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La mora e la bionda
Sara è una donna di molti silenzi. Abituata ad osservare le emozioni nascoste sui corpi e sui visi, ha fatto di questa sua dote il suo lavoro. Scegliendo comunque di lasciarlo per seguire il cuore, quando ha ritenuto che fosse la strada più giusta da scegliere. Ora vive in una schiacciante, infinita solitudine, ma ne regge il peso abbastanza serenamente, perché la sua vita ha la tinta grigia della malinconia, ma anche una lieve sfumatura di speranza. In questo secondo libro di questa fortunata serie viene chiamata da Teresa, una ex collega ed anche amica, che le chiede aiuto, perché Sara, con i suoi silenzi, è l’unica di cui Teresa si può fidare. Sara, la Mora, e Teresa, la Bionda, sono due donne davvero fuori dal comune. In questa storia scopriamo quanto le donne forti possono essere sole e ci viene rivelato che esistono molte forme di solitudine, così come molti modi per non voler accettare questa condizione che, a volte, anche solo magari per periodi temporanei, fa comunque parte del nostro percorso di vita, ma che viene vista sempre dagli altri come una colpa. Sara risolve il caso. Trova la verità. Ma le sue parole non dicono la verità. Perché sceglie di proteggere l’anima dell’amica, di darle, a modo suo, un po' del calore di cui ha capito che aveva così bisogno. Stile narrativo meraviglioso, come sempre nei libri di questo autore, capace, come pochi di entrare nell’animo umano, maschile o femminile che sia, e indagarlo e raccontarcelo.
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L'altra faccia degli USA
Se devo considerare questo un romanzo thriller premetto subito che non mi ha impressionato un granché. Però devo aggiungere che lo stile della Castillo mi piace: schietto, preciso, capace di delineare i personaggi con chiarezza senza falsi pudori o pregiudizi. Questo e tutta la serie di romanzi che hanno come protagonista il capo della polizia Kate Burkholder, hanno come coprotagonisti la comunità di Amish che vive nell'Ohio. Una comunità con regole del tutto diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati, che rifiuta l'uso di tutto quanto è moderno a partire dalle auto per arrivare fino ai cellulari, agli abiti vistosi o ai cibi troppo elaborati. In questo mondo si muove Kate, una amish che ha deciso di lasciare la sua comunità, ma che viene spesso chiamata ad occuparsi delle vicende che coinvolgono chi vi appartiene. Solo chi conosce a fondo le regole e la sensibilità del gruppo infatti è in grado di vedere oltre le apparenze. Il libro mi è piaciuto abbastanza, non tanto per la parte relativa all'investigazione, secondo me poco stimolante e banale. Interessante invece tutta la parte che fa da contorno.
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Un classico moderno
Non aspettatevi, voi che state per leggere questo romanzo, un thriller di quelli che vi fanno correre i brividi lungo la schiena, di quelli che vi fanno guardare sotto il letto prima di coricarvi e neppure di quelli che vi tengono in una piacevole tensione fino alla fine. Si tratta, certamente di un giallo, ma lo definirei classico se pur scritto in modo moderno. L'autrice infatti decide di sostituire alla normale prosa le email e i messaggi che si scambiano i protagonisti. La storia si delinea in un ambiente tranquillo, dove nessuno all'apparenza può essere un criminale, salvo poi scoprire alzando qualche tappeto che dello sporco c'è ed è stato nascosto con cura. In sostanza la storia è quella di due investigatrici che stanno indagando su un delitto e che leggono con noi tutte le comunicazioni avvenute tra i possibili sospettati del reato. Convengo con qualcuno che ha scritto una recensione prima di me che lo scambio di messaggi e di email è piuttosto forzato. Chi al giorno d'oggi scrive delle missive così lunghe e dettagliate, per non parlare dei messaggi. E' evidente che il destinatario non è tanto la persona a cui è indirizzato, quanto il lettore, che deve essere messo nelle condizioni di seguire la storia, le dinamiche che ci sono tra i vari protagonisti e fare le proprie ipotesi. Questo per forza di cose rende ben poco realistico tutto il romanzo, ma quando i gialli lo sono completamente? Io per esempio mi arrabbio ogni volta che in un film poliziesco il medico legale fornisce delle informazioni aggiuntive alle sue comunicazioni, quasi come se stesse parlando con dei poliziotti che non hanno mai sentito parlare di un autopsia. Chiaro che il medico sta, in quel momento parlando con chi sta dall'altra parte dello schermo.
Un po' ostico da seguire all'inizio, perché, visto lo stile seguito, i personaggi non prendono subito forma, dopo alcuni capitolo, però la storia inizia ad avere dei contorni ben definiti e tutte le vicende diventano semplici da seguire. Nel complesso una lettura piacevole, non un capolavoro o qualcosa di indimenticabile, ma comunque un esperimento interessante e coraggioso da parte di Janice Hallett.
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Leggermente deluso
Dopo essermi divorato Furore, mi sono buttato a capo fitto su quest'altro tomo gigante con aspettative molto alte.
Purtroppo sono rimaste parzialmente deluse.
Replicare la grandiosità di un capolavoro assoluto come Furore naturalmente sarebbe stata impresa vana, a meno che uno non sia Zola, Hugo, Dostoevskij, Tolstoj che hanno praticamente creato solo opere immortali.
Essendo un grande amante del cinema di qualità, ed avendo visto diverse volte il film omonimo con il compianto James Dean, ero ancora più convinto di stare per affrontare una grande lettura.
Purtroppo l'autore in questo libro infinito, vuole raccontare delle epopee che coinvolgono una famiglia di braccianti, che attraverso lustri, drammi, perdite finanziarie hanno il destino segnato verso il dolore, la perdita e la solitudine.
In questo romanzo c'è una figura grandiosa, cattiva, ostile, demoniaca, implacabile che ha il nome di Cathy Ames, uno di quei personaggi geniali per cui sarebbe valsa la pena, scrivere un romanzo tutto per lei.
Alcune notti, per la spietatezza di come viene descritta ho trovato difficoltà a prendere sonno e mi sono venuti incubi.
Questa Cathy, dalle fattezze angeliche a mio avviso aveva talmente tanto preso lo scrittore, che per non far calare il sipario e l'attenzione sugli altri personaggi, ho come avuto la sensazione che ad un certo punto dell'opera l'abbia come abbandonata o comunque ridimensionata, suscitando in me non poco disappunto, visto le figure che gli ruotano attorno sono delle marionette in confronto alla profondità psicologica che lo scrittore arriva a toccare non appena torna a scrivere di questo angelo e demone che si cela nella fattezze di questa prima ragazzina, poi donna e infine persona anziana.
Dal momento che ho notato questo passaggio da un personaggio perfettamente incastrato nella storia e una serie di macchiette, uomini, figli, vicini di casa, guardiani, giudici, purtroppo ho ravvisato una caduta verticale di tutta la storia e dell'interesse nel proseguire la lettura, che essendo io testardo porto sempre comunque a termine.
Però vi assicuro che quando qui e li durante le più di 700 pagine compare la figura di Chaty allora si che ci si trova immersi totalmente negli avvenimenti, scorrono i brividi lungo il corpo e si esce sconvolti, fino a che punto possa spingersi il male dell'essere "umano" sia nel pensiero che nell'azione.
Ripeto, per me se Steinbeck avesse scritto un libro, tutto dedicato a questa Chaty, ne sarebbe uscito fuori qualcosa di memorabile e impagabile.
Anche lo stesso regista del film relega questa figura di donna-demone a un ruolo secondario, come se avesse avuto timore di offuscare la stella nascente di Dean, che purtroppo, per così poco tempo a illuminato la Hollywood delle Stars.
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Lo Scannatoio di Zola
Pretty women
Terzo episodio di una serie di noir che hanno nelle loro trame delitti a sfondo esoterico, occulto, magico. Nella serie di delitti al centro di questa indagine troviamo denaro, sesso e bellezza. Perché il denaro compra il sesso ed il sesso compra la bellezza. E non a caso alcune delle protagoniste di questa vicenda sono delle escort. Il commissario Ardigò ha un animo che traspare tumultuoso e ribollente, ma in queste pagine scopriamo anche un suo lato inedito, che mi ha stupido. Con la sua squadra ci porta in viaggio negli inferi milanesi e ci fa fare un tour dell’orrore nel Tempio della Notte, che lascia davvero il segno nel lettore. Un fiore bianco, la rosa di San Giovanni, accumuna alcune vittime. La trama sembra precipitare verso la fine, quasi che il libro fosse un pozzo. Sembra concludersi con un nulla di fatto, come se fosse un vicolo cieco investigativo, come se si raggiungesse un capolinea senza aver risposto a tutte le domande, invece, come in ogni buon giallo, arriva un colpo di scena finale, che ti fa chiudere il libro così come si chiude un cerchio.
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Un romanzo al femminile
Primo capitolo della trilogia di “Bois Sauvage”, quest’opera di J. Ward (insignita meritatamente del prestigioso National Book Award per ben due volte) raggiunge picchi di elevata intensità narrativa. In particolare, per quanto possa risultare intuitivo, innanzitutto con la descrizione di Katrina, il temibile uragano che devastó la costa meridionale degli Stati Uniti lungo il golfo del Messico, colpendo Louisiana e Mississippi con il suo carico di distruzione (“Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte...Ci ha lasciato un mare buio ed una terra bruciata dal sole”) . Ma forse ancora di più tenuto conto dell’importanza che assumono all’interno del romanzo, per i legami che intercorrono tra i membri della famiglia Batiste protagonista della storia, come se tendessero a farsi reciprocamente scudo rispetto alle difficoltà provenienti dal mondo esterno, in primis lo stesso uragano. E tra tutti i legami che emergono si staglia prepotentemente quello tra skeetah, uno dei fratelli Batiste per l’appunto, ed il suo cane China, pitbull da combattimento, che diventa emblema di una purezza che va oltre ogni forma di violenza e prevaricazione, più forte ancora di Katrina.
“Salvare le ossa” è una storia viscerale, cruda, al tempo stesso dal forte sapore familiare e decisamente contraddistinta dall’impronta femminile.
A partire da Esch la protagonista e voce narrante, unica donna della famiglia Batiste assieme ad altri tre fratelli ed al padre, che trova consolazione nel nostalgico ricordo della madre morta (“chissà se papà sentirà le dita che gli mancano come noi sentiamo mamma, che è sempre presente anche se non c’è più”). Esch svolge il ruolo di trait d’union con i fratelli e il padre e porta dentro di sé il fardello di una gravidanza segreta quanto inattesa, espressione di una profonda solitudine che trova sfogo nella passione (non altrettanto ricambiata) verso Manny, amico del fratello maggiore. L’autrice inoltre riesce a dare un’ampia caratterizzazione alla figura di Esch grazie all’azzeccato parallelismo con la tragedia greca ed al mito di Medea e Giasone. Esch infatti appassionata di letteratura, rivede nella sua condizione la figura di Medea prova quella solidarietà nei suoi confronti figlia del medesimo dolore per un amore non ricambiato, riuscendo a capirne la rabbia ed il desiderio di vendetta.
Quindi China, il pitbull da combattimento, che assolve ad un’importante funzione di riscatto sociale, fresca di parto ma estremamente feroce con tutti (compresi i cuccioli in allattamento) ad eccezione di colui che riconosce come suo unico padrone al quale obbedisce ciecamente. Ed infine l'uragano Katrina ("È una donna, sono i peggiori"), devastante evento naturale che si abbatte inesorabile sulla regione seminando distruzione.
La Ward costruisce un meccanismo narrativo nel quale il lettore inevitabilmente si sente partecipe con la famiglia Batiste, gioendo e preoccupandosi a seconda dei momenti, respirando le atmosfere del profondo Sud degli Stati Uniti, ed in particolare dello Stato del Mississippi dove è ambientata l’intera vicenda.
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Un viaggio a vuoto ...
Per il lettore, come il sottoscritto, che non fosse a conoscenza di tutte le vicende, anche di un lontano passato, del personaggio principale, il vicequestore Rocco Schiavone, non sarebbe facile comprendere il perché di questo misterioso viaggio alla ricerca di un amico scomparso: si intuisce pian piano che c'erano una volta quattro amici per la pelle, lo stesso Rocco, il suo valido aiuto Brizio, e poi Furio e Sebastiano, amicizia bruscamente interrotta da forti dissidi e tradimenti. Fatto sta che Sebastiano è sparito da tempo in Sudamerica e che Furio, dal passato poco limpido, si è messo sulle sue tracce covando una forse meritata vendetta. Ecco allora che Rocco Schiavone, quasi a fine carriera, e il fedele Brizio decidono di partire per impedire a Furio di fare follie e per scovare finalmente lo scomparso Sebastiano. I due, sulla base di qualche indizio, partono per Buenos Ayres ed iniziano a chiedere, a cercare: vanno da un amico comune, frequentano locali equivoci, corrono rischi, si trovano invischiati in ambienti malfamati, comunicando con cellulari prepagati, passando con disinvoltura dai bassifondi agli alberghi più stellati. Nuove informazioni li dirottano in Messico: arrivano nella megalopoli messicana, il contatto con la capitale li disorienta, ..."il rumore era devastante, continuo. Un rombo di motori, radio, macchinari, pareva una bestia gigantesca che ruminava mentre spolpava uomini e cose, carne e acciaio". Riescono a rintracciare Furio, che però sfugge loro e li anticipa all'ultima meta del viaggio, Costa Rica, dove pare si trovi lo scomparso Sebastiano.
Il finale è forse la parte più interessante del romanzo: anzi, un finale vero e proprio non c'è, i due "cacciatori" si accorgono con Furio che la vita può riservare sorprese inaspettate e che l'amicizia di un tempo è andata scomparendo. Con un pizzico di commozione, rientrano in Italia: un po' delusi, a dire il vero, anche perché, commenta alla fine il vicequestore Rocco "solo tre cojoni come noi arrivano al Mar dei Caraibi e non se ne fanno manco un bagno".
Che dire? Il tutto appare un o'ò sconclusionato ed assai poco verosimile: la vicenda vorrebbe avere il significato di ricomporre o almeno tentare di ricomporre una vecchia amicizia, ma si perde in particolari poco credibili, con battute che lasciano il tempo che trovano e situazioni a dir poco assurde. Per non parlare dei voli transoceanici descritti in modo caricaturale.
Un lampo di luce: Manzini inserisce ad un certo momento del racconto un ricordo d'infanzia di Rocco, quando con la sua banda di amici correva per i vicoli di Trastevere, un mondo tutto particolare, dove si delineavano caratteri e futuro e dove la fortuna avrebbe deciso chi sarebbe diventato poliziotto e chi ladro. Poche pagine che spiccano nel contesto, tutte da gustare riga per riga.
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Magicamente malinconico
Malinconia ed ironia si mescolano lentamente in un lungo romanzo a metà tra lo storico ed il fantastico.
Il libro non parte lento ma lentissimo, per tutta la prima metà del racconto è difficile non trovare la maggior parte della lettura tediosa e sonnacchiosa. Troppo particolareggiata. Troppo complessa.
L'idea è senza dubbio originale e vincente: immergere una magia tanto credibile dal risultare concreta, in un periodo storico vero e ben conosciuto come l'inizio dell'Ottocento nel pieno delle guerre Napoleoniche.
L'unico difetto di questo libro è proprio la lunghissima partenza al rallentatore, quattrocento pagine di preamboli sono secondo il sottoscritto veramente un' esagerazione ai limiti del sadismo.
Coraggiosamente ho superato questo invalicabile ostacolo continuando imperterrito nella lettura, nonostante più volte mi sia addormentato con il libro in mano risvegliato dallo stesso che mi piombava sulla fronte... Avendo letto il romanzo "Piranesi" della signora Susanna Clarke, ed essendone stato incredibilmente e favorevolmente colpito, aspettavo che anche questo "mattone" raggiungesse il suo scopo.
Fortunatamente la seconda metà del romanzo risulta decisamente più gradevole, infarcendo la storia di situazioni, accadimenti, vicissitudini ed evoluzioni che finalmente danno un senso alla lettura dello stesso, ma non solo, proseguendo, si capisce anche il senso di tutta la prima lentissima parte!
Susanna Clarke utilizza una scrittura ricercata ed arcaica, non solo nei dialoghi tra i vari (molti e molteplici "forse troppi") personaggi, ma anche nella stesura stessa del racconto, rendendo il romanzo stesso "gotico" e romanticamente "d'epoca". Lasciando quindi al letture la favorevole e piacevole sensazione di leggere uno "scritto del tempo".
"Era una giornata grigia. Un vento gelido soffiava fiocchi di neve contro la finestra della biblioteca del signor Norrel, dove Childermass scriveva lettere d'affari seduto alla scrivania. Sebbene fossero soltanto le dieci del mattino erano già accese le candele. Unico rumore quello del carbone che si consumava nel camino e il grattare della penna di Childermass sul foglio."
Il finale, "aperto ma non troppo", ci lascia a metà tra il malonico e lo speranzoso.
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LE NOSTRE ANTENATE
Una raccolta di fiabe per una bambina morente, scritto per darle la forza di continuare a vivere, affinché aggiunga la propria storia a quella delle sue antenate: così Mastretta, in uno degli ultimi racconti, descrive implicitamente al lettore il senso del suo libro. Ed è effettivamente così, perché ciascuna delle implacabili donne di Puebla di cui parla la raccolta viene raccontata con la familiarità di un parente (non a caso, sono tutte “zie”), ma con l’astrazione della leggenda e il linguaggio dolce di un racconto del focolare.
Il fil rouge che congiunge tutte le donne (e, mi vien da pensare, anche la stessa autrice) è un’indomita passione, tanto implacabile da essere il perno della vita di ciascuna. Amori clandestini e tenerezze coniugali, frenesie della carne e sinceri affetti filiali, ma anche un ostinato malanimo (meravigliosa la storia della zia che si aggrappa alla vita perché “non vuole essere seppellita accanto a quell’uomo”) o una tenace caparbietà; spesso queste donne hanno una propensione al nomadismo, alla curiosità, alla scoperta, ma riscopriamo in loro anche la fragilità, la paura e la capacità di ricominciare da capo.
Un carosello di mogli, amanti, madri e sorelle che sfila davanti agli occhi del lettore, con uno stile estremamente piacevole ma allo stesso tempo particolareggiato e intenso. Ogni storia, a prescindere da quanto il finale sia più o meno comico, ha una sua morale, che apre importanti spunti di riflessione sul senso della vita, dell'amore, della famiglia e della storia in generale.
C'è la passionalità latina, il misticismo degli indios, e tutta una tradizione letteraria legata al sud America: un romanzo di donne, come in Allende; una storia familiare allargata, come in Márquez; la spontaneità degli affetti sinceri, come in Sepúlveda.
Una lettura scorrevole, piacevolissima, breve ma sicuramente intensa. Le uniche critiche che potrei muovere a questa raccolta di racconti sono due: a volte, un leggero senso di ripetitività; altre volte, una morale oscura, di difficile decifrazione. Ma nessuna delle due inficia a tal punto la lettura da renderla sconsigliabile.
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America, terra di libertà.
Il soggiorno di Simenon in America è durato circa dieci anni, di cui cinque nella cittadina di Lakeville, nel Minnesota, dove è riuscito ad ambientare alcune indagini dell'amato commissario Maigret e dove ha scritto altri numerosi romanzi: poi ha abbandonato tutto ed è rientrato in Francia, dalla quale era improvvisamente partito nel 1945 per l'avventura americana , per sfuggire all'accusa, forse ingiusta, di collaborazionismo. Quello descritto minutamene nel libro "L'America in automobile" è il diario di un viaggio compiuto dall'autore nel 1946, con moglie, segretaria, figlio di sette anni e istitutrice, a bordo di due vetture, una Chevrolet ed una Oldsmobile: un lungo, anzi lunghissimo viaggio di circa cinquemila chilometri, da nord a sud, lungo la costa atlantica e percorrendo la Route 1, dai climi freddi del Maine ai paradisi tropicali della Florida, a Miami, "la più bella città balneare del mondo" ed al Golfo del Messico. E' un'indagine molto personale sull'America di quegli anni, che ha colpito positivamente l'autore. Scendendo lungo la costa, la Route 1, all'inizio piuttosto malandata, diventa via via più curata, maestosa, punteggiata da cittadine con casette quasi tutte uguali, colorate, con veranda e praticello, un paesaggio monotono con alberghetti puliti alternati a grandi hotel frequentati da congressisti o da soci Lyon, Rotary o Kiwani: e poi giù, giù fino alla luminosità, al sole, all'azzurro della Florida, alle spiagge, alla vegetazione tropicale, banane, arance, limoni, ma anche coccodrilli e serpenti a sonagli ... Tutto colpisce Simenon, tutto attrae la sua attenzione ed i suoi puntuali commenti, tutto capita a lui ed ai suoi, perfino l'arrivo temuto di un ciclone che da Cuba sta risalendo, monitorato ora per ora, e che, per fortuna, devia all'interno. Lungo il viaggio, Simenon dice la sua su tutto quello che incontra e vede. Su New York, di cui ammira la facile accessibilità, i grattacieli ove si trova tutto ciò che serve per sopravvivere, l'ordine geometrico delle strade, la luminosità, la gente di ogni nazionalità, la sicurezza (basta stare alla larga da Brooklyn e Bronx!). Su Washington, con i suoi viali ampi, i palazzi maestosi, il verde, gli stuoli di dirigenti e impiegati sempre in movimento. Su Miami e il caos delle spiagge del sud, i luna park, i pescatori costantemente al lavoro, la gentilezza della gente, gli alberghi sempre pieni, la difficoltà di trovare posto per pernottare: vengono in soccorso, per i turisti, buone soluzioni di ripiego, le cosiddette "cabins" e le "tourism rooms", pulitissime e dotate di ogni comfort.
Ma cosa ha colpito soprattutto Simenon? Ecco, la libertà che si respira ovunque una libertà, scrive Simenon, con una "forte tensione verso l'allegria e la voglia di vivere": una volta entrati in America e accettati, ci si sente completamente "liberi" di fare e intraprendere quello che più si desidera, a patto di non infrangere la legge. E poi la scuola: scuole di ogni ordine e grado con campi sportivi, attività ricreative, rapporti più stretti, quasi familiari, con i docenti, insegnamenti atti ad inculcare "certezze". Simenon accenna qui al fatto che scarseggiano gli studi umanistici, forse perché "instillano nei giovani il dubbio": l'americano NON deve avere dubbi, ma solo certezze e credervi incrollabilmente. Una frecciatina dello scrittore, consapevole forse di quanto già aveva affermato Brecht, e cioè che "di tutte le cose sicure, la più certa è sicuramente il dubbio". Ammette però la buona produzione letteraria di autori americani, ed un'altrettanto buona diffusione in America della letteratura francese.
Il problema razziale è affrontato marginalmente. Incontra molti "coloured" che lavorano nei campi di cotone, spiega al figlio che il termine "nigger" è spregiativo, però continua a chiamare i neri "negri".
In conclusione un diario esaustivo, un'immagine intima della vita quotidiana delle piccole città e della gente comune, piena di particolari che mettono il lettore di fronte all'America di quei tempi, un'America terrà di libertà, un'America che si apprestava a finire la guerra altrove e che era esentata dalla guerra sul proprio territorio: un'America di un'ottantina di anni fa, abbastanza diversa da quella di oggi, dove forse spaccio e criminalità sono più evidenti, ma un'America più avanzata tecnologicamente della vecchia Europa, un'America dove frigoriferi e aria condizionata sono presenti quasi dappertutto.
Un'America, quella descritta da Simenon, che sembra piena di ottimismo, dove è giusto che ognuno la pensi come meglio crede, senza ledere però diritti e dignità altrui.
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' Una giornata particolare '
Una giornata di fine dicembre del 1947 .
Un avvocato ferrarese grande proprietario terriero di 45 anni si sveglia alle quattro del mattino, con un senso di insoddisfazione e inquietudine, per una giornata di 'caccia in botte' presso la distesa lagunare nella zona di Volano.
Sarà una giornata particolare : disgusto, senso di estraneità sono le emozioni dominanti. Come gli sembravano "tranquilli e beati gli altri, tutti gli altri!" .
A differenza dei più celebri romanzi di Bassani, qui l'attenzione è tutta incentrata su quanto avviene 'dentro' . La trama è scarna; la scrittura cadenzata, dettagliatissima.
Scorgiamo intanto aspetti di tipo storico e personale : l'essere ebreo; la condizione socio-economica del protagonista che lo porta a scrutare l'evolversi della politica col timore di una possibile svolta a Sinistra ...
Sarà un airone ferito l'emblema su cui proietterà le proprie sensazioni in una dinamica simbolico-esistenziale.
Un libro che potrebbe apparire un po' monotono. Eppure i dettagli che si susseguono compongono un quadro rivelatore di una sensazione di estraneità, di crisi, che sfocerà in un 'progetto' , anch'esso delineato nei minimi particolari.
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narrativa italiana del '900
Ulf
«[…] Non appena ebbi formulato quel pensiero mi resi conto che non era così: le nostre parole hanno un potere mortale su di loro.»
È proprio l’inaspettato ciò che più è capace di cambiare la nostra vita sino a portarci a una nuova consapevolezza di noi. Ed è questo quel che accade tra queste pagine. È il giorno di Capodanno quando il settantenne Ulf Norrstig, all’interno della propria roulotte, ex ispettore forestale nonché cacciatore, lo vede: il muso nobile, il portamento regale, il mantello bianco e grigio; ha davanti il lupo. Si osservano, si scrutano. Poi il lupo entra nel bosco e scompare. Sono pochi istanti, attimi, ma Ulf sente cambiare qualcosa dentro di sé. Il suo cuore è malato, vive nella fragilità di questi battiti che oscillano, ascolta i ricordi, riscopre la propria memoria interiore.
«[…] In vita mia non mi ero mai sentito tanto maledettamente inutile. Un povero vecchio. Inservibile. Impotente.»
Ulf ha un carattere forte, spesso si scontra con Inga, la moglie, condivide gli acciacchi con Zenta, il vecchio cane. Ma come può confidare a Inga ciò che ha visto? È preda della solitudine e della malinconia che da sempre si porta dentro, deve confrontarsi con un lavoro che non lo appaga, che considera fallimentare, deve riconsiderare se stesso. È affascinato dal bosco, dalla sacralità del luogo, dalla sua bellezza illusoria quanto immortale, dalla realtà di un luogo per alcun motivo inviolabile. Anela la libertà del lupo, la magnificenza del predatore che sovrasta dall’alto, che esplora quei boschi consapevole di essere forte e invincibile.
Scuote quell’apparizione, scuote da quel mondo in cui Ulf è bloccato. Riflette su quel che è e su quel che è stato in modo totalmente diverso. Ripensa ai disboscamenti, rifiuta lo stereotipo dell’uomo, abbraccia il nuovo io che scopre.
«[…] E per quanto avrà intenzione di parlare? Ma tutto passa, comunque. Alla fine.»
“Essere lupo” è un romanzo che fa leva sulla natura, l’essenziale, la vita nella natura. È intriso di toni poetici, è avvalorato da descrizioni nitide che rendono i luoghi e i personaggi tridimensionali, è mistero ed essenza. Siamo tutti un po’ Ulf e come lui non possiamo restare impassibili a quel lupo che riesce a scatenare in noi un universo sepolto, offuscato, forse mai conosciuto davvero.
Ed è ancora riflessione e risveglio dal torpore. La memoria è corale, la potenza narrativa è evocativa e stratificata. Non è solo un racconto dell’anzianità di Ulf, è anche la presa coscienza del rapporto uomo-natura che viene delineata dal rapporto che proprio il protagonista ha verso questa e che è devoto, diligente, rispettoso, quasi sacrale ma anche verso l’ambiente e la fauna. Ma è anche la denuncia verso la volgarità e l’insensibilità dei suoi compagni di caccia. È ancora la riflessione sul differente atteggiamento, nonostante la stessa età, del marito e della moglie. Se Ulf è in cerca di risposte alle tante domande e ai tanti dubbi, Inga è mossa da una verve che spinge e sprona anche il marito.
Che lo si legga dall’ottica di Inga o da quello di Ulf, “Essere lupo” emerge per la profonda intensità che emerge dall’incontro con la figura divina del lupo, dal rapporto tra coniugi, dalle descrizioni di quei paesaggi che sono descritti con pennellate perfette e colori intensi.
«[…] Dopo di che partimmo, e finalmente eravamo soli. Era una cosa meravigliosa, che mi godetti per tutto il tragitto fino a Loåsen, mentre guardavo stupito il paesaggio invernale e la quantità di neve. Non so perché, ma avevo pensato che fosse arrivata un’altra stagione.»
“Essere lupo” di Kerstin Ekman è un racconto di rinascita, un racconto sul rapporto uomo e natura, un racconto che parla di legami di vita, una vita che cambia e si evolve con il passare degli anni e delle fasi del nostro esistere. È ancora uno scritto che affronta le incertezze, le fragilità e le paure che ci coinvolgono. Siamo tutti un po’ Ulf e Ulf è un po’ tutti noi.
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Fragilità e solitudini umane
«[…] Erano anni che la mia casa non era così pulita e ordinata. In fondo ho la sensazione che la ruota stia girando e che una forza benevola abbia fatto esplodere la mia vita, in modo improvviso e fruttuoso, che l’abbia fatta fiorire in un sogno carico di estasi.»
Ci sono momenti nella vita in cui perdiamo semplicemente il controllo. E come spesso accade, ce ne accorgiamo quando ormai è troppo tardi e non sappiamo più come tornare indietro, quasi non ci ricordiamo più com’eravamo prima. Questo è un po’ quel che succede ad Arthur Opp, ex docente universitario prigioniero di un corpo che è un fardello che ne scandisce l’esistenza con tutti i suoi malesseri. Ripensa al passato ma anche questo è troppo per il suo nuovo io. Sono anni che non esce di casa, anni che non riordina, che non sale ai piani superiori della sua abitazione, anni che inventa frottole a Charlene Keller, ex allieva con cui ha avuto anche un coinvolgimento sentimentale e che delineerà il suo capolinea con il mondo universitario. Charlene, come Arthur, è un’anima fragile. Seppur con cadenza non sempre regolare i due si scrivono da diciotto anni. Lui ha infiocchettato alcuni aspetti della sua vita, lei è arrivata a chiamarlo e sempre lei chiede all’uomo di occuparsi di Kel, suo figlio. È giovane, ama il baseball che vede com’occasione irripetibile per il futuro, non crede nello studio. La donna chiede ad Arthur di parlarci, di occuparsi di lui. È a questo punto che egli decide di dirle la verità anche se può far male ed è sempre a questo punto, con la possibilità che lei e il figlio entrino nella sua vita, che decide di chiamare una ditta di pulizie per farsi aiutare a rimettere in ordine lo sporco di anni. Entra così in scena anche Yolanda, una giovane donna di origine peruviana che lo aiuta a mettere in ordine la casa, che è incinta e che rappresenta il primo vero ponte e contatto dell’ex docente con il mondo di fuori.
«[…] Che cosa accadrà ora, mi sono chiesto. Ma ero solo, e ho scoperto di non avere una risposta.»
Tuttavia, anche Charlene ha dei segreti non rivelati ad Arthur e sarà solo quando la narrazione passerà a Kel che scopriremo cosa davvero è successo nel passato e cosa ne è del presente. Perché Charlene e Arthur sono due anime sole e fragili, due anime che hanno cercato rifugio e sostegno in un qualcosa che credevano potesse aiutarli ma che in realtà li ha condannati ancora di più, isolati ancora di più. E come spesso accade, le scelte dei genitori ricadono anche sui figli che, come nel caso di Kel, portano a crescere più rapidamente, ma anche a vivere in una profonda e ulteriore solitudine.
«[…] Qui casa Keller, ha detto la voce. Ora non possiamo rispondere. Sapete cosa fare.
Ho aspettato il bip e poi ho riattaccato.
Io non lo sapevo, cosa fare.»
Quella di Liz Moore è un’opera profonda e intensa, scritta con un linguaggio vigoroso e una prosa poetica. È uno scritto che percorre le fragilità umane, che traccia vite vissute fatte di ombre e perdita.
Ma la solitudine è solo una delle molteplici sfaccettature di questo scritto. È sinonimo di sconfitta e rassegnazione ma anche di desiderio di un qualcosa che cambi affinché venga meno quel senso di inadeguatezza perpetrato. Ed è anche sinonimo di nuovi inizi.
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mediocre
libro scorrevole ma ho trovato la trama un po’ troppo caotica con molte parti da rivedere, coincidenze forzate, personaggi che inizialmente sembrano indispensabili agli eventi e poi completamente dimenticati, avvenimenti che iniziano e non hanno alcuna conclusione, descrizioni di cose inutili .. sinceramente mediocre.
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O delle fisime di Rasia
Fiero esponente della categoria libri-dimenticati-sullo-scaffale-per-secoli, "Cose da salvare in caso di incendio" è l'ennesimo caso di un titolo che probabilmente avrebbe continuato a languire nella mia libreria non fosse stato sorteggiato per la Random TBR. E anche dopo averlo ripescato per l'occasione non sono riuscita ad entusiasmarmi più di tanto alla prospettiva di questa lettura dalla sinossi sciapa e -come avrei scoperto in seguito- capace di spoilerare anche le poche svolte di trama presenti.
Io non intendo essere altrettanto spietata, pertanto vi dico solo che il romanzo è ambientato nella Brooklyn dei giorni nostri e si concentra sul rapporto tra Vaclav e Yelena "Lena", due giovani emigranti russi che cercano nella compagnia reciproca un porto sicuro dalle tante difficoltà di trasferirsi in un Paese straniero, primo tra tutti lo scoglio della lingua inglese. Vaclav trae coraggio dai genitori, che lo incoraggiano nella sua passione per l'illusionismo e nell'ammirazione dei suoi idoli Harry Houdini e David Copperfield, dei quali intende seguire le orme; Lena vive invece una situazione più complicata, perché neanche a casa riesce a ritagliarsi un proprio spazio e ad essere amata.
Questa premessa mi aveva da subito fatto pensare ad una storia carina; e -purtroppo o per fortuna- carino è l'aggettivo che più facilmente assocerei alla lettura del debutto di Tanner. Carina è la riflessione sugli ostacoli all'integrazione incontrati dai bambini immigrati in un Paese dalla mentalità tanto diversa, carina è l'analisi dei pensieri dei genitori in questa specifica situazione, carino è leggere dell'impegno decisamente ingenuo eppure genuino con cui Vaclav tenta di allestire il suo spettacolo di magia nel Sideshow di Coney Island, carino è il fatto che l'autrice sfrutti la sua esperienza lavorativa per creare una storia fantastica ma capace di ispirare empatia nel concreto. Carino per me non è però sinonimo di sufficiente.
Tra i pregi di questo titolo possiamo annoverare anche la scorrevolezza della prosa, merito dei periodi forse fin troppo brevi: si ha l'impressione di leggere a singhiozzi ed immergersi nella storia di Vaclav e Lena può risultare per questo un po' difficile. In generale, lo stile della cara Haley non mi ha fatto impazzire: l'ho trovato pretenzioso e a tratti troppo retorico per i miei gusti. Ed è un peccato perché in alcuni romanzi una bella scrittura può compensare in pieno una storia povera di contenuto; ma non in questo caso.
La trama è infatti ridotta all'osso: una sequela di situazioni abbastanza stereotipate nelle storie con protagonisti degli adolescenti, con pochi eventi chiave diluiti in pagine di digressioni e giri di parole che cercano in ogni modo di allungare il brodo e non spiattellare subito i colpi di scena; colpi di scena che chiunque con un briciolo di attenzione ha già indovinato a pagina uno. Come accennato, la CE italiana ha messo anche del suo spoilerando tutto lo spoilerabile già nella quarta di copertina, oltre a non aver voluto fare neppure un piccolo sforzo per tradurre i termini in russo con una nota a fondo pagina e ad aver presentato il libro in modo fuorviante.
Arrivata all'ultima pagina, posso infatti dire che questo titolo non è affatto una storia d'amore, perché il rapporto tra Vaclav e Lena è una triste co-dipendenza data dal bisogno di possesso di lui e dall'opportunismo di lei. Inoltre la sottotrama dell'illusionismo, tanto rilevante nella sinossi, si perde verso la metà del volume e non viene più ripresa attivamente. Per quanto mi riguarda, ho poi trovato molto fastidiosi i comportamenti delle madri dei protagonisti, per quanto buone siano sulla carta le loro intenzioni: i pensieri e le azioni di Rasia risultano pesanti da sopportare -specie per l'infantilismo con cui si approccia al figlio- e la sicurezza con cui Emily arriva a demonizzare la terapia quando Lena ne ha così chiaramente bisogno mi ha fatto rabbrividire. Sta' a vedere che forse la zia anafettiva era il male minore?!?
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Il dolore della memoria
….” Sarebbe il caso di indagare come in alcuni momenti fugaci e imprevedibili restano impressi nella memoria, e invece altri, in teoria più importanti, svaniscono per sempre”..
Un dolore negato a se stessi per la paura di viverlo, un’ inquietudine tralasciata per dieci anni improvvisamente risorta. Questo accade a Baumgartner, un filosofo e accademico che ha perso la metà di se stesso, l’amata moglie Anne, in circostanze improvvise e imprevedibili, un uomo solo, affranto, …”un moncone che ha cercato di anestetizzarsi”….
Oggi il protagonista pare restituito alla vita, insegna, scrive, pubblica, ha nuove amicizie, insegue le donne, si emoziona, desidera, crede di amare, ma dentro è già morto e ne è consapevole, avvolto in una dissimulazione protratta.
La comparsa in sogno della moglie, sospesa in un Grande Nulla, un vuoto assoluto e silenzioso dove trattenerla, un limbo di vita non vita che si spezzerà solo alla morte di Baumgartner e alla scomparsa della coscienza di lei, per lui una rivelazione e l’ inizio di una elaborazione stratificata.
Riaffiora il paesaggio della memoria, scritti, ricordi, incontri, immagini, una ricostruzione per sopportare e capire il presente, buio assoluto da cui aprire una finestra sul mondo all’ inseguimento del cielo aperto.
La memoria non è solo un contenitore di ricordi ma comprende momenti vividi, sensazioni indescrivibili, emozioni inestirpabili, un organo che ci riguarda intensamente, parlandoci di noi, di quello che siamo, abbiamo vissuto, ci hanno insegnato.
Il sogno pone Baumgartner di fronte al passato senza la paura di rimanervi incastrato, un sogno in cui passeggia con Anna, quarant’anni di vita insieme, le parla, l’ ascolta, convogliando le proprie energie nel presente e riscrivendo il rapporto con il fantasma di lei, una verità emotiva che alla fine conta, riavvicinandolo a se stesso, ai suoi sentimenti e a ciò che prova rispetto a quei sentimenti.
Fino a quel sogno non si era liberato del fantasma di Anna se non materialmente, eliminando tutto ciò che la riguarda, ricercandola altrove, ma in se’ nulla è cambiato, un immobilismo che osteggia la vita, il dolore parte integrante.
Il percorso della memoria lo consegna a un se’ bambino, un padre ebreo migrante che fu un sognatore sfortunato, una madre senza madre che ha amato intensamente, ora pare pronto a raccontare, a raccontarsi, a vivere.
Gli scritti di Anna, traduttrice, poetessa, idealista, una ragazza dell’ alta borghesia di cui non si è mai sentita parte, i propri studi, gli scritti, acuti, impegnativi, indigesti, a cui dedicare tutto se’ stesso, una vita senza la paura di perderla, il ritorno ad antichi entusiasmi e a momenti apparentemente sepolti.
Il presente sembra aprirsi a un se’ invecchiato e rinvigorito, un’idea per celebrare il ricordo di un amore così grande e una strada da percorrere senza la paura di ricadere nel passato infausto,
..”incamminandosi nella debole luce invernale in cerca di aiuto”…
per aprire il capitolo finale della saga di Baumgartner.
Un romanzo con una trama scarna attraversata dai grandi temi di una vita, il ruolo della memoria, assenza, dolore, il senso di un amore, famiglia, radici, solitudine, relazioni, storia, la propria percezione di se’ e degli altri, il racconto per riappropriarsi di significati nascosti, l’ importanza della scrittura, il potere di linguaggio e parola.
Una scrittura densa, centellinata, essenziale in un palcoscenico via via svuotato e riempito di porzioni di storie e di personaggi, vicini e lontani, assenze-presenze riproposte ed elaborate nella mente del protagonista.
Alla fine si ha l’ impressione di essersi avventurati in un viaggio della memoria alla ricerca delle coordinate mancanti perdendosi nei suoi misteri irrisolti, costruendo porzioni di storie grazie alle quali respirare un senso apparentemente insensato.
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Nel mare della vita
Sembra un saggio, ma di fatto è quasi un’autobiografia. L’autore è uno scrittore che sa usare, come pochi, la lingua italiana, conoscendone le origini ed andando alle radici e quindi al profondo significato di ogni parola. Un aspetto indubbiamente affascinante, sia dal punto di vista linguistico, che proprio come lettore, perché ogni sua frase è una scoperta di significati profondi. Questa forma di stile però, particolarmente in questo libro, mi ha reso la lettura un po' faticosa, non scorrevole, perché il continuo legame con la fonte delle parole, ha rallentato il mio flusso di lettura, a volte distogliendo la mia attenzione dal corpo principale. Nel libro è estremamente presente, direi palpitante, l’amore profondo, innato e spontaneo, per la letteratura ed in particolare per questo classico senza tempo, che sa e può parlare a tutte le generazioni e che l’autore ha sempre sentito particolarmente suo. Attraverso i canti dell’Odissea, l’autore ci narra la sua esperienza personale, le sue difficoltà di uomo, i suoi momenti bui, mettendosi a nudo con noi, il suo perdersi ed il suo ritrovarsi. E mi sono inchinata di fronte a questa sua umiltà di raccontarsi. Mi ha inoltre molto colpito quanto è stata sottolineata la necessità di uscire, dal proprio guscio, dalla propria zona di comfort, per fare esperienza di sé, perché non si può avere sentimento di sé se non si ha sentimento del mondo.
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Il fantasma bianco
Osborne ha abituato i lettori a storie totalmente immersive nel mondo dell’estremo Oriente che così ben conosce. Questa volta è stato il turno di Hong Kong, l’ex territorio britannico passato alla Cina, che continua a esercitare un fascino esotico ed allo stesso tempo nostalgico del passato coloniale. L’Hong Kong descritta da Osborne però è quella più recente in cui l’imperialismo cinese, la rigida politica restrittiva di Pechino, ha preso oramai il sopravvento in cui “La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte” ha lasciato il posto ad “un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni”. L’autore attraverso il protagonista Adrian Gyle, giornalista, inglese trapiantato nella metropoli, racconta un mondo nel quale il capitalismo cinese contrassegnato dallo skyline e dai ristoranti di lusso, si fonde con i panorami mozzafiato a picco sul mare, con i profumi della foresta pluviale. Quest’ambientazione fa da sfondo ad un tessuto sociale dinamico e turbolento in cui le giovani generazioni senza futuro protestano, tentano di ribellarsi, si scontrano quotidianamente con la polizia cinese, la faccia dura del regime che si pone l’obiettivo di eliminare progressivamente le libertà precedenti ed instaurare un clima rigido di controllo basato sulla censura. Le fratture sociali si espandono in quanto diventa evidente la dicotomia tra coloro che provano ad alzare la voce e le ricche famiglie locali che invece preferiscono dichiarare la fedeltà incondizionata a Pecchino in cambio di agio, benessere, accontentandosi di quei lussi figli di una cultura occidentale ancora impressa nel tessuto urbano.
Su questi presupposti Osborne costruisce una storia che si svela molto lentamente, stancamente, in cui due vecchi amici conosciutisi al college, il protagonista Adrian per l’appunto e Jimmy Tang ricco ereditiere cinese figlio di quella società opulenta che fa finta di non vedere le nefandezze cinesi, si trovano ad un certo punto su due terreni opposti. Adrian dovrà così risolvere un proprio dilemma personale: se fare prevalere il suo dovere di cronista portando all’evidenza pubblica un caso di presunto omicidio di una ragazza che rappresenta la giovane generazione ribelle -causato dalla polizia con la connivenza di Jimmy- oppure se in nome della vecchia amicizia chiudere un occhio sulla vicenda. Adrian progressivamente appare sempre più come un elemento evanescente, estraneo nella nuova società, tendendo così a rappresentare quanto oramai della vecchia Hong Kong occidentale rimanga ben poco. Tanto che il termine coniato appositamente per quelli come lui nell’idioma cantonese, “Gwai lo”, fantasma bianco, risulta essere assolutamente calzante.
Java Road, titolo che deriva da una delle principali arterie commerciali di Hong Kong, forse non è il miglior libro di Osborne anche se rappresenta indubbiamente una lettura di spessore grazie alle sapienti pennellate autoriali dalle quali emerge quell’atmosfera “inacidita dall’odio, l’urlo delle sirene che si moltiplicano in lontananza...le sirene che echeggiavano senza sosta, come lacerando un tremendo vuoto, e tutt’intorno nell’etere si increspava un’elettricità: il gregge era spaventato, i lupi erano in arrivo”.
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Gli Antari sono rari come i Targaryen, mi pare
Salire sul treno dell'hype quando il titolo è in voga, incuranti di eventuali prequel, sequel, spin-off e crossover che potrebbero essere pubblicati in un secondo momento? oppure aspettare con stoica rassegnazione non solo la dipartita dell'autore, ma che la stessa casa editrice dichiari ufficialmente conclusa la serie? Tra questi poli estremi, tendo ad orbitare verso il secondo, ma fino a un certo punto; quindi ho sì aspettato diversi anni prima di decidermi a cominciare la trilogia Shades of Magic, ma senza alcun progetto in merito al recupero dei fumetti prequel (dei quali in ogni caso sulle coste nostrane è arrivato solo un volume su tre!) o della serie sequel da poco cominciata negli U.S.A.
Con "Magic" la cara Victoria ci porta in un mondo praticamente uguale al nostro nei primi anni dell'Ottocento, ma legato ad altre tre realtà parallele in cui la magia è all'ordine del giorno; ad accomunare queste dimensioni alternative sono alcuni punti fissi come la città di Londra, presente in tutte ed identificata dai colori grigio, rosso, bianco e nero. Tra le diverse versioni della capitale inglese possono muoversi solo un tipo speciale di maghi chiamati Antari, ed il protagonista Kell è uno degli ultimi di questa stirpe. Mentre consegna messaggi tra le varie famiglie reali, l'uomo si vede affidata una pietra misteriosa proveniente dalla perduta Londra Nera, il cui potere darà vita ad una rocambolesca missione per mettere questo pericoloso artefatto al sicuro. Al POV di Kell si affianca pian piano quello di Delilah "Lila" Bard, ladra della Londra Grigia con il sogno di diventare una piratessa e pronta a tutto per vivere un'avventura.
Con questa interessante premessa, e con un world building complesso ed affascinante, questa lettura era partita più che bene. E se è vero che nei primi capitoli la narrazione al presente viene purtroppo interrotta da una quantità di flashback e spiegazioni relative al sistema magico, con il procedere della storia il ritmo diventa incalzante, anche per merito del tono scanzonato e divertente adottato dall'autrice. Mi sento di annoverare tra i pregi del libro anche i tentativi di inclusività fatti dalla cara Victoria, non sempre convincenti (una persona nera non è semplicemente abbronzata!) ma incoraggianti.
Pur non avendo apprezzato il cast nella sua interezza -e non ce ne sarebbe comunque stato modo, visto che tanti caratteri sono soltanto abbozzati-, posso dire che la caratterizzazione di Lila mi è piaciuta, in modo un po' imprevedibile in realtà, perché non mi sembra sia una personaggia molto popolare tra i fan della serie; il suo essere risoluta e sfacciata però mi ha convinto, soprattutto in contrasto con la fiacchezza di Kell, che segue il trend dei protagonisti maschili non troppi brillanti di Schwab, per me inaugurato con August in Monsters of Verity. Percepisco parecchio potenziale anche nel personaggio di Holland, che sono certa otterrà un ruolo più rilevante nei seguiti.
Ma prima di pensare ai prossimi volumi, vediamo cosa non ha funzionato in questo: perché il mio entusiasmo iniziale si è progressivamente smorzato? soprattutto per le tante, troppe forzature: l'autrice sembra incapace di trovare delle motivazioni e degli espedienti credibili, tanto che gli stessi personaggi ammettono di non sapere perché compiano determinate azioni! Un buon esempio è quello della scena in cui Kell riceve l'amuleto proveniente da Londra Nera: com'è possibile che creda alla storia del parente moribondo quando le dimensioni sono divise da trecento anni? Ancor più eclatante è il piano degli antagonisti, che renderebbe fieri Lord Voldemort e Crouch Jr. per quanto è inutilmente contorto.
Non posso dire di aver gradito troppo neanche le esagerazioni -specialmente nei dialoghi sopra le righe- e la fretta con cui sia arriva al finale, trasformando minacce apocalittiche in ostacoli da superare con un saltello. Anche il sistema magico non mi ha convinto appieno perché risulta poco chiaro nelle modalità di utilizzo e nei limiti della magia, e questo incide soprattutto sulla figura degli Antari: avere una simile quantità di talenti magici a disposizione rende ogni problema meno credibile. Da come agisce Holland poi, sembra possiedano perfino poteri di preveggenza e telepatia, altrimenti non si spiega come abbia fatto ad indovinare in quale locale Lila sarebbe entrata casualmente o che l'orologio era per lei un oggetto tanto significativo; il tutto senza aver scambiato con la ragazza più di due parole in croce.
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Lo zio Antoine e la sua famiglia.
Pensi a Georges Simenon e subito colleghi il nome dello scrittore a Jules Maigret, il famoso commissario protagonista di tanti straordinari romanzi polizieschi. Sono centosette, ma addirittura centinaia gli altri romanzi, racconti, articoli, memorie che il prolifico autore, un singolare personaggio, ben noto anche come donnaiolo impenitente, amante della buona cucina e del buon vino, ha pubblicato nel corso degli anni. "Gli altri" è del 1961, si distacca dai temi dell'inchiesta poliziesca per evocare ritratti psicologici suggestivi nell'atmosfera stagnante della provincia francese. Il narrante, Blaise Huet, modesto insegnante di disegno all'Accademia, espone in pochi giorni sotto forma di diario gli avvenimenti familiari e le sue impressioni dopo la morte dello zio Antoine, un avvocato e giurista di fama. Il sospetto che si sia suicidato assumendo una dose eccessiva di certe pillole turba la famiglia, ma viene sommessamente messo a tacere in attesa spasmodica del testamento. Pian piano emergono parenti vicini e lontani, e Blaise inizia a tracciare la storia dei familiari più legati al defunto, indagando su rapporti personali, abitudini, conflitti, amicizie: vengono alla luce rancori covati per anni, improvvisi ritorni di persone da anni lontane e vissute in condizioni precarie, confessioni inaspettate, il tutto nell'atmosfera grgia di una cittadina sonnolenta, dove quasi sempre piove e non succede mai nulla di importante. I funerali dello zio sono l'occasione per incontrarsi e alimentare pettegolezzi: le donne per rispolverare velette e abiti scuri, gli uomini per riallacciare rapporti spenti o confessare quello che non avevano mai avuto il coraggio di dirsi.
La lettura del testamento, attesa con ansia, premia i parenti diretti e non riserva grosse sorprese. Interessanti sono le figure femminili che emergono dalle pagine del diario, non tutte di specchiate virtù. Ad esempio Irène, la moglie di Blaise, ha un compagno fisso, che, con il beneplacito del marito, frequenta assiduamente la casa, è invitato a pranzo, accompagna la donna al cinema ed a teatro. In compenso, Blaise, approfittando dell'assenza della moglie, si intrattiene con Adèle, la servetta di casa, pronta sempre a soddisfare le esigenze padronali. Anche Colette, la moglie dello zio defunto, ha comportamenti inusuali: tenta il suicidio, ha frequenti crisi isteriche con conseguenti ricoveri ospedalieri, oltre ad essere legata a più amanti. Ma, secondo l'estensore del diario, sembra apparire tutto normale, come parte della società dell'epoca, che accoglie e mimetizza abilmente meschinità e bassezze adeguandole all'ambiente in cui si vive: Blaise racconta tutto con sincerità estrema, mette tutto in piazza, perchè, afferma, " c'è abbastanza gente che si sente in diritto di farsi i fatti miei, perchè abbia anch'io il diritto di farmi quelli degli altri".
Simenon con "Gli altri" ha voluto, in sintesi, presentare, tramite un'analisi psicologica profonda dei personaggi, un panorama variegato della società dell'epoca, una visione disincantata nella quale possono rispecchiarsi anche le contraddizioni della società contemporanea, con i suoi pregi, i suoi difetti, i suoi riti immutabili.
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GROTTESCO O CRUDELE?
Quando Yurico e Katsue, due prostitute di Tokyo, vengono trovate barbaramente uccise, la sorella di Yurico, cerca di capire da chi e perché siano state assassinate.
Yurico è figlia di madre giapponese e padre svizzero, è una ragazza di una bellezza incredibile, quasi irreale e per questo viene isolata dalle altre donne e profondamente odiata dalla sorella, talvolta voce narrante del romanzo.
Katsue è, al contrario, una donna esteticamente quasi insignificante ma dotata di grande intelligenza, forza d'animo e tenacia. Nonostante siano così diverse tra loro, hanno tratti comuni: vogliono smettere di stare sole e vogliono attirare gli sguardi maschili per sentirsi importanti ed accettate.
Nelle oltre 800 pagine si sviluppa la trama, ogni capitolo ha un narratore diverso; tutti hanno il loro punto di vista e tante prospettive differenti su di un'unica vicenda.
Grotesque è un romanzo affascinante e crudele perché mostra senza pietà un mondo in apparenza così lontano da noi, eppure così vicino da sembrare dietro l'angolo.
Ciò che mi piace dell'autrice Natsuo Kirino, che ho già avuto modo di constatare in "Le quattro casalinghe di Tokyo" e in "Pioggia sul Viso", è la capacità di mettere a nudo il suo Paese e mostrarlo al resto del mondo senza paura e senza nascondere nulla. Ne deriva un romanzo triste e ingiusto in cui ancora una volta la figura femminile viene condannata, emergono differenze sociali e primeggia il finto perbenismo .
Anche se lungo e non propriamente distensivo, leggetelo, ne merita il messaggio che lascia anche se amaro....
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L'IMPERFEZIONE NELLA PERFEZIONE
Il libro presenta la vita di Alessandra: insegnante di fisica all'università, una sorella Gaia, il suo esatto opposto, due nipoti Apollo e Tobia, già fin troppo cresciuti per la loro età, due genitori e una vita sentimentale semplice con Nicola, anche lui professore universitario... fino a quando non scopre il tradimento di lui....A questo punto, Alessandra è costretta a mettere in discussione tutte le sue certezze...il tradimento arriva come un "un colpo di vento che spalanca la finestra, gonfia la tenda e butta giù tutti gli oggetti rigorosamente posizionati sulle mensole".
E allora prendere in mano la propria vita non è facile, il dolore è acuto, la paura è tanta. Ma l'improvvisa custodia dei nipoti ribalta nuovamente la sua vita, le regala una maternità, il cui desiderio è accantonato da anni....e con loro, un prezioso incontro, con Lorenzo, che le regala una nuova speranza.
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L'ingrediente principale di questo romanzo è senz'altro l'amore, ma non quello dei classici romanzi rosa, ma quel sentimento capace di rendere migliori le persone, anche quelle che, di primo impatto, sembrerebbero irrecuperabili.
Viene sfatato il mito della perfezione per dare voce alle scelte sbagliate, agli errori e alle cadute...quante volte cadiamo e quante volte ci rialziamo?
Personalmente non ho badato moltissimo alla trama, ho invece amato tantissimo lo stile dell'autrice : intenso, vivace, scorrevole, di una ironia e saggezza uniche. Ho ritrovato tanti pensieri in cui mi sono rispecchiata, tanta commozione in certe riflessioni, tutti ben sapientemente trasferiti su carta .
È stata una bellissima scoperta questa scrittrice e senz'altro leggerò altri romanzi.
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Amore impossibile
….” In quella notte di agosto del 1967 ho dato fuoco alla casa dove vivevano le persone che più veneravo al mondo, una notte che divide ancora la mia vita”..
L’ incipit del voluminoso romanzo “ Un amore senza fine “ ne è anche la sinossi, laddove la voce narrante, David, si rivolge in prima persona al passato rievocando una vita indirizzata da quel terribile gesto adolescenziale, un gesto estremo e premeditato per salvaguardare e distruggere un amore idealizzato improvvisamente sottrattogli.
Lo stesso protagonista, anni dopo affermerà
…” Basta un niente a segnare una vita intera, il modo in cui gli altri ti vedono e quindi anche il modo in cui ti vedi tu, determinando il tuo comportamento”…
Nel mezzo cinque anni di cura, ripensamenti, desideri, riabilitazione, un rimuginio interiore che rivive l’ accaduto come nuovo inizio, non la fine di tutto, che aspira a riappropriarsi di ciò che credeva perduto per sempre, riabilitandosi agli occhi di chi lo ha cancellato, non lo ha dimenticato, riconquistando l’ amore perduto.
La rivisitazione dei fatti, univoca, fa credere a David di avere smarrito il senno a causa del proprio amore, maltrattato e disperso, la scissione del proprio io in comportamenti dovuti e regolamentati, un percorso riabilitativo che ha previsto ricoveri, libertà condizionale, analista, reinserimento e controllo sociale, in se’ un unico scopo, la volontà di riunirsi a Jade e alla sua famiglia, I Butterfield.
La distruzione di un luogo dove si credeva di sostare, un nucleo familiare che avrebbe sostituito il proprio, una casa in cui tutto veniva condiviso e discusso e dove i bisogni erano molto più numerosi della possibilità di soddisfarli, un amore assoluto, Jade, universo impossibile da avvicinare, criticare, conoscere.
Come in una seduta psicanalitica delle più impegnative si rievocano le possibili cause e concause del gesto criminoso, pazzia, incidente, premeditazione, braccio armato della volontà distruttiva di altri.
Una ricostruzione che evidenzia complessità, incomunicabilità, famiglie implose, disgregate, contraddittorie, sostituite, una solitudine vaga e totalizzante per un diciassettenne che ha ridotto tutto in cenere.
Dopo cinque anni c’è chi vive e chi sopravvive, segnato per sempre, chi mostra crepe e menzogne rivelando verità nascoste, a David rimangono le lettere di Jade, il rapporto amorevole con il padre, la corrispondenza epistolare con Anne.
Nello sviluppo di una trama percorsa da una scrittura fluida, colloquiale, un lungo monologo che scorre alternando realtà a soggettività, David si divincola tra certezza e desiderio, tutt’ora sconosciuto a se stesso, invischiato in quella follia detta amore che lo ha ancorato al passato, sottostimando quanto il fluire del tempo negli accadimenti lo abbia cambiato, influenzato, indirizzato, in una maturazione che non preveda un’ egocentrica, narcisistica, adolescenziale versione di se’.
Se esiste una possibilità di riscatto, a ciascuno concessa, la bramosia inevitabilmente ritorna e il peccato originale indirizza una vita che si credeva risorta, espiata, corretta, in realtà ancora imbrattata di traumi, dolore, odio.
E allora quale relazione tra amore e sofferenza, come rivivere le ceneri del passato, quale condivisione tra l’ immobilità affettiva e il lasciare andare?
Domande difficili, risposte inevase, al centro il dolore, passato e presente, mentre uno strascico di quello che fu invade il quotidiano in una dimensione di morte e uno stato di menzogna obbligata cerca di salvare se stessi e una relazione di fatto malata e sepolta.
Forse gli esordi di un amore, così giovanile e totalizzante ma ossimorico, l’ ingresso in una famiglia ( David ) e il liberarsi della stessa famiglia ( Jade ) possedevano già le stigmate di un sentimento impossibile, impuro, deragliato, pericoloso.
La realtà incombe, il passato ritorna e non concede sconti, non resta che evadere dall’ insostenibile e annullarsi nel senso di colpa.
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La solitudine e il tempo che scorre ...
Bel romanzo, affascinante, come sanno essere i romanzi di Maurizio De Giovanni che raccontano le vicende del commissario Ricciardi, il protagonista, con il collega Maione, di tante storie complicate e intriganti, personaggio introverso e solitario, ancora disperatamente innamorato della moglie Enrica, scomparsa da tempo ma sempre vicina al suo cuore. Siamo nel 1939, l'Italia fascista sta per stringere uno sciagurato patto d'acciaio con la Germania ed è pronta ad emanare le altrettanto sciagurate leggi razziali, che costringeranno migliaia di ebrei alla fuga o alla deportazione. In un quartiere bene di Napoli viene rinvenuta, assassinata a colpi di bastone, un'agiata e bella donna, Erminia: nella stanza vicina, l'anziana madre, Angelina, costretta a letto, urla e si dispera. Iniziano qui le indagini di Ricciardi e Maione: si passano al setaccio le amicizie della donna, cominciando dall'amante, l'avvocato Catello De Nardo, principe del foro, un settantenne sposato con quattro figli, che mantiene la donna permettendole di vivere nel lusso, non facendo mancare nulla a lei ed alla madre. L'avvocato appare affranto, i due si volevano bene, emerge la sua innocenza, che costringe il commissario a cercare altrove: un giovane innamorato di Erminia, un federale fascista, che proclama però la sua innocenza. Alla fine, grazie all'intuito geniale del commissario e ad alcune evidenze, l'assassino viene smascherato: parlare di colpo di scena è forse riduttivo, anche il lettore più smaliziato resterà sorpreso nell'apprendere l'identità del vero assassino e le sue dolorose e farneticanti motivazioni.
Ma c'è dell'altro. L'amore del commissario per la sua bambina, Marta, affidata alle cure di una nobildonna, Bianca, e della sua governante, Nelide, sgraziata e scorbutica ma piena di umanità. La storia di Bruno Modo, medico legale, e del collega Severi che si rivelerà ben diverso da come Modo l'aveva giudicato. Il terrore che serpeggia in un gruppo di gay, i femminielli napoletani, perseguitati e massacrati a botte da un gruppo di camerati fascisti, decisi a "fare pulizia". Le leggi razziali, che seminano sconcerto e paura in ogni ambiente, persino in questura e nella stessa famiglia di Ricciardi: la piccola Marta ed i suoceri sono di origine ebraica e sono costretti a cercare un rifugio ove nascondersi.
Il regime fascista fa da sfondo, la vita è difficile, le delazioni all'ordine del giorno, il pericolo di essere denunciati incombe in ogni settore. Ma è la solitudine il Leitmotiv che fa da spina dorsale al romanzo, quella solitudine così ben rappresentata e vissuta da Laura e dal nostalgico e struggente tango Soledad: un'italiana fuggita a Buenos Ayres, un'affermata cantante che respinge l'innamorato, si sente sola e sogna la sua terra d'origine. La solitudine, pur nell'imminenza delle feste natalizie, è una caratteristica dei personaggi di De Giovanni: è solo il commissario, confortato dai soliloqui con la moglie che non c'è più, sola la contessa Bianca che si rifugia nell'affetto per la piccola Marta, si sentono soli i diversi e gli emarginati dal regime autoritario, soli i perseguitati ed i sospettati da leggi inique per le proprie idee. Una solitudine che l'autore ci mostra in tutti i suoi aspetti e che può essere superata e sconfitta solo dall'amore, un amore senza pregiudizi: e De Giovanni sa parlarne e descriverlo con grande abilità.
Lo stile è garbato, preciso, incisivo: le vicende sono descritte via via, alternandosi nei vari capitoli e dando anche il giusto spazio al racconto delle esperienze di Laura in Sudamerica.
Grande spazio hanno le riflessioni dell'autore, su ogni personaggio: riflessioni che rivelano a volte una sorta di autocompiacimento da parte dello scrittore, rallentando il ritmo della narrazione dei fatti. Soprattutto quando racconta di Laura in Argentina, dei suoi problemi, dei suoi rapporti con chi la corteggia, intervallati dai testi dei brani cantati.
In questo romanzo c'è tutto De Giovanni, la sua passione civile, il suo amore per la giustizia, la sua capacità di sondare a fondo l'animo dei personaggi.
Ricordando sempre, come recita il testo del tango Soledad, "... non voglio che nessuno immagini quanto umana e profonda sia la mia eterna solitudine, trascorrono le notti e la lancetta dei minuti macina l'incubo del suo lento tic tac".
Il tempo che scorre inesorabile, il peggior incubo di chi si sente solo.
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La donna nella testa.
Giovanni, uno scapolo quarantenne, vive agiatamente in Sicilia con le tre sorelle nubili.
Chi l'avrebbe mai detto?! "Eppure, la vita di quest'uomo era dominata dal pensiero della donna!" . "Ma come, Giovanni?" Il serio, il buono, il rispettabile Giovanni?" .
Romanzo della prima metà degli anni '40 del Novecento, narra le vicende e l'ossessione di questo personaggio in modo umoristico da essere una satira del maschio siciliano. L'uomo di vari decenni fa, ovviamente. Nessuno direbbe oggi di riconoscersi in costui. E penso che pure al tempo non sia stato affatto gradito ai siciliani veder rappresentati i conterranei come felliniani 'vitelloni' che evitano di guardare negli occhi le donne per "paura di turbarsi, perché tutti credono di avere il sangue caldo!" .
Letto oggi, m'è parso un libro piuttosto datato. E la gradevolezza delle pagine iniziali perde almeno in parte la fragranza col procedere della lettura.
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autori italiani della passata generazione
Quale amore?
Una donna, Beatriz, che incarna la Beatrice di Dante agli occhi e allo sguardo desideroso e innamorato di Witold, un pianista polacco interprete di Chopin, un corteggiamento respinto, negato, nascosto, fugace, pochi giorni condivisi, il distacco, la lontananza, 84 poesie testamento e testimonianza dell’ afflato amoroso di un uomo in declino forse desideroso di essere salvato.
Il “ Polacco’ è un breve romanzo percorso da echi di intensità e di intimità, un’ idea di relazione troppo complicata per essere se non nell’ ideale romantico di Witold.
Beatriz è una donna colta, preparata, intelligente, rinchiusa in un matrimonio che possiede la certezza degli anni, brava moglie e brava madre, non curiosa del mondo ma di stessa, Witold è un pianista grande e grosso con due mani enormi, un uomo piuttosto pomposo e formale che non riesce a concedersi liberamente.
Invitato da Beatrice a tenere un concerto nella sua Barcellona, ci sarà una cena condivisa e una conversazione tenuta in inglese, una lingua che non appartiene al proprio lessico quotidiano e che contribuisce a mantenere un senso di formalità e una certa distanza.
Dopo qualche tempo, quando tutto sembra dimenticato, un’ improvvisa corrispondenza epistolare rivela l’ amore di Witold per Beatrice, vorrebbe incontrarla, amarla ed esserne amato, fuggire con lei altrove.
È un momento di rottura, di separazione, di stallo, agli occhi di Beatriz una relazione impossibile per ovvi motivi, il proprio matrimonio, la differenza di età, la non conoscenza, l’ assenza di una qualsiasi forma di attrazione, l’ appartenenza a due mondi separati e distanti, uno artistico e l’ altro reale, due sconosciuti che hanno poco da condividere oltre alla musica.
Da cosa nasce la passione di Witold, improvvisa e totalizzante, che nasconda dell’ altro, Beatriz che cosa vuole e che cosa vede in lui tanto da accettare di incontrarlo?
Cresce una trama nella trama, realtà e fantasia, ragione e sentimento, un corteggiamento a distanza negato da chi vive la quiete domestica di un matrimonio privo di intimità e che non ha bisogno di sentirsi amata. Beatriz rimugina sul proprio vissuto, una donna che non sogna e che da tempo vive lunghi sonni tranquilli, che racconta al marito solo porzioni di verità, e allora perché i suoi pensieri ritornano a Witold, che cosa vede e gli piace di lui ?
Di certo l’ espressione artistica del pianista polacco e’ priva dell’ ardore e del sentimento che l’ ha fatta innamorare della musica di Chopin, forse ne apprezza il piacere che trae da lei, l’ esposizione al suo sguardo, o si tratta di semplice compassione?
Difficile dirlo quando le parole non bastano, comunicare è difficile, lunghi silenzi ricoprono un tempo trascorso e condiviso che non tornerà, se non cercando di decifrare le poesie di un non poeta che parlano di lei, di una vita diversa, ignorata, di sentimenti sconosciuti, di un amore che si nutriva di sguardi e che bastava a se stesso nel respiro dei giorni mancanti.
“ Il Polacco “ è un romanzo con diversi piani di lettura, psicologici, letterari, storici, musicali, reali, ipnotici, a rappresentare una femminilità complicata e complessa, ferita, tormentata, stratificata, fragile, curiosa, profonda, invischiata nell’ oggi, in bilico tra il passato e il futuro, che cerca di leggersi dentro, rigettando una certo romanticismo di chi è intrappolato nel proprio io di artista in un ideale totalizzante.
Una relazione intensa e fugace, vissuta intimamente, un tentativo di entrare nei sentimenti propri ed altrui, spesso inaccessibili e sconosciuti, mentendo anche a a se stessi, di dare un significato, agli sguardi, ai momenti condivisisi, alle parole non dette, al senso insensato di un artista e della propria arte, al proprio bisogno di amore.
In una quotidianità inappetente e annoiata, tradita, tenuta sotto controllo, forse non si è fatto abbastanza per capire l’ ’essenza più vera dell’ altro, un sentimento di intimità rimane nel proprio io più riposto mentre la vita prosegue la propria tormentata storia.
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La fucina dei sentimenti
Sentirsi a casa fuori di casa, un’ aria famigliare senza la propria famiglia, persone e parole nuove, un luogo senza vergogna e segreti in cui sostare e sentirsi bene.
Questa l’ estate vissuta dalla piccola e silenziosa protagonista, una bambina in prestito che osserva, ascolta, legge i pensieri altrui, affidata alle cure di una coppia, i Kinsella, in una fattoria della campagna irlandese, un’ immersione in un quotidiano sconosciuto.
Gesti, lavoro, risate, intimità, ascolto, cura, silenzio, un mondo che sa di altro, contenente lo spazio e il tempo per pensare, parole nuove, il tocco di mani con un senso senza nome.
I giorni scorrono, unici, altra versione di un passato recente, il bisogno di un po’ di cura, di persone diverse, che a volte non si capiscono fino in fondo, che parlano un’ altra lingua, comunanza e attenzione ricoperte di sentimenti.
È una scoperta graduale in un percorso di acquisizione e crescita, parole significanti, gesti che sanno di cura, la grazia di una presenza, una sensazione di benessere in attesa che qualcosa cambi e finisca.
Un luogo e un tempo, interiore ed esteriore, in cui apprendere, il sapore dell’ umano nel proprio mostrarsi, anche nel silenzio, quando non è necessario fare domande e dare risposte, un niente che nasconde il tutto.
A contare è l’esempio, la presenza, l’ intimità non prevaricante nel respiro dei singoli giorni, momenti ripetuti e rivestiti della stessa importanza. A contare è l’ individuo, abbracci, sguardi, parole da custodire per sempre.
Un giorno, quando la vita riprenderà il vecchio corso, presi da una delusione certa, ci sarà una corsa sfrenata con il cuore in mano, un abbraccio prolungato, il respiro ansimante, una folata improvvisa di vento, il calore che attraversa i vestiti buoni e lo sguardo che richiama un senso di annegamento, singhiozzi e pianto.
Li’, immobilizzata
…” non ho il coraggio di tenere gli occhi aperti eppure lo faccio, li tengo fissi sul sentiero, oltre la spalla di Kinsella, vedo quello che lui non può vedere. Se una parte di me vuole scendere e dire alla donna che si è occupata di me con tanta cura che non dirò mai niente a nessuno, qualcosa di più profondo mi tiene lì, tra le braccia di Kinsella, aggrappata a lui “…
Agosto è un piccolo dono per l’ animo, un racconto essenziale con un tocco gentile, fiaba sul senso di appartenenza e di comunanza, sosta gradita in un oceano di lontananza, respiro famigliare al di fuori della famiglia, la semplicità di pochi gesti ripetuti e totalizzanti, parole condite di grazia, di semplice profondità, insegnamenti che forgiano sentimenti.
Ci sono esperienze che cambiano, fanno crescere, conservate nel respiro di giorni irripetibili.
È per questo che
..” mi sveglio prima del solito e guardo i campi fradici, gli alberi gocciolanti, le colline, che sembrano più verdi di quando sono arrivata”…
ed è per questo che
…” ripenso a quel giorno e mi sembra passato così tanto tempo”….
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Quando il materialismo si impossessa di noi
Nella tranquilla cittadina di Castle Rock, c'è una novità che desta la curiosità dei cittadini: "Cose preziose" verrà inaugurato a breve. Pare un normale negozio d'antiquariato e invece, grazie alle doti del proprietario Leland Gaunt, i clienti riescono ad ottenere pezzi unici e rarissimi che sembrano in qualche modo toccare i loro desideri più nascosti o i loro ricordi più felici. Con una particolare merce di scambio: una cifra irrisoria ed alcuni piccoli scherzi da fare a qualche abitante della città. Il signor Gaunt, l'uomo dalle dita lunghe e dagli occhi che cambiano colore, ha per le mani un grosso giro di affari che però finirà in tragedia. Infatti, per via di moltissime incomprensioni tra gli abitanti, si darà il via a una vera e propria mattanza. Ma nessuno vuole rinunciare al suo oggetto speciale che pare dare la felicità immediata ai proprietari e pur di tenerselo stretto, tutti sono disposti a fare qualunque cosa. È una storia in cui viene mostrato il male dell'essere umano che arriva a non farsi più nessuno scrupolo pur di possedere qualcosa che per lui/lei ha valore. Dove la materialità ha preso posto dell' empatia e della comprensione. È stato il mio primo libro di King e mi è piaciuta molto la capacità di dipingere l'aspetto psicologico di così tanti personaggi, il suo linguaggio metaforico e la capacità di intrecciare così tante vicende in una sola storia
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Io ci avevo creduto
Un uomo viene trovato morto in fondo a un dirupo. Sembra si tratti di un suicidio, drammatico, ma tutto sommato niente di nuovo. Le stranezze emergono quando nell'auto della vittima la polizia trova tre patenti diverse, tutte con la foto dello stesso uomo, con la stessa data di nascita, ma con nomi e luoghi di registrazione dell'avvenuto lieto evento molto distanti tra loro. Le indagini portano in effetti a tre donne, ognuna delle quali trascorre alcune settimane al mese con uno dei tre uomini, senza sapere nulla, anzi negando che sia possibile che siano state vittime di un simulatore. Ma come spesso accade nei romanzi anche l'assurda idea di avere a che fare con un uomo che conduce una tripla vita è troppo semplice come spiegazione. Bussi allora ci prende per mano e con continui salti temporali e spaziali, poco alla volta ci offre una spiegazione, in effetti del tutto incredibile, ma soddisfacente, di quello che ha indotto Renaud
Duval, per così dire, a triplicarsi.
Sono forse stata un po' troppo generosa nel dare la valutazione numerica a questo romanzo, mi piacciono però gli autori che hanno il coraggio di inventarsi qualcosa di nuovo, Di osare, creando una storia su qualcosa di diverso dal solito serial killer, di costruire attesa e brividi dosano piano piano le informazioni e giocando sull'apparenza e sul legittimo desiderio del lettore di correre avanti e fare ipotesi prima di avere tutte le carte in mano. Quindi, questo libro non è un capolavoro, a tratti rallenta e inizia a zoppicare, però Michel Bussi ha stimolato la mia curiosità e adesso fa parte della mia lista di autori da tenere sott'occhio.
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Segreti di famiglia
La vita di Harriet non è quella che s potrebbe dire semplice. A diciotto anni ha perso la madre, vive in un appartamento che cade a pezzi. In più ha contratto dei debiti con dei personaggi poco raccomandabili che li vogliono riscuotere. Ha un lavoro, si può dire che sia una figlia d'arte. Dalla madre ha ereditato un baracchino al porto dove predice il futuro, Le ha lasciato anche l'abilità nel capire subito la gente e nel dire ai clienti proprio quello che desiderano. Così quando un avvocato la contatta per comunicarle che la sua amata nonna è defunta e l'ha nominata nel testamento non le sembra vero di entrare in possesso di qualche migliaio di sterline che tranquillizzeranno i suoi creditori. Peccato che lei non ha idea di chi sia quella nonna, anzi è abbastanza sicura che ci sia stato uno scambio di persona. Inizia così la sua storia: misteriosa e assurda in un ambientazione fatta apposta per far partire al galoppo il cuore ogni volta che uno scricchiolio si insinua nel silenzio della notte.
L'autrice in questo romanzo decide astutamente di scegliere come ambientazione una vecchia magione isolata nella campagna inglese. Niente di meglio che un edificio pieno di stanze fredde e polverose, soffitte piene di vecchi fantasmi e cantine dove perché no? potrebbero trovare inquieto riposo cadaveri vecchi di secoli. Non manca una governante scorbutica e pronta a difendere con la propria vita il suo regno e una serie di parenti tanto perfetti all'apparenza quanto lochi e manipolatori nel privato. insomma un romanzo che strizza l'occhio ai classici del genere, senza però raggiungerne il livello. Gli stereotipi sulle ricche famiglie britanniche ci sono tutti e in effetti non tutto segue sempre una logica ferrea. Comunque gradevole da leggere e secondo me molto meglio di altri romanzi della Ware come per esempio La camera numero 10 che mi aveva molto delusa.
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Vite fragili di solitudini dirompenti
«[…] Lo salutai e me ne andai pedalando, ma di tornare a casa non se ne parlava. Respiravo una libertà che era più grande di me.»
Vivere o sopravvivere? Quante volte ci siamo interrogati su questa domanda e quante altre ancora ci siamo chiesti quanto sia necessario scendere a compromessi stante, che spesso, siamo obbligati più a sopravvivere che a vivere per far fronte a quelle che sono le circostanze che la vita ci mette davanti.
Aron Snaer è un bambino abbandonato dal padre che vive con una madre incapace di prendersi cura di lui. Non è in grado di prendersi cura nemmeno di se stessa, è talmente debilitata che fatica a vivere. Più volte ce lo dimostra nella narrazione l’autrice e il cuore del lettore si fa piccolo piccolo all’idea di quel bambino che non sa come salvare la sua mamma. Sembra non avere speranza, Aron. Per lui non sembra poterci essere un futuro e ancor meno migliore. Tuttavia, la vita tanto ci pone davanti a circostanze difficili, tanto ci pone innanzi anche persone e situazioni inaspettate ma capaci di salvarci. Aron si imbatterà in Arni, Borghildur e Hanna e loro lo aiuteranno a vivere quelle emozioni e quelle cose belle che l’esistenza sembrava non aver mai riservato per lui. Sono cose semplici come un bagno caldo, dei vestiti puliti, un pranzo sostanzioso, qualcuno con cui parlare per non sentirsi solo, la forza di una bicicletta che dona una libertà senza eguali. Piccole cose che troppo spesso diamo per scontate.
Ma l’effetto è ambivalente. Perché se gli adulti portano serenità al piccolo, Aron è un toccasana per quei grandi con tutti i loro piatti rotti, insoddisfazioni, crepe nell’anima. Arni, Borghildur e Hanna diventeranno un punto fermo per Arni che troverà in loro quella famiglia che mai ha avuto. Dal loro canto, loro troveranno con Arni, la forza per guardarsi dentro e per attuare quei piccoli ma sostanziali cambiamenti per diventare persone migliori.
«[…] Da allora mi sento come un sacco pieno di schegge di vetro. Non sento il bisogno di piangere o di lagnarmi ma mi fa male ogni parola, ogni passo.»
Arni inizia a fare i conti con l’età che avanza e con Alfons, il suo cane così iperattivo e difficile da gestire, Borghildur, vedova, torna a sentirsi viva dopo tanta apatia e mancanza di energia, Hanna è invece una adolescente con un rapporto complesso con il cibo. Lei, in particolare, ha un ruolo chiave per Aron. Si avvicina al piccolo per sostenerlo ma sarà poi lui ad aiutarla davvero.
Il tutto si sviluppa nella città di Rejkiavik ma le vere protagoniste sono vite fragili in cui a far da padrone sono l’empatia e la condivisione, il prendersi cura per il prossimo e il tendersi una mano.
«[…] Siamo come soldati che porta via dalla prima linea un compagno ferito.»
Tutte situazioni e circostanze che faranno maturare Aron e chi gli gravita attorno. Perché è vero che la vita a volte sa essere davvero complicata e che il vivere diventa un sopravvivere, ma è anche altrettanto vero che se lo si fa con le persone giuste accanto, anche l’insormontabile può diventare sormontabile.
“Metodi per sopravvivere” di Gudrun Eva Minervudottir, edito per Iperborea e tradotto da Silvia Cosimini, è un romanzo che scalda il cuore e che con la sua naturalezza invita il lettore a tante piccole riflessioni sottese ma mai scontate. E se non sapete cosa regalare per Natale, ecco il romanzo giusto.
«[…] La vita è già abbastanza agghiacciante anche senza tracannare volontariamente del ghiaccio.»
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Il giudice Surra e la mafia
Un bel regalo di Natale di Sellerio Editore, che presenta tre racconti di Andrea Camilleri “spiegati” in una lunga prefazione da Giancarlo De Cataldo. Niente Montalbano, comunque, ma tre storie scritte circa una quindicina d’anni fa: due per due antologie, “Troppi equivoci” per l’antologia “Crimini” e “Il giudice Surra” per l’antologia “Giudici”, mentre il terzo racconto , “Il medaglione”, è una storia a sé, l’unica delle tre scritta in dialetto siciliano e pubblicata nel 2005 sul Calendario dell’Arma dei Carabinieri e poi da Mondadori nello stesso anno.
Un Camilleri abilissimo, poliedrico, che ancora una volta incanta con temi narrativi diversi: lo scontro paradossale e pericoloso tra un ingenuo tecnico della società dei telefoni e una banda criminale, la denuncia di una mafia apparentemente invincibile nei primi anni di un’Italia finalmente unita, la storia amara e nostalgica di un pover’uomo solitario e disperato per la morte della moglie.
In “Troppi equivoci” Bruno Costa, tecnico di una società di telefoni, si reca per lavoro a casa di Anna Zanchi, bionda e ricca single, traduttrice. Nasce più che una simpatia reciproca, i due vanno a cena insieme: qui nasce l'inghippo, in una chiamata su un cellulare il malcapitato Bruno viene scambiato per un trafficante insolvente. Vogliono i soldi, lui si defila, loro scoprono l'indirizzo di Anna, un killer penetra nell'appartamento, lei è sola e, non sapendo rispondere, viene barbaramente uccisa. Bruno va da lei, scopre il delitto proprio mentre arriva la polizia. Accusato, riesce a discolparsi, collaborando, tramite intercettazioni telefoniche, a fare arrestare tutta la banda.
Nel secondo racconto , "Il giudice Surra", siamo nel 1862: un nuovo giudice, Surra appunto, viene mandato da Torino a Montelusa. Lui, candido e disarmante, scopre subito il malaffare. Alcuni atti processuali sono stati sottratti e consegnati ai mafiosi del posto: lui se ne accorge, riesce a riaverli, punisce il collega connivente e continua imperterrito ( o incosciente?) a resistere alle minacce della nuova mafia (in tempi passati si chiamava Fratellanza), compresi un incendio doloso e ed il recapito di una testa d'agnello impacchettata. I mafiosi abbandoneranno il campo, il nostro impavido giudice ne uscirà inconsapevolmente vincitore, dimostrando che con la pazienza e l'indifferenza la mafia può essere contrastata.
L'ultimo racconto, triste e dolente, "Il medaglione", racconta la storia di un pover'uomo, Ciccino, che non sa darsi pace dopo la morte della moglie, chiudendosi in casa, isolandosi da tutti. Ha scoperto che in un medaglione regalato alla moglie non c'è più la sua foto ma quella di un giovane. Ecco il dubbio ossessionante: Ciccino era stato in guerra ed era rientrato al paese solo nel 1947, dopo una lunga prigionia, chi poteva essere il bellimbusto nel medaglione? Il bravo maresciallo dei carabinieri del posto, mosso a pietà, risolverà il caso, con la collaborazione di un orafo compiacente, restituendo a Ciccino la serenità.
Tutto Camilleri in tre racconti riscoperti dopo anni di oblio: l'abilità di un navigato narratore di gialli complicati, il garbo e l'ironia di chi conosce le connivenze della mafia e la disperata solitudine di uomini traditi.
Spicca su tutto e tutti la singolare figura del giudice Surra, e la meditata convinzione di Camilleri : "... dunque il giudice Surra ignorò l'esistenza della Fratellanza, che già ai suoi tempi si chiamava maffia e che poi, strada facendo, perdette una effe.... agì come se non ci fosse e, così facendo, inconsapevolmente l'annullò".
Un consiglio che fa pensare e riflettere.
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Roland si arrabbia con King... E allora Jon Snow?
Il mio percorso verso la Torre Nera non era decisamente cominciato nel migliore dei modi: un primo libro poco convincente, due più validi a livello narrativo ma decisamente lenti e datati, e un interminabile flashback che avrei ridotto di qualche centinaio di pagine; anche le novelle midquel non mi avevano fatto gridare al miracolo. Però ho perseverato, arrivando in primis ad affezionarmi ai protagonisti, ma anche a leggere finalmente dei volumi meglio ritmati, nei quali tutto il world building precedente trova motivo d'essere. Sono quindi approdata con moderato entusiasmo alla prima pagina de "La Torre Nera", curiosa di scoprire se la conclusione si sarebbe dimostrata all'altezza di questa gargantuesca saga.
Ad aprire il volume è la nascita di Mordred, già parzialmente raccontata ne "La canzone di Susannah", poi si passa a narrare di come il ka-tet di Roland tenta di riunirsi nel Medio Mondo, non prima di aver messo al sicuro la rosa nella Manhattan del Mondo Cardine. Una volta superate queste prime difficoltà, i protagonisti sono chiamati a fermare i Frangitori imprigionati nel Devar-Toi -che da decenni stanno picconando mentalmente i Vettori-, ma non sarà questa l'ultima prova da superare per arrivare alla Torre Nera; molti altri ostacoli si pongono sul loro cammino, in entrambe le realtà tra le quali si muovono.
Questo aspetto mi ha lasciata spiazzata: davo per certo che arrivati a questo punto della serie saremmo andati più spediti verso la risoluzione finale, invece la missione di partenza viene continuamente interrotta da quest secondarie e digressioni su personaggi di contorno. Da un lato questo rende ancora più intrigante il già corposo world building della saga, ma dall'altro rallenta il buon ritmo che si era consolidato nei due volumi precedenti. Diventano poi più evidenti che mai gli elementi di retcon ai quali ricorre King per creare collegamenti ai quali dubito avesse pensato vent'anni prima; potremmo però dare una giustificazione a questo aspetto se pensassimo alle tempistiche di pubblicazione della serie.
Non ho apprezzato neppure l'eliminazione fin troppo rapida di personaggi molto importanti: non farò nomi per evitare spoiler, ma si tratta di caratteri ai quali era stato dedicato parecchio spazio nei precedenti volumi, quindi non mi aspettavo proprio venissero tolti di mezzo tanto velocemente. Il problema più evidente riguarda però le scene che il caro Stephen ha scelto di includere in questo volume, e penso in particolare all'intera prima parte, che avrei preferito leggere come finale de "La canzone di Susannah": si sarebbe così dato un maggior senso di conclusione a quel libro, ed al contempo alleggerito un poco questo mattone!
Ma bando alle lagnanze, e passiamo invece agli aspetti positivi. Innanzitutto mi sono piaciute molto le scene multiprospetiche, dal sapore quasi cinematografico, che riescono a dare dinamismo alla storia e nel contempo mostrano dei punti di vista inaspettati; viene infatti dato parecchio spazio ai POV degli antagonisti, palesando come spesso non siano individui puramente malvagi ma mirino soltanto al proprio benessere, mentre Roland ed il suo ka-tet sono pronti a sacrificare qualunque cosa (e chiunque) per impedire il crollo della Torre. Un altro espediente intelligente è quello del foreshadowing, che permette di creare una forte aspettativa nei confronti di alcune scene più emozionanti.
Trovo che l'autore abbia svolto un lavoro inappuntabile per quanto riguarda l'evoluzione dei personaggi principali, che crescono rimanendo però fedeli alla propria caratterizzazione; penso in particolare a Roland, che all'inizio della saga faticavo ad accettare come protagonista, e pur non adorandolo ancora alla follia riesco di certo a capire meglio la sua prospettiva, e credo abbia fatto enormi passi in avanti rispetto a "L'ultimo cavaliere". E nonostante molti siano rimasti delusi, io voglio includere anche il finale tra i punti di forza: penso sia la conclusione perfetta per il tipo di storia che è stata costruita in questi otto libri; il suo retrogusto dolceamaro non sarà per tutti i palati, ma non si può negare che fosse l'epilogo inevitabile.
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Holly: una di noi
Holly ha fatto le cose per bene: è arrivata in punta di piedi, timida, e timorosa di tutti, alcuni romanzi fa. I lettori di Stephen King l'hanno conosciuta, forse l'hanno apprezzata, ma le hanno dato poco peso. Ma lei non se ne è preoccupata, piano piano, ha preso sicurezza e con gli anni, senza spintonare né alzare la voce si è presa i suoi spazi. Dapprima personaggio secondario, poi comprimaria e finalmente protagonista di un libro che porta anche il suo nome. Lo stesso giorno del funerale di sua madre, in mezzo alla crisi postcovid Holly viene incaricata di cercare una ragazza scomparsa. Lo fa dapprima controvoglia, solo per liberarsi di una donna estremamente insistente, ma piano piano si convince che sotto c'è qualcosa. E che cosa!
In questo romanzo c'è il mistero, ci sono i mostri. quelli che fanno veramente paura perché potrebbero abitare proprio nella villetta in fondo alla strada, c'è coraggio, intuizione e follia sia nel senso migliore che in quello peggiore del termine. La trama è ricca, chiara e coinvolgente. Come sempre molto dettagliati e ben strutturati i personaggi. In particolare lo è Holly con la sua normalità che potrebbe essere confusa con banalità, con la sua cautela che spesso sconfina con la paura, con la sua diffidenza, molto vicina alla paranoia. Ma soprattutto la sua umanità, intelligenza e coraggio. A suo modo affascinante anche l'antieroe della storia, perché inaspettato e perché con un livello di crudeltà e di follia tale che non può non lasciare qualcosa. Magari solo un modo diverso di guardare i nostri vicini.
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Megan la svitata
In questo romanzo facciamo subito la conoscenza con Megan, e Deaver ci tiene a farci sapere fin da subito che è svitata. In realtà, nonostante sia anche quello, e chi non lo è almeno un po'? è molto altro e lo scopriremo poco alla volta. Megan scompare in un pomeriggio qualsiasi, dopo una seduta con un nuovo psicologo di cui nessuno sa niente. Tutto porta a pensare che quella diciassettenne problematica, già nota alla polizia e, per dirla tutta, anche piuttosto antipatica abbia deciso di concedersi una fuga verso la grande mela. Non la pensano così i genitori, che nonostante siano tutto meno che la famigliola perfetta sanno che invece è successo qualcos'altro. Comincia così una specie di caccia nella quale un abile gatto gioca con con quelli che crede siano degli innocui topolini e in effetti si diverte parecchio.
Come ci si poteva aspettare da Deaver questo romanzo è un thriller, e scritto anche piuttosto bene. La trama scorre bene, anche se le vicende si svolgono in contemporanea in diverse ambientazioni. Ci sono in effetti alcune scene piuttosto esagerate e poco credibili, nel complesso però si tratta di un buon romanzo con una sua originalità e con tutta una serie di eventi imprevedibili, ma perfettamente logici. La novità di questo libro è che quello su cui l'autore punta è il potere delle parole. Tate, il padre della ragazza rapita è un avvocato, che va particolarmente orgoglioso della sua capacità di convincere i giurati delle sue tesi. Il suo antagonista, invece è uno psicologo, per il quale la comunicazione e la capacità di interagire coi pazienti è fondamentale, i due ci danno prova delle loro abilità nel corso di tutto il romanzo, ma danno il meglio sul finale con un duello dove si affrontano, invece che con le armi con il loro cervello. Peccato solo per le ultimissime pagine, stucchevoli e scontate, che mi hanno lasciato in bocca un fastidioso sapore dolciastro che ha in parte rovinato un piatto abbondante e ricco di sapori ben amalgamati.
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Surreale ed enigmatico
Romanzo dalle forti tinte surreali. Tre giorni raccontati e vissuti in prima persona da un pianista di fama (Ryder) in una città imprecisata, fra personaggi più o meno credibili ma di forte caratterizzazione, e situazioni paradossali che spesso assumono connotazioni grottesche. L'obiettivo è partecipare, il terzo giorno, ad un evento di importanza capitale per se stesso e per la città che lo ospita. Ma niente va come dovrebbe: dietro l'angolo c'è sempre l'imprevisto che sconvolge il programma e si respira ad ogni pagina un senso di frustrazione e spaesamento. Lettura non sempre facile, si fa fatica ad entrare in sintonia con il punto di vista e la tecnica narrativa dell'autore, ma quando ci si riesce è uno spasso. Consigliato a patto di staccare il cervello e farsi cullare dal flusso narrativo, caotico forse, ma di un certo fascino.
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Graffi e sangue vivo
Questa è una storia difficile, ambientata nel quartiere popolare della Fortezza, che è come Scampia, Caivano, …. E’ una storia ruvida, che sfregia la pelle del lettore. Parla di marginalità, di droga, di morte, ma anche di amore. Un legame forte, che è vivo in ogni sua fibra. Beatrice ha scelto di stare dalla parte di Alfredo, di viverlo, di proteggerlo. Ne nasce un romanzo di sentimenti spigolosi, ma di un’intensità non comune. Ho trovato lo stile scorrevole, fluido, emozionante perché denso di vita vera. E’ un libro che graffia e fa affiorare il sangue vivo.
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Michael Bennett deve morire
Ritorna Michael Bennett, poliziotto del Dipartimento di New York, nel tredicesimo giallo della serie a lui dedicata. Scritto in collaborazione con James Born, il nuovo thriller pubblicato in Italia qualche anno dopo l’edizione americana (del 2018) ha un suo spessore, una trama abbastanza articolata ed avvincente che lo contraddistingue da opere simili e che lo pone, a mio giudizio, tra i migliori romanzi di Patterson. Bennett, lo sanno bene i seguaci del poliziotto, vive in una famiglia numerosa: una nidiata di figli, in parte adottati, una paziente ed innamoratissima fidanzata, Marie Catherine, che accudisce tutti dopo la morte della moglie, un nonno, Seamus, che in tarda età ha deciso di intraprendere la carriera ecclesiastica. Naturalmente anche in questo giallo, come in tanti altri dell’autore, la Chiesa ha la sua parte, nei sermoni del nonno, nelle preghiere prima dei pasti, nelle scuole scelte per i figli, ma è soprattutto quello che capita a Bennett che tiene il lettore con il fiato sospeso. Il nostro poliziotto, infatti, ha avuto il torto di colpire a morte, durante uno scontro a fuoco, il figlio di un boss della droga: scatta subito l’incarico, da parte del cartello messicano, di eliminare Bennett, incarico che viene affidato ad una donna killer di professione, colombiana, Alex Martinez. Bennett è ignaro, non sa che durante una perquisizione in un covo di spacciatori cadrà in un tranello e sarà lui stesso il bersaglio da eliminare: si salva, ma resterà ucciso un suo valido o giovane collega. Altri spacciatori rivali sono uccisi nel frattempo dalla Martinez, che porta puntualmente a termine i suoi incarichi, usando con grande abilità, a seconda delle situazioni, stiletto o pistola: la polizia indaga, Bennett assume il compito di scovare il misterioso killer che sfugge con abilità e che, compiute le missioni, rientra 54 periodicamente a Bogotà, dove l’attendono i figli ed una vita normale e apparentemente serena. Ma Bennett è ancora vivo: i mandanti del cartello messicano minacciano la donna, che riparte per un’ultima decisiva missione, scopre molti particolari sul poliziotto e sulla sua numerosa famiglia, soprattutto su Juliana, la figlia più amata da Bennett, che ha intrapreso la carriera teatrale. Ed eccoci agli ultimi rocamboleschi capitoli: Alex riesce a sequestrare Juliana, dando inizio ad uno scontro frontale con Bennett, che prosegue con alterne vicende e momenti di altissima tensione. Il finale è ovviamente scontato: il bravo poliziotto del NYDP ha salvato la pelle e si prepara al tanto atteso matrimonio con la sua Catherine.
Il thriller, come scrivevo all’inizio, si differenzia dalla consueta produzione pattersoniana per alcune caratteristiche. In primis lo stile narrativo, più incalzante e stringato del solito, non ci sono momenti di tregua, tranne le consuete riflessioni dell’autore su particolari della vita familiare del protagonista, quasi sempre serena e piena di soddisfazioni. Poi, alcune annotazioni sul modus operandi del cartello messicano della droga: la concorrenza sempre più incalzante delle pericolose droghe sintetiche, l’attività sotto traccia della mafia canadese, i rapporti con la mafia colombiana, utilizzata per attività di killeraggio e di smistamento dei prodotti su vari mercati. Infine la caratterizzazione perfetta della donna killer: tanto fredda e decisa nell’attività professionale di killer, quanto materna con i figli e “normale” nei momenti di riposo nel suo ranch alla periferia di Bogotà. Sua preoccupazione è solo l’eliminazione del bersaglio per cui è pagata, non ci devono essere incidenti di percorso o vittime collaterali: un ritratto perfetto e ben costruito.
Tutto sommato, un thriller che non delude e che spicca sulla vastissima produzione dell’autore.
Ne consiglio la lettura agli appassionati del genere.
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Scoprirsi madre troppo tardi
Ammetto di non essere una fan sfegatata di Carrisi; ciononostante ho letto parecchi suoi libri perché le trame sono abbastanza intricate da affascinare anche se trovo i suoi personaggi improbabili.
Ho acquistato “L’educazione delle farfalle” ma sono rimasta delusa.
Il personaggio principale è una contraddizione assoluta. Resta incinta in modo del tutto inatteso e il primo pensiero è quello di liberarsi del bambino. Quando la bambina nasce la descrive come un fastidio, la affida continuamente a personale prezzolato (autista, baby sitter, ecc.) ed arriva a dimenticarsi della sua esistenza:
“In quell’occasione non si era semplicemente scordata di recuperarla da scuola. Anche se questa sarebbe stata la versione ufficiale.
In realtà, aveva rimosso del tutto dalla memoria l’esistenza di Aurora.”
Ma quando la figlia scompare Serena si trasforma improvvisamente in una tossica madre disperata ed in detective sprovveduta, compiendo azioni incomprensibili e cacciandosi nei guai.
Va bene, in fin dei conti sono espedienti narrativi. Ma il vero grande difetto è un altro: il libro è noioso, noioso, noioso. Per arrivare alla fine ho spesso saltato parti del testo, concentrandomi solo sull’essenziale.
E questo è un peccato mortale per un thriller.
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Nothing compares 2U
Pubblicato per la prima volta in Italia nel 2021 nella collana I Narratori e nel 2022 nell’Universale Economica di Feltrinelli, Apeirogon, il romanzo di Colum McCann, bellissimo nella sua complessità, affronta il dibattuto e problematico tema del rapporto Palestina-Israele.
Il titolo stesso, Apeirogon, che allude ad un poligono dal numero infinito di lati, ci introduce in un mondo dagli innumerevoli aspetti per lo più in contrasto tra loro. È il mondo di Bassam e Rami, l’uno palestinese, l’altro israeliano, che si trovano accomunati da un dolore immenso generato dalla perdita improvvisa e violenta delle figlie, Abir e Smadar, uccise in due attentati avvenuti in tempi e luoghi diversi. È il dolore per la più grave perdita che l’individuo possa soffrire, un dolore, unica vera espressione di democraticità in quanto può colpire chiunque senza distinzione di origine, di sesso, di ceto o di colore, che dà la forza di superare l’istante dell’odio e della ribellione, per unificare gli animi, invece di dividerli, per operare nell’interesse del resto della società perché casi simili non si ripetano. Ciò significa perseguire un ideale di pace così difficile da realizzare, soprattutto per l’ignavia e gli egoismi della politica. Risulta evidente, dalle pagine di questo romanzo, come vittime non siano solo coloro che cadono sotto i colpi delle armi, ma vittime altrettanto degne di pietà sono coloro che restano, lasciati soli nella loro sofferenza.
Emerge, in quest’opera, tutta la storia della nascita dello stato di Israele e dell’inevitabile contrasto con il popolo palestinese, senza, tuttavia, che l’autore faccia di essa un romanzo storico. È così, certamente, che la narrazione acquisisce maggiore spessore.
Un testo ricco di metafore, in cui traspare tutta la grande eredità della migliore letteratura irlandese, da Sterne, a Swift, a Joyce, con l’inserimento di innumerevoli digressioni e paragrafi bianchi. Non a caso la stessa struttura del libro è estremamente originale: diviso in due parti, ciascuna composta da capitoli, che a volte si riducono a brevi paragrafi, dalla numerazione crescente nella prima parte, decrescente nella seconda. Dal numero uno si inizia, col numero uno si conclude. Tutto ciò si spiega con quella affermazione apparentemente ermetica: “Se dividi la morte per la vita troverai un cerchio”. Il cerchio, la figura geometrica perfetta, dove l’inizio della circonferenza si conclude con la sua fine, in un congiungimento ideale di vita e morte, dove tutti gli innumerevoli lati dell’apeirogon si appiattiscono in quella linea che formerà infine la circonferenza del cerchio.
E ancora le digressioni, così care a Sterne e allo stesso Joyce, sono parte importante della narrazione, perché la vita non ha un solo tema. È questo il motivo per cui Le mille e una notte, un testo così importante sia per la cultura araba, come ormai anche per quella occidentale, torna tanto spesso nel racconto.
Non meno colpisce come il leitmotif del romanzo sia “Nothing compares 2U” scritta da Prince, ma resa immortale dalla voce e dall’interpretazione di Sinead O’Connor, anche lei irlandese, anche lei devastata dalla morte del figlio diciasettenne. Una interpretazione che è un vero urlo di dolore.
Un romanzo da leggere, sia per la sua struttura originale, ma soprattutto perché ogni parola fa riflettere su quanto sia difficile costruire la pace, quanto più coraggio ci voglia a mantenerla di quanto ce ne voglia ad imbracciare le armi
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Senso della vita cercasi
In un'editoria sempre più settoriale e specialistica è insolito imbattersi in un titolo che travalichi i limiti del target, intrecciando una storia adatta un po' a tutti perché capace di ispirare delle riflessioni negli adulti come nei ragazzi coetanei dei protagonisti. Teller però è riuscita in questa impresa, e l'ha fatto con una novella dalla prosa brillante e ricca di spunti; perché seppur "Niente" si possa leggere nell'arco di poche ore, è anche vero che veicola delle idee affatto scontate e riesce a creare un'atmosfera in trasformazione, spensierata nella prima pagina e a dir poco disturbante nell'ultima.
La narrazione si apre sul primo giorno di scuola nella cittadina danese immaginaria di Tæring, quando lo studente Pierre Anthon ha una desolante epifania: la vita non ha veramente un senso, ma è soltanto una pantomima che distrae le persone dal nulla in cui presto scivoleranno. Il ragazzo comincia pertanto a passare le sue giornate su un susino, da dove deride i suoi ex compagni che ancora perdono tempo sui libri; a questo punto gli altri studenti decidono di dimostrare il suo errore, iniziando a costruire una catasta con tutto ciò che per loro ha un significato. Non si tratta però di contributi spontanei: pian piano questo progetto diventa una scusa per costringere gli altri a cedere quanto hanno di più caro, e il tutto degenera fin troppo velocemente.
Questa rapidità eccessiva è forse uno degli aspetti che meno mi hanno convinto nella lettura. È anche vero che, se la cara Janne si fosse presa più tempo per sviluppare la storia, probabilmente il risultato sarebbe stato fin troppo bizzarro ed inverosimile: questo testo richiede già una corposa dose di sospensione dell'incredulità, soprattutto per la totale mancanza di controllo da parte delle famiglie dei protagonisti, visto che la vicenda è ambientata nei primi anni Novanta e non secoli fa.
L'altra mancanza più palese del testo è rappresentata dalla caratterizzazione dei personaggi, che risultano quasi indistinguibili gli uni dagli altri. Neppure la narratrice Agnes dimostra una vera personalità oltre al desiderio di vendetta verso la compagna che la obbliga a cedere i suoi sandali nuovi; volontà di ferire il prossimo che in questo insolito contesto la accomuna al resto del gruppo anziché renderla speciale. La sola cosa che permette di identificare i vari studenti è la ripetizione ossessiva di soprannomi e caratteristiche fisiche, perché anche nelle reazioni praticamente tutti mostrano una terribile assenza di empatia e solidarietà reciproca.
Pur celando una storia ben più spaventosa di quanto ci si potrebbe aspettare, questo volume ha molti punti a suo favore, tra i quali mi azzarderei ad includere anche il coraggio di mostrare dei personaggi così giovani prendere decisioni tanto crudeli, con la consapevolezza di danneggiarsi a vicenda in questo modo. Mi è piaciuto come l'autrice abbia saputo delineare una storia in aperto contrasto con il mito dell'innocenza infantile, riuscendo comunque ad essere credibile.
Ho trovato poi interessante leggere del modo in cui i ragazzi reagivano alle provocazioni di Pierre Anthon; dopo le sassate iniziali, pensano subito ad utilizzare degli oggetti per provargli l'esistenza del senso della vita, mentre un adulto avrebbe probabilmente tentato di ribattere sul piano concettuale. Promuovo senza dubbio anche la prosa di Teller: asciutta eppure evocativa e d'impatto, ottima per rendere sia la spietatezza dei protagonisti che la rapidità con cui la sfida sfugge loro di mano. E questa sensazione di ineluttabilità arriva chiara e forte al lettore, che non può far altro se non assistere mentre Agnes si aggrega di buon grado alla follia collettiva.
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Santa Rosalia, patrona di Palermo.
L’autrice ci conduce con questo nuovo romanzo in una Palermo seicentesca, una città già allora ricca di imponenti palazzi e di folklore, tanto da mandare in estasi un celebre visitatore, il pittore Anton Van Dyck che, appena sbarcato, ebbe a dire che “ non si poteva spiegare Palermo proprio come non si poteva spiegare Dio”. La storia inizia intorno al 1615, in un momento storico particolare: il Regno di Sicilia era dominato dagli spagnoli, la Compagnia di Gesù si stava sempre più affermando alla corte di Spagna ed in Europa, mentre la riforma protestante dilagava dalla Germania e la peste, che metterà in ginocchio Palermo dieci anni, più tardi, dava i primi allarmanti segnali. A Palermo vive una ragazza povera ma dal cuore puro, Vincenza, detta Viciuzza, figlia di una prostituta: ha un’unica amica, Rosalia, povera come lei, benvoluta da tutti, che, saltuariamente, le fa compagnia, la consola e rappresenta la Santuzza che i palermitani invocano nei momenti di pericolo. Viciuzza viene stuprata da un bruto, amico della madre, è cacciata da casa, dà alla luce una bimba, Liuzza, e viene accolta in un ex convento dove incontra un personaggio chiave del racconto, don Cascini, padre provinciale dei Gesuiti. Costui, pur avendo un carattere burbero e scostante, prende le due poverette sotto la sua protezione. Padre Cascini viaggia molto ed ha l’opportunità di conoscere Suor Maria, una giovane alla quale, nel corso di alcune estasi soprannaturali, appare la Madonna che racconta la storia, risalente a mezzo secolo prima, di una verginella, Rosalia, destinata a nozze principesche: la rinuncia e la consacrazione a Gesù indurranno la giovane a scegliere il romitaggio, isolata in un bosco. Palermo non ha una vera e propria Santa protettrice, ma quattro patrone poco amate dal popolo: ecco allora farsi strada in padre Cascini l’idea (anzi, l’ideuzza!) di promuovere passo dopo passo Rosalia ad unica patrona della città. Intanto la sepoltura della romita Rosalia è stata trovata sul Monte Pellegrino, Vincenza e Liuzza sono cresciute ed affidate alle cure di una famosa pittrice, Sofonisba Anguissola, mentre padre Cascini, nel corso dei suoi viaggi in Europa, ha modo di conoscere Rubens ed il suo migliore allievo, Anton Van Dyck, che invita a Palermo con il pretesto di un ritratto al viceré Emanuele Filiberto di Savoia, ma con l’intenzione di preparare un quadro con l’effigie di Rosalia.
Naturalmente tutta la storia è più complessa, le vicende dei singoli personaggi si intrecciano, la peste arriverà a sconvolgere la città ed i suoi abitanti, mentre padre Cascini, nonostante la salute malferma, riuscirà a portare a termine una sua opera fondamentale, la “Storia di Santa Rosalia, vergine palermitana”. Sarà organizzata, imposta da Vincenza e dalle donne di Palermo, una sontuosa processione, nonostante gli ostacoli frapposti da un titubante arcivescovo, che porterà per le strade addobbate a festa i resti riesumati della Santa: la peste calerà di intensità, Santa Rosalia sarà la nuova e unica patrona della città.
Giuseppina Torregrossa riesce mirabilmente a narrare una storia, anzi alcuni eventi storici, mettendo assieme personaggi realmente esistiti con personaggi creati per l’occasione, offrendoci un racconto articolato e credibile, dove le vicende di un particolare momento storico, che spazia da Anversa, la città degli artisti citati, a Roma e Palermo, si fondono con la fantasia creativa dell’autrice. Emerge su tutto e tutti l’amore della scrittrice per la sua Palermo, unica e inimitabile, e per la storia e le vicende delle donne del romanzo. Sono donne che lottano, che si impongono, proprio come Rosalia: “… Rosalia si è opposta al matrimonio con il principe Baldovino, ha vissuto come voleva, perciò la amiamo, perché è un esempio, una speranza. Pure per noi prima o poi le cose dovranno cambiare”.
Alla fine del romanzo, l’autrice racconta di un suo viaggio a New York, durante il quale scopre che il grande ritrattista Van Dyck, autore del dipinto di Santa Rosalia, aveva soggiornato a Palermo durante la peste ed aveva indirettamente assistito al ritrovamento dei resti della Santa, Da qui lo spunto per il romanzo, costruito su eventi storici e su intrighi frutto della fantasia della scrittrice.
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NON E' PIU' IL TEMPO DEGLI DEI
“Ho dimestichezza con l’odore della morte.”
Colm Toibin è l’autore di alcune interessanti biografie romanzate (una per tutte, forse la più notevole, “The Master” su Henry James), l’ultima delle quali, “Il Mago”, mi piace ricordare in apertura di questa recensione perché Thomas Mann (il Mago, appunto, come veniva chiamato per scherzo dai figli) ha secondo me segretamente influenzato “La casa dei nomi”. Leggendo il romanzo di Toibin, ispirato alle ben note, mitiche vicende di Agamennone e Clitennestra, di Oreste ed Elettra, non ho potuto infatti non pensare alla tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli”. A parte una chiara, anche se forse involontaria, citazione (Clitennestra viene seppellita per un giorno intero in una fossa per toglierla di torno durante il sacrificio della figlia Ifigenia, allo stesso modo in cui Giuseppe viene gettato dai fratelli in una cisterna abbandonata), analogo è il modo di prendere una storia antichissima, patrimonio indiscusso dell’immaginario collettivo, spogliarla della sua aura mitica, del suo afflato leggendario, e riscriverla con una sensibilità affatto moderna. Se già l’Orestea di Eschilo presentava di per sé indubbi elementi di modernità (basti pensare, nelle “Eumenidi”, al tribunale chiamato a giudicare l’atto contro natura di Oreste, il quale può essere considerato il primo processo della storia), Toibin vi aggiunge uno psicologismo che, mentre mette in primissimo piano le figure dei tre protagonisti principali, elimina definitivamente tutto il coté divino, così importante nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Nelle “Coefore” di Eschilo, ad esempio, Oreste torna ad Argo per uccidere la madre ed Egisto su ordine di Apollo, mentre nelle “Eumenidi” è Atena ad assolverlo, respingendo le accuse delle Erinni. Ne “La casa dei nomi” invece l’epos è riportato a motivazioni esclusivamente umane e naturali, come la brama di potere, il desiderio di vendetta o la ragion di stato. Agamennone sacrifica sì la figlia primogenita per conciliarsi il favore degli dei, ma egli (un po’ come Labano, per tornare al paragone con “Giuseppe e i suoi fratelli”) è l’uomo vecchio, superato dai tempi e giustamente destinato a essere soppresso e dimenticato. La nuova mentalità è piuttosto l’ateismo ante litteram di Clitennestra, che non crede più nell’esistenza degli dei, o per meglio dire non crede nella loro influenza sui destini umani. “Gli dèi sono distanti, alle prese con altre cose. Si preoccupano dei desideri e delle buffonate umane come io mi preoccupo delle foglie di un albero. So che le foglie sono lí, che appassiscono, ricrescono e appassiscono, come le persone nascono, vivono e poi sono sostituite da altre come loro. Non posso fare niente per aiutarle o per impedire che appassiscano. I loro desideri non sono affar mio”. L’uomo moderno, in assenza di un dio a cui rivolgersi, è desolatamente solo e vive quella che Georges Bataille chiamava la “morte del sacro”, ossia l’angosciosa, “tremante consapevolezza che non è più tempo degli dei”. Fare affidamento agli dei è diventata una pura formalità, una mera convenzione esteriore. Se essi continuano ad essere invocati e pregati è solo per un’antica, inveterata abitudine, ma in fondo più nessuno crede veramente in loro, in quanto “le nostre suppliche agli dèi sono come le suppliche che una stella rivolge al cielo sopra di noi prima di cadere, un suono che non ci è dato sentire, un suono che, se pure lo sentissimo, ci lascerebbe del tutto indifferenti”.
La maledizione degli Atridi, quel “veleno nel sangue” che sembra condizionare l’esistenza dei personaggi de “La casa dei nomi è il punto di partenza canonico della storia, cui Toibin si guarda bene dal sottrarsi, ma poi il romanzo imbocca la strada di una tragedia elisabettiana, piena di congiure, cospirazioni, rivolte e lotte per il potere. Se lo scrittore irlandese mantiene tutto sommato intatta la cornice della storia, egli si prende tuttavia enormi libertà narrative, come si può vedere nel capitolo dedicato ad Oreste, di cui racconta l’adolescenza (da sempre trascurata dagli autori classici, come se fosse un misterioso buco nero lungo ben dieci anni) alla stregua di un coming of age dickensiano (con vaghi echi, mi è parso, anche di più recenti romanzi aventi come protagonisti delle figure di orfani, come la “Trilogia della città di K.” o “Il cardellino”). Ritornando ancora una volta all’esempio di partenza di “Giuseppe e i suoi fratelli”, è come se Toibin avesse voluto trasporre sulla pagina una propria versione, più verosimile e psicologicamente plausibile, della tragedia, spiegando – come diceva Mann – “come i fatti realmente si svolsero”. Così Egisto non viene ucciso da Oreste, ma è più prosaicamente risparmiato per poter sfruttare le sue conoscenze pregresse e le sue capacità di amministratore del regno, e Oreste stesso non impazzisce per il matricidio compiuto, ma viene tristemente relegato in una condizione di emarginazione e di solitudine, sposato a una donna che aspetta un figlio non suo. Una delle novità più considerevoli del romanzo è il continuo cambio di prospettiva, con i personaggi di Clitennestra, di Oreste e di Elettra che si alternano per raccontare la storia dal proprio punto di vista. Se nel caso di Oreste Toibin utilizza la terza persona, facendo prevalere un registro più aneddotico e narrativo, per Clitennestra ed Elettra egli sceglie la prima persona. Il tono si fa in questo caso più introspettivo, con un approfondimento psicologico dei personaggi che il flusso di coscienza rende estremamente interessante. L’autore ci consegna il sorprendente e affascinante ritratto di due donne che sono diventate, con il loro fatale antagonismo, un simbolo della moderna psicanalisi (il famoso complesso di Elettra), ma che alla fine si rivelano più simili che contrapposte: lo spiritualismo di Elettra (l’assidua frequentazione con i fantasmi del padre e della sorella) fa ben presto i conti con la ragion di stato e la donna che prima viveva nell’ombra, in “un rapporto intimo con il silenzio”, diventa una disinvolta e spregiudicata reggitrice del regno. Del resto le donne sono le autentiche protagoniste del romanzo, facendo dei lutti e delle ingiustizie patite il loro punto di forza (al prezzo però della inesorabile perdita della loro umanità), mentre gli uomini, di cui pure, a causa della struttura sociale che le penalizza, hanno bisogno per portare a termine i loro piani (così Egisto per Cassandra e Oreste per Elettra), gli uomini – dicevo – sono, nonostante il potere fallocratico che è nelle loro mani, poco più che fantocci, che si illudono di essere i motori della storia, mentre sono solo delle marionette in balia del destino.
La scrittura di Toibin è fluida, scorrevole, a tratti delicata e poetica, ma dietro le parole si nasconde una realtà sanguinosa e cruenta, con orrendi sacrifici umani, stragi raccapriccianti e bambini che vengono rapiti per intimidire e sottomettere le loro famiglie. E’ un mondo barbaro e violento, quello narrato da Toibin, che ha sullo sfondo un perenne stato di guerra. La guerra de “La casa dei nomi” non è quella di Omero, di Elena, di Menelao e di Achille, la quale tutt’al più è una favola da raccontarsi la sera intorno al focolare, ma è una guerra senza nome (“-Dove sono adesso? – chiede Oreste. – In guerra. – Quale guerra? – La guerra, disse lei – La guerra”), quasi uno stato ontologico dell’umanità, che lascia dietro di sé solo dolore e fatica, odio e povertà, carestia e disperazione, tutto il contrario di quello a cui l’epica antica, con l’orgoglio guerresco e l’eroismo elevato a massima virtù, ci aveva abituati. Qui c’è soltanto una volgarità di fondo, una mediocrità di valori e una falsità di intenzioni, che tutto svilisce e tutto riduce a macabra farsa. Resta, in fondo a tutto questo, una intensa nostalgia di amore, che il mondo non consente di esprimere e che solo nell’aldilà (come nel breve, bellissimo capitolo in cui Clitennestra parla in una sorta di bardo, in uno stadio cioè liminale tra vita e dissolvenza dell’io) è forse possibile sperimentare, al prezzo però della solitudine più agghiacciante e dell’oblio più profondo. Con questa lettura originale e seducente, Toibin firma un’opera più che dignitosa, capace di distinguersi per elevatezza di linguaggio e acutezza psicologica, e si pone a pieno titolo nel novero di quegli scrittori che, come Christa Wolf, Madeline Miller e Pat Barker, hanno riscritto negli ultimi decenni con sensibilità contemporanea i miti dell’antichità.
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Una gita finita male.
I fratelli Scaccola, panettieri in Bellano, non si aspettavano certo l’improvvisa visita del segretario
del sindacato panettieri, per comunicare loro che proprio Bellano sarebbe stata il prossimo 21 aprile ( si festeggia il Natale di Roma) meta di una gita dei panettieri comaschi. Si dessero quindi da fare per comunicare l’evento in municipio, e per organizzare accoglienza e manifestazioni varie. Siamo nel 1930, in pieno ventennio fascista, e Bellano non brilla per quanto riguarda il regime, non essendoci neppure un vero e proprio segretario del partito. Sconcerto dei poveri Scaccola, introversi e dediti solo ai lavori del forno, il municipio prima tentenna, propenso a rifiutare la manifestazione, poi, per ordine del podestà locale, è obbligato a ricevere i gitanti, per dare finalmente lustro e visibilità ad un paese che vivacchia nell’anonimato.
Inizia qui la storia singolare ed esilarante dei preparativi per l’accoglienza, preparativi resi ancor più frenetici dall’annunciata partecipazione addirittura del Federale di Como, occasione unica per riportare Bellano agli onori della cronaca. Ma, ahimè, non ne va bene una: bisogna rifare la scaletta degli appuntamenti, ristampare i manifesti per una “f” minuscola di “Federale”, annullare alcune visite (all’Orrido ed alla casa natale di bellanesi famosi), piegarsi ai capricci dell’altezzosa e isterica moglie dell’illustre ospite, decisa a raggiungere Bellano tramite idrovolante ma anche dotata di quel pizzico di buonsenso pronto a frenare i deliri di onnipotenza del marito … Ma non è finita qui: il battello dei gitanti non riesce a partire per un guasto, si attendono soccorsi, tutti gli orari sono spostati, il Federale non ne può più e decide di andarsene anzitempo, non intervenendo al pranzo sociale e neppure, figuriamoci!, al ballo pomeridiano. Anche perché, ecco il colpo di scena che tramuta la festa in tragedia, perde inopinatamente un “pezzo” … Ovviamente non dirò di che pezzo si tratta, per lasciare ai lettori la curiosità di scoprirlo: basti accennare che è un pezzo importante, il cui smarrimento manda su tutte le furie il proprietario. Il pezzo in questione rischierà anche di mandare a monte un matrimonio, verrà cercato in tutti modi, ritrovato, consegnato alle autorità competenti, conservato in cassaforte e riportato alla luce in modo rocambolesco a guerra finita , nel 1946 …
Questa è in sintesi la trama della storia principale, ma la fantasia di Andrea Vitali non si ferma qui. Altri eventi impreziosiscono la narrazione: ci sono i fratelli Scaccola, quelli del forno, che si aprono finalmente alla vita e si fidanzano con una intraprendente ragazza madre il più giovane, con un’amica claudicante il più anziano, e poi le vicende dei carabinieri del posto, Beola e le sue timide vicende amorose, Mannu con un’appendicite acuta operata d’urgenza, e soprattutto il maresciallo Maccadò, che saggiamente tutto vede e controlla, controllato a sua volta dalla moglie, la nostalgica e dolce Maristella. Fanno da contorno gli abitanti del posto, con difetti, virtù e stravaganze: l’autore li conosce benissimo, e sa trarre il meglio da ognuno di loro, ben consapevole che il paese racchiude un microcosmo con abitudini ancestrali che sfidano il trascorrere del tempo. Il periodo in cui si svolgono i fatti è quello della dittatura fascista, e Vitali sa cogliere con pungenti accenti satirici il servilismo ostentato di chi obbedisce e la ridicola ostentazione del potere di chi comanda.
Lo stile narrativo ritaglia figurine godibili, con la grande consueta abilità che contraddistingue l’autore, innamorato perso della sua Bellano e delle acque placide del lago che fanno come sempre da sfondo a tutto ciò che accade sulle non sempre placide rive. Straordinari, mai forse come in questo romanzo, i nomi dei personaggi coinvolti. Da Elomeo a Chiurlo, da Anco (in ricordo di uno dei sette re di Roma?) a Omario e Armadio per i maschi, per le femmine Sicuretta, Caronna, Aeria, Anenia, Vestina: il colmo lo scrittore ha però voluto riservarlo ad alcune strette parenti dello spocchioso Federale, la mamma Climide, l’isterica moglie Assioma, la di lei madre Filetta con la zia Orina (!).
Il solito ottimo e divertente Vitali, buona lettura!
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Vita, morte e “miracoli” di una faina
Archie è una faina. È nata poco prima di quando sua madre è restata vedova. Infatti il compagno, noto ladro di galline, era stato ucciso a fucilate da un contadino, stanco per l’ennesimo furto. Così Archi e i suoi fratelli sperimentano la fame e i patimenti, giacché la madre fatica a trovare cibo per tutti loro. Quando un giorno Archie decide di contribuire al sostentamento della famiglia e, avvistato un nido di pettirossi, si avventura lungo un ramo, gli capiterà un infortunio che lo segnerà per tutta la vita. Il ramo si spezzerà e lui, caduto a terra, resterà per sempre zoppo e dolorante a una gamba. La madre, decisamente pragmatica, deciderà, allora, di “cedere” Archie all’usuraio Solomon, per una gallina e mezza.
Solomon è una vecchia volpe, saggia e astuta che, dopo una vita da bandito, s’è convertita a una vita più onesta. Ora commercia con tutti gli animali del bosco, scambiando vegetali del suo orto, uova e polli del suo allevamento (che amministra con scrupolo) in cambio di altri beni e relativi interessi. E semmai il debitore dovesse tardare nel saldare le pendenze, il grosso cane Gioele provvederebbe a recuperare il dovuto, con le buone o con le cattive.
Ma Solomon è molto più di questo: sa leggere e scrivere ed è affascinato dagli uomini (è convinto di essere un uomo reincarnato) e crede in Dio. Nella sua tana conserva gelosamente una bibbia che legge con devozione e colleziona tutti i manufatti umani su cui riesce a mettere le zampe. Archie, dopo settimane da “schiavo” entra nelle grazie di Solomon che gli insegnerà a leggere e che ne farà un suo apprendista. Ma la vita di una faina non è mai semplice e ad Archi capiteranno mille avventure, spesso niente affatto piacevoli.
Ho sempre molto apprezzato i romanzi con protagonisti gli animali, per quel fondo di incontaminata ingenuità che tendiamo ad attribuire ai nostri vicini pelosi e per quel modo che hanno di mostrarci i nostri pregi e i nostri difetti, attraverso una diversa prospettiva. Ma ci sono mille modi per rendere un animale protagonista di una storia che lo riguardi e parli pure di noi. Si può, assai semplicemente, raccontare di lui dal nostro fallace punto di vista, narrandone le vicende così come noi le percepiamo, senza sforzarci di immedesimarsi in lui. All’estremo opposto è possibile arrischiare una storia mostrando il mondo attraverso i suoi sensi e le sue impressioni; tentando di interpretare in qual modo lo stesso percepisca ciò che lo circonda (noi compresi) e si adatti ad esso. Tra i due estremi ci sono, poi, ovviamente, innumerevoli sfumature. Ma c’è pure un metodo ancor più radicale di parlare degli animali, usarli come maschere dietro cui celare noi umani, le nostre qualità e, soprattutto, le nostre mancanze. Lo si può fare nell’ingenuo e edulcorato modo della Disney, ma pure con una più attenta valutazione di sentimenti e comportamenti.
Il romanzo di Zannoni si pone in una terra di mezzo tra tutte queste tipologie di romanzi “animaleschi”: il mondo degli umani è posto sullo sfondo come una presenza immanente, ma discreta e la società degli animali si atteggia secondo regole non scritte. Gli attori di questo libro sono sì parzialmente umanizzati: parlano tra loro, di qualunque specie essi siano, e comunicano in modo articolato e complesso; usano utensili, vivono in tane che sembrano più case rurali che rifugi naturali. Hanno cucine dotate di stoviglie e focolare, camere con letti, sedie e arredi vari; praticano il commercio, l’agricoltura e l’allevamento (le uniche che, stranamente, sono restate allo stato totalmente bestiale sono le galline, macchine per uova e carne). Alcuni, come Solomon, leggono pure, si dicono religiosi e credono nell’Aldilà. Tuttavia nessuno di loro ha dismesso i primordiali istinti ferini. Uccidono per difendersi o per procacciarsi il cibo, senza alcuna remora morale, anzi con un’intima gioia e appagamento, senza neppure il tabù del cannibalismo. Si accoppiano proni alle pulsioni stagionali ignorando cosa sia l’incesto. Provano sentimenti “umani” come l’amore, l’amicizia, l’odio, la bramosia, il desiderio di vendetta; Solomon, addirittura è un intransigente bigotto (almeno quando gli fa comodo), ma rimangono animali selvaggi per i quali l’unica legge che conti davvero è quella della Natura.
Questa dicotomia, anzi questo crogiuolo di elementi contrastanti e confliggenti gli uni con gli altri, se da un lato è la ragion d’essere della storia, dall’altro non sempre sembra funzionare perfettamente, raggiungere lo scopo, per altro niente affatto chiaro. Più di una volta, il fluire del racconto sembra incepparsi, incappare in contraddizioni, assurdità, esagerazioni. Insomma il meccanismo non appare ben oliato, ma stride e fatica a procedere. Gli animali “colti” paiono ossessionati solo dalla consapevolezza di dover morire, dal fatto che la morte non sia una cosa che riguarda solo gli altri. La connotazione fiabesca della storia viene continuamente turbata dal carattere tragico delle vicende, la continua immanenza della morte violenta, cala una cappa plumbea sul racconto, senza che sia chiaro il messaggio che si vuol trasmettere. Soprattutto l’evidente intento di voler trattare troppi grandi temi (il rapporto col divino, con la verità e la conoscenza, con il potere della letteratura di tramandare le nostre esistenze dopo la morte e di elevarci a uno stadio superiore a quello puramente bestiale), senza poter, d’altronde, fornire risposte, è un carico eccessivo per una storia che poteva essere molto più agile e fruibile.
Considerando la giovanissima età dell’A. l’opera è sicuramente di notevole interesse, ma forse il tema avrebbe meritato un approccio più maturo e ragionato.
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Storia di umanità
“La mamma aveva ragione quando diceva che al mondo c’è chi è bravo a parlare, chi a raccontare, a convincere, a cantare o incantare, ma a me veniva bene la cosa più rara: ascoltare”
La scoperta dell’America è stato davvero un passo avanti per l’umanità? Se sì a che prezzo?Questa è la storia della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo dal punto di vista, modernissimo, dell’ultimo mozzo della Santa Maria. Ma, soprattutto, è un grande romanzo di mare, vero protagonista dalla prima all’ultima pagina e metafora della vita.
Non siamo di fronte a un capolavoro, questo va detto subito, però il romanzo rimane godibile e, per quanto riguarda me, l’ho letto volentieri.
Se qui l’originalità non è nella scrittura, che non affascina ma si lascia leggere, lo è a mio parere molto il punto di vista di un uomo contemporaneo (tale è immaginato Nuno, il protagonista) su un fatto del 1492 tanto rivoluzionario.
Figlio di una ex prostituta che sa leggere e scrivere, Nuno impara quest’arte insieme a lei al porto di Palos, dove la madre, che ha lasciato la professione alla nascita del figlio, scrive lettere d’amore su indicazione dei marinai di passaggio.
Costretto a lasciare Palos per la persecuzione di chi non era di religione cattolica Nuno si trova per un caso non voluto ad essere assoldato come ultimo dei mozzi sulla Santa Maria, la più grande delle tre caravelle in partenza verso mari e terre sconosciute con altissimo rischio di non tornare mai più. Proprio lui, che ha sempre amato rimanere attaccato alla terra come i granchi!
Il Capitano Colombo scopre che Nuno sa leggere e scrivere e lo assolda durante il viaggio come suo scrivano per tenere il diario di bordo.
Il romanzo, nel descrivere il viaggio, narra anche dell’umanità persa che è a bordo delle caravelle (molti sono condannati a morte che tra la morte certa e la morte probabile hanno optato per quest’ultima), nell’attesa, nella paura, nello sconforto e nel desiderio di tornare a casa, se mai ciò fosse possibile, fino all’arrivo in un’isola sconosciuta e all’incontro con gli indigeni. Popolazione buona e che li adora come divinità, pronta a regalare ai nuovi arrivati ciò che per loro è più prezioso, benché nulla di tutto questo abbia valore per Colombo e gli altri.
I naviganti continueranno a cercare ciò di cui a loro parere le Indie, dove credono di essere arrivati, dovrebbe essere ricca, l’oro. Non trovano invece nulla che a loro parere meriti ma si accorgono di quanti frutti, alimenti e cose nuove le isole dove sono arrivati siano portatrici.
La bellezza, il mare limpido, la pace di queste isole le rende comunque un paradiso che Colombo e i suoi non vedono l’ora di fare proprie, conquistare e saccheggiare, considerando gli indigeni loro proprietà, quasi oggetti.
Nuno si innamorerà perdutamente di una di loro, assisterà al male che possono fare gli uomini ad altri uomini incolpevoli, soffrirà questo processo con lo sguardo sgomento da ultimo tra gli ultimi ma che vede più lontano degli altri.
Oro puro ci accompagna poi nel travagliato e periglioso viaggio di ritorno fino ad accennare alle spedizioni che seguiranno quella di Colombo mentre Nuno invecchia e si domanda come diversamente sarebbero potute andare le cose.
Il racconto non vuole essere una precisa ricostruzione storica ma solo un romanzo che nel narrare un evento di così grande portata, in mezzo a tante luci ha avuto anche molte ombre. Non va cercata quindi la precisione dei fatti ma va letto con l’animo di chi vuol provare a leggere la scoperta del nuovo mondo con gli occhi disincantati di chi è consapevole di quanto male possa fare l’uomo nel suo progresso. Ma Oro puro è anche una grande storia di umanità perché sono proprio tutti gli uomini con i quali Nuno avrà a che fare, ad essere protagonisti della storia.
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Lenù, inattendibile come Zeno
Al suo terzo volume, ti prende sempre più questo romanzo, ora che i personaggi ti vengono incontro dalla pagina sempre meglio sbalzati e definiti, lasciandoti un’impressione di vita e di verità.
Alfonso Carracci sa guardarsi dentro con spietata lucidità e, quando rivela a Lila la propria omosessualità, lo fa senza mezze misure, utilizzando la parola più greve e pesante che il dialetto gli mette a disposizione in quell’area semantica :”Lila, so’ ricchione”. Michele Solara trova accenti a loro modo “poetici” nel descrivere “quella cosa viva” che sta dentro la mente di Lila, quell’essere che la rende brutta e sgradevole quando non è giornata, creativa e geniale nei momenti felici. E le dichiara, lui sessista, triviale, chiuso negli schemi di una mentalità retrograda e malavitosa, un amore che a suo modo è acqua cristallina, persino spogliato della brama materiale di possesso, ammirazione e contemplazione come davanti ad un’artista. Intanto Gigliola, la moglie, è sempre più consapevole che nell’esistenza del marito lei non occupa altro ruolo che quello di madre, procreatrice, organizzatrice della vita domestica. E’ lui stesso che glielo ripete continuamente, senza riguardi, inducendola a farsi, per reazione, sempre più sgraziata, volgare, insopportabile, come per una protesta illogica e rabbiosa contro un'esistenza infelice. Emerge, tra le tante figure, la madre di Elena: un miscuglio contraddittorio e rabbioso di orgoglio materno, ma anche di odio nei confronti della figlia, di soddisfazione per la sua scalata sociale e culturale e di frustrazione per non aver saputo o potuto fare altrettanto, lei che pure si ritiene provvista delle medesime qualità: ne risulta un continuo, rancoroso dibattersi contro la vita e contro gli altri, una diversità “maledetta” di cui la zoppia è quasi il segno tangibile. Silenzioso, schivo, generoso nel dare e rassegnato nel chiedere, sofferente della sua passione non ricambiata per Lila, che teme di perderlo ma non lo desidera sessualmente, testardo nel tentare un avanzamento sociale, ma sempre rispettoso dell’intelligenza superiore della sua compagna: questa è la cifra che caratterizza Enzo. Non gli è estranea la dimensione politica, che percorre l’intero romanzo e questa sezione in modo particolare. Accanto a lui c’è l’amico Pasquale, segretario rionale del partito comunista, in rotta con la linea moderata di Berlinguer, presto schieratosi su una linea dura e oltranzista che lo accosta al terrorismo e, nel privato, lo spinge ad assumere toni via via più arroganti nei confronti di chi vive la stessa fede politica da una diversa posizione sociale e con atteggiamento più moderato e “borghese” (si pensi alle ripetute offese rivolte a Pietro, il marito di Elena, durante una breve visita, o piuttosto una fuga, condotta all’insegna della più sfacciata arroganza e maleducazione).
Anche sull’asse politico si snoda il rapporto tra i due personaggi centrali del romanzo: Lenù e Lila. La prima sembra anch’essa propendere per le posizioni estreme, almeno in teoria. In questo le si oppone il cauto riformismo del marito, Pietro Airota, nemico dell’estremismo rivoluzionario o pseudotale: un personaggio preso a calci da tutti, dalla moglie, da Pasquale, da Nino, e forse compreso solo da Lila. Egli non ha altra colpa se non quella di un rigore intellettuale che avversa e svela pressappochismo ed empiti incendiari destinati a fallire. Patetico ma anche, a suo modo, eroico.
Dall’altra parte c’è Lila, restia a scendere nell’agone sindacale e politico e a mettersi in gioco, pur essendo l’unica a conoscere di persona cosa siano sfruttamento operaio, condizioni di lavoro insopportabili, violenze e maltrattamenti in fabbrica. Tirata per i capelli nel vivo del conflitto padrone-operai dall’azione incauta dei suoi compagni, la giovane confermerà il suo lucido realismo, la capacità di analisi, la duttilità nel cogliere le situazioni, saperle descrivere, e in un batter d’occhi, sulla base della sua esperienza vissuta, riuscirà ad elaborare un documento sulla violenza e sullo sfruttamento operaio di gran lunga più vero e aderente alla realtà degli astratti proclami dei suoi compagni, “marxisti immaginari”.
Ovviamente questa folla di personaggi che popola il racconto, si realizza e si compie quando l’uno entra in rapporto con l’altro. E’ per questo che i ritratti di gruppo sono tra le invenzioni più belle della Ferrante. Domina, tra tutte, il pranzo a casa di Marcello Solara e della sua compagna Elisa, sorella della protagonista, in cui ciascuno si inserisce perfettamente in un grande coro dove ognuno canta con la sua voce solista, ma si fa porgere al momento opportuno la battuta dall’altro e a sua volta, alla stessa maniera, gliela porge . Qui davvero l’autrice si è superata ed il romanzo delle parole diventa un’armonia di voci che non ti annoieresti mai di sentire, tanto sono vere e tanto bene si definiscono nel loro reciproco accostarsi e contrastarsi. Ne risulta una rappresentazione sociale forte e potente come raramente si vede nella nostra letteratura e che trova riscontro solo nei grandi (non si può fare a meno di pensare all'episodio del ballo nel Gattopardo).
Raccontato in prima persona, probabilmente sulla base di fatti realmente accaduti, ma debitamente rielaborati, il romanzo, proprio per la ricchezza dei suoi personaggi e per la coralità dei rapporti e della rappresentazione, sfugge al triste destino di questo genere in Italia: sfociare in un racconto autobiografico rachitico e solipsistico, tutto incentrato sui drammi dell’io, lontano dalla ricchezza, dalla varietà, dalla complessità del mondo reale e dai conflitti della storia. Non a caso è piaciuto tanto fuori d'Italia.
A proposito della interrelazione dei personaggi, non si può non sottolineare quella che lega tra loro Lenù e Lila. Le due protagoniste ti sorprendono continuamente, ti spiazzano, per l’amore si direbbe quasi ancestrale che si dimostrano, il patto di sangue che ha retto le loro esistenze fin dall’episodio iniziale delle bambole perdute, il continuo essere l’una riferimento per l’altra, ma anche l’improvvisa cattiveria, il rinfacciarsi verità amare, il reciproco, amaro deludersi, perfino il colpirsi nella sfera dei rapporti sentimentali, fino all’estremo limite del tradimento. Si pensi al legame tra l’amica geniale a Nino Sarratore, “tolto” da Lila a Elena, che ne ha fatto il mito della propria esistenza, ma niente affatto privo di difetti che ella sa solo a tratti cogliere, scoprendolo seduttore nato, non diverso per certi aspetti dalla squallida figura paterna, opportunista, alla ricerca di consensi in quegli ambienti intellettuali e politici in grado di riconoscerne le doti e apprezzarne le capacità: uomo dalla vita affettiva e sentimentale discontinua e inaffidabile, ma forse proprio per questo corteggiato, cercato, voluto. Non sarebbe stato fuori luogo in un romanzo di Balzac o Stendhal, tra gli uomini mossi nella loro esistenza unicamente da un indomabile desiderio di scalata sociale.
E chiudiamo con Lenù, colei che narra, ricuce, collega, mette insieme i pezzi della storia, pone a confronto luoghi, spazi, ambienti, diversità antropologiche, in un continuo andirivieni tra Pisa, Firenze, Napoli. Ma quando analizza se stessa, la protagonista balbetta, entra in contraddizione, fino ad entrare anch’essa nella schiera dei narratori inattendibili, inaugurata da Zeno nel capolavoro di Svevo. Tocca al lettore cogliere il filo conduttore di questa esistenza fragile, incerta, piena di contraddizioni, di insicurezze, di senso d’inferiorità rispetto ai suoi interlocutori privilegiati, Nino e, soprattutto, Lila: il bisogno di un’affermazione intellettuale e culturale che la riscatti dalle sue origini popolari nella Napoli del rione Gianturco. Una bipolarità mai del tutto superata, perché questa storia che l’autrice ci ha regalato, parafrasando il titolo, è la storia di chi fugge, ma è anche e soprattutto la storia di chi, pur essendo fuggito, in realtà, in un modo o nell’altro, è restato.
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Il pagliaccio furente
Il commissario Ricciardi è un altro personaggio d’eccellenza di questo autore, che con questo libro inaugura una serie di noir italiani sicuramente di notevole pregio letterario. La vicenda si svolge a Napoli ed in particolare al Teatro San Carlo, nel mondo della lirica, ma anche nel mondo della Napoli ferita, dove le persone si barcamenano fra mille difficoltà economiche. La fame e l’amore sono i due principali moventi di questo delitto ed in questa vicenda in un qualche modo si fondono, perché ogni delitto è comunque la faccia oscura di un sentimento. Il commissario è un personaggio particolare, un’anima tormentata, un uomo apparentemente freddo ed inespressivo, che ha il dono e nello stesso tempo la dannazione di vedere i morti di morte violenta nei loro ultimi istanti di vita, li sente, percepisce i loro sentimenti ed il loro non detto e questo si rivela essere per lui un tormento in vita, perché la percezione quotidiana del dolore è per lui una vera dannazione. Eccellenti sono le sue doti investigative, perché crea uno schema, una geografia delle emozioni che incontra, non le rielabora, per non falsarle, le riascolta, le concatena. Con questo libro si apre una serie, di cui non voglio mancare alcuna puntata.
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PARANOIA
Rinchiuso in un ospedale psichiatrico, Lucas Chardon chiede per la prima volta di raccontare gli eventi del giorno in cui la sua vita cambiò per sempre. Quel giorno, la polizia ha scoperto otto corpi assassinati nel rifugio. Lui era lì, in lacrime, coperto di sangue e senza memoria.
Altrove, Ilan Diducette riceve una chiamata: è dalla sua ex ragazza Chloe. Dice di aver trovato l'ingresso di Paranoia un ambitissimo gioco di ruolo gestito da un’entità misteriosa: tutti lo stanno inseguendo, ma nessuno conosce le regole. Ilan è stato un giocatore compulsivo, in passato e la tentazione è troppo forte. Così dopo un inquietante processo di selezione, Ilan e Chloe, insieme ad altri sei candidati, vengono convocati in un ospedale psichiatrico in disuso isolato tra le montagne.
Regola numero uno: nulla di ciò che stai per sperimentare è reale; è un gioco.
Regola numero due: uno di voi morirà.
Il gioco ha inizio e quando il gruppo inizia a sospettare la presenza di un intruso, la paranoia prende lentamente corpo. Con il passare delle ore, la competizione assume forme sempre più perverse, in una sorta di folle e angosciante meccanismo.
Dove finisce il gioco e dove comincia la realtà?
Chi accetterebbe di morire per un gioco?
Chi riuscirà a vincere i trecento mila euro messi in palio?
Questo è il primo libro di Franck Thilliez che leggo e devo ammettere che è stata una scoperta interessante. Le mie aspettative per questo libro erano alte, visto l'interesse per la trama, e devo ammettere che ne sono rimasto piuttosto soddisfatto.
La sua scrittura è molto precisa, ricca di dettagli, sa coinvolgere il lettore, la storia è coinvolgente ed emozionante, si legge bene, fatta eccezione per alcuni brevi passaggi, che risultano un po' lenti secondo me.
La descrizione dei personaggi è brillante. Questi ultimi, infatti, hanno una loro precisa personalità e vengono presentati con molti dettagli tanto da farci immaginare il loro andamento nei vari scenari. A volte il contenuto è oscuro e descritto nel modo migliore per adattarsi alla progressione della storia, senza mancare di colpi di scena, il che esalta ulteriormente il gusto della storia raccontata e le permette di procedere con un ritmo più spedito.
Un altro "ingrediente" che rende tutto in "Puzzle" ancora più affascinante è l'elemento psicologico, anche se è la parte in cui la storia si trascina e perde il mordente utile che rende il tutto più avvincente.
Una particolarità di questo libro è che ogni capitolo inizia con un pezzo del puzzle. Questo è un ottimo modo per restare fedeli al tema del titolo e arricchire la storia complessiva, anche visivamente, come avvolgendola in un grande puzzle.
Buona lettura.
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Un capolavoro d'altri tempi
Definitelo uno scrittore di montagna e vedrete il Cognetti incazzarsi come una iena. E ne ha ben donde. Dice il nostro:
Ragazzi, ma voi i miei libri li leggete come Dio comanda o, come sospetto, li sfogliate alla cazzo? Buona senz’altro la seconda, ma non preoccupatevi, vi do io adesso qualche dritta che vi chiarirà le idee.
Punto primo. Dei miei libri si deve dire ciò che diceva il mio amico Rabelais dei suoi, e cioè che bisogna rompere l’osso e succhiarne il sostanzioso midollo. Fuor di metafora, amici cari, voi non dovete rimanere alla superficie delle mie storie, non dovete limitarvi ad estasiarvi di fronte all’indubbio talento con cui vi propino le mie ambientazioni, si tratti delle faticose scarpinate alle quali mio padre mi costringeva alle falde del Monte Rosa ovvero dei panorami mozzafiato della mia Val d’Ayas, non basta che andiate in solluchero dinnanzi alla mirabile sapienza con cui vi dipingo lo squallore del fondovalle della Valsesia oppure che lanciate gridolini di soddisfazione davanti alla perfetta resa cinematografica di alcune parti del racconto (alludo alla vicenda del cane selvatico che fa strage di suoi simili per poi finire trucidato anche lui).
Conoscete senz’altro tutti il significato del termine filigrana. Ebbene, voi dovete mettere a fuoco la filigrana che si intravvede dietro alle mie pagine. Così facendo, vi accorgerete che quello che mi sta davvero a cuore e che mi preme raccontare non sono gli scenari alpestri tipo salta il camoscio tuona la valanga. Non sono né il Cervino formato grappa del Mike nazionale, né le alte quote da cui sgorga l’acqua levissima altissima e purissima di messneriana memoria. Altri sono i territori che a me interessa esplorare, altre le vette che mi attraggono, altri gli abissi che mi terrorizzano. A me interessa addentrarmi nei legami, spesso sotterranei e pertanto di difficile accesso, che mi legano o che mi hanno legato ai membri della mia famiglia, in particolare a mio padre buonanima, il padre costituisce la vera e propria chiave di volta per capire la mia esistenza e, di conseguenza, la mia narrazione e il mio mestiere di scrittore. E’ mio padre, meglio, sono l’analisi dei miei rapporti con lui e delle difficoltà che, come accade spesso ai figli, ho incontrato per rendermi autonomo da lui, che conferiscono coerente unità ai miei romanzi. (Tra parentesi io sono un inguaribile fan di Aristotele e della sua regola aurea dell’unità di azione). A questo proposito consiglio ai miei venticinque lettori di far precedere la lettura di Giù nella valle da quella di Le otto montagne.
Ma veniamo a bomba ed entriamo nel merito.
Ma davvero credete, amici cari, che il titolo “Le otto montagne” mi sia imputabile? Davvero pensate che un tale obbrobrio letterale semantico sia farina del mio sacco e non provenga piuttosto dal mulino di quel balengo del mio Editore? Buona evidentemente la seconda.
Ora converrete con me che il titolo di un romanzo deve avere un minimo di sex appeal letterario, deve catturare l’attenzione del lettore, deve far leva sul suo desiderio di sollevarsi dalla spesso faticosa realtà quotidiana per planare verso le sconfinate praterie della felicità. E’ una questione di marketing. Il titolo deve essere indizio della bontà del prodotto, il lettore consumatore deve convincersi ad acquistare quel tomo perché qualcosa nel titolo lo persuade della validità della scelta.
Di là dal fiume e tra gli alberi, Per chi suona la campana, Addio alle armi, Pian della Tortilla, Uomini e topi, I pascoli del cielo, La capanna dello zio Tom, Racconti straordinari, Viaggio al centro della terra, Fiorirà l’aspidistra, Vedrò Singapore?, La stanza del vescovo, Il sergente nella neve, La fattoria degli animali, Il conte di Montecristo, Gita a Tindari, Il mulino del Po, La ragazza di BUBE, Papillon, Cronache marziane, La regina d’Africa, Nome d’arte Doris Brilli, Sofia si veste sempre di nero, Sentieri sotto la neve, La felicità del lupo, Il campo del vasaro, L’ultimo dei Mohicani sono esempi di titoli accattivanti, la cui forza attrattiva mi pare risieda in una certa solida concretezza semantica, che suggerisce una pari solidità e concretezza del volume.
Intendiamoci, non vi è nulla di matematicamente certo in quello che dico, qui siamo in un campo, quello della suggestione commercial pubblicitaria, che non appartiene all’universo delle scienze esatte ma piuttosto confina con quello dei messaggi subliminali.
Detto questo non vi è ombra di dubbio che un titolo quale “Le otto montagne” possieda il fascino evocatore di un bilancio societario o di un inventario notarile. Mi vengono in mente rassegne numeriche dall’indiscutibile charme ragionieristico quali I dieci comandamenti, Le sette virtù cardinali, I sette vizi capitali, Le dieci piaghe d’Egitto e via elencando.
Ad essere sotto accusa è l’uso dell’articolo determinativo seguito dall’aggettivo numerale cardinale che dovrebbero qualificare un sostantivo, montagne, estremamente generico e anonimo, e che lasciano il lettore imbarazzato e disorientato. Si chiede il lettore: di quali montagne stiamo parlando? Il termine spazia dagli Appennini alle Ande, dalle Alpi agli Urali, dalle Cevennes alla catena himalayana, dai Pirenei agli ALLEGANI. E perché le montagne sono otto e non dieci o cinquanta?
Ben altra potenza evocativa riveste il titolo “La montagna incantata”. La curiosità del lettore è stimolata dall’aggettivo qualificativo, che fa riemergere dai meandri della memoria echi di fiabe che lo riportano indietro nel tempo: l’aspettativa è che il libro compia il miracolo, annullando il trascorrere del tempo, di consegnarlo ad una eterna fanciullezza.
Io non ho letto il romanzo di Mann e può darsi che, leggendolo, le mie aspettative sarebbero disattese. Certo è che il clamoroso successo della mia penultima fatica non è dipeso dal suo titolo bensì dalla intrinseca bontà del prodotto oltre che, se mi permettete, dal forte richiamo pubblicitario rappresentato dalla mia persona e dagli indubbi exploit dei miei precedenti romanzi.
“La settima montagna” come titolo sarebbe stato più seduttivo, anche perché avrebbe riecheggiato il capolavoro BERGMANIANO Il settimo sigillo e il romanzo di evasione Il settimo papiro.
Insomma, amici cari, qui non stiamo a disquisire del sesso degli angeli. E’ vero che esistono sempiterni capolavori della letteratura con un titolo che fa letteralmente cagare. Ma nessun editor con un minimo di sensibilità commerciale si sognerebbe oggigiorno di pubblicare La divina commedia o La Gerusalemme liberata con siffatti titoli.
Ma passiamo adesso alla mia ultima fatica, costituita appunto dal romanzo Giù nella valle.
Non sfuggirà certo ai miei venticinque milioni di lettori il palese richiamo contenuto nel titolo ad una celeberrima canzone degli alpini risalente alla prima guerra mondiale, ma che fa ancora prepotentemente parte dell’immaginario collettivo canoro degli alpini . Eccone alcune strofe:
Giù nella valle
c'è un'osteria
l'è l'allegria
l'è l'allegria
giù nella valle
c'è un'osteria
l'è l'allegria
di noi Alpin.
E se son pallida
nei miei colori
non voglio dottori
non voglio dottori
e se son pallida
come una strassa
vinassa vinassa
e fiaschi de vin.
Giù nella valle
c'è un punto nero
l'è il cimitero
l'è il cimitero
giù nella valle
c'è un punto nero
l'è il cimitero
di noi Alpin.
E se son pallida
nei miei colori
non voglio dottori
non voglio dottori
e se son pallida
come una strassa
vinassa vinassa
e fiaschi de vin.
A dirla tutta, in realtà la canzone recita Là nella valle e non Giù nella valle, ma per piacere fatemi la cortesia di non sottilizzare troppo. Su, giù, qui, là, lì sempre di avverbi di luogo si tratta e poi guardiamo alla sostanza del discorso. Siamo in presenza di una geniale strategia di marketing. I lettori consumatori che hanno avuto, ed hanno, la fortuna di fare il servizio militare nel corpo degli Alpini si contano ancora a milioni. Per ognuno di essi il termine Giù nella valle è un riflesso condizionato di tipo pavloviano che li catapulta immediatamente in un passato fatto di amicizie virili, marce, di muli, di omeriche bevute e di altrettante omeriche cantate. Lo stimolo a fiondarsi in libreria per accaparrarsi il prezioso cimelio della memoria sarà irrefrenabile, facendo schizzare alle stelle le quotazioni delle mie royalties. Va da se che rivendico questo titolo come esclusiva farina del mio sacco, a differenza di quello su cui vi ho intrattenuto sopra che, ripeto, disconosco in toto.
Vi è poi un aspetto che giudico di grande interesse e sul quale voglio attirare la vostra attenzione.
Sia nella canzone che nel mio romanzo si respira un’atmosfera profondamente dionisiaca, ma di segno opposto.
La canzone parla di un’osteria che fa rima con allegria, parla del vino che è non solo fonte di allegria ma anche un toccasana, un rimedio per curare i mali del corpo e dello spirito. La potenza salvifica del vino ha la meglio sul pallore fisico ma anche sul pallore dell’animo, entrambi destinati a riacquistare colore e vivacità.
In parte diverso è il ruolo delle osterie, del vino e, in genere, dell’alcool, nel mio romanzo. Le osterie, trattorie, ristoranti, locande e bettole sono sì luogo di ritrovo e di socializzazione, dove peraltro il rito della bevuta trascende sovente in atti di cieca e insensata violenza. L’assunzione di alcool in quantità industriali e condotta con metodo meticoloso è la nota caratteristica e identitaria dei due fratelli protagonisti della storia.
Alfredo, il più debole dei due, quello al quale ho assegnato il ruolo un po' bohemien di bello e dannato, si stordirà a tal punto da compiere un tentativo di omicidio assolutamente gratuito, tra l’altro nei confronti di un suo amico, la cui unica spiegazione risiede nello stato di totale ottundimento causato da un mix micidiale di gin e prosecco.
Ma anche Luigi, il fratello buono, al quale ho assegnato un posto di guardia forestale tutore della legalità soprattutto ambientale, è un convinto seguace del dio Dioniso.
Va peraltro aggiunto che con l’aiuto di Dioniso i due riusciranno comunque a superare le difficoltà caratteriali di instaurare un rapporto positivo tra di loro e saranno in grado di manifestarsi reciprocamente un simulacro di stima e di affetto.
Poi mi preme evidenziare che nella canzone degli alpini è presente un altro elemento che ritroviamo altresì nel mio romanzo.
Parlo della morte. Nella canzone la morte è rappresentata dal cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati caduti in guerra.
Nel romanzo la morte fa la sua apparizione in molteplici occasioni.
Fin dall’esordio muoiono otto cani (e dagli con la cabala dell’otto!) assassinati da un loro collega, forse un incrocio con un lupo, assatanato e desideroso di sfogare sui suoi simili la rabbia accumulata in corpo, rabbia che trova probabilmente origine nelle sevizie e maltrattamenti cui è stato sottoposto.
Di ognuno descrivo il decesso con dovizia di particolari, sembra quasi che io provi un qualche morboso piacere nel rendicontare queste morti.
Descrivo poi la morte del killer ad opera di un branco di cacciatori e anche qui non mi risparmio i particolari.
Ma la morte che nell’economia del romanzo riveste una rilevanza particolare è la morte del padre dei due fratelli, Grato, che si suicida sparandosi il fucile da cacciatore in gola.
Anche in Le otto montagne vi è un padre protagonista. E’ un padre invadente, egoista, preoccupato unicamente di gareggiare con se stesso e con gli altri per il gusto di arrivare primo in cima alle vette. E’ un padre che il protagonista di quel romanzo mal sopporta, ma che un malinteso senso di devozione figliale costringe a rispettare e ad assecondare.
In Giù nella valle, questo padre finalmente si toglie di mezzo, libera i figli della sua ingombrante presenza e i figli possono finalmente respirare. In particolare Luigi riuscirà a dare una positiva svolta alla sua esistenza, supportato dalla gradevole e benefica presenza della moglie Elisabetta, che lo renderà padre di un bel maschietto, e colla quale ricomincerà una nuova e forse appagante esistenza nella casa di montagna ereditata dal padre, che provvederà a ristrutturare.
Diversa la sorte di Alfredo, condannato ad una esistenza di perpetuo fuggiasco latitante.
Per concludere, dirò, "pappagallando" Flaubert, che sia Le otto montagne che Giù nella valle c’est moi.
Quando poco sopra consigliavo di leggere i due romanzi uno di seguito all’altro volevo dire questo: nel primo il protagonista si muove un po' alla cieca, a tentoni. Pietro cerca disperatamente di annullare le barriere che lo dividono dal padre, ma senza successo. E’ così che cerca un surrogato di padre, o di fratello maggiore, nella figura di Bruno, col quale stringerà una amicizia solida e inossidabile, fino alla morte dell’amico. Si tratta peraltro di un rapporto senz’altro autentico ma che, nella sua essenza simbiotica, evidenzia un rapporto di dipendenza psicologica di Pietro da Bruno.
Per contro, in Giù nella valle Luigi diventa adulto, finisce per non avere più bisogno né di padri, né di fratelli, né di amici. La stella polare che da allora in avanti lo guiderà sarà una donna, Betta, e la prospettiva di diventare a breve padre.
Leggo pertanto in entrambi i romanzi una filigrana di tipo psicoanalitico.
Le montagne, come potete vedere, rivestono pertanto un ruolo decisamente da comparsa e non da protagonista.
Il primo che si azzarderà a darmi dello scrittore di montagna, giuro che lo prendo a calci in culo.
Ma voglio concludere questo ameno florilegio di sproloqui con una confessione.
In realtà io sono perfettamente consapevole che la montagna non ha mai avuto finora una grande fortuna nella storia della letteratura, non ha mai praticamente funzionato come set di particolare successo.
Gli autori la cui Musa alberga sulle innevate vette sono rarissimi e ho qualche difficoltà ad individuarne qualcuno di qualche spessore.
C’è il vecchio buon Rigoni con le sue cronache di alpino in guerra sulle montagne della Valle d’Aosta e dell’Albania, c’è qualche passo del buon vecchio Ernst che va a sciare in Svizzera, c’è il caro buon vecchio Buzzati e la sua fortezza Bastiani arroccata in montagna ma in verità qui a rubare la scena non è tanto la montagna in quanto tale, quanto il deserto che la circonda. Vi sono i raccontini del buon Giacosa ambientati in Valle d’Aosta, ma sono talmente sbiaditi e privi di charme che è meglio non parlarne.
Le colline, Pavese insegna, devo dire che hanno riscosso maggiore successo e sono decisamente più gettonate.
E se passiamo dalla prosa alla poesia le cose non vanno poi meglio, anzi. A parte il camoscio che salta e la valanga che tuona non vedo altri grandi exploit.
Rimanendo in tema di valanghe, la montagna ha avuto invece maggior successo nella cinematografia, soprattutto in quella catastrofista, con la pletora di valanghe assassine. Per non parlare del vecchio Herzog, beninteso su di un piano decisamente più alto.
Per contro, volete mettere invece la popolarità di cui mari e oceani hanno goduto e continuano a godere in letteratura ?.
A cominciare dal buon vecchio Omero e dalla sua Odissea ambientata nel Mediterraneo.
E che ne dite di:
Il vecchio e il mare, L’isola misteriosa, L’isola del tesoro, I mari del sud del vecchio Jack, buona parte dei romanzi del buon vecchio Salgari e del buon vecchio Cecil Scott Forester col suo capitano di lungo corso Hornblower, per non parlare di Moby Dick , di Conrad, di Melville, di Ventimila leghe sotto i mari e via veleggiando ?
Il mare è evidentemente più fotogenico rispetto alla montagna, attira di più il pubblico.
Il vecchio caro buon Sigmund spiegherebbe che forse il mare, e soprattutto la mer, rimandano alla madre (mère), all’inconscia nostalgia del grembo materno e via cazzeggiando.
Tanto premesso, non stupitevi se il mio prossimo romanzo deciderò di ambientarlo sull’isola d’Elba.
P.S.
Voi tutti accaniti frequentatori di blog social fessbuc e amenità simili sapete che uno dei miei Virgili, lo mio principale duca e lo mio autore, il padre letterario di cui mi compiaccio di essere figlio, erede e fedele esecutore testamentario è il buon vecchio Jack LONDON. Sapete anche che al secondo posto figura il caro Ernst. Sapete anche, e se non lo sapete, vi aggiorno io, che entrambi hanno lasciato questa valle di lacrime suicidandosi.
Hemingway sparandosi col fucile da caccia, LONDON come ultimo atto di una vita passata a nuotare nell'alcool. In somma, un po' la fine che ha fatto il padre di Luigi e che probabilmente è destinato a fare suo fratello Alfredo.
Buona sera a tutti.
Claudio GARD
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