunque, per la tematica e perché, in fondo, rimane un bel libro.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    08 Novembre, 2023
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AQUILE E COLOMBE

“Poiché sono vissuta tutti questi anni come se fossi morta, morirò, senza dubbio, come se fossi viva, e allora mi capiterà di essere come tu mi vuoi. Perciò vedi” concluse “non saprai mai a che punto mi trovo. Tranne quando me ne sarò andata, e allora saprai dove non mi trovo più.”

In un bel film uscito di recente al cinema, “Killers of the flower moon” di Martin Scorsese, il giovane e ingenuo protagonista viene spinto dallo zio, un uomo rispettato dalla comunità ma ambiguo e senza scrupoli, a sposare una ragazza della tribù indiana degli Osage (diventata enormemente ricca per via dei giacimenti di petrolio scoperti sotto la terra dell’Oklahoma in cui si era pochi decenni prima insediata) con il subdolo scopo di entrare in possesso della sua ingente eredità. Fatte le debite proporzioni tra storie e contesti quanto mai diversi tra loro (un western cinico e amorale da una parte, un romanzo intriso di torbido romanticismo dall’altra), il medesimo spunto narrativo lo si trova praticamente identico, quasi fosse un archetipo, ne “Le ali della colomba” di Henry James, dove il deuteragonista Merton Densher è indotto dalla sua astuta fidanzata a corteggiare la facoltosa ereditiera americana Milly Theale, fidando sul fatto che la esiziale malattia da cui la donna è afflitta le conceda poco tempo da vivere, e quindi che il suo patrimonio possa quanto prima e legittimamente passare alla coppia. Il paragone tra le due opere è curioso, e probabilmente anche opinabile e azzardato, ma è indubbio che il libro di James si allontani fin dalle prime pagine dagli stilemi della letteratura coeva per addentrarsi nei territori oscuri, impervi e ancora tutti da esplorare (siamo agli albori del Novecento) del modernismo. Certo, trattandosi dello scrittore newyorkese naturalizzato britannico, non mancano le atmosfere sublimi e raffinate, le conversazioni delicate da salotto, l’eleganza e il bon ton dei personaggi, gli arabeschi e i velluti damascati, eppure sotto questa impeccabile e immacolata superficie covano pulsioni molto poco nobili, a tratti anzi morbose e quasi diaboliche, degne dell’interesse di uno psicanalista non meno che di un romanziere. Non è un caso che fin dalle primissime pagine del romanzo i personaggi vengano considerati, prima ancora che persone, dei “valori” da sfruttare, degli atout da monetizzare (tale è sicuramente Kate, in virtù della predilezione manifestatale dalla zia Maud, per il padre e la sorella, così come più avanti lo sarà Milly per la corte che la accoglierà a Lancaster Gate). E’ come se James ci introducesse alle regole di un gioco di strategia complesso e imprevedibile, la cui posta è decisiva e richiede calcolo e astuzia, dissimulazione e tattica. Il “gran mondo” a cui il lettore si trova ad assistere è una specie di agone economico, in cui “era tutto un prendere e un dare, con le ruote del sistema meravigliosamente oliate” e la cui morale è cinicamente sintetizzata da lord Mark quando confessa che “qui nessuno fa nulla per nulla”. Il grande, modernissimo, motivo di interesse del romanzo è che apparentemente esso è un amabile ritratto della società aristocratica dell’era vittoriana, ma dietro le quinte, in una proliferazione di pulsioni ambigue e incontrollabili, si annida un “mostro” che – con le parole dell’autore – è in grado di produrre “un’estasi esagerata o… un orrore anche più sproporzionato”. Quando Milly Theale, con la fida amica Susan, giunge in Europa dagli Stati Uniti, “una giovinetta sottile sottile, sempre pallida, delicatamente sciupata, di una anormale e graziosa angolosità, dai capelli di un rosso troppo eccezionale perfino per essere vero, e dai vestiti troppo neri anche per un lutto”, dotata di una ricchezza e di una libertà praticamente sconfinate, si capisce subito che essa è destinata a diventare la vittima predestinata di un complotto spietato, ancorché mascherato di simpatia, di benevolenza e di premurosità. Lei è la colomba del titolo, essere fragile e innocente, ma le cui ali sono anche capaci di avvolgere e proteggere coloro che ama. Contrapposti a lei ci sono le aquile (James indulge spesso in questi paragoni ornitologici, chiamando espressamente così la zia Maud), coloro che per un motivo o un altro (Kate per riuscire a sposare Merton, giovane brillante ma privo di risorse, la zia Maud per allontanare lo stesso Merton dalla nipote, lord Mark per risollevare un blasone compromesso da troppi debiti, perfino la candida Susan per rendere il più possibile felice l’amica giunta al tramonto della sua breve esistenza) tramano alle sue spalle, trasformandola nella ignara pedina di un gioco che la sovrasta. Altrettanto strumentalizzato e passivo, letteralmente gettato tra le braccia della ragazza a dispetto di tutte le sue riserve morali, è Merton Densher, al quale viene però riservato nel finale dall’autore, in un clamoroso e inatteso colpo di scena, un gesto di nobile rinuncia, di disinteressato sacrificio, che è tanto una estrema dichiarazione d’amore quanto un atto di ribellione nei confronti di una società avida e calcolatrice.
Milly Theale è un personaggio che richiama altre famose eroine jamesiane, dalla Catherine di “Washington Square” alla Daisy Miller dell’omonimo racconto. Il suo alter ego più evidente è però l’Isabel Archer di “Ritratto di signora”. Come Isabel, Milly è giovane e intelligente, ricca e libera, in viaggio nel Vecchio Mondo dopo aver lasciato la natia America (vero e proprio “topos” della narrativa di Henry James). Vi sono però delle importanti differenze che è doveroso sottolineare. Innanzitutto, Milly non è più la sola protagonista del romanzo: al suo fianco si stagliano, con pari importanza diegetica, i personaggi di Kate Croy e, soprattutto di Merton Densher, tanto è vero che l’ereditiera americana entra in scena soltanto nel libro terzo. Inoltre Milly Theale è spesso descritta solo in modo indiretto, attraverso gli occhi di coloro che le gravitano intorno, o addirittura, in un capitolo tra i più belli del libro, per mezzo di un dipinto del Bronzino, che rivela con la nostra protagonista una misteriosa, ineffabile affinità. Per quanto riguarda la malattia, che quasi sempre James aveva riservato solo a personaggi secondari (si pensi al Ralph Touchett di “Ritratto di signora”), qui ha un ruolo fondamentale, investendo direttamente la protagonista e mettendola di fronte alla straziante contraddizione tra una voglia di vivere smisurata e una quantità di tempo a disposizione fatalmente ridotta. La stessa malattia, pur essendo costantemente in primo piano, è però trattata dallo scrittore in maniera sfuggente e sibillina. Milly, orgogliosamente, si rifiuta di prenderla in considerazione, e perfino il dottor Strett non la cita mai, invitando semplicemente la ragazza a godere quanto più possibile i piaceri della vita. Tutti i personaggi la danno per scontata nei loro discorsi e nei loro rapporti con la protagonista, ma la verità è che essa non è mai conclamata, è un argomento tabù, un minaccioso convitato di pietra relegato nei meandri più nascosti della coscienza. Paradossalmente, Milly è considerata da tutti una donna condannata, senza speranza, anche se nessuno ha mai esplicitamente pronunciato un verdetto medico, e la stessa ragazza prende coscienza della propria condizione soltanto davanti al già citato dipinto del Bronzino (che gli esperti hanno identificato nel ritratto di Lucrezia Panciatichi conservato negli Uffizi di Firenze), che tanto le assomiglia (“La donna in questione, con la sua leggera scriminatura michelangiolesca, i suoi occhi d’altri tempi, le sue labbra tumide, il suo lungo collo, i suoi famosi gioielli, i rossi sbiaditi dei suoi broccati, era un grandissimo personaggio, ma non l’accompagnava la gioia. Ed era morta, morta, morta”). Questa elusività risponde sicuramente all’intento dell’autore di non rendere melodrammatica la vicenda narrata, ma è altresì funzionale allo stile dell’autore, improntato all’ambiguità e al non detto, come si può notare anche nella lettera di Milly indirizzata a Merton, che l’uomo fa leggere a Kate ma di cui rifiuta di conoscere il contenuto, preferendo che venga bruciata nel fuoco del camino (espediente che viene ripreso da Cormac McCarthy ne “Il passeggero”, a dimostrazione della modernità psicologica del romanzo di James di oltre un secolo prima).
Lo stile di Henry James è, come sempre, di mirifica perfezione, con alcune scene di raffinatissima resa pittorica (come il ricevimento a palazzo Leporelli, che rimanda ai quadri del Veronese). L’abbagliante bellezza della scrittura jamesiana non deve però far pensare che quella de “Le ali della colomba” sia una lettura semplice e comoda, tutt’altro. Già da qualche anno, James stava collaudando un modo di scrivere più ricercato, quasi sperimentale, se paragonato ai suoi romanzi degli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento. In questo romanzo tutto ciò si esprime in una forma quanto mai matura: la trama non è infatti mai scontata, non pare affatto rigida e predeterminata (anche se la lunga e interessantissima prefazione dello scrittore fa comprendere quale complesso lavoro progettuale vi sia dietro). Ogni situazione descritta presenta sempre svariate alternative, ogni circostanza legittima costantemente diverse interpretazioni, e perfino un semplice dialogo cela in ciascuna parola un significato potenzialmente equivoco (spesso perfino un banale pronome riesce a depistare l’interlocutore, e con lui il lettore, potendosi attribuire a un personaggio piuttosto che a un altro). Tutto questo offre al testo innumerevoli potenzialità narrative, nelle quali il lettore non ha mai il salvagente di un punto di vista demiurgico e assoluto, in quanto ne sa né più né meno che i personaggi del libro che sta leggendo. Ciò gli conferisce un ruolo quanto mai attivo, anche se in alcuni momenti tale ruolo può apparire indubbiamente ingrato e scomodo da sostenere. La ricompensa a questa fatica, una volta che si sia riusciti a portare a termine questa affascinante storia romantica e sentimentale raccontata alla stregua di un vero e proprio giallo psicologico, è però una soddisfazione rara, una beatitudine ineffabile, che pochissime altre opere e pochissimi altri autori (mi vengono per primi alla mente, per limitarmi alla prima metà del Novecento, Marcel Proust, Thomas Mann e Vladimir Nabokov) sono in grado di eguagliare.

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Henry James: "Le ali della colomba"
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Novembre, 2023
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La fine di un'epoca

Secondo tentativo che faccio, a breve distanza dal primo, con il teatro di Anton Cechov (1860-1904), ma anche stavolta non sono stata catturata pienamente dallo stile di questo grande nome della letteratura russa, cosa che mi dispiace molto poiché era da tanto che desideravo leggere “Il giardino dei ciliegi”.
Dopo aver letto questo e, ancor prima, “Tre sorelle”, posso dire di trovare la scrittura di Cechov chiassosa e dispersiva, affollata assai spesso di personaggi che – per lo meno ai miei occhi – tendono a confondersi. E tra i personaggi, appunto, non ne ho visti di memorabili al pari di quelli creati da altri autori che, dal teatro antico a quello contemporaneo, passando attraverso quello del mitico Goldoni, ho amato parecchio.
Tuttavia, dei quattro atti di cui si compone “Il giardino dei ciliegi” ho apprezzato alcune scene, tra cui in particolare quella finale nella quale il cameriere ultraottantenne Firs, ormai malato, si ritrova solo in casa, dopo che tutti sono partiti per sempre, mentre le scuri iniziano ad abbattersi senza pietà sugli alberi del giardino; ed è costui a pronunciare un’amara considerazione, del tutto condivisibile, che sembra rammentare il nostro dramma di esseri umani: “La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta.”
Rappresentata per la prima volta, a Mosca, all’inizio del 1904 (lo stesso anno in cui morì l’autore), l’opera pone al centro della rappresentazione i cambiamenti sociali dell’epoca, con la decadenza di classi un tempo agiate e l’avanzare di quelle che si sono arricchite di recente (impersonate, rispettivamente, da Liubòv Andriéievna con i familiari e il commerciante Lopachin) e ora possono acquistare addirittura grandi proprietà, finite all’asta per debiti, dove gli antenati erano stati schiavi. Insomma, un mondo che finisce per sempre, mentre il nuovo inesorabilmente avanza, preludio dei grandi stravolgimenti che si verificheranno con la rivoluzione anni dopo.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    06 Novembre, 2023
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Viaggio nel tempo in modalità facilitata

Sempre in cerca di storie incentrate sui viaggi nel tempo ed i loop temporali, sono incappata nell'ultimo lavoro di McAllister, che avevo una mezza idea di recuperare in lingua. Quando ho saputo dell'imminente traduzione italiana, mi sono precipitata a preordinare una copia che ho iniziato a leggere non appena è stata consegnata dal corriere; tale era il mio interesse per "Posto sbagliato, momento sbagliato". Avrò fatto bene ad auto-procurarmi un simile hype? Ni, ma procediamo con ordine.

La vicenda si apre sulla città di Crosby, nella contea del Merseyside, in una notte di fine ottobre. L'avvocata Jennifer "Jen" Brotherhood è ancora sveglia e sta aspettando il ritorno a casa del figlio Todd, ma quando il ragazzo arriva inizia una colluttazione con un passante che culmina dell'accoltellamento di quest'ultimo. Jen è devastata da questo gesto privo di un'apparente ragione, ma il vero incubo inizia al risveglio, quando si rende conto di essere tornata al giorno precedente il delitto. Da questo spunto comincia la missione della donna per svelare il mistero ed impedire al figlio di diventare un assassino.

Pur nutrendo sempre più dubbi con l'andare avanti della lettura, devo dire che questo incipit continua a convincermi: mi sembra un'ottima idea su cui strutturare una storia thriller che va poi ad inglobare altri generi, dalla fantascienza al chick-lit. Mi sento di promuovere anche il ritmo della narrazione -che rende il romanzo estremamente scorrevole- e la gestione del loop temporale, qui sfruttato in un modo tutt'altro che banale: mi sarei aspettata di assistere ad una sorta di giorno della marmotta, invece Jen comincia un vero e proprio viaggio nel passato, risvegliandosi ogni volta in uno dei suoi corpi precedenti.

L'elemento più riuscito è però l'intreccio mystery legato al delitto commesso da Todd: mi è piaciuta l'idea di seguire un'indagine al contrario, partendo dal crimine per arrivare a comprenderne passo passo le ragioni. Su questa (ultima) nota positiva grava però l'ombra di un difetto, perché il mistero rimane tale fino all'ultima pagina solo per la protagonista; l'autrice sceglie infatti di includere dei capitoli aggiuntivi -da un diverso punto di vista- che lasciano intuire le rivelazioni finali ai lettori già da metà volume.

Le altre problematiche di questo titolo si concentrano sulla gestione della struttura narrativa e la caratterizzazione della protagonista. Ho fatto una gran fatica ad apprezzare Jen, a causa soprattutto della lentezza con cui arriva alla maggior parte delle scoperte: diciamo che non è la più sveglia della cucciolata! inoltre ho trovato un po' frustrante il suo continuo paragonarsi alle altre donne, che sono descritte invariabilmente come bellissime, mentre lei si sente un cesso. La godibilità della prosa è invece mortificata dal senso di predestinazione che permea la storia di Jen -a causa del quale non si riesce a provare una vera tensione- e dai passaggi repentini da una scena all'altra, specialmente quando ci sono dialoghi che vengono troncati di netto.

Rimango poi combattuta per le domande lasciare all'interpretazione dei lettori nel finale e per come l'autrice cerca di enfatizzare l'importanza di Jen in quanto madre; da un lato questo permette di rendere più credibile l'espediente fantascientifico, ma dall'altro si crea un effetto ridondante, in cui sembra di leggere sempre gli stessi pensieri.

Le mie lamentele conclusive sono più che altro dei pet peeves, ad esempio il nome Kelly, che mi mandava in confusione ogni volta perché il mio cervello lo etichettava in automatico come un nome femminile. Non mi ha fatto impazzire neppure la presenza di così tanti brand menzionati nella narrazione (a volte sembrava di essere dentro ad uno spot pubblicitario!) e la qualità del volume: considerato anche il prezzo, la copertina poteva essere realizzata in un cartoncino più solido.

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Romanzi storici
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    03 Novembre, 2023
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Brevi istantanee dal fronte troiano

Resami conto di avere in libreria diversi titoli etichettabili come retelling mitologici, ho pensato fosse una buona idea recuperarne uno al mese durante il periodo estivo; mi sembrava il momento ideale per affrontare un sottogenere che purtroppo non mi entusiasma più come un tempo. Per il mese di giugno sono dovuta correre un po' ai ripari, perché era ormai l'ultima settimana e non pensavo di poter affrontare una lettura troppo lunga, quindi ho ripiegato sul relativamente breve "Il canto di Calliope".

La narrazione si apre proprio sulla musa della poesia epica che irride un anonimo (ma forse non troppo) poeta impegnato a narrare delle donne collegate alla guerra di Troia, le quali diventano così protagoniste di uno o più capitoli all'interno del volume. L'intreccio si snoda attraverso diversi registri narrativi e senza seguire un ordine cronologico: si passa dalle troiane superstiti impegnate ad introdurre alcune storie mentre attendono di conoscere il proprio destino, a Penelope che racconta le disavventure del marito tramite delle missive, agli intermezzi di Calliope, l'unica a rivolgersi direttamente al lettore, con un tono affatto formale. L'obiettivo è lampante: mostrare un lato in ombra di una storia universalmente conosciuta, nella quale però sono quasi esclusivamente i personaggi maschili a risaltare, e trattare il tema della guerra dal punto di vista delle vittime collaterali e delle persone che rimangono a casa, aspettando il ritorno di chi combatte al fronte.

Un'idea niente male sulla quale basare un libro: non sarà del tutto inedita, ma ho apprezzato l'intenzione e la scelta di dare spazio anche a figure misconosciute, oltre alle prevedibili Elena, Cassandra o Briseide. Tra i meriti di questo titolo rientra poi l'ottimo lavoro di ricerca svolto dall'autrice che, in concerto con le frequenti ripetizioni di nomi e ruoli, permette anche ad un neofita della mitologia classica di avere un quadro degli eventi principali che vanno da ben prima del matrimonio tra Teti e Peleo fino alle battute conclusive dell'Odissea.

Ho apprezzato anche la decisione di portare in scena i ritratti di così tante donne, in modo da poter mostrare dei lati della femminilità meno convenzionali: Haynes cerca di includere punti di vista diversi andando oltre i prototipi della madre e della figlia, ma anche mostrando alcuni pensieri decisamente negativi -perfino brutali- che di solito non verrebbero associati a delle figure femminili.

Essendo un testo così vario, ho delle opinioni contrastanti sulle diverse parti, ad esempio ho trovato molto divertenti le lettere di Penelope per il tono ironico con cui parla degli ostacoli che hanno impedito il ritorno a casa di Odisseo. Per contro, i capitoli POV delle divinità mi hanno trasmesso un forte senso di disagio perché la cara Natalie descrive questi individui onnipotenti ed immortali come dei ragazzini privi di qualsivoglia profondità e coerenza; nella postfazione precisa che si tratta di una scelta intenzionale, ma io non sono riuscita a farmela piacere.

Un altro difetto riguarda la disomogeneità nel tono e nel contesto: da un lato si passa da battute informali (neanche i personaggi si trovassero al bar sotto casa) a dialoghi che nessuno mai farebbe in modo spontaneo, dall'altro l'autrice sembra indecisa se tenere in considerazione l'elemento fantastico o puntare su una narrazione più verosimile. Questo effetto si percepisce anche nelle scene in cui Ecabe e le altre troiane vanno a presentare i capitoli dedicati alle singole personnagge, perché i loro dialoghi risultano forzati, per nulla naturali: si capisce chiaramente che sono del tutto funzionali alla narrazione.

In generale, ritengo che sarebbe stato meglio puntare su un saggio, visto qual era l'intento dell'autrice, perché questa accozzaglia di biografie romanzate risulta inutilmente ostica da seguire. A dispetto delle tante ricerche condotte da Haynes poi, questa Grecia dell'età del bronzo (per quanto mitica) mi è sembrata molto "americana", con tante parole ed espressioni tipiche della lingua inglese, oltre alla presenza di animali che fino al Sedicesimo secolo gli europei non avevano mai visto.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    01 Novembre, 2023
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Qual è la tua salvezza?

Daniele vent’anni e un’ improvvisa esplosione di rabbia viene sottoposto a TSO nel reparto di psichiatria.
Una settimana di ricovero e cure obbligatorie dividendo una stanza con altre cinque persone, intensa, calda, asfissiante, paurosa, illuminante. Da martedì a lunedì. Ogni capitolo scandisce una giornata.

Gianluca con l’urlo di ragazza.
Mario, il letto vicino alla finestra e il suo uccellino.
Alessandro e il suo fissare un punto nel vuoto in modo catatonico.
Madonnina e la sua richiesta di aiuto.
Giorgio e la sua mamma perduta.
Pino, Rossana, Lorenzo, infermieri e corazzati dalla loro stessa paura.

Bisogno, di sostegno, fratellanza, umanità, sofferenza, speranza, insonnia.
Salvezza. La mia malattia si chiama salvezza.

Tristezza e dolore e disperazione gli si appiccicano addosso a Daniele, anche se sono quelle degli altri. Servirebbe un giubbotto antiproiettile a vestire il cuore.

“Mio padre è una cellula sana di questo mondo, uno di quelli che rimarrà nella storia. La storia degli umili, delle persone oneste, dei lavoratori infaticabili, dei padri di famiglia che solo in pochi hanno la fortuna di avere, e quelli che ce l’hanno la sfregiano, come il sottoscritto.”

Una madre nonostante tutto sempre presente, capace di esprimere i propri e i di lui desideri prima che prendano forma, la sua prima lettrice di poesie, il suo primo pubblico, la sua musa ispiratrice. “Sei sempre tu che vieni a riprendermi.”

La poesia salvatrice, e “quella maestra che l’aveva capito per me, prima di me.”
“Alla fine del lavoro la ringrazio, lei, la poesia, per essere venuta ancora una volta a trovarmi.”

Si invoca la normalità, come quella che c’è al di fuori delle mura dell’ospedale, dove tutto sembra scorrere come sempre rispetto al dentro, dove invece situazioni non ce ne sono. Emergono solo quando si iniziano ad aprire gli occhi e le orecchie per vederle, per sentirle.

Salvezza in una medicina, in una parola, in un ascolto. Qual è la tua salvezza?

Esiste una colpa o la colpa è della mente disturbata?

Tutti gli accadimenti non sono altro che il racconto di queste diverse umanità che per un caso fortuito un giorno si incontrano, costretti a convivere, prima ad occhi aperti per osservarsi meglio, poi ad occhi chiusi, quando la fiducia inizia a farsi spazio, i dolori diventano comuni e le paure anche, gli animi vengono allo scoperto, le solitudini si incontrano e si tengono per mano al buio di notte, affinché gli incubi o l’insonnia passino più in fretta.

Un racconto di cure date e ricevute, di sconosciuti che non si riconoscono e si evitano, e poi si abbracciano, stretti, senza spazio tra i corpi, nella calura di un’estate di fuoco che diventa comune.

Un racconto di preghiere improvvisate, disperate, inginocchiati sul pavimento tenendosi per mano.

La narrazione in prima persona conduce in un viaggio che non si vorrebbe intraprendere, tra quei letti allineati, minestre gialle poco invitanti, rumori che sono il russare degli altri mentre agogni il tuo che non arriva mai, in quelle puzze così umane e così riconoscibili, in quei minuti, ore, giornate che sembrano interminabili. Le difese crollano e le diffidenze anche, di fronte a persone accomunate dal fatto di avere la stessa natura. Dove l’urlo che si alza accomuna tutti.

“Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.
I miei fratelli.”

20 giugno ‘94
Un TSO durato una settimana. Poche ore per sconvolgere le vite.
Bastava talmente poco.
Bastava ascoltassero.
Bastava vedessero.
Bastava concedere.
Chi voglio diventare?

“Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.”

Il romanzo è stato vincitore nel 2020 del premio Strega Giovani.

Buone prossime letture.

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68 Opinione inserita da 68    01 Novembre, 2023
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Verità omologata e finzione soggettivata

….” Alla fine si riduce tutto a questo, una persona passa la vita a dire addio alle altre persone. Ma come si fa a dire addio a se stessi? “….

“ Rumore bianco “ riproduce una dimensione allargata partendo da un reale circostanziato e provinciale di una famiglia americana media impegnata nel quotidiano.
Rumori, sensazioni, accadimenti, omologazione, l’ ansia del presente, uno stato di precarietà impregnato di uno sguardo soggettivato attraversano età differenti e accadimenti, scontati, imprevisti, indecifrabili.
Jack Gladney è un professore universitario fondatore di un istituto di studi hitleriani, quattro matrimoni alle spalle, diversi figli, una compagna, Babette, pervasa da ossessione ansiogena e senso di morte, una coppia attraversata da una precarietà che cerca di condividere.
Generazioni a confronto, una sovrastruttura che incombe e ricopre vite omologate, codici comunicativi, attività extrasensoriali, realtà apparente, significati da attribuire per chi è stato esposto in un breve momento a una nube tossica che può restituire un futuro indigesto.
Chi siamo realmente in una visione esterna ed estranea a noi stessi che ci appartiene, oggetti di un quadro più ampio, fruitori di una felicità omologata, una massa indistinta di consumatori alla ricerca di un senso in una comunanza condivisa, semplici spettatori di un’ emergenza climatica da tempo presente che ci tocca direttamente quando una nube tossica ci sovrasta allontanando sogni poco evidenti.
Come siamo inclusi in eventi che giudichiamo scontati, che trasformiamo in oggetti di appartenenza, che cosa percepiamo di una realtà che sappiamo descrivere solo grossolanamente, sottratti a noi stessi ed esposti continuamente ad attività extrasensoriali, onde, radiazioni?
In fondo vediamo con occhi altrui, fotografando l’ atto del fotografare, nel qui e nell’ ora, mangiamo compulsivamente, inseguiamo una pienezza dell’ essere nella variegata sembianza dei nostri acquisti, compriamo per il semplice piacere di farlo, non siamo che bizzarre maschere di felicità in enormi supermercati puliti e moderni, immersi in un perenne rumore assordante, indossiamo capi che ci parlano restituendo un senso di identità e di pienezza, semplici meccanismi di un sistema invisibile e angosciante con cui interagire.
E allora, fagocitati da un reale siffatto, passivamente attivi, esposti e anestetizzati da uno schermo televisivo che riempie le nostre vite sedentarie e circostanziate proiettando catastrofi sempre più grandi, che quando non ci riempie di rabbia ci spaventa a morte, siamo travolti e impregnati dal desiderio e dal gusto soddisfatto di vederne di sempre più grandi.
C’ è un’ altra dimensione, privata, soggettiva, quel se’ sensibile e presente a se stesso, un sistema relazionale che include dinamiche famigliari personali e affettive che sfuggono a una evidenza oggettivata richiamando sentimenti, senso di colpa, amore, mistero, ascolto, emozione, la propria essenza più vera che origina da un passato complesso sfociato nell’ oggi.
Forse la famiglia pare essere

… “ la culla mondiale delle informazioni sbagliate, con un qualcosa che genera errori fattuali, l’ eccesso di prossimità, il rumore e il calore dell’esistenza”….

ma

….” Attenzione, però, questi bambini io li prendo sul serio. Quella densità colloquiale che fa della vita famigliare il solo mezzo della conoscenza sensibile che racchiuda immancabilmente la meraviglia del cuore”...

forse si è semplicemente

…”una fragile unità circondata da fatti ostili”…

con

…” un senso di pena per noi umani e per lo strano ruolo che ci tocca interpretare all’ interno dei nostri stessi disastri”…

Vita e morte, quella paura che ci sovrasta e ci terrorizza ma inascoltata perché non fa notizia, ostaggi di un terrore pianificato, tabloid che esprimono un lieto fine a sorpresa di eventi apocalittici, un po’ come la nostra mente immersa nell’ immaginario, inventando storie per un pubblico che ascolta rapito, immersi in dejavu come segni evidenti del proprio isolamento, impegnati a confermare le proprie convinzioni.
Una vita che andrebbe vissuta quotidianamente, da condividere con i propri cari, crescendo i figli e facendo lezione agli studenti mentre le paure, in primis quella della morte, non andrebbero represse, perché includenti il senso della vita nella sua circostanziata e nitida fragilità.
In fondo

…” la paura è la consapevolezza di se’ portata a un livello superiore”…

“ Rumore bianco “ ( 1985) è uno splendido affresco con vista sul futuro di una società globalizzata ipertecnologica e omologante pervasa dalle frequenze del rumore bianco in un viaggio iperrealista e allucinogeno che si dibatte tra sogno e realtà, introducendo nell’ asettica quotidianità fuorviante concetti propriamente umani ( paura, morte ) senza una soluzione e una presa di posizione evidenti, lasciando che questo film contraddittorio di storie e di realtà allucinata rappresenti se’ stesso in un futuro aperto a una narrazione da scrivere e in parte già scritta.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    31 Ottobre, 2023
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Witold & Beatriz

«Tutti dobbiamo stare da qualche parte. Non possiamo non stare da nessuna parte. È la condizione umana. Ma no. Sono qui per te.»

Il suo nome è Witold Walczykiewicz ed è “il maestro”, il settantenne polacco. È noto per le sue interpretazioni austere, il suo profondo lirismo, la passione smodata per Chopin. Ella è Beatrice, è una donna di origine spagnola con un matrimonio fallito in camere separate e nessuna separazione ufficiale, un marito che si dedica a molteplici scappatelle, due figli ormai adulti. È elegante ed appartiene alla buona società di Barcellona. Il circolo musicale del Barri Gòtic porta all’invito del maestro seguito da una cena formale quanto ordinaria in contesti di siffatto genere. Tuttavia, per “Il Polacco” quello non è solo uno dei tanti incontri della vita fatto di legami occasionali e persone che non verranno a rincontrarsi, per lui Beatriz è, come per Dante, la sua Beatrice. A distanza di mesi l’uomo torna in Spagna, a Girona. Cerca di contattarla, le confessa di essere tornato per lei, di volerla rivedere, di voler andare in Brasile con lei. Ma Beatriz non concepisce questo sentimento, trova l’uomo privo di ardore, falso nelle sue dichiarazioni. Eppure è come magnetico per la donna. Lo respinge ma poi ne è attratta esattamente come l’uomo non può fare a meno di ammirarla e amarla in silenzio, in un corteggiamento goffo e inadeguato per lei che lo rifiuta ma sente di desiderare qualcosa di più.

«[…] Perché è importante? Perché ci parla di noi. Dei nostri desideri. Che a volte non ci sono chiari. Questa è la mia opinione. Che a volte sono desideri di quello che non possiamo avere. Di quello che per noi è irraggiungibile.»

“Il Polacco” di J.M. Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, è un romanzo breve nelle dimensioni ma di gran contenuto. È un romanzo che ci fa riflettere sull’amore, sui sentimenti, sull’importanza dei legami nella nostra vita. Talvolta questo bisogno di amore è tale da spingerci a compiere gesti apparentemente inconcepibili, anche a mostrare quelle debolezze che non vorremmo che fossero viste, anche a mettersi a nudo rischiando di essere compatiti nel proprio più intimo desiderio.
Tra Beatriz e il pianista c’è un profondo senso di magnetismo che si scontra con le reciproche rigidità e le reciproche mancanze. Lui è un uomo con una figlia adulta che vive in Germania, a Berlino. Ben poco rivela della sua prima moglie. Vive l’amore per Beatriz come un senso di rinascita, un appagamento e un riempimento di giornate buie e vuote, è la sua musa e la sua ispirazione. Lei è scocciata da questo suo prenderla come tale perché si sente piena di difetti, imperfetta. Lo respinge ma al contempo ne è attratta. Lo respinge perché più vecchio, lo cerca perché vorrebbe qualcosa di più, un vero corteggiamento. Mente al marito anche se sa che non ce ne sarebbe bisogno perché alla fine è a se stessa che in primis mente. Non tanto per quel profondo o non profondo amore quanto, al contrario, perché mentre l’uomo mette a nudo le sue debolezze lei non riesce a spogliarsi dei suoi limiti.
Alla fine poesia e musica si uniscono in un tentativo dantesco che non riesce ma che lascia da un lato un retrogusto amaro per questa sensazione di solitudine persistente e dall’altro uno spiraglio di speranza in un finale aperto. Non siamo un po’ tutti, alla fine, anime sole?

«Il lutto è un processo naturale. Tutti i popoli del pianeta hanno rituali di lutto. Anche gli elefanti. Lei, Beatriz, ha perso presto sua madre. Una perdita che aveva lasciato un vuoto incolmabile nella sua vita. Era addolorata, piangeva, le mancava. Poi a un certo punto il lutto è finito e lei è andata avanti. Ma il Polacco non sembra essere andato avanti. Dopo averla persa, l’ha pianta e ha continuato a piangere, cullando la sua perdita come una madre che rifiuta di staccarsi dal figlio morto.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Ottobre, 2023
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Espiazione

«E capirono che quel gatto era il disgusto che si era appena destato e che sarebbe cresciuto e si sarebbe espanso su tutta la piana e non avrebbe mai potuto crescere meglio che lì, dove tutto è livellato e uniforme e ristretto e confinato.»

Selma Lagerlof, prima donna Premio Nobel per la letteratura nel 1909, con “Bandito”, pone il lettore davanti a una serie di interrogativi molteplici quanto attuali. Tutto ha inizio dalla violazione della sacralità della morte e della vita, da quel peccato che si cela dietro alla violazione di uno dei più grandi tabù esistenti e riguardanti il cibarsi di carne umana.
Sven Elversson è un giovane uomo che torna al paese di origine dopo che, ancora bambino, fu affidato a una famiglia di alto ceto sociale inglese. Qui il giovane è stato educato e istruito, è cresciuto e ha fatto le sue prime esperienze di vita. Tuttavia è adesso circondato da un’onta dalla quale non può liberarsi, a prescindere da qualsivoglia gesto caritatevole che compia. Protagonista di una spedizione nel nord Europa viene accusato di essersi cibato di carne umana, di necrofagia. La spedizione non è andata a buon fine e pare che i membri di questa si siano macchiati di questo peccato. Tornato al paese d’origine saranno in primis i genitori ad aver difficoltà di accoglierlo, poi, riflettendo e immedesimandosi nei panni altrui, muteranno la propria prospettiva sino a riprenderlo in casa. Il paese lo biasima, lo deride. È un reietto e solo una tra tutti lo accoglierà, Sigrun. Per tutta la sua vita Sven vivrà in un obbligato e protratto isolamento forzato, cercando di espiare una colpa che crede di avere commesso, che lo esclude dalla vita della comunità e di cui per primo ha disgusto. Questo crimine lo porta a odiarsi, a comprendere il disgusto altrui, perché il primo a provarne è proprio lui. Sceglie la via caritatevole, in parte perché parte del proprio essere, in parte perché unico mezzo con cui cercare l’espiazione. È un uomo che si sente mortificato, prova ripugnanza per se stesso, assume modi sempre più umili e asseconda una vita sempre più isolata.
Sigrun rappresenta la compassione e a sua volta compirà una scelta sbagliata che la porterà a un matrimonio fatto di infelicità e costrizioni dove un uomo geloso è disposto a tutto pur di trattenerla a sé, anche a imprigionarla. Il ritorno di Lotta, la donna delle visioni con cui Sigrun era particolarmente legata in gioventù, rappresenterà una via di fuga quanto uno strumento di redenzione.

«[…] Sigrun è la compassione. […] È questa la sua missione. È questo che avrei dovuto capire.»

Sarà solo lo scoppio della Grande Guerra con il suo dolore e il diffondersi della morte a rimescolare le carte in tavola, perché solo una grande colpa, un grande dolore, può far ricontestualizzare quello che sino ad ora era macchia di infamia e disonore. Saranno i corpi restituiti dal mare in attesa di sepoltura e privi di bulbi oculari, preda della fame dei gabbiani, a testimoniare la forza dell’orrore senza confini e fine.
Dai toni volontariamente fiabeschi è “Bandito”, uno scritto in cui c’è tanta della pedagogia propria dell’ex maestra Selma ma anche tanto di simbologia e metafora che porta alla riflessione. Ci sono passaggi di questo scritto volontariamente duri, crudi. Altrettanti sono i momenti di dolcezza, condivisione e carità. Sven rappresenta l’antieroe per definizione, vita e morte tra queste pagine, ancora, si fronteggiano in quel che è una lotta alla sacralità ma anche al bene e al male, al vivere stesso. Anche quando quel lieto fine così auspicato non esiste, anche quando amore e perdono si sedimentano nell’anima.
“Bandito” è un romanzo da gustare un poco alla volta, da assaporare e con cui e su cui soffermarsi. Tra riflessioni, domande e ricerca di risposta. Un libro che si interroga su temi di grande attualità partendo da un espediente narrativo e spostandosi sulla guerra, la morte, il perdono, l’espiazione, il pregiudizio e tanto altro ancora. Da non perdere.

«Non è bene mentire e nascondere qualcosa. Non lo è per niente. Ma non è neanche giusto torturare qualcuno a morte. Non si fa. E il cuore può cambiare. O meglio, può tornare a essere se stesso. E a quel punto, se ne va da sé, quello che adesso è così nero. Non potete crederlo?»

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    30 Ottobre, 2023
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Paura: ventidue variazioni sul tema

Terza antologia pubblicata dal caro Stephen, "Scheletri" è composta da ben 22 storie che spaziano su un ampio range di generi, ambientazioni e toni. Come per le precedenti raccolte dell'autore, ho pensato di scrivere dei commenti specifici ed assegnare delle valutazioni individuali per ogni narrazione; il voto dato al volume nel suo insieme è invece il risultato della media, arrotondato per eccesso. Ed il merito va tutto a "L'arte di sopravvivere", con ogni probabilità!


"La nebbia" - tre stelline e mezza
L'unica novella all'interno della raccolta (tanto da essere disponibile anche come volume singolo) si ambienta nei pressi di Long Lake, nel Maine. Protagonista e voce narrante è l'illustratore David "Dave" Drayton, che si trova a vivere una specie di odissea con il figlioletto Billy "Big Bill" quando una strana nebbia popolata da creature lovecraftiane cala sulla città. Una lettura inquietante nei momenti di calma e terrificante quando i mostri attaccano i personaggi, che si basa su una premessa narrativa decisamente accattivante. Purtroppo il tono non mi ha convinto per nulla: sarà colpa del POV scelto o dello straniamento che colpisce i personaggi, ma comunque sia questi cambi repentini incidono sulla credibilità della storia. Non mi è piaciuta affatto neanche l'introduzione di una sottotrama "romance" del tutto evitabile e la scelta di dare tanto rilievo ad elementi e caratteri poi eliminati o dimenticati senza troppi pensieri.

"Tigri!" - due stelline
Raccontino ambientato in una scuola elementare in cui il piccolo Charles vive nel terrore della signorina Bird, un'insegnante particolarmente interessata al lessico utilizzato dai suoi alunni, anche per frasi comuni come la richiesta di andare al bagno. Una storia che con tutta la buona volontà non sono proprio riuscita a capire: fino ad un certo punto potrebbe sembrare una sorta di metafora delle paure del protagonista, ma poi tutto diventa fin troppo bizzarro. La brevità del testo ed il finale inconcludente non aiutano a farsi un'idea più chiara.

"La scimmia" - quattro stelline e mezza
La storia che ha ispirato la copertina originale della raccolta è incentrata su un giocattolo per bambini, in particolare una scimmia a molla; questo oggetto perseguita fin dall'infanzia Hal Shelbrun, causando la morte di una persona o di un animale a lui cari ogni volta che batte i piatti. Tornato dopo anni nella casa della sua infanzia, l'uomo si ritrova davanti l'odiato giocattolo e deve fare il possibile per evitare che la sua famiglia venga presa di mira. Una premessa che ho trovato davvero intrigante e ben sviluppata, mostrando come la tensione causata dalla presenza della scimmia rendesse anche Hal violento e irascibile; molto interessante anche l'intreccio dell'azione nel presente con i piccoli flashback che raccontano gli attacchi precedenti del giocattolo. L'unica pecca è rappresentata dai momenti horror che non sono davvero tali: mi aspettavo più tensione, specialmente nel finale.

"Caino scatenato" - quattro stelline
Un altro racconto decisamente bizzarro collegato al mondo della scuola, che però in questo caso mi ha convinto. Siamo nel campus di un college e gli studenti stanno sgomberando le loro stanze per tornare a casa durante le vacanze; Curt Garrish però ha altri progetti, progetti che includono un fucile con mirino di precisione. Entrare nell'ottica di questo racconto non è facilissimo, così come accettare che finisca praticamente quando sei appena riuscito a farti un'idea della situazione. In compenso abbiamo una prospettiva unica -e non poco disturbante-, oltre ad una prosa che trasmette benissimo la sensazione della follia implacabile di Garrish.

"La scorciatoia della signora Todd" - due stelline e mezza
Il primo racconto che ci porta a Castle Rock, una località ben nota ai lettori del caro Stephen, dove troviamo il guardiano Homer Buckland impegnato a raccontare all'amico Dave Owens alcuni eventi bizzarri legati alla prima moglie di Worth Todd, Phelia. La donna aveva una grande passione per la guida, ed in particolare per esplorare nuove scorciatoie, che attraversano però dei luoghi quasi fantastici. Di questa storia ho apprezzato molto l'idea dei passaggi fatati in cui ci si può facilmente perdere, che permettono di viaggiare più rapidi ma possono anche essere parecchio pericolosi. Il modo in cui si arriva a trattare questo argomento però è bocciato: un antefatto troppo prolisso, riferimenti mitologici casuali e meno gore di quanto mi sarei aspettata.

"Il Viaggio" - tre stelline
Una storia che parte da un contesto decisamente fantascientifico: in un futuro lontano diverse centinaia di anni Mark Oates sta per trasferirsi su Marte con la sua famiglia per motivi di lavoro; mentre aspettano di poter partire, l'uomo decide di distrarre i figli raccontando di come lo scienziato squattrinato Victor Carune abbia inventato il Viaggio (una sorta di teletrasporto) negli anni Ottanta. Seppur abbozzato, il lato fantascientifico mi ha convinto, così come la scelta di alternare il punto di vista di Carune a quello di Mark; anche il finale risulta d'impatto e parecchio disturbante. Il world building però è a dir poco raffazzonato, inoltre diversi personaggi hanno comportamenti inspiegabili.

"Marcia nuziale" - una stellina e mezza
Ambientato durante gli anni del proibizionismo, questo racconto ricalca fedelmente gli stereotipi del mondo malavitoso dell'epoca. La narrazione è portata avanti da un anonimo musicista che viene ingaggiato con la sua band dal mafioso Mike Scollay, per intrattenere gli ospiti durante il matrimonio della sorella Maureen. La caratterizzazione di quest'ultima è purtroppo l'unico elemento che ho apprezzato; se la sua storia avesse avuto più spazio, forse mi sarebbe piaciuto di più. Il contesto storico e sociale descritto non è di mio gusto, e questo mi ha impedito di digerire le continue osservazioni grassofobiche e xenofobe del narratore; inoltre, la storia prosegue con un ritmo troppo veloce, impedendo di apprezzare la trama stessa.

"Ode del paranoide" - quattro stelline
Nella prima opera in versi dell'antologia, King descrive i pensieri di un uomo affetto dal disturbo paranoide della personalità e per questo convinto di essere controllato e minacciato di morte da numerosi agenti dell'FBI. Non leggendo praticamente mai poesie, non mi sento in grado di valutare la qualità del testo da questo punto di vista. In compenso, credo che queste poche pagine sappiano rendere molto bene l'ossessività ed il progressivo deterioramento delle riflessioni di una persona malata, tratteggiando delle idee sempre più folli.

"La zattera" - quattro stelline e mezza
Forse una delle storie più inquietanti presenti in questa antologia ci porta su una zattera ancorata su Cascade Lake; qui quattro amici intendono passare una serata assieme, ma notano ben presto una strana macchia iridescente nell'acqua, che sembra aspettare solo di poterli ghermire uno dopo l'altro. Tutti gli elementi di questo racconto mi hanno convinto: personaggi e dinamiche, ritmo e sviluppo, tensione e gore. E allora cosa mi ha impedito di dargli il massimo della valutazione? ovviamente la parentesi "romance", non solo inutile ma prova provata di quanto siano scombinate le priorità del protagonista Randy "Pacho".

"Il word processor degli dei" - tre stelline
Un altro esempio di storia dal potenziale interessante, con un'esecuzione poco soddisfacente. L'insegnante ed aspirante scrittore Richard Hagstrom riceve un regalo postumo dal nipote Jonathan "Jon"; si tratta di un word processor assemblato dal ragazzo utilizzando materiali di scarto, ma che rivela di poter non solo computare testi: è anche una lampada del genio tecnologica, perché ogni frase scritta o cancellata altera la realtà. La brevità del testo rende purtroppo banale un racconto decisamente promettente, perché in così poche pagine non si percepisce quasi nulla del conflitto interiore che dovrebbe turbare il protagonista, e anche gli altri personaggi vengono ridotti a macchiette di poco conto.

"L'uomo che non voleva stringere la mano" - quattro stelline e mezza
Seguito dichiarato de "Il metodo di respirazione" -ultima novella della raccolta "Stagioni diverse"-, anche questo racconto si apre sul misterioso club manhattanito del 249B, dove ritroviamo tra gli avventori l'avvocato David Adley, e dove continua a prestare servizio il solerte maggiordomo Stevens. La storia questa volta viene raccontata da George Gregson e riguarda Henry Brower, un uomo tormentato con cui decenni prima giocò a poker proprio nel club. Pur nei limiti semplicistici di una narrazione così breve, devo dire di aver apprezzato parecchio sia l'idea alla base che il modo in cui è stata concretizzata. Buona anche la risoluzione finale e la scelta di sfruttare il concept già presentato del club: sarebbe stato un peccato relegarlo ad un'unica novella, anzi non mi spiacerebbe se l'autore l'avesse ripescato anche in storie più corpose.

"Sabbiature" - tre stelline e mezza
Racconto di stampo fantascientifico abbastanza classico ambientato su un pianeta ricoperto interamente di sabbia sul quale precipita la nave federale ASN/29; Bill Shapiro e Rand riescono a salvarsi, ma quest'ultimo finisce ben presto per essere ammaliato dalle pericolose dune dell'interminabile deserto. Generalmente non apprezzo le narrazioni sci-fi di questo tipo, ma devo ammettere che la svolta horror non mi è dispiaciuta per nulla, così come l'angosciante conclusione. Certo, sarebbe stato carino spendere qualche parola in più per delineare i personaggi e dare qualche elemento di world building, ma nel complesso lo promuovo tranquillamente.

"L'immagine della Falciatrice" - quattro stelline
Scritto da un giovanissimo King, questo raccontino si concentra sul dialogo tra il collezionista Johnson Spangler ed il curatore Carlin, che gli sta per mostrare un raro specchio Delver di epoca elisabettiana. L'oggetto è estremamente bello e prezioso, ma porta con sé una fama sinistra: alcune persone vedono nel riflesso la Falciatrice e ne vengono come segnati. Uno spunto non particolarmente brillante ma ben gestito, con un crescendo di tensione interessante. Ammetto di avere un soft spot per i vecchi oggetti maledetti, e questo da un lato mi ha fatto provare subito simpatia per la storia, ma dall'altro ha creato dell'aspettativa per una conclusione più d'impatto che a conti fatti manca.

"Nona" - cinque stelline
La seconda storia collegata a Castle Rock, con riferimenti netti alla novella "Il corpo", vede come protagonista e voce narrante un anonimo studente universitario, che si trova a fare l'autostop nei pressi della fittizia città del Maine; inizialmente presentato come un personaggio dal carattere mite, lo vediamo degenerare e trasformarsi in un uomo estremamente violento, e questo è associato all'incontro con una ragazza di nome Nona. Su questo racconto non ho nulla da eccepire: le tempistiche sono ottime, la scrittura del protagonista è contorta e disturbante al punto giusto, l'alternarsi di passato e presente rende tutto più interessante, ma soprattutto gli elementi horror che ci vengono promessi sono poi effettivamente mantenuti, risultando shockanti ed essenziali per la trama.

"Per Owen" - due stelline
Poesia ancor più breve della prima, dedicata in questo caso al figlio minore di King ed incentrata su un dialogo tra i due. L'autore sta accompagnando il bambino a scuola, e Owen immagina una scuola diversa, nella quale gli studenti sono dei frutti antropomorfi. In questo caso, oltre a non poter valutare la lettura da un punto di vista analitico -non essendo per nulla abituata a leggere ed analizzare testi in versi- mi sento in difficoltà anche a dare un parere soggettivo: a parte mettere su carta un bel momento di condivisione con il figlio, non ho visto significati ulteriori nel testo.

"L'arte di sopravvivere" - cinque stelline
Una storia che presenta due tropes narrativi tra i miei preferiti (ma che non posso menzionare per evitare spoiler), e per questo è partita decisamente avvantaggiata. Il racconto è impostato come un diario tenuto dal chirurgo Richard "Pine" Pinzetti, che si trova intrappolato su un'isola deserta dopo il naufragio della nave Callas, sulla quale stava viaggiando con due pacchetti di eroina da importare negli Stati Uniti. La narrazione ha un tono conturbante e ossessivo, che rende bene i pensieri del protagonista e contribuisce a delineare un carattere verosimile e memorabile. Ho trovato poi molto interessante il modo in cui viene strutturato l'intreccio, analizzando i limiti della mente di Richard: adoro leggere storie estreme di sopravvivenza proprio per vedere fino a che punto il personaggio di turno sia disposto ad arrivare.

"Il camion di zio Otto" - quattro stelline e mezza
Si torna nuovamente nei confini dell'inquietante Castle Rock con una storia di vendette e maledizioni incentrato su un vecchio camioncino Cresswell rosso, divenuto proprietà di Otto Schenck -zio del nostro narratore Quentin- dopo la morte del suo socio George McCutcheon; una morte tanto improvvisa quanto spaventosa. Grazie ad un ritmo impeccabile, il racconto riesce a creare un ottimo crescendo nella tensione narrativa, che raggiunge il suo culmine nel rivoltante finale. In sostanza, è una storia horror che svolge egregiamente il suo compito, anche a livello di ambientazione; forse si poteva dare giusto un po' di spazio in più alla caratterizzazione dei personaggi.

"Consegne mattutine (Lattaio N.1)" - due stelline e mezza
Un raccontino principalmente atmosferico che ci porta in una placida cittadina della Pennsylvania; il lattaio Spike Milligan è impegnato ad effettuare le sue consegne mattutine di latte ed altre bevande, arricchite di volta in volta con inaspettate sorprese. Una storia che riesce a dare vita ad un'interessante transizione dalla tranquillità iniziale all'angoscia dell'epilogo. L'idea di base ha inoltre del potenziale, nonostante questo non venga sfruttato al massimo. Mi sarebbe poi piaciuto ricevere qualche chiarimento in più sulle motivazioni di Spike o magari delle informazioni relative al suo passato, ma per quelli bisogna aspettare il racconto successivo (o forse no?).

"Quattroruote: la storia dei bei lavanderini (Lattaio N.2)" - due stelline
In questo seguito alla storia precedente, seguiamo Johnny "Rocky" Rockwell e Leo, operai di una lavanderia; Rocky sta cercando un'officina che revisioni in tempo la sua auto, e per fortuna si imbatte nel garage di Bob "Calze Dure" Driscoll, un suo vecchio compagno di scuola. Attraverso le riflessioni di Rocky ed altri accenni nel testo, veniamo a sapere che lui conosce Spike Milligan e lo crede un serial killer. Se il primo racconto non riusciva a gestire al meglio lo spunto, qui abbiamo uno spreco di potenziale ancora maggiore: in queste poche pagine c'era materiale per ricavare almeno una novella sostanziosa, che chiarisse meglio le backstory dei vari personaggi ed inquadrasse in modo più netto cause ed effetti delle vicende narrate. Capisco l'intenzione di giocare sul detto/non detto, ma credo che in questo caso la fretta abbia rovinato una storia davvero intrigante.

"La nonna" - quattro stelline e mezza
Nell'ultima capatina a Castle Rock di questa antologia, vediamo l'undicenne George Bruckner costretto a rimanere a casa da solo con l'anziana nonna, della quale lui ha sempre avuto paura. Il racconto crea degli ottimi momenti di tensione, resi ancor più spaventosi perché filtrati dalla prospettiva di un ragazzino che viene influenzato dai commenti sentiti nel corso degli anni. Promuovo anche la caratterizzazione di George ed il modo in cui viene conclusa la sua avventura. Il lato paranormale invece scricchiola un po': rispetto al resto, sembra parecchio caricaturale.

"La ballata della pallottola flessibile" - quattro stelline
Un meta-racconto che ruota attorno al mondo dell'editoria: ad una festa in giardino il redattore Henry Wilson inizia quasi per caso a raccontare la storia di Reg Thorpe -una sorta di autore maledetto, morto suicida anni prima-, soffermandosi in particolare sulla loro corrispondenza dai toni morbosi e sull'ossessione condivisa per i Fornit, folletti che vivono all'interno delle macchine per scrivere. Di questa lettura ho apprezzato sia l'espediente sia lo svilupparsi dell'intreccio, che lascia fino alla fine il lettore nel dubbio sulla veridicità delle parole di Henry. Non mi hanno invece convinto la caratterizzazione di quasi tutti i personaggi femminili (escludere alcune linee di testo avrebbe risolto facilmente il problema) e l'elemento fantastico, forse un po' troppo infantile per adattarsi bene al contesto spaventoso.

"Il Braccio" - quattro stelline e mezza
Nell'ultima storia ci avventuriamo nel fiume Willamette, nei pressi di Portland, approdando sull'Isola delle Capre; qui vive una comunità immaginaria molto chiusa, che ha sempre risolto da sé i propri problemi. La protagonista Stella Flanders è la più anziana residente dell'isola, che non ha mai lasciato per raggiungere la terraferma. Meno spaventoso di altri, questo racconto si sofferma maggiormente sull'elemento emotivo: abbiamo sì un potenziale lato paranormale (legato in particolare agli spiriti dei defunti), ma l'attenzione è posta sulla perdita delle persone care e sulla solitudine. La mia valutazione non è data soltanto dall'emotività: trovo validi anche la caratterizzazione di Stella ed il modo in cui King ha tratteggiato la piccola comunità isolana; non siamo ai livelli di Derry, ma ci andiamo abbastanza vicini.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    29 Ottobre, 2023
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L'amore è un "inferno incantevole".

Pubblicato in Francia nel 2001 ed in Italia nel 2023, “Perdersi” è il diario di un’appassionata relazione amorosa tra l’autrice ed un diplomatico russo dell’ambasciata di Parigi: un rapporto travolgente, impetuoso, tra Annie, quarantottenne ancora bella e desiderabile, e un giovane
trentacinquenne sposato, vagamente simile ad Alain Delon, “magro, occhi verdi, capelli castano chiari”, simile a “quella schiera di uomini un po’ timidi, alti e biondi, che hanno costellato la mia giovinezza”. Si sono incontrati durante un viaggio di scrittori a Leningrado nel 1988: esploderà qui la passione, che durerà con fasi alterne fino all’ottobre del 1989, quando “S.” (così lo chiamerà Annie per tutto il diario) tornerà definitivamente in Russia.
“Voglio vivere una favola”, cita Annie riportando in epigrafe una scritta anonima sui gradini della Basilica di Santa Croce a Firenze: la Ernaux vorrebbe che fosse così, cullando un’illusione che presto tramonta, la favola bella diventa una storia angosciosa, disperante, il “bisogno vitale di un uomo, così terribile, vicino al desiderio di morte e di annientamento”. Già, perché dopo il primo incontro a Leningrado, Annie non può più fare a meno di S. ( “più avanzo negli anni, più mi concedo all’amore”), attende le sue visite con il cuore in subbuglio, si dispera se passano i giorni senza una sua telefonata, passa notti insonni, piangendo nel terrore di essere abbandonata. Per lui, invece, Annie probabilmente è solo un piacevole svago : ama vestirsi elegantemente, accetta regali da Annie, dice di amarla ma corteggia altre donne, insomma un donnaiolo gaudente e superficiale, tanto da indurre l’amata a rendersi finalmente conto che “ per S. sono solo una donna che ha conosciuto, che scopa bene e che può vedere di tanto in tanto”.
Ma il rapporto che la lega a S., poco sentimentale e quasi solo sessuale in tutte le più variegate declinazioni, è descritto dall’autrice anche nei particolari più scabrosi, con gioia e leggerezza, il desiderio è sempre lancinante (“ lo desidero in maniera spaventosa, da morire”), la felicità di ricevere e dare piacere sembra essere l’unica ragione per sopravvivere. L’avvicinarsi della partenza di S. le causa prima angoscia (“la paura che non possa venire è angustiante”), poi, giorno dopo giorno, una sorta di rassegnazione inconsolabile, consapevole forse di essere solo un passatempo, una specie di trofeo (la famosa scrittrice francese!) di cui S. può menare vanto con amici e colleghi. Il vincolo esclusivo che li lega si spezza, lei, dopo un tiepido addio, gli invia una cartolina, lui nemmeno risponde.
Il diario è testimone dell’anno di passione: “ho fatto l’amore e ho sempre scritto, come se dovessi morire subito dopo”. La scrittura salva Annie, che afferma “l’idea di poter scrivere di questa persona sostituisce l’idea di morire”, confermando altresì che “ non ho mai desiderato altro che l’amore, e la letteratura”. Ecco il binomio che salva Annie e le permette di superare il distacco dall’uomo amato: la passione vissuta con totale dono di sé e la capacità di trasformare (oserei dire trasfondere, per deformazione professionale) il vissuto in letteratura. Lo scrivere, oltre che contribuire alla consapevolezza di sé, ci offre nelle pagine del diario della Ernaux riflessioni disseminate qua e là sulla condizione della donna, sulle sue malcelate simpatie per l’ideologia comunista e per il mondo sovietico da lei frequentato e ben conosciuto, forse per affinità di vedute con S., iscritto al PCUS, sostenitore di Gorbacev ma ammiratore fervente di Stalin.
E’ un diario intimo, segreto, nel quale annota anche, alternati agli incontri con S., momenti legati alla professione (correzione di compiti, incontri con gli editori, conferenze, revisione di bozze) e brevi periodi di svago (visite a musei e, soprattutto, un più articolato soggiorno a Firenze, con annotazioni positive e negative).
Lo stile è quello tipico della Ernaux, dettagliato, preciso, esente da coinvolgimenti retorici. Diventa coraggioso e suggestivo quando espone senza censure lo svolgersi dei suoi rapporti con S.: li raccontai con estrema sincerità e senza falsi pudori, per capire fino in fondo i propri desideri più intimi e segreti, analizzandone l’origine e la propria capacità di incoraggiarli senza complessi o reticenze.
La scrittura resta comunque un palliativo, una medicina che non dà sollievo: l’angoscia delle snervanti attese, i pianti disperati, i momenti di estasi e di dolore sono troppo evidenti, il “tempo della passione” sa come indurre le sue vittime a “perdersi”.
Del resto, per Annie come per tante altre eroine della letteratura, l’amore è un fuoco inestinguibile, lo affermava con passione già Jane Austen, la famosa autrice di “Orgoglio e pregiudizio”, alla fine del Settecento: “ … amore è bruciare, è essere in fiamme”.




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Altre opere di Annie Ernaux.
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lapis Opinione inserita da lapis    29 Ottobre, 2023
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“Non è finita finché non è finita…”

Quarto romanzo della fortunata serie di gialli storici di Alice Basso che vede protagonisti l’esuberante dattilografa Anita Bo e il traduttore-scrittore Sebastiano Satta Ascona, ancora una volta alle prese con l’oppressione del regime fascista, una rivista di racconti gialli da confezionare, qualche fatto delittuoso e il sentimento impossibile che provano l’uno per l’altra.

Rispetto ai precedenti episodi, “Le aquile della notte” ha sicuramente il pregio di introdurre alcuni elementi di novità, sfuggendo così al rischio di annoiare il lettore affezionato ma ormai un po’ stanco del ripetersi delle consuete dinamiche. La storia infatti questa volta si sposta sulle Langhe per una curiosa trasferta di lavoro, traendo notevole giovamento dal cambio d’ambientazione, non solo perché il rosso e l’oro dell’autunno sulle colline sostituiscono il grigiore torinese, ma soprattutto perché viene inevitabilmente offerto meno spazio ai personaggi secondari già conosciuti ed esplorati, introducendo figure e scenari nuovi. Si scopre così che il dissenso al regime non è affatto sopito, ma si può nascondere persino nella campagna langarola sotto le vesti più improbabili.

A fare da filo conduttore a tutta la serie c’è infatti sempre il tentativo di ribellarsi, in silenzio e sottotraccia, a un mondo che non consente libertà. Non si può essere un uomo sensibile, che dubita e si interroga, come Sebastiano. Non si può essere una donna indipendente, che vorrebbe per sé una vita diversa, come Anita. Ma in queste pagine non si deve cercare approfondimento storico o psicologico e, in fondo, nemmeno la suspense tipica del mystery, quanto una lettura d’intrattenimento, fresca e briosa, il cui punto di forza sono la personalità vivida e il percorso di crescita dei protagonisti, oltre che la curiosità suscitata dall’evoluzione del loro legame.

Penna frizzante e divertente, a volte persino un po’ sopra le righe, Alice Basso impreziosisce le pagine di curiosità, riferimenti alla narrativa hard-boiled, citazioni e chicche nascoste tra le righe, che testimoniano l’accurato e minuzioso lavoro di ricerca che si cela anche dietro un romanzo all’apparenza così leggero. Una buona compagnia per passare qualche ora lieta ma non banale.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Ottobre, 2023
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Vanina e i gelati corretti alla valeriana

In una afosa domenica d’agosto Catania è scossa da un improvviso scandalo: nei gelati di una delle più rinomate catene di gelaterie della città (“Il Re del gelato”) sono state ritrovate pillole di ignota natura. L’ispettore Spanò, interpellato dal titolare, il sig. Agostino Lomonaco, suo amico, inizia a indagare.
Quella sera stessa, però, la cosa assume caratteristiche ben più tragiche. Il Lomonaco è ritrovato morto dal figlio Rino; la testa sfondata da un corpo contundente, riverso dietro al bancone della sua gelateria Numero uno, quella in cui ha sede il laboratorio che fornisce anche tutte le altre. A quel punto il vicequestore Vanina Guarrasi, che aveva seguito la prima fase delle indagini solo per evitare la noia di una domenica priva di significato e con troppi ricordi, è costretta a impegnarsi per scoprire l’autore dell’omicidio.
E le ipotesi che si possono fare sul crimine sono davvero tante: rivalità commerciale con Ruggero Cammarata, ex socio che si sentiva truffato dal Lomonaco, gelosia di quest’ultimo, che sospettava una tresca della moglie col Cammarata, avidità della figlia Corinna che temeva di essere diseredata dal padre che la pensava figlia della relazione extraconiugale della moglie; e, infine, giacché siamo comunque in Sicilia, anche intimidazione mafiosa per un pizzo non pagato.
Solo ulteriori tragici sviluppi forniranno alla Guarrasi la soluzione del caso.

Sull’onda del successo ottenuto dalla collana di romanzi con protagonista il vicequestore Vanina Guarrasi, l’A., Cristina Cassar Scalia, ha pensato di dare alle stampe una sorta di prologo alle indagini catanesi della tenace “sbirra” palermitana. Forse, proprio questa circostanza è il difetto maggiore del romanzo breve. Non può essere considerato né un prequel né un’opera da collocarsi come libro d’esordio della serie, cioè non solo nella cronologia interna alla narrazione, ma pure in quella di lettura.
Come prequel, dedicato a chi già conosce i vari personaggi della serie, risultano inutili e tediose tutte le specificazioni riguardanti i protagonisti, le reiterate precisazioni sul loro passato o sui loro attributi fisici o caratteriali; cose che dovrebbero essere già ben note ai lettori affezionati. Se, invece, il romanzo fosse inteso proprio come storia d’esordio destinata a essere letta prima di tutte le altre, mal si comprendono certe strizzatine d’occhi, certe allusioni a fatti o persone che verranno introdotte successivamente nel prosieguo della serie (su tutte l’onnipresente figura del commissario in pensione Patanè). Sono tutti richiami, che risultano incomprensibili per chi faccia la conoscenza dell’ambientazione a cominciare da questa storia. Queste storture un po’ disturbano e un po’ appesantiscono la storia che potrebbe essere assai più agile.
La trama, poi, è abbastanza arruffata, preciserei inutilmente, ma, contemporaneamente, poco strutturata, coi personaggi appena delineati a rapidi tratti.
La serie di tracce investigative, poi, viene sparsa attorno ai fatti come una cortina fumogena allo scopo di rendere imperscrutabile l’andamento delle indagini più che per indirizzare verso la soluzione finale, la quale viene servita affrettatamente, solo nelle ultime pagine del libro, senza una reale preparazione e senza aver fornito al lettore quegli indizi rivelatori che lo avrebbero forse coinvolto con maggior partecipazione. Lo stile resta gradevole, diligente e scorrevole, ma privo di alcun guizzo inventivo o raffinatezze letterarie.
In generale si tratta di una opera carina, ma decisamente inferiore alle altre, e traspare lo scopo di ottenere qualche vendita editoriale in più spremendo dall’ambientazione già ben sfruttata qualche goccia ulteriore di interesse nei lettori. In pratica una operazione commerciale non pienamente riuscita. Comunque, accertati e accettati questi limiti, restano un centinaio di pagine o poco più da leggere con moderato godimento e interesse.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    29 Ottobre, 2023
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Racconto dell'orrore

In “Sorella, mio unico amore”, Joyce Carol Oates si ispira liberamente a un fatto di cronaca avvenuto nel 1996 in Colorado, quando una bambina di soli sei anni, che era stata proclamata reginetta di bellezza, venne trovata uccisa nella cantina della sua ricca casa di famiglia.

Il romanzo di Oates è scritto sotto forma del memoir che scaturisce dalla penna e soprattutto dalla mente del fratello di una bimba uccisa, a soli sei anni, nel locale caldaia della sua abitazione a Fair Hills: la bambina, Bliss Rampike, era considerata una promessa del pattinaggio sul ghiaccio. Il ragazzo, Skyler , mentre scrive ha diciannove anni, è un tossico disperato e sfinito che ripercorre nella scrittura tutta la sua infanzia fino al momento della morte della sorellina e tutta la sua adolescenza segnata dal terribile lutto e da un inquietante e potentissimo senso di colpa che lo sta distruggendo. Attraverso il suo racconto, tagliente e raccapricciante per come descrive la sua triste esistenza, possiamo cogliere come le sfrenate e malate ambizioni per raggiungere la fama e il successo presenti in una famiglia americana dei sobborghi abbiano generato mostri.

I genitori, in particolare, sono due personaggi particolarmente squallidi. Il padre sembra concentrarsi solo sulla carriera, pone ogni sforzo nel cercare di aggiungere altri soldi ai tanti che ha già, è assente nei riguardi dei suoi figli e intreccia in continuazione relazioni extraconiugali. La madre cerca spasmodicamente il successo sociale e la celebrità, vuole essere ricercata dai mezzi di comunicazione. Per riuscire in questa impresa però non ha grandi doti personali che le permettano di eccellere in qualcosa: non è così tanto bella, non svolge una professione, non è una campionessa sportiva. (Siamo alla metà degli anni Novanta, non esistono ancora le influencer). Così ci prova con i due figlioletti: inizia con Skyler, il suo “ometto”, il maschio primogenito. Ma il povero bambino non ha nessuna particolare dote sportiva o di altro genere che lo renda un fenomeno mediatico. Anzi, cercando di eccellere nella ginnastica ha un brutto incidente che lo porterà a zoppicare. Non rimane che concentrarsi sulla figlia femmina, che, inaspettatamente, rivela un incredibile talento per il pattinaggio sul ghiaccio. Così la bambina, a soli quattro anni diventa una stella: televisioni che la riprendono durante le esibizioni, allenamenti intensivi, cure mediche ossessive e farmaci per performare di più, trattamenti estetici invasivi per accaparrarsi nuovi contratti pubblicitari… Finché, un giorno, la povera Bliss viene trovata uccisa nel locale caldaia della sua opulenta abitazione a Fair Hills. Chi l’avrà uccisa? I suoi familiari? Lo stesso fratellino Skyler? Oppure un pedofilo che si è introdotto nella casa senza che nessuno se ne sia accorto?

Si tratta di una lettura molto coinvolgente, lo stile dell’autrice riesce a ricreare i tormenti interiori e la profonda sofferenza di Skyler. Le abbondanti pagine che costituiscono il romanzo scorrono via velocemente, portandoci in territori che svelano l’orrore che può annidarsi in esseri umani ricchi e di successo e in relazioni, come quella genitori-figli, in cui al primo posto si dovrebbe trovare l’amore e non certo lo sfruttamento e la violenza.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    28 Ottobre, 2023
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Dilemma ragione e sentimento

Romanzo d’altri tempi, classico della letteratura francese, che racconta di un triangolo amoroso. Ricorda molto “Orgoglio e pregiudizio”, per quel senso di antico che cogli fin dalle prime pagine. La storia è ambientata alla corte di un re e quindi l’atmosfera e la collocazione è pienamente in uno stile tipicamente francese. Protagonista assoluto è il duello, il dilemma, fra ragione e sentimento (altro binomio austeniano), che prende l’anima dell’eroina protagonista, che, dopo la morte del marito, dovuta ai turbamenti causati dall’innamoramento di lei per un altro uomo, resta comunque combattuta se scegliere o meno di seguire la via del cuore. Lei sceglie l’amore, ma non come potrebbe pensare. Sceglie di renderlo in un certo senso immortale e ideale. Sceglie di non viverlo, per viverlo appieno.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    26 Ottobre, 2023
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Anticonformista, ma non troppo

Seconda parte della readalong dedicata a Susanna Tamaro, potremmo definire "Il vento soffia dove vuole" come il seguito ideale del suo celeberrimo "Va' dove ti porta il cuore". Infatti entrambi i volumi si presentano come degli epistolari, nei quali la voce narrante è quella di una donna non più giovanissima che desidera raccontare la sua esperienza di vita -e fornire qualche consiglio- ai familiari.

In questo caso la protagonista è la professoressa di biologia Chiara che, per la prima volta da anni, si trova a passare le vacanze natalizie a casa da sola. Non è stata però abbandonata dalla sua famiglia, anzi: lei stessa li ha incoraggiati a far visita agli amici e a dedicarsi ai loro hobby; nel mentre, lei si cimenterà nella stesura di tre lettere, da consegnare alle figlie -Alisha e Ginevra- ed al marito Davide. In ogni missiva, la donna ripercorre alcuni episodi del suo passato, svelando segreti e dispensando insegnamenti.

Proprio alcuni di questi insegnamenti rappresentano per me uno degli aspetti meno riusciti del volume; sarà una preferenza personale, ma i messaggi pro-life, le sviolinate al cattolicesimo e la demonizzazione del mondo contemporaneo (con tanto di endorsement ai cambiamenti climatici) mi hanno infastidita parecchio: ho avuto l'impressione che l'autrice ficcasse a forza alcune frasi in bocca alla sua protagonista per veicolare in modo evidente le proprie idee. A questi slogan irritanti si aggiungono le riflessioni nostalgiche di Chiara, indubbiamente utili per inquadrarla in quanto boomer, ma un po' pedanti e ripetitive. Per mio gusto non ho poi apprezzato la motivazione alla base di questo romanzo, nonostante sia gestita meglio rispetto al primo libro; proprio la corrispondenza tra i due mi ha dato la sensazione di una minestrina riscaldata.

Lasciando per un attimo da parte le mie impressioni, ho notato altre problematiche, come i dialoghi: non solo sono molto più presenti rispetto a "Va' dove ti porta il cuore" -rendendo poco credibile la finzione dell'epistolario-, ma si tratta molto spesso di battute artificiose e farcite di retorica, con il risultato di far sembrare i personaggi tutto fuorché spontanei. Non ho trovato per nulla riuscita poi la caratterizzazione di Davide che, a differenza degli altri personaggi, viene descritto in termini tanto idealizzati da renderlo a dir poco inverosimile. Inoltre questo non è un titolo che consiglierei a chi vuole un minimo di trama, perché le svolte in tal senso sono pochissime: ci si limita a seguire le vicende più o meno quotidiane di Chiara e della sua famiglia.

Quindi, per chi sarebbe invece una valida lettura? indubbiamente per i lettori che cercano una prosa sempre curata e ricca di metafore evocative, in questo caso legate soprattutto al mondo della natura. Lo apprezzerà molto anche chi ha un debole per i momenti potenti a livello emotivo, che qui vengono raccontati in modo da rendere decisamente credibile la voce narrante. In generale, è una lettura piacevole e dai toni misurati, che nonostante questa placidità riesce a trasmettere con chiarezza l'affetto profondo ed il legame familiare tra i personaggi.

Personaggi che dimostrano poi delle caratterizzazioni valide e non scontante come ci si potrebbe aspettare, perché più di uno rivela dei tratti imprevedibili. Come voce narrate poi Chiara è nettamente superiore ad Olga, anche soltanto perché cerca attivamente di mostrare empatia nei confronti della sua famiglia e non si limita ad enunciare una scusa dietro l'altra per i suoi errori. Anche se di errori veri e propri è difficile parlare in questa versione parmense della famiglia del Mulino Bianco!

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    25 Ottobre, 2023
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La (poco) Divina Commedia del Polacco

Si potrebbe sintetizzare l’ultimo romanzo di Coetzee, scrittore sudafricano Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, come breve ma molto intenso. In poco più di 100 pagine infatti Coetzee riesce a realizzare un libro dal profondo contenuto, in cui traspare l’importanza che assume l’amore nella vita delle persone. Evidenziando quanto lo stesso amore vissuto univocamente da un uomo (“Cara Signora -dice il Polacco- , non sono un poeta. L'unica cosa che posso dire è che da quando ti ho incontrata la mia memoria è piena di te, dell'immagine di te”), seppur non ricambiato, possa spingere gli individui a mostrare le proprie debolezze senza paura di mettersi a nudo, anche a rischio di essere compatiti dal destinatario della propria passione.

L’uomo in questione è appunto Witold, “Il Polacco” del titolo, celebre pianista dal nome impronunciabile e grande interprete di Chopin che a seguito di una performance in una sala concerto di Barcellona incontra Beatriz, affascinante donna del Comitato organizzatore dell’evento, di cui si innamora perdutamente senza però trovare lo stesso sentimento nella controparte. Partendo da questo presupposto Coetzee tratteggia la figura del Polacco, talentuoso pianista si, ma al tempo stesso non dotato di quella “sensibilità” musicale che invece dovrebbe rappresentare un must per chi interpreta Chopin. Tuttavia visto che il concetto di arte è insito nel personaggio, Witold veste i panni di un novello Dante dei nostri tempi, dedicando appassionate poesie alla sua "musa" con il dichiarato intento di riuscire a scalfire l'anima di Beatriz andando oltre ai brevi momenti di passione vissuti.

Poesia e musica risultano così intrecciate ed in questo accostamento, nel goffo tentativo di emulare "Il Sommo Poeta" da parte del Polacco, si svela la grandezza di questo breve romanzo in cui la sublime arte della poesia, vista come strumento per raggiungere il cuore della sua Beatrice con l’intento di “corteggiarla, perché lei lo ami e lo mantenga vivo nel suo cuore”, ha un risvolto ironico con effetti tutt’altro che producenti. Perché Beatriz riconosce la grandezza del gesto, conscia che il significato ultimo di questa "Commedia" scritta per lei con il fine di renderla immortale, ha in realtà veramente poco di "Divina" ed anzi risulta piuttosto comica.

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68 Opinione inserita da 68    24 Ottobre, 2023
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Passato, presente, futuro…

…” Qui smetterò di interrogarmi sul mio passato e sul mio futuro, perché vedrò il mondo con occhi nuovi. Lo vedrò dalla prospettiva del santo senza nome, con una memoria infinita e una libertà senza tempo. La casa della tua infanzia. I tuoi Pascoli. I tuoi genitori che non ho mai conosciuto. Tutti i nostri antenati. Ho infine trovato il modo di udirli. Finalmente il loro messaggio è chiaro. Questa terra sopravviverà. Molto tempo dopo che le nostre luci tremule ed effimere si saranno spente, queste montagne, questi altopiani, questo vento, continueranno a esistere. E poiché è questa terra la fonte di tutto ciò che siamo, noi saremo ancora qui”…

Tibet, due sorelle ( Lahmo e Tenkyi ), una madre ( Ama ), una figlia ( Dolma ), cinquant’ anni di narrazione condivisa dai protagonisti di una regione invasa, destituita, perduta, che non possiede un esercito ma solo monaci e monache, strappati da una terra in un esilio senza nome in attesa di un ritorno improbabile, alla ricerca dei propri Dei, la migrazione in Nepal ( 1962 ) convivendo con i locali e con i propri incubi, un esercizio di sopravvivenza in un luogo non proprio.
La verità è che i cinesi (Gyami ) non possono essere sconfitti con le preghiere, ci vorrebbero pallottole e bombe, l’odio non serve senza una guida spirituale.
Canada, 2012, Dolma, innamorata della storia del Tibet e dell’ intero passato vorrebbe raggiungere gli uomini e gli Dei di una nazione che non ha conosciuto, vedere i morti di allora che riprendono vita, Lahmo da cinquant’ anni vive in Nepal rinnovando il suo permesso di rifugiata, tralasciando un passato dissolto e la sua vita in Tibet.
Tutti i tibetani nati in Nepal dopo il 1989 sono ragazzi apolidi, è come se non esistessero, una separazione non voluta ma necessaria, una vita rescissa da anni,
generazioni a distanza, chi sperando di rivedere la propria terra, chi costretto altrove, chi obbligato dalle circostanze, chi in cerca di un futuro migliore.
Figli, zii, nonni, nipoti, l’eco spirituale di una madre che per anni ha prestato la propria voce agli Dei, accomunati dal legame viscerale con una terra di incantesimi, di uomini, di spiriti, di voci, di valli, di laghi, di montagne e il dono inestimabile della loro conoscenza.
Ad accompagnare i protagonisti una statuetta ( Ka ) di argilla di un santo senza nome capace di resistere agli anni e a cotanta distruzione, che sembra condividere il destino degli uomini, inseguirli, una statuetta perduta, sottratta, venduta, ritrovata, che unisce più generazioni in un cammino sofferto, una identità sradicata dagli invasori.
Anni a desiderare il ritorno nella terra d’ origine, la condizione di libertà all’ origine del cambiamento, molti gli interrogativi a contorno.
Che cosa significa essere scacciati dalla propria casa senza potervi fare ritorno nel ricordo di una felicità accarezzata per anni, viceversa essere nati altrove, in un altro continente, vissuti di storia e di racconti per arrivare un giorno in un luogo raccontato e immaginato che non si è mai visto?
Che cosa significa essere dimenticati dal mondo, non contare nulla, un popolo apprezzato solo per i suoi oggetti e per la sua filosofia, non per le persone e per le loro vite, che cosa significa essere profughi, rifugiati, con un invasore che si è impadronito della propria terra, ha ucciso la propria gente, in possesso di documenti considerati illegittimi dalla maggior parte delle nazioni?
La memoria condivisa e le storie alimentano il senso di appartenenza, il respiro di un sentimento comune avvalorato da uno spirito di affinità, anime disperse in altri corpi proseguono lo stesso racconto.
E allora la ricerca della statuetta rincorre un’ identità ingiustamente sottratta, radici che sono il solo senso possibile, una terra che esprime l’essenza di un popolo, la forza della memoria in una libertà atemporale. Questo luogo racchiude le voci infinite della memoria, in lui tutto si conserva e si mantiene, il suo popolo in primis, un luogo che rimane il solo immortale e imprescindibile archetipo.

….”Di fronte a me c’è un paese che mi è precluso. Alle mie spalle una realtà alla quale non appartengo. Avanti o indietro nessun cammino ha senso. Perciò devo rimanere sospesa tra due universi”….

Un romanzo quantomai necessario per non dimenticare, per rievocare un forte senso di appartenenza nella condivisione ancestrale di una terra che non c’è, un popolo vessato e dimenticato nella propria essenza più vera. Che cosa oltre la memoria, la poesia, la spiritualità, l’arte, il destino degli uomini, la voce dei loro Dei, un canto sospeso nella tragedia di un popolo apolide ma ancora così profondamente radicato .
Tra cruda realtà e sogni infranti, desideri vividi e poesia dell’ anima, l’ infinita bellezza custodita negli occhi della memoria e nei suoi racconti, la purezza di giorni che non torneranno, sospesi tra illusione e speranza in una terra di mezzo che preclude qualsiasi accesso alla propria realizzazione più vera.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    23 Ottobre, 2023
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Horror classico, angoscia attuale

Con "L'ospite" sono arrivata a cinque libri della cara Sarah letti, cinque libri ai quali ho dato il massimo della valutazione. Vi chiederete forse perché io non li abbia recuperati tutti subito, dal momento che ho adorato alla follia la sua prosa dalla prima pagina di "Ladra"; la ragione è da ricercarsi nella mia propensione per la parsimonia: sapendo che ha scritto soltanto sei romanzi e -per il momento- non sembra essere in procinto di pubblicarne altri, ho stabilito di centellinare al più possibile la sua bibliografia. E per gustarmeli al massimo, li conservo sempre per la stagione autunnale, quando il talento dell'autrice nel tratteggiare location inquietanti e relazioni conflittuali rende al meglio.

Nella sua penultima opera, Waters ci porta una seconda volta nell'Inghilterra post-bellica, in particolare nella campagna dello Warwickshire dove sorge Hundreds Hall, l'imponente tenuta della famiglia Ayres. Qui il dottor Faraday -aka, il nostro narratore in prima persona- si reca all'inizio del volume, per curare la domestica Betty; nonostante l'appartenenza a due classi sociali diverse, questa prima visita farà nascere un'amicizia tra il medico e gli ultimi esponenti della famiglia Ayres: Angela -la vedova del Colonnello-, la figlia Caroline "Caro" ed il figlio Roderick "Rod". Quest'ultimo in particolare sta cercando di salvare la Hall da quello che pare un inevitabile tracollo economico e strutturale; la casa però non collabora, anzi sembra decisa a rendere impossibile la vita all'intera famiglia, prima con fastidiosi dispetti e poi con violenti attacchi.

Se conoscete un po' le narrazioni dell'autrice noterete subito degli elementi inusuali, in primis la presenza concreta di un lato fantastico, legato al poltergeist che sembrerebbe infestare Hundreds e turbare la tranquillità dei suoi abitanti. Nonostante l'inaspettata variatio, questo aspetto ha contributo ancor di più a tenermi incollata alle pagine, perché fino all'ultimo sono rimasta in dubbio sulla concretezza di quanto succedeva e sulla credibilità di ciò che i personaggi riferivano al narratore. Senza dubbio anche la prosa tanto scorrevole quanto curata di Waters ha contribuito attivamente a mantenere sempre vivo il mio interesse per questa storia.

La potenza dell'ambientazione, che nel caso dell'opprimente Hall diventa in pratica la vera protagonista della storia, invece me l'aspettavo. Allo stesso modo, mi aspettavo l'estrema verosimiglianza nella caratterizzazione dell'intero cast, composto da personaggi a tutto tondo tra i quali spicca la famiglia Ayres, e soprattutto Caroline della quale mi spiace veramente non sia presente il punto di vista perché è una personaggia dal carattere per nulla scontato, e si trova al centro di dinamiche molto interessanti. Non intendo però lamentarmi del POV di Faraday dal momento che fornisce una prospettiva particolare sia per quanto riguarda la natura dei rapporti che instaura con i diversi membri della famiglia Ayres, sia per il piglio critico con cui si approccia al paranormale, vista la sua attività di medico.

Tra stile, personaggi ed atmosfere impeccabili, l'unica critica che mi sento di muovere a questo libro è la limitatezza della trama; gli eventi che formano l'intreccio non sono per nulla imprevedibili, ma questo perché l'intenzione è quella di rimandare alle storie dei romanzi gotici vecchio stile. Anche il comportamento a tratti bizzarro degli Ayres -tanto attaccati alle tradizioni vittoriane da non potersi adeguare ad una realtà in cui il loro ruolo di aristocratici non ha più valore- risulta perfetto per definire una storia dal piglio moderno eppure in grado di trasmettere le stesse sensazioni di un classico ottocentesco.

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Classici
 
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lapis Opinione inserita da lapis    22 Ottobre, 2023
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Narciso fin de siècle

Quando il giovane e innocente Dorian Gray vede per la prima volta il suo magnifico ritratto impara ad amare la propria bellezza.

Ma non basta uno specchio lucido in cui rimirarsi, il Narciso fin de siècle vuole di più, vuole che la propria vita diventi essa stessa arte, consacrata all’inseguimento del bello, del piacere, della sensazione intensa o rara. Regole sociali e morali sono catene di cui farsi beffe in nome di un superiore ideale estetico che fa di gioia, godimento, passione i propri comandamenti. Sono le insinuanti teorie del maturo Lord Henry, dandy cinico, intelligente e raffinato a cui Wilde affida i più sferzanti aforismi e squisiti nonsense. Il ragazzo si lascia così avvelenare da queste teorie edonistiche, spingendo la sua esistenza al limite, sulla strada del vizio e della dissolutezza.

Ma mentre l’uomo conquista il mondo e il piacere, cosa accade alla sua anima? È sulla scia di questa domanda che si innesta l’invenzione geniale di Wilde: la vita diventa arte, immagine perfetta e immutabile di giovinezza, mentre l’arte diventa vita, portando il segno degli anni e il peso dei peccati. E così mentre Dorian continua a essere ammirato in società per il suo aspetto innocente e delicato, la tela si fa specchio della coscienza, deformandosi giorno dopo giorno: gli occhi si gonfiano, le rughe solcano la pelle e le labbra si incurvano in un ghigno crudele e spaventoso. Dorian nasconde il quadro in soffitta, chiudendo a chiave la porta per fingere che non esista, ma non basta tutto l’oppio del mondo per dimenticare davvero quel volto che lo osserva da lontano e sogghigna nel buio, diventando sempre più maligno e ripugnante.

Quel dipinto che gli aveva insegnato ad amare la propria bellezza, gli insegnerà anche ad avere orrore della propria anima?

La penna di Oscar Wilde è sublime e inimitabile, capace di fondere l’ironia spietata di battute paradossali e irriverenti alla pura poesia con cui si abbandona alla descrizione dei profumi di un giardino o delle note di un notturno di Chopin per ricreare le atmosfere languide che avvolgono queste pagine. Un romanzo tutto giocato su ambiguità e contraddizioni, in grado di sedurre anche i lettori di oggi con il suo fascino straordinario.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    21 Ottobre, 2023
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Il perfetto romanzo corale americano

«E avrebbe avuto tutto il tempo di ricordare, perché andò di fatto a marcire in caserma. Ricordò che suo padre era solo e si sentiva solo e lo sapeva.»

“La valle dell’Eden” è senza dubbio il testamento spirituale di John Steinbeck ma è anche il romanzo più maturo e più complesso dell’autore. Rappresenta un’opera dell’età adulta che ben si distacca da lavori precedenti quali “Pian della Tortilla” (maggio 1935) o lo stesso “Furore” (1939, che è tra le opere più acclamate del romanziere ma che è anche una delle più impulsive e che arriva a vincolarlo a un’immagine che è solo apparenza oltre a determinare l’immagine di un contesto sociale di poi smentito). A partire dagli anni Trenta e sino ad appunto “La valle dell’Eden” le opere dello scrittore sono incentrate su duplice interesse; da un lato l’osservazione distaccata e scientifica del gruppo (il cd “group man”) e delle sue dinamiche, dall’altro sulla lettura della realtà così com’è e non ancora come potrebbe essere. Steinbeck è stato un autore che apparteneva non a “casi generali” ma alla teoria dei “casi particolari”.

«Adam sapeva, per via degli anni passati nell’esercito, che un uomo che ha paura è un animale pericoloso e, come tutti del resto, aveva paura di quello che le frustate avrebbero fatto al suo corpo e al suo spirito.»

Ma veniamo al testo. “La valle dell’Eden” rappresenta il romanzo americano per eccellenza. Per chi avesse visto anche il film interpretato, tra gli altri, da James Dean, il libro si distanzia sotto molteplici aspetti, in primis già solo per il fatto che la pellicola si basa su un arco storico ben più breve e che riguarda gli anni del primo Novecento, quando i figli di Adam sono già adulti. Al contrario il libro parte dall’Ottocento e riprende il filo dell’ottimismo tipico di Emerson e Whitman. Fa un vero e proprio excursus storico, con tanto di guerra, un’analisi profonda che ci porta a conoscere i primi personaggi e a restare affascinati dalla loro complessità e durezza. Cyrus e Charles rappresentano la durezza e l’asprezza della vita, Adam, al contrario, è un’anima schiacciata e ingenua innanzi alla vita.
Non casuale è anche la scelta della suddivisione dei nomi che rimanda alla Bibbia. Non c’è una visione univoca in merito ma non è un dettaglio che passa inosservato quello che porta a riconoscere nelle iniziali con la “A” i personaggi “buoni” e positivi come Abele e nella “C” i personaggi “cattivi”.
Due le narrazioni che accompagnano lo scritto e a cui ne segue una terza: la storia degli Hamilton, che era la famiglia materna dello scrittore e in cui si intravede lo stesso Steinbeck (da qui il primo artifizio narrativo degno di nota e all’avanguardia per i tempi); la storia della famiglia Trask e infine la terza storia, quella dedicata a Cathy Ames che rappresenta il romanzo gotico nel dramma pastorale ma che è anche, al contempo, il personaggio più complesso, duro, cupo e spietato dell’intero viaggio. La sua figura fa sinceramente male. Ci sono dei passaggi in cui il lettore si interroga sulle sue azioni, i suoi comportamenti. Non vi trova soluzione o spiegazione. Cathy non ha scrupoli come non prova emozioni.

«I pensieri divagavano un poco, perché non si può ricordare l’esatta sensazione del piacere, del dolore, o dell’emozione che ti soffoca.»

Quel che riesce a realizzare Steinbeck in questo romanzo è prima di tutto indagare nei tratti umani più intimi e profondi. Nulla è casuale, nulla è per caso. Se Samuel è il capostipite degli Hamilton che grazie alla sua bontà e integrità morale ma anche saggezza, risveglia Adam e rappresenta una sorta di linea guida per tutti i suoi cari, Kate, quando decide di cambiare nome, è fredda, cinica, crudele, arrivista. Qualunque mezzo è appropriato pur di raggiungere lo scopo. Non si pente delle morti che causa, anzi, ne è fiera e quel sangue versato è solo un tassello ulteriore per un disegno più grande. Lee stesso è un volto che rappresenta l’immigrazione nella realtà della non accettazione e che alla fine, seppur abbia perso le radici non essendo più cinese ma nemmeno americano, trova nella famiglia Trask, la propria famiglia. È un personaggio buono, che resta nelle retrovie ma che si insedia nel lettore. Il suo codino, e il suo successivo essere tagliato, rappresenta uno spartiacque tra prima e dopo, tra radici e loro perdita.
Passano gli anni e con gli anni passano anche le generazioni. Iniziamo lo scritto conoscendo Cyrus e sua moglie, i suoi figli Adam e poi Charles, con l’arrivo in scena di Cathy poi Kate, ci spostiamo lasciando indietro alcuni personaggi e per abbracciarne altri e da qui la storia si evolve su ulteriori binari che si intrecciano e intessono una trama profonda e ricca. Tra buoni propositi, ricchezze, auspici e speranze. Tra esseri umani agli antipodi e la delineazione di un romanzo corale che è fotografia di una società, quella americana in tutte le sue criticità. Ed ancora è un romanzo spirituale ma non in modo assoluto. La spiritualità è un’aura che ruota attorno alle vicende, è presente ma assente, non è univoca ma è discutibile. E chi legge non può esimersi dall’interrogarsi sui tanti parallelismi e sulle molteplici situazioni.
“La valle dell’Eden” è un romanzo stratificato, gestito con maestria, sviluppato con acutezza, strutturato in una complessità voluta ma mai pesante. È un romanzo estremamente godibile, da assaporare un poco alla volta, da vivere. È un libro in cui a parlare sono anime che parlano alle anime. È un libro che chiede di essere letto e che non deve spaventare per la mole, la prosa magnetica ne rende la lettura estremamente fruibile e rispetto a tanti romanzi di Steinbeck lo stile è più morbido, cuneiforme e questo lo rende appetibile a una vasta platea di lettori anche non amanti del narratore.

«E non posso farci niente, ma mi chiedo se percepisci mai che attorno a te c’è qualcosa che ti è invisibile. Sarebbe orribile se tu sapessi che c’è e non riuscissi a vederlo o sentirlo. Questo sì sarebbe orribile.»

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    21 Ottobre, 2023
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Universi paralleli

Libro che, come pochi altri, ci fa riflettere sulle nostre infinite possibilità. Si apre con il conto alla rovescia di una giovane donna che sta vivendo le ultime ore prima di una brutta decisione. Se non che si ritrova in una biblioteca dove una donna anziana, che nella sua vita ha avuto un ruolo chiave in un momento delicato, la guida ad aprire i libri che contengono tutte le possibili vite che Nora avrebbe potuto vivere se avesse preso di volta in volta decisioni diverse, per trovare una vita dove si sente libera di voler vivere. I libri hanno tutte le sfumature possibili del verde, colore della speranza. Ognuno di essi nasce o da un bivio o da un rimpianto o da una scelta. Come tanti universi paralleli. Come tante sliding doors. Nel dolore di Nora mi sono riconosciuta, l’ho sentito pulsare dentro di me mentre lo leggevo. I mille particolari descrittivi di cui il libro è ricco mi hanno permesso di immaginarmelo scorrere davanti, come se fosse un film. Il messaggio più bello che questa biblioteca, posta tra la vita e la morte, ci offre è che il cambiamento maggiore che possiamo avere non è quello di desiderare altro rispetto al punto in cui noi e la vita ci hanno portato, ma quello di amare il punto in cui siamo, come siamo, il modo in cui ci siamo arrivati ed il modo in cui, da qui, possiamo ancora migliorare. Arriva un momento nella vita in cui forse dobbiamo attraversare tutti i nostri rimpianti, ripercorrere le linee del tempo, per ritrovare però quella che è la nostra vera ed intima dimensione.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    20 Ottobre, 2023
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Erin True Crime

Come rischiarare una nuvolosa e triste giornata autunnale? ma con un nuovo libro di uno tra i propri autori preferiti, ovviamente! Ecco perché, a dispetto di una TBR strabordante di titoli in attesa da anni, lustri e perfino decenni, ho deciso di scegliere "Joyland", approdato sui miei scaffali soltanto all'inizio di settembre come regalo molto gradito. Dal momento che il mio umore in effetti è migliorato, non rimpiango affatto di avergli dato la precedenza!

La narrazione è affidata allo studente universitario Devin "Dev" Jones che, nell'estate 1973, si trasferisce ad Heaven's Bay nella Carolina del Nord per lavorare come Allegro Aiutante nel parco divertimenti Joyland. Qui il giovane scopre che il Castello del Brivido è stato il teatro di un macabro delitto anni prima; decide per tanto di far luce sulla vicenda, dando finalmente pace allo spirito della vittima, che sembra infestare l'attrazione comparendo sporadicamente a visitatori e membri dello staff.

Pur essendomi gustata appieno questa lettura, non voglio nasconderne i difetti. Un primo problema è dato dalla sinossi, che confonde parecchio le idee su quale sia la storia da seguire ed anticipa troppe informazioni, arrivando addirittura a spoilerare un evento legato al finale! Comunque, la poca chiarezza della trama non è da imputarsi solamente a chi ha curato l'edizione: nella prima metà del volume infatti, vengono sottolineati degli elementi molto diversi tra loro, e per questo risulta difficile capire quale sia il filone narrativo principale.

Da un punto di vista più soggettivo, devo ammettere di non aver gradito più di tanto la parentesi romance, a mio avviso troppo fine a se stessa. Neppure il finale mi ha convinto appieno, perché lascia alcune sottotrame in sospeso, oppure fornisce una spiegazione poco chiara; e penso in particolare a come viene risolto il problema dell'infestazione spettrale.

Ma lasciamo da parte le lagnanze per concentrarci sugli aspetti più riusciti. Innanzitutto, ho apprezzato fin dalla prima riga il tono spigliato e irriverente del protagonista, ottimo per rappresentare un narratore maturo che guarda con ironia alla sua giovinezza. Mi hanno colpito in positivo poi le piccole anticipazioni che costellano l'intero romanzo, perché rendono più interessante la narrazione, creando dell'aspettativa. Dopo anni di lodi al caro Stephen sembra ormai superfluo, ma non posso che menzionare anche l'ottima caratterizzazione di protagonisti e comprimari, creati mescolando tratti inediti con qualche cliché, con il risultato di ottenere dei personaggi memorabili ed immediatamente accattivanti.

Personalmente mi è piaciuto molto il modo in cui viene rappresentata la crescita di Devin, all'inizio descritto come un ragazzo insicuro sul suo avvenire, che pian piano impara ad accettare i propri difetti ed a farsi forza dei sui pregi; la risoluzione che leggiamo nel finale è una bella metafora della sua neonata consapevolezza. Un'ulteriore elemento positivo a mio parere è dato dall'atmosfera, che risulta perfetta per la fine dell'estate, trasmettendo un senso quasi sognante di nostalgia. E probabilmente, proprio averlo letto in questo periodo dell'anno mi ha permesso di apprezzarlo così tanto.

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