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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    04 Febbraio, 2024
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Ricatti, miracoli e... pesci piccoli.

Ritornano i personaggi cari a Robecchi, da Carlo Monterosso ideatore di CrazyLove, spettacolo televisivo di punta (per lui la "Grande Fabbrica della Merda"), presentato da "sua maestà incoronata" Flora De Pisis e prodotto da Bianca Ballesi, l'amica di Carlo, alla coppia di agenti di polizia Ghezzi e Carella ed agli investigatori dell'agenzia "Sistemi Integrati" Falcone e Cirrielli, della quale è socio anche Monterosso. Il giallo ci racconta due storie molto diverse. Nella prima, Monterosso ed i suoi due soci sono chiamati ad occuparsi di uno strano furto: negli uffici milanesi della IGO (Italiana Grandi Opere) hanno rubato un pacco contenente una chiavetta USB e documenti riguardanti un grosso affare, la costruzione di una diga in Ghana. Un affare miliardario, in collaborazione con i cinesi, una brutta storia, poiché si scopriranno foto compromettenti di alcuni funzionari (droga e minorenni), una storia di ricattati e ricattatori, che coinvolgerà dirigenti della IGO, un sospetto ufficio di sorveglianza ed una intraprendente donna delle pulizie separata dal marito tipografo, Teresa, che pian piano, diventerà una delle figure principali del racconto. Nella seconda storia, parallela alla prima, l'ambientazione cambia completamente: in un paesino della campagna pavese, un prete spretato e la sua compagna, una ex pornostar, esibiscono un crocefisso che ogni tanto risplende, un'occasione unica per predicare miracoli, raccogliere fedeli e donazioni. E' anche un'occasione d'oro per Flora che trasporta nel suo spettacolo televisivo pazienti miracolosamente guariti e medici compiacenti. La stessa presentatrice in ginocchio invoca estatica il Signore, ma i carabinieri indagano, si scopre il trucco, l'ex prete scompare con il malloppo. Altra occasione imperdibile per la De Pisis e altra serata memorabile in TV: da estatica e adorante, la conduttrice si trasforma in fustigatrice di falsi profeti e di creduloni raggirati.
E i pesci piccoli? Li lasciamo ai due disincantati poliziotti, Ghezzi e Carella. Il capo, Gregori, li ha incaricati di occuparsi di vecchie denunce, roba da poco, da pesci piccoli appunto: uno svuotacantine che approfitta dell'incarico per appropriarsi della merce, un incidente d'auto provocato da pastiglie dei freni fasulle, una badante che tiranneggia la vecchietta affidatale, un tipografo che gioca sporco stampando falsi moduli amministrativi e che, per di più, non passa gli alimenti a Teresa, l'ex moglie... Insomma, un campionario di poveri cristi contro cui si accanisce la giustizia, trascurando magari pesci molto più grossi, delinquenti veri che se la ridono e se la spassano impuniti.
Questa è la Milano vera, il suo tessuto sociale, inquinato da malfattori da quattro soldi e da tutto un mondo che corre veloce, all'insegna dell'apparenza e della superficialità, un mondo senza un nesso logico e senza pause di riflessione. Emerge da questo caos Teresa, la donna delle pulizie di umili origini, una quarantenne semplice che accetta il suo lavoro a ore negli uffici senza mugugni, pur sognando un avvenire migliore: avrà modo di incontrare Monterosso, scoccherà una scintilla, imprevedibile, che cambierà la vita dei due. Un ricco autore televisivo ed una povera popolana: due rappresentanti di ceti sociali lontanissimi che si scontrano e s'innamorano. Questa è la vera novità che mette in scena Robecchi: Teresa è una ventata d'aria nuova, limpida che scompiglierà la vita di Carlo, all'insegna dell' amor vincit omnia, senza preclusioni o pregiudizi. E, sembra aggiungere lo scrittore, sarebbe ora che la finissimo ipocritamente di meravigliarci.
Lo stile di Robecchi è come sempre arguto, ironico, coinvolgente. Sembra un colloquio con un vecchio amico, che scava con mano leggera e sapiente nella personalità di personaggi veri e credibili: sullo sfondo una città con tanti problemi irrisolti e due mondi contrapposti e ben delineati nella trama del racconto, i quartieri privilegiati della ricca borghesia e tutto un sottobosco di poveracci che tirano a campare, tra illusioni e fallimenti.
Un ottimo giallo con un forte impatto sociale, che ancora una volta non fa che confermare la famosa affermazione del Manzoni nei Promessi Sposi, riportata anche da Robecci nell'esergo del romanzo :"I poveri, ci vuol poco a farli comparire birboni".







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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    03 Febbraio, 2024
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Un grosso pericolo incombe.

Ritorna Kay Scarpetta, l'anatomopatologa forense della Virginia di origini italiane, personaggio che Patricia Cornwell ci ha fatto conoscere attraverso i suoi romanzi. Questa volta è alle prese con una brutale azione criminosa: due campeggiatori sono rinvenuti barbaramente uccisi in una zona desolata, ai limiti di una fitta boscaglia, ricca di vecchie miniere abbandonate da anni. Non mancano grossi animali selvatici e rifiuti tossici di ogni genere. Arrivano Kay ed il fido Marino, polizia, investigatori: vengono recuperati i due cadaveri maciullati, impalati grottescamente con bastoni da trekking, uno nel mezzo di un laghetto, l'altro sul fondo di una miniera. I due risultano implicati in riciclaggio di denaro sporco e attività terroristica, eliminati nel timore di un imminente arresto: si saprà poi che facevano il doppio gioco, con i servizi segreti russi e cinesi, e che dipendevano da una pericolosa organizzazione chiamata "The Republic", il cui scopo sembra essere quello di abbattere e sovvertire l'ordine costituito, assalendo Campidoglio, Senato e Congresso, sovvenzionata dal Cremlino e dai servizi segreti cinesi. Il pericolo è grosso, Kay, Marino e soci sono all'erta, anche perché riappare come un incombente fantasma un vecchio nemico di Kay, quella Carrie Grethen data per morta in precedenti gialli ma, sembra, ancora vivente al servizio del nemico e pronta a vendicarsi. Altri delitti si aggiungono: un dentista che aveva in cura i due assassinati, altri due anziani in una fattoria destinata a ricovero per animali, serpenti compresi, per non citare la stessa Kay che, tornando a casa a bordo della sua auto in una notte tempestosa, viene assalita da uno sciame di minidroni che la fanno uscire di strada in un pauroso incidente. Insomma, c'è un clima di terrore che incombe e che costringe Kay e colleghi a stare sempre all'erta. Terrore che si materializza nel finale, un colpo di scena nel quale Kay rischia la vita.
Il giallo non è di facile lettura. La Cornwell abbonda in termini scientifici ed in incomprensibili acronimi, numerosi i riferimenti tecnologici ed informatici in particolare: siamo già nel futuro, quando fa agire personaggi mostruosi, rivestiti da esoscheletri e diavolerie simili. Grande spazio naturalmente è concesso alla nipote Lucy dei servizi segreti, al fedelissimo Marino, compagno della bizzarra sorella di Kay, Dorothy, al marito di Kay, Benton, studioso di scienze comportamentali.
Nonostante la molta carne al fuoco, a tratti il giallo si trascina stancamente, soprattutto nella parte centrale: capitoli e capitoli che descrivono le attività lavorative di istituto di Kay, i pettegolezzi, le rivalità, le cose che funzionano e quelle che andrebbero modificate, i particolari su casi precedenti, conclusi o ancora pendenti, certe attrezzature fatiscenti che ancora caratterizzano, anche nei nostri ospedali, i cosiddetti "servizi". Fa eccezione la descrizione lunga e particolareggiata delle autopsie dei due assassinati: per lo scrivente, particolarmente curioso e interessato per aver fatto per quarant'anni lo stesso lavoro di Kay, è doveroso constatare che i procedimenti relativi all'esame dei cadaveri, alla loro dissezione, all'esame dei singoli visceri ed alle modalità di conservazione dei pezzi anatomici si attengono rigidamente a protocolli ben consolidati, senza deviazioni di fantasia, segno che la Cornwell si è ben documentata.
E' un romanzo giallo che guarda al futuro ed a quello che potrebbe accadere con l'ausilio di tecniche informatiche e di nuove armi di distruzione: i pericoli potrebbero essere sempre incombenti, nessuno si sentirebbe più al sicuro.
Lo stile narrativo della Cornwell è il consueto, asciutto, serrato, senza cedimenti: dà spazio ai sentimenti quando cita il suo amatissimo gatto, o quando salva un povero grillo trovato per caso sulla barella dell'obitorio. Gli costruisce una casetta con una scatola, gli offre acqua e briciole di cibo, perché, dice Kay riferendosi al grillo salvato "quando abbiamo l'occasione di prenderci cura di qualcuno o qualcosa, è l'universo che ci mette alla prova per vedere se facciamo la cosa giusta".
Anatomopatologa sì, ma dal cuore d'oro.




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Mian88 Opinione inserita da Mian88    02 Febbraio, 2024
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Legami lunghi una vita e oltre

«[…] Lei pensa che io le stia remando contro, lo vedo dalla sua espressione, ma non è così. È solo che prima di metterci al lavoro dobbiamo fare chiarezza. Sì, se non fosse tornata in acqua sarebbe, ancora viva, ma non saremmo stati insieme più di trent’anni se per esempio avessi provato a impedirle di entrare in acqua quando voleva.»

Sono i romanzi come “Baumgartner” a ricordarci come sia nella normalità la bellezza della vita. Tra queste pagine si respira emozione, si è davanti a un romanzo profondamente intimista che ha quale obiettivo quello della elaborazione del letto per mezzo della voce di un uomo che ha perso la moglie Anna di cui era innamoratissimo. Baumgartner, ex docente universitario, è adesso in pensione e anche se dal giorno della separazione con la donna sono trascorsi dieci anni, continua a vivere con il ricordo indelebile di lei e dei momenti che hanno trascorso insieme, nel bene e nel male.
La donna era una poetessa, non amava far leggere i propri versi perché fortemente introversa, traduttrice di professione, sportiva e anche scrittrice di diari di anni di gioventù custoditi adesso come cimeli. Da qui anche il senso di interrogazione dell’uomo che, tornando ai giorni della fine, pensa a come sarebbero andate le cose se l’avesse fermata, se avesse agito in modo diverso. Eppure, al contempo, la parte razionale della sua mente, sa anche che se l’avesse fermata non sarebbero stati insieme tutti gli anni che sono stati perché sarebbe venuto meno quel principio di libertà e rispetto altrui che ha sempre determinato il loro rapporto. Il legame tra loro è così forte che lui continua a parlarle ancora, anche se lei non c’è più. Al contempo si diletta a ordinare oggetti quali libri solo per scambiare quattro chiacchiere con l’addetto alla consegna. Quando le poesie della moglie saranno attenzionate da una giovane studiosa che Baumgartner ospiterà, il libro avrà un vero e proprio smacco che mai però metterà in secondo piano l’alternarsi di flashback su esistenze fatte di certezze e presenze.

«[…] I suoi pensieri si allontanano piano piano dai capitomboli da mimo di stamane e tornano al passato, il lontano passato che balugina ai confini della memoria e, un pezzo minuscolo alla volta, gli torna tutto in mente […].»

Ed è proprio questo il tema centrale di questo titolo intimo e profondo: le presenze che si inseriscono nella nostra vita, i legami che ogni giorno instauriamo, le relazioni che portiamo avanti, anche le più semplici. Queste sono la linfa per il nostro percorso su questa terra, sono ciò che ci mette in moto e arricchisce il nostro percorso. Per effetto, un ruolo centrale, lo ha la perdita di quel legame, l’interruzione, il frantumamento, l’evento che ci porta alla separazione.
Cosa aspettarsi da una lettura come “Baumgartner”? Un libro che solletica l’anima con semplicità, che ci entra dentro con naturalezza, che ci ricorda quanto sia nell’unicità della nostra esistenza la bellezza del nostro vivere. Anche se semplice, anche se fatto di costanti, anche se privo di eventi apparentemente sconvolgenti.
Un romanzo maturo di Paul Auster che regala tanti spunti di riflessione.

«[…] Sarebbe il caso di indagare come in alcuni momenti fugaci e imprevedibili restano impressi nella memoria, e invece altri, in teoria più importanti, svaniscono per sempre.»

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    02 Febbraio, 2024
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Una rivisitazione del mondo femminile

"Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, coltivate il dubbio", questo scrive Michela Murgia, nemica di certezze precostituite, di situazioni accomodanti, di comportamenti divenuti abituali per consuetudine. Riflettete, pensate, decidete con la vostra testa: si può essere in disaccordo con il suo pensiero, ma non può essere disconosciuta la sua voglia di guardare lontano, di sognare un futuro migliore.
"Dare la vita" è l'ultimo suo libro, terminato proprio alla fine del suo percorso terreno, un monito ed una speranza. Nella prima parte, la scrittrice introduce il concetto di famiglia "queer", un termine inglese dal significato vario e ambiguo: strano, bizzarro, curioso, eccentrico, ma anche sospetto, di dubbia moralità, omosessuale. Insomma, tutto quello che è in contrasto con la cosiddetta "normalità" accettata e praticata dai, sempre cosiddetti, benpensanti. La Murgia ha un concetto di "famiglia" diverso, una famiglia allargata, non necessariamente legata da vincoli di sangue, una famiglia che guarda soprattutto al benessere ed alla felicità delle persone, una famiglia che presuppone una libera scelta di stare insieme e di organizzare i propri affetti nel modo migliore, senza costrizioni o preconcetti: la "famiglia d'anima", con componenti legati da vincoli di affetto e di amicizia, senza altri intendimenti se non quello di "stare bene insieme", aiutandosi reciprocamente senza secondi fini. Un concetto indubbiamente rivoluzionario, non facilmente accettabile né praticabile: presuppone scelte libere, rifiuto delle omologazioni e soprattutto coraggio. Ci vuole infatti coraggio per rompere deliberatamente schemi consolidati da abitudini inveterate, credenze religiose, paure ataviche.
Michela Murgia si sofferma poi sul concetto di "maternità", differenziandolo da quello di "gravidanza": la maternità è un malinteso di cui lo Stato si serve per "scaricare sulle donne la responsabilità delle culle vuote". Un concetto umiliante per le donne, legato ad un altro concetto a volte aberrante: quello di famiglia, inteso come unione patriarcale, uomo e donna, ma anche inteso come "tengo famiglia", o, peggio ancora, come legame di stampo mafioso.
Nella seconda parte del libro, la Murgia affronta il tema della gravidanza surrogata, o gravidanza per altri (gpa), sottolineando la necessità di tenere sempre ben distinti i concetti di maternità e di gravidanza. La gravidanza surrogata comporta anche problemi economici: chi l'affronta lo fa a volte per necessità di soldi, confidando nelle disponibilità finanziarie di chi se ne serve. Ma capita anche che alla fine della gravidanza, la donna non si consideri più un "contenitore" ma voglia tenere per sé il prodotto del concepimento: un problema che può presentarsi e che evidenzia quanto possano essere variegate le variabili della gravidanza per altri.
Il saggio della Murgia non incontrerà certo il favore di tutti: sono opinioni non da tutti condivise, opinioni che cercano di guardare lontano, per tentare di cambiare una certa mentalità ed il concetto stesso della vita. Ci vuole indubbiamente molto coraggio, il coraggio forse di chi non ha nulla da perdere e vede un certo traguardo avvicinarsi: coraggio per una migliore convivenza, coraggio per una più lucida consapevolezza, coraggio per una maggior serenità nei rapporti umani, coraggio soprattutto per rompere certi rapporti con un passato che la scrittrice giudica autoritario, stantio, abitudinario.
Ricordo quello che scriveva in "Osservazioni e pensieri" G.C. Lichtenberg, un originale scrittore del Settecento : " in coscienza non so dire se la situazione sarà migliore quando cambierà, posso solo dire che deve cambiare se si vuole che diventi migliore".







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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    02 Febbraio, 2024
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I rischi del leggere troppi mystery

Che una buona fetta dei romanzi di Christie siano fruibili come parte di una serie, perché contengono una quantità di riferimenti gli uni agli altri, non è una novità. "I Sette Quadranti" però non si limita a fare dei piccoli cenni a "Il segreto di Chimneys", ma ne riprendere le ambientazioni (in particolare, la tenuta al centro della storia), diversi personaggi centrali, nonché la figura del Sovrintendente Battle, risolutore principale in entrambe le narrazioni.

La storia parte proprio nella residenza di Lord Catheram, per l'occasione affittata dal magnate dell'industria Sir Oswald Coote; tra i suoi ospiti c'è Gerald "Gerry" Wade, un dormiglione al quale gli amici pensano di fare uno scherzone mettendo di nascosto otto sveglie nella sua camera. La burla però non riesce: al mattino Gerry viene trovato morto e le sveglie sono diventate sette, una circostanza quantomeno bizzarra che, unita ad altri avvenimenti degni di nota, spingono Lady Eileen "Bundle" Brent -la figlia di Lord Catheram- a voler indagare. Questo la porta a rincontrare il già citato Sovrintendente Battle e a scoprire l'esistenza della società segreta chiamata i Sette Quadranti.

Devo ammettere che inizialmente non riponevo troppe speranze in questa serie minore della cara Agatha, in particolare per gli elementi di spionaggio centrali nei due intrecci, visto che le spy story non mi convincono mai del tutto. In questo caso poi c'era un'ulteriore aggravante dal momento che la trama mi faceva pensare non poco a "Poirot e I Quattro", uno dei peggiori romanzi dell'autrice britannica a mio parere. Invece, la risoluzione finale ha saputo fornire una prospettiva inaspettata ed originale alla storia, oltre a rispondere con puntualità ai tanti misteri disseminati nel testo.

Anche la caratterizzazione di Bundle, protagonista de facto del romanzo, mi è piaciuta molto: è una personaggia risoluta e testarda, ma non incosciente per il gusto di esserlo. Il resto del cast è per lo più funzionale alla storia, ma tra loro spiccano la goffaggine di William "Bill" Eversleigh, la pedanteria di George "Ranocchio" Lomax e l'ironia pungente di Lord Catheram, per me protagonista morale di questa simil-duologia.

Inaspettatamente mi senso di promuovere anche il tono molto avventuroso e dinamico della prosa -che ben si intona alla sottotrama dello spionaggio industriale- e l'elemento romance, più incentrato sul lato comico tanto da creare dei momenti genuinamente divertenti, anche se non sempre nelle giuste tempistiche. Non mi ha convinto troppo neppure il ritmo della narrazione, poco omogeneo e non abbastanza incalzante nel finale, dove si sarebbe potuto ottenere un effetto ancor più drammatico ed emozionante.

Mi aspettavo poi qualcosa di più dal personaggio di Battle che, a dispetto di quanto viene rivelato in questa storia, continuo a trovare poco carismatico se confrontato con gli altri detective creati dalla penna di Christie. Speravo ottenesse più spazio anche la spiegazione sulle modalità dei delitti, di solito centrali in un giallo, qui invece relegate ad un chiarimento sbrigativo dato alla protagonista, senza che lei abbia avuto modo di investigare per conto proprio su questo lato del mistero.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    01 Febbraio, 2024
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L'Anarchia e la lirica

Intrattenimento e riflessione sono gli ingredienti di questo libro, senza ombra di dubbio il mio preferito di Marco Malvaldi.
Rimasto per ultimo tra quelli editi da Sellerio si è rivelato una vera fonte di emozioni.
L'argomento trattato è così particolare che il tutto risulta quasi privo di massa, frutto di un pensiero, di un sogno.
Anarchia e lirica, uniti su un palcoscenico ad animare le vite di personaggi attraverso lo stile autoironico di Malvaldi.
Una trama semplice, con un intreccio intuibile e forse banale ed è lo sguardo dell'autore a fare la differenza.
La dolcezza dei dialoghi e il narrare senza giudicare o indulgere ci permette di empatizzare e comprendere quella forza così impetuosa che è l' Anarchia.
Gaetano Bresci è una figura onnipresente, che colora le pagine sotto l'inchiostro, forza propulsiva e ispiratrice di tutte quelle anime che cercano libertà, giustizia e felicità.
Ci si diverte, si riflette, con dialoghi ironici e acuti, adatto per il puro intrattenimento, sono i piani di lettura a non poter essere ignorati: quello sociale nella descrizione di una società passata che porta in grembo quella successiva; quella psicologica attraverso la dinamica di gruppo che si manifesta attraverso i rapporti della compagnia teatrale.
Un mondo fatato che necessita di una forte partecipazione da parte del pubblico, si rivela dietro le quinte in tutta le sue difficoltà, le sue contraddizioni, il suo dolore e la sua umanità.
Se non si conosce Malvaldi consiglio questo libro pur essendo lontano da tutte le altre produzioni, mantenendo ironia e sarcasmo ne è uscito fuori un piccolo gioiello.

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Opinione inserita da Andrea Negro    01 Febbraio, 2024

Vorrei che fossi qui

È il mio primo libro di Mari e non sarà l’ultimo. Perché la sua scrittura ha forma e sostanza, si fa leggere con gusto e, pur dentro una materia specialistica, quasi settaria, deposita tonnellate di contenuto nei magazzini della conoscenza.
L’opera affronta la parabola umana e artistica dei Pink Floyd, l’abilità di Mari sta nel prenderne al lazo sia i fanatici, quei talebani per cui o Floyd o morte, sia i loro estimatori tiepidi, che sanno distinguere i diamanti dalla bigiotteria e al cui club mi iscrivo, sia chi di Waters e soci ha solo sentito parlare.
Lo fa grazie a un estro letterario superiore, in grado di generare sinergia tra verità storica e creazione fantastica, tra personaggi reali e figure immaginarie.
Fin dall’impianto è chiara l’indole poco ortodossa della narrazione, articolata attraverso una serie di capitoli brevi o brevissimi in cui di volta in volta parlano in prima persona protagonisti, antagonisti e comparse della galassia scenica floydiana. Si tratta, come precisa lo stesso Mari in prima pagina, di confessioni, testimonianze, lamentazioni, interrogazioni, esortazioni, referti, rivelazioni e contemplazioni. Di piccole storie incastonate nella loro macrostoria leggendaria.
Questa è la sfida vinta dall’autore, utilizzare il punto di vista necessariamente soggettivo di ogni tessera, attendibile o meno che sia, per comporre il mosaico completo e grondante d’epica della band di Cambridge, la cui traiettoria musicale e non viene indagata con fervida meticolosità.
Al centro del palco giganteggia Sid Barrett, ogni intervento, dei compagni, degli amici, dei parenti, dei colleghi, lo evoca, espressamente o in forma tacita. Risulta evidente come Mari faccia dipendere da Barrett, dalla sua genialità, dalla sua follia, qualsiasi evoluzione o involuzione dei Pink Floyd, con ciò garantendosi tanto la consacrazione da parte degli integralisti barrettiani, quanto il rancore di chi individua in Waters e Gilmour i veri artefici del mito.
Non si nasconde Mari, un po’, credo, per coerenza, lui stesso è un barrettiano convinto; un po’ per scaltrezza narrativa, già che non ci possono essere dubbi su come la vita e le intemperie di Barrett rappresentino un intreccio ben più appetitoso rispetto alle vicende degli altri floyd, comunque ritratti sempre con dovizia di particolari e attenzione filologica.
Il risultato è una sorta di romanzo biografico a incastro, la cui fruizione è gradevole, coinvolgente e istruttiva, adesso so molte più cose dei Pink Floyd.
Tra le tante perle, arricchite da uno stile ora colloquiale, ora volutamente ribelle alla sintassi, ora lirico, il contributo in apertura di Arnold Layne, protagonista del primo singolo della band, anno 1967, quel travestito col vizietto di collezionare biancheria intima femminile e immaginato mentre incontra Barrett. Ma anche le lamentazioni di Stanley Kubrick, indispettito dal doppio rifiuto di Waters riguardo a comporre la colonna sonora di Odissea nello spazio e Arancia meccanica. E le confessioni dei quattro floyd, lo stesso Waters, Gilmour, Mason e Wright, raffigurati come animali - cavallo, gatto, cane, topo - in ossequio all’omonimo album e alla sovrabbondanza di fauna in tutta la loro produzione. O le testimonianze di Bowie, Brian Jones, Alan Parson.
Rosso Floyd è il mio primo libro di Mari e non sarà l’ultimo, voglio valutarne la caratura anche dentro un racconto canonico, lontano dalle logiche della biografia, per quanto della grammatica della biografia quest’opera abbia davvero poco.

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Opinione inserita da Andrea Negro    01 Febbraio, 2024

Per non dimenticare

Ci ho messo più di cinquant’anni per affrontare uno dei classici della nostra letteratura.
C’era qualcosa che mi allontanava, lo immaginavo testo lugubre, pensoso, forse anche scontato nel raccontare l’Italia fascista alle soglie della guerra.
Mi sbagliavo.
Certo, Bassani non è Festa Campanile o Fruttero & Lucentini, non ambisce a divertire o stuzzicare il lettore – impresa peraltro improba trattando di antisemitismo – tuttavia la sua prosa rivela sacche sorprendenti di ironia, un’ironia sobria, sommessa ma sempre ironia, più carsica nel dipanare la trama, più evidente nel dipingere alcuni personaggi minori, come Perotti o il padre di Giorgio.
Anche la relazione tra Giorgio e Micol, colonna portante del romanzo, viene sapientemente tenuta a distanza dal drammatico contesto storico-sociale in cui si sviluppa; Bassani preferisce la leggerezza alla gravità, leggerezza incarnata alla perfezione dalla gioia indisciplinata di Micol e dall’oasi felice del parco dei Finzi Contini: è lì che, mentre il mondo si avvita su se stesso, si gioca a tennis, si parla di Carducci, si soffre d’amore, si vive, nonostante tutto.
Sono questi elementi distraenti a tutelare, a enfatizzare lo spirito salvifico del racconto; sappiamo, sentiamo che la storia è avviluppata dalla Storia soltanto grazie ad alcuni illuminanti dialoghi tra i protagonisti, in cui emergono la progressione brutale del fascismo e la sua inevitabile commistione col nazismo, testimoniata dalla promulgazione delle leggi razziali.
Qui viene naturale il confronto con Elsa Morante: nel suo "La storia" la guerra è immanente, avvolge senza mistero le vicende del piccolo Useppe, tanto che l’autrice ne elenca i passaggi salienti all’inizio di ogni capitolo.
Bassani no, Bassani sceglie il rimando indiretto, il riferimento incidentale, affidando a chi legge l’interpretazione su come e quanto nel 1938 le vite dei Finzi-Contini e degli ebrei italiani dipendessero dalla follia criminale di Hitler e dall’asservimento opportunistico di Mussolini.
Questo gioco di specchi, a volte deformanti, è l’aspetto che più ho apprezzato del romanzo. L’intreccio sentimentale tra Giorgio e Micol, seppur ottimamente gestito e lasciato irrisolto di proposito, è coinvolgente ma non fa la differenza; l’abile descrizione di personaggi e paesaggi urbani – le vie e i palazzi di Ferrara intervengono con frequenza e grazia – è appagante ma non fa la differenza: il carattere distintivo dell’opera lo rintraccio nel consegnare al lettore le chiavi della decifrazione storiografica attraverso la quotidianità più o meno normale ma gradualmente contaminata dei Finzi-Contini e del cerchio di amici e parenti che ruota loro intorno.
A incorniciare la sostanza narrativa, una scrittura insieme fluida e digressiva, alta e colloquiale, impreziosita da un granitico, originalissimo uso del discorso indiretto, per nulla corrotta dalle sporadiche, inevitabili obsolescenze lessicali.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    31 Gennaio, 2024
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Non ho l'età per amarti

Non ho l’età per amarti, per uscire da sola con te.
Sono i versi di una canzonetta di una volta, che rispecchiano esattamente il costume di quei tempi: al giorno d’oggi, nella nostra società moderna, libera ed emancipata, tutt’al più il testo suscita un sorriso.
Ma tant’è, le intenzioni allora erano buone, la morale del tempo lo esigeva, il contesto lo accettava.
Amare, innamorarsi, condividere un affetto, vivere una relazione è una cosa dolcissima: una giusta maturità aiuta a vivere con consapevolezza una qualsiasi unione, dopotutto si usa dire ogni cosa a suo tempo. Eppure, ancora c’è qualcuno convinto che, paradossalmente, ciò non sia accettabile per chi è fin troppo maturo!
I vecchi, gli anziani, i vegliardi, non possono più innamorarsi, stare insieme mano nella mano, occhi negli occhi, appaiono sciocchi, imbarazzanti, ridicoli.
Trattasi di un’autentica esagerazione, se non una vera aberrazione.
Rughe, capelli bianchi, corpi non più tonici e traballanti, nulla hanno più a che fare con i sentimenti, nel caso contrario è segno evidente di decadenza, di demenza, o peggio di lascivia.
Kent Haruf, con la sua scrittura a voce unica, potente, omnicomprensiva, con il suo tono monocorde e però sempre discorsivo, incisivo, esaustivo, questo ci racconta: quelli avanti negli anni, gli stessi che conta lo scrittore stesso quando scrive questo libro, hanno una loro valenza, un loro spirito, una loro essenza, e come tutti si innamorano, esattamente con gli stessi palpiti dei più giovani.
Lasciamoli vivere la loro affettività: l’energia di un nuovo amore brilla, sfavilla, riluce, li eleva.
Si appresta così anche per chi ha un’età avanzata questo spettacolo dolcissimo, mirabile, spendente: il librarsi libere nel cielo stellato delle loro anime di notte.
Lo scrittore americano, alla pari di Ernest Hemingway, è un mirabile cantore del tessuto connettivo della società americana del suo tempo, quello della sua provincia rurale; che è quello più vero, cristallino, genuino e rappresentativo, con pregi e difetti, fatti e personaggi descritti nei particolari, seppure in poche righe. Qui ci offre un breve testo, più un racconto lungo che un romanzo, in cui contesta chi afferma che taluni non hanno più l’età per provare sentimenti, e questo è davvero l’ultimo lavoro dello scrittore americano, redatto in pochi giorni appena prima del termine alla sua esistenza.
Il testo della canzonetta citata Haruf la declina all’incontrario: l’età per nutrire un sentimento affettuoso, e si badi si intende qui più una comunione di anime che un’attrazione fisica ed emozionale, qui ci sarebbe anche, e di parecchio di più. I due protagonisti, Addie e Louis, ambedue vedovi, sono anziani, per non dire vecchi, insomma davvero assai avanti con gli anni, liberi da impegni con figli e parentado vario, economicamente indipendenti e tutto sommato in accettabili condizioni di salute fisica e mentale. Adulti e consenzienti, liberi e indipendenti, a chi devono dar conto di una loro scelta affettiva? Invece il loro desiderio di unire le reciproche esistenze, è decisamente ostacolato, diremmo di più, aspramente disapprovato, contrastato, negato esclusivamente per egoismo dai loro prossimi e dal contesto generale della comunità in cui vivono, peggio della storia di Romeo e Giulietta dei bei tempi andati. Si sa, sono sempre le ragazze a prendere l’iniziativa, Addie non è una ragazzina, non ha tempo da perdere, sa perfettamente che alla sua età i giorni contengono poche gocce di nettare, vanno centellinati tutti con cura per gustarli a fondo; perciò, con grazia e schiettezza si rivolge un giorno direttamente a Louis: “Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me”.
Niente di pruriginoso, di fisico, di sessuale. Solo compagnia, affetto, fuga dalla solitudine, voglia di tenerezza, e quant’altro di dolce, se viene, è ben accetto, tanto di guadagnato, riempie gli ultimi giorni.
Un cane, per esempio, o gli strilli gioiosi di un nipotino che gioca in giardino.
Sic et simpliciter, questo di Haruf è una grande storia d’amore, e niente più.
Ma ben presto, la storia di due anziani che vanno a convivere insieme, agli occhi dei benpensanti, parenti prossimi compresi, si trasforma, non è più una voglia di stare insieme gli ultimi giorni, è uno scandalo al sole. Inammissibile: sono due vecchi, perciò non capiscono quanto di sconcio possa essere la loro insana relazione. Uno stare vicini che è in realtà un rapporto candido ed innocente, che soccombe, si frantuma sotto i colpi dell’egoismo altrui.
Devono comportarsi bene, ad ogni costo. Devono solo avere paura di morire, come si fa alla loro età.
Prima o poi, inizia per tutti un lungo viaggio al termine della notte.
Quando il cielo è completamente buio, allora si vede meglio la strada che percorriamo, aiutandoci con la luce delle stelle, e se abbiamo fortuna anche con quella della luna, i più fortunati con quella del plenilunio. Ma sul finire della notte, ai primi grigiori, l’ultimo tratto è ancora fievole di luce chiara, si procede alla cieca, confusi, scoordinati, serve un’altra fonte luminosa, e questa la fornisce solo l’amore, l’affetto, la solidarietà, sono le uniche cose che fanno brillare le nostre anime di notte, perché appunto non è vero che non si ha più l’età per amare.
Questi anziani che amano…lasciamoli andare, senza fargli pressione di alcun genere.
Non metteteli alle strette, sono solo canzonette.

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Kent Haruf
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Gennaio, 2024
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Ariel

«[…] All’improvviso mi faccio largo a forza, urlo di allontanarsi, corro verso di lui, rovescio un tavolo, sono a pochi passi, lo raggiungo. Il tempo si dilata, gli occhi si agganciano: riconosco lo sguardo di chi ha scelto la morte. Lo afferro per un braccio, posso fermarlo. […] Belva sconcia, la morte divora a caso per non essere divorata. Grida e rantoli, sangue e urina, corpi come sacchi vuoti, occhi senza più sguardo, labbra senza più baci e parole, respiri che non appannano più specchi. Il battito interrotto. Vite rubate alla vita in un lampo infuocato.»

Quando Micol e Daniel scoprono della morte del figlio, sono separati ormai da anni. Coppia di origine ebraica, apprendono della morte di Ariel a seguito di un attacco kamikaze in Israele, luogo dove si è trasferito da qualche tempo anche grazie all’influenza della nonna Stella. Da sempre il giovane segue un ideale ben preciso e muore per questo stesso.
È come un fulmine a ciel sereno, le notizia. I genitori si recano a Tel Aviv e una volta lì scoprono che non solo il figlio si trovava estremamente vicino all’esplosione ma che, oltretutto, celava una vita ben diversa da quel che i due conoscevano.
Il lutto non è mai uguale, per nessuno. Il dolore è una voragine, consuma dall’interno. Porta alla fuga, porta al logoramento ma porta anche bisogno di sapere, di risposte. Ed è qui che Micol scopre di non aver mai davvero conosciuto il figlio che ha cresciuto. Scopre i suoi sentimenti d’amore, conosce quell’amore che ha superato i confini del pregiudizio, ne scopre perfino il gatto. In un certo senso riscopre anche sua madre, Stella, una donna forte e risoluta con cui ha sempre avuto scontri e discussioni.

«[…] Il lutto sparge sale ma cerca lampi d’oblio.»

Questo è merito dei legami atavici ma anche di emozioni senza confine come il dolore. Tante sono le voci e i volti di questo romanzo ma certamente ad essere le vere protagoniste sono Stella e Micol. Queste sono accompagnate da Tariq, il compagno di Ariel, Sharon, la migliore amica e Malak l’insospettabile gatto.
Un percorso di riflessione ma anche di rinascita in cui un evento di perdita porta a nuovi inizi. Un libro che non è solo quel che appare, uno scritto che va ben oltre e che si prefigge di far riflettere il lettore su tematiche attuali ma mai banali.
Al tutto si aggiunge una scrittura chiara, diretta, priva di fronzoli e di grande intensità. Un libro dove è il sentimento la prima vera essenza.

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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    28 Gennaio, 2024
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Un romanzo cerebrale

"Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza (...) . La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà" .

Un pittore di trentacinque anni, molto ricco di famiglia, fin da subito ci dice di aver cessato di dipingere. E' stata la noia, sua vecchia conoscenza sin dall'infanzia, ad allontanarlo dalla pittura.
Sarà una ragazza a diventare la sua ossessione.

un romanzo cerebrale, retto da lucide analisi della noia, qui manifestata a livelli patologici. Ma il protagonista, tanto carente di valori, come può dare un senso alla propria vita ?
Non mi sorprende che questa insoddisfazione venga letta come frutto di una borghesia che ha tutto smarrito fuorché il denaro.
Penso sia però un'interpretazione riduttiva, anche se nel testo l'analisi psicologica è volta più ai sintomi che al profondo.

Un romanzo con decine di amplessi. Il verbo "possedere" (non casualmente scelto, ovviamente) è reiterato a dismisura. Moravia, da scrittore di livello, riesce comunque a evitare cadute di stile.
Scarsa la piacevolezza di lettura : diciamo che la noia non mi è stata risparmiata.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    27 Gennaio, 2024
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Un romanzo fatto di inizi

«Vorrei poter scrivere un libro che fosse solo un incipit, che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità dell’inizio, l’attesa ancora senza oggetto. Ma come potrebb’essere costruito, un libro simile? S’interromperebbe dopo il primo capoverso? Prolungherebbe indefinitamente i preliminari? Incastrerebbe un inizio di narrazione nell’altro, come le Mille e una notte?»

“Se una notte d’inverno un viaggiatore”, pubblicato da Italo Calvino nel 1979, ebbe fin da subito un grande successo di pubblico e critica. Si tratta di un grande gioco a incastro nel quale l’Autore ha voluto scrivere un romanzo fatto solo di incipit. La narrazione che segue una continuità cronologica, come nel romanzo ottocentesco, qui è esplosa: siamo di fronte a una serie di possibilità che prendono forma e consistenza loro propria, un romanzo plurale, o un “iper romanzo” come amava definirlo lo stesso Calvino.

Il personaggio principale è un Lettore, che acquista l’ultimo libro di Italo Calvino e inizia a leggerlo. Dopo poche pagine però si rende conto che non può continuare la lettura a causa di un errore di impaginazione. Ritorna allora in libreria per cambiarlo e qui incontra Ludmilla, la Lettrice, alla quale è accaduta la stessa cosa. I due continuano a frequentarsi e si innamorano, mentre cercano inutilmente di completare la lettura di tutta una serie di altri romanzi (ben dieci!) che appartengono a generi letterari molto diversi e dei quali riescono sempre a leggere solo le prime pagine. Si va dal thriller psicologico, al racconto erotico giapponese, dal romanzo rivoluzionario russo, all’epos latinoamericano. Calvino passando da un romanzo all’altro cambia stile, lessico, ritmo. E intanto dialoga con i personaggi, soprattutto con il Lettore, a cui si rivolge con un incosueto “tu”.

Senza dubbio la scommessa di Calvino può dirsi vinta, il romanzo ha avuto e ha tuttora moltissimi estimatori e un posto di riguardo nella nostra Letteratura.
Personalmente purtroppo non ho trovato così avvincente il protrarsi delle vicende caotiche e il moltiplicarsi senza limiti delle riflessioni sulla lettura, sulla scrittura, sulla letteratura. Ho apprezzato come sempre l’ironia di Calvino e la ricerca di una nuova espressività creativa.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    26 Gennaio, 2024
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Se Agatha Christie avesse scritto (male) "Shining"

Dopo anni ed anni di traduzioni illeggibili e volumi tenuti insieme più dallo Spirito Santo che dalla colla della rilegatura, avevo deciso di non acquistare più nuovi titoli pubblicati da Newton Compton. Ho scelto di fare uno strappo alla regola per "A cena con l'assassino", che si presentava come un romanzo nelle mie corde dal punto di vista della trama, con l'aggiunta di una struttura del testo abbastanza peculiare da intrigarmi. Così in poco tempo è stato aggiunto alla wishlist, donato alla sottoscritta da qualche anima pia e finito in cima alla TBR, tanto ero curiosa e ben disposta verso questo titolo. Scommetto che sentite già l'invece in arrivo...

La narrazione presenta un'ambientazione che non mi stanca mai: nella campagna dello Yorkshire sorge Endgame House, da decenni la dimora della famiglia Armitage, una dimora austera e dalla fama sinistra, con tanto di labirinto annesso. Qui il cadavere della madre dell'aspirante stilista Lily Violet è stato ritrovato in circostanze poco chiare, e sempre qui la giovane donna torna vent'anni dopo per far luce su questo mistero, ma non solo perché nel frattempo anche la morte della zia Liliana sembra tutt'altro che naturale. Questi tragici eventi e molti altri indizi portano la protagonista a capire che qualcuno all'interno della famiglia è disposto a fare qualsiasi cosa per diventare proprietario della tenuta.

Dal momento che ritengo importante cercare qualche punto di forza anche nei libri (soggettivamente o meno) peggiori, partiamo dagli aspetti positivi di questo titolo. Nonostante l'esecuzione non mi abbia entusiasmato, continuo a pensare che l'idea di includere dei giochi enigmistici rivolti alla protagonista ma anche ai lettori sia brillante; allo stesso modo mi sento di promuovere con riserva la rappresentazione di personaggi queer fatta da Benedict -che ho trovato un po' ridondante e forzata in alcune scene- ma voglio premiare comunque l'intenzione propositiva.

In modo più personale e frivolo, penso meriti un plauso la copertina, che risulta stilosa ed al contempo riesce a presentare molto bene il contenuto effettivo del volume. Tra i pregi mi sento di annoverare anche il buon ritmo e la leggerezza che permea gran parte della narrazione, rendendola per lo meno divertente.

E ora passiamo purtroppo ai tanti difetti. Il primo e più palese è la scelta di affidare la storia ad un narratore esterno; non ha senso per una quantità di motivi: seguiamo sempre e solo Lily, i suoi pensieri permeano l'intero testo, i riferimenti agli abiti ed ai marchi rimandano al suo lavoro di stilista... quindi perché mai lei non è la voce narrante del romanzo?!? I problemi della prosa purtroppo non si esauriscono qui, perché troviamo un utilizzo bislacco delle virgole e delle battute di dialogo innaturali e prive di logica tra domanda e risposta. Si potrebbe pensare che la "colpa" sia dei giochi di parole presenti nel testo, invece non è così.

Nonostante abbia letto tutti i gialli della cara Agatha, Benedict non riesce poi ad intrecciare una trama mystery davvero sorprendente, e questo è causato anche dalla scarsa caratterizzazione dei personaggi, che sono al meglio irritanti nella loro prevedibilità ed al peggio monodimensionali. Anche la protagonista non brilla particolarmente: sarà anche un asso nel risolvere gli anagrammi, ma deve aver concentrato su quello il suo unico neurone perché per il resto dimostra un'idiozia abissale, nonché un totale disinteresse per la propria sicurezza. Confidavo che almeno il finale riuscisse a risollevare la situazione, e invece... Oltre alla volontà di shockare il lettore, l'epilogo non ha un briciolo di senso, e rende definitivamente ridicola una premessa già assurda di suo: a parte veder morire qualche personaggio e riuscire ad imbastire una mezza dichiarazione d'amore, cos'ha ottenuto la protagonista che non fosse già suo di diritto a pagina uno?

Come in altre occasioni, il colpo di grazia lo da l'edizione italiana; capisco comunque la difficoltà nel tradurre i tanti giochi di parole, e non mi lamenterò di questo. Mi sento però in diritto di evidenziare la scarsa qualità delle immagini stampate, i tanti refusi presenti nel testo (che spesso riguardano i nomi dei personaggi stessi) ed i numeri delle pagine sbagliati nelle soluzioni a fine volume. Una rilettura anche distratta avrebbe permesso di sistemare per lo meno questo errore, imbarazzante in un libro che vuole presentarsi come intelligente.

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Romanzi autobiografici
 
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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    26 Gennaio, 2024
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Un tuffo nella Los Angeles anni '80

Ritorno in grande stile quello di B. Ellis alla letteratura a distanza di parecchi anni, con un romanzo che conduce il lettore nella Los Angeles anni ‘80 della sua adolescenza. La metropoli californiana a modo suo diventa protagonista di una storia in cui l’autore fonde sapientemente l’elemento fiction con alcuni frammenti autobiografici del suo passato, primo fra tutti la scelta di chiamare il protagonista-narratore con il suo stesso nome, Bret, attribuendogli altresì la peculiarità di volere diventare uno scrittore.

Ecco che si viene trasportati nella vita di una serie di ragazzi appartenenti all’elite cittadina, frequentatori di una prestigiosa scuola privata, la Buckley. Ognuno dei quali dotato di auto di lusso, abituati ad organizzare ed a partecipare a sontuosi party alcolici a bordo piscina di ville altrettanto sontuose, abusando di droghe, di psico farmaci per stordirsi (e per superare l'orrore della quotidianità): “nonostante vivessimo nella teoricamente glamour Los Angeles quelli erano i sobborghi, pieni di quartieri tranquilli e alberati, di ragazzini che correvano sulle loro biciclette lungo strade deserte, di feste in piscina e grigliate all’aperto”.
Tuttavia pur essendo la L.A. dei quartieri esclusivi di Beverly Hills e Bel Air, adagiati sulle colline di Hollywood, la realtà descritta dal Bret (autore) in cui il Bret (protagonista) si muove è una zona grigia in cui oltre l’apparente facciata di spensieratezza e l’ottimismo sfrenato accompagnato dal sottofondo delle hit musicali del periodo, si nasconde una crisi esistenziale, spesso alimentata da famiglie poco presenti. Bret deve fare i conti con un momento di passaggio dall’età adolescenziale a quella matura, scoprendo la propria identità sessuale ed avendo la percezione che, per timore e per non esporsi, è preferibile nascondere la propria omosessualità e l’attrazione verso i compagni di scuola impegnandosi piuttosto in una (simulata) relazione con una delle ragazze più attraenti che conosca.
In questi dettagli e nel reticolo di relazioni amicali e amorose in cui Bret ed i suoi migliori amici si ritrovano, Ellis introduce improvvisamente gli elementi “di disturbo”, di contaminazione che ben lo contraddistinguono, visti anche nella sua opera più nota “American psyco”: l’arrivo di un nuovo affascinante compagno di scuola che sembra nascondere un passato misterioso con manifesti sintomi di disagio ed un serial killer chiamato “Il Pescatore a strascico”, che compie omicidi efferati e che in qualche modo sembra avere un collegamento proprio con il nuovo arrivato.

Come affermato dallo stesso autore, “Le schegge” è un romanzo nostalgico di un periodo storico caro a Ellis, probabilmente anche ridondante ed eccessivamente lungo, scritto però con l’intendo di sottolineare uno spaccato di società che ha fatto dell’apparenza e dell’opulenza un marchio di fabbrica ("Le nostre chance sembravano buone: eravamo giovani e vivi e forti e niente poteva farci del male, e nulla riusciva a offuscare questa percezione, questa favola riguardo al nostro posto nel mondo, e ci rifiutavamo di prendere in considerazione qualunque idea di un destino orribile o una morte atroce che avrebbero potuto strapparci dal tempio dorato dell'adolescenza in cui risiedevamo"). Una società nella quale l’abuso sfrenato di alcol, droghe e la conseguente disinibizione, nascondono un disagio evidente.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    24 Gennaio, 2024
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Volare verso l'orizzonte

Ho letto l'edizione con i disegni, molto efficaci, semplici e commoventi.
La storia di un gabbiano che sfida il destino e i suoi compagni e si libera alto nelle volte del cielo, rischiando di precipitare in mare inghiottito dai fluttui.
Un Icaro che per sfidare gli Dei, vola troppo in alto e rischia di bruciarsi cotto dal Sole, ma lo spirito di libertà albeggia nei cuori degli impavidi, e quindi anche il gabbiano protagonista del romanzo, sfida i suoi simili più anziani e saggi e con un ultimo sforzo vola solitario verso il destino.
Sono i classici libri, di poche ma dense pagine, senza troppi preamboli e sofismi. Si viene proiettati nella storia breve e intensa, e in questa edizione illustrata attraverso le immagini, spesso sgranata si ha come la sensazione di essere immersi in quel volo verso l'ignoto.

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Romanzi
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    23 Gennaio, 2024
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L'elaborazione del lutto

Si respira la bellezza delle relazioni in questo romanzo intimista di Paul Auster che rappresenta una originale interpretazione dell’elaborazione del lutto.
Baumgartner è un ex professore universitario ordinario ora in pensione, vedovo dell’amatissima moglie Anna che lo ha lasciato circa 10 anni prima in circostanze tragiche.
Anna era una poetessa che però non amava far leggere i suoi lavori per il suo carattere introspettivo e riservato, traduttrice di professione, sportiva appassionata morirà proprio travolta da un’onda troppo grossa. Sarebbe stato giusto fermarla da parte del marito per il pericolo al quale andava incontro? Baumgartner non lo ha ritenuto ragionevole per la libertà che ha sempre costituito la base del loro rapporto e per la passione sportiva della moglie.
Distratto e ancora appassionato dei suoi studi Baumgartner lavora ad un saggio, vive ora tra gli ordini di libri che mai leggerà chiesti solo per fare quattro chiacchiere con la persona che glieli viene a consegnare a casa e altre chiacchiere con chi incontra sulla sua strada, a partire dall’addetto alla lettura del contatore.
Anna è morta da ormai molto tempo ma Baumgartner le parla ancora e la sente ancora, in qualche modo non lo ha mai davvero lasciato.
Cerca di innamorarsi di nuovo di Judith, l’opposto caratterialmente della moglie, ma probabilmente ciascuno dei due cerca nel rapporto qualcosa di diverso dall’altro.
La storia ha una svolta quando Baumgartner decide di ospitare una giovane che intende studiare le poesie della moglie.
Per il resto la storia alterna lunghi flashback sulla vita dei protagonisti, Baumgartner e la moglie Anna e delle loro famiglie al tempo della storia in modo da farceli conoscere.
Baumgartner è un romanzo sulla costante presenza di chi ci ha lasciato e che tanto abbiamo amato, sulle relazioni, sulle semplici relazioni che instauriamo nella vita di ogni giorno, e ci dimostra quanto anche una semplice chiacchierata con chi incontriamo sulla nostra strada di ogni giorno possano essere ricche e possano portarci alla scoperta di altri individui in grado di colmare la nostra solitudine. Baumgartner è solo ma non lo è davvero, perché la sua esistenza è popolata da uomini e donne che per lui sono importantissimi.
E’ un romanzo senza grossi colpi di scena, perché in fondo le vite normali grandi colpi di scena non li hanno. E Baumgartner, con il suo dolore silenzioso e la mai sopita voglia di vivere non fanno eccezione.
Un bel romanzo che però non mi ha entusiasmato. Complessivamente lento non ho trovato spunti che abbiamo reso la lettura da ricordare.

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barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    23 Gennaio, 2024
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LE DOPPIE VITE

Veronica, otto anni, sta curiosando nell'armadio della madre e in un portafoglio, trova la foto di una bambina sconosciuta, poco più grande di lei. Capisce subito che lei può essere la causa della frequente tristezza della madre, dei dissapori che ci sono tra i suoi genitori, delle tensioni che respira continuamente in casa. Per non turbare la precaria armonia familiare, Veronica decide di non fare domande, ma una volta raggiunta la maggiore età, comincia ad indagare e lentamente scoprire tessere di un puzzle che si incastra perfettamente con l'esistenza di un'altra ragazza, Laura, la sorella maggiore che non hai mai conosciuto perché data morta alla nascita.. Allo stesso modo, la stessa Laura all'inizio non crede a niente di quanto Veronica le svela ....
.
In un'alternanza continua dei due punti di vista, quello di Veronica e quello di Laura, scopriamo le loro vite, i personaggi che ruotano attorno ad esse, ne comprendiamo il dolore quando, una volta svelata la reciproca esistenza, il loro incontro sarà indispensabile per capire la separazione a cui sono state obbligate.
È senza dubbio il romanzo che preferisco di Clara Sanchez dopo il bellissimo "Il profumo delle foglie di limone ", una sottospecie di giallo che indaga sulle ingiustizie, sulla presenza di organizzazioni criminali, sui raggiri ed i complici che si prestano a tali azioni. Ma è anche una storia d'amore, di una madre che non perde le speranze e di una figlia che vuole a tutti i costi riunire gli affetti ingannati e delusi.
Lo consiglio davvero perché ha saputo emozionarmi moltissimo, sia per l'aspetto thriller che l'aspetto empatico delle due protagoniste.
Da leggere assolutamente!

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i romanzi di Clara Sanchez
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Gialli, Thriller, Horror
 
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HHC Opinione inserita da HHC    23 Gennaio, 2024
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Un romanzo struggente

Congegnato come un giallo, L’uomo inquieto gode di un invidiabile equilibrio tra la storia del protagonista e l’intrigo internazionale, concedendosi di affrontare temi non facili come la vecchiaia, la solitudine e la paura della morte. Wallander, infatti, si sente sempre più estraneo al mondo che lo circonda, ma anche a se stesso, poiché ha seri problemi di salute e amnesie che lo portano a rischiare la sua stessa carriera, interrogandosi sul senso della sua vita e del suo lavoro.
Mankell ci regala un’opera di spessore, che chiude in modo degno una saghe molto apprezzata, sciogliendo tutti i nodi rimasti in sospeso nei romanzi precedenti e ricollegandosi specialmente a I cani di Riga, con la ricomparsa dell’amata Baiba.
Un libro molto appagante per i fan di Wallander, ma che può essere letto anche da chi non conosce la serie. Un’ottima conclusione per una serie di alta qualità.

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Simenon
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    23 Gennaio, 2024
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Una dissacrante descrizione dell'ambiente accademi

Che bel romanzo davvero!
I temi sono principalmente due, prima separati e che poi si intrecceranno: la descrizione, dissacrante e ironica, dell’ambiente accademico ed il racconto, più denso e spesso intimista, di come nacquero i movimenti terroristici negli anni ’70. Ma andiamo con ordine.
Sin dalle primissime frasi il romanzo rivela la sua prima cifra stilistica: brillante e spesso sarcastica quando parla del mondo della ricerca universitaria. E’ infatti una divertente descrizione dell’ambiente accademico che non ha mai momenti di cedimento. Il mondo della ricerca sembra un moderno medioevo tanto è stratificata di schiavitù e servilismi verso i baroni nei quali è difficile districarsi per un non addetto.
Alcuni momenti sono indimenticabili: la spiegazione del senso di scrivere un articolo accademico, dell’importanza delle note e della classificazione delle citazioni sulla base di amicizie e inimicizie, non proprie ma del proprio mentore è davvero memorabile così come la parte dedicata alla preparazione del congresso di italianistica.
Il protagonista è Marcello Gori, trentenne, laureato in lettere dopo ben 10 anni di frequenza, sostanzialmente disoccupato e che vive ancora con la madre non potendosi mantenere. Fa qualche lavoretto per raggranellare pochi euro, non ha e non cerca un lavoro stabile. Insomma un perenne adolescente che non si è ancora deciso a crescere).
Marcello ha una fidanzata, Letizia, che è il suo contrario. Studentessa di medicina, perfettamente in corso, orientata al suo futuro e ben saldamente ancorata con i piedi per terra. Per entrambi la relazione è solo la casella “fidanzato/fidanzata” da riempire, come dice l’autore. La loro relazione ha in fondo lo scopo solo di dare un senso al sabato sera e a qualche weekend. Nulla di più. Tanto è vero che quando Letizia proporrà di fare il passo verso la dimensione adulta Marcello si sentirà mancare la terra sotto i piedi.
Per caso o per ripicca Marcello si iscrive al concorso per una borsa di studio per un dottorato all’Università di Pisa e altrettanto per caso, non essendo nella rosa dei prescelti, vince il concorso e si ritrova assunto. Non è sicuramente il prediletto del professore che gli rifila una tesi su un autore a Marcello completamente ignoto, Tito Sella, che, da una ricerca su Wikipedia, scopre essere stato un terrorista viareggino che ha però anche avuto una discreta produzione letteraria. Il protagonista si dedicherà quindi alla scoperta della sua opera e prima ancora della sua vita, tra un colloquio e l’altro con il collega di dottorato, più esperto e scaltro di lui, e con un amico più avanti nella carriera universitaria che un po’ alla volta gli sveleranno i segreti per fare strada nello strano mondo che sono le Università.
Il romanzo passa quindi a raccontare la storia di Tito Sella e dell’ambiente storico nel quale è nata la brigata viareggina Ravachol (tutto frutto di fantasia). Un gruppo di giovani di estrazioni diverse e che non voleva in fondo fare male, che sperava in un mondo più giusto per tutti e i cui membri si ribellavano all’idea della violenza considerando sufficienti le azioni dimostrative. Tito aveva studiato, era religioso e aveva letto molto sull’argomento. Per questo nei suoi scritti si trovano diversi parallelismi con il sacro. All’inizio sembra strano trovarli nei testi di un terrorista ma va considerato che si trattava di terroristi un po’ sui generis, benché sempre spinti dall’idea che la giustizia potesse farsi strada anche attraverso vie non consuete e non legali.
Il gruppo utilizza la parrocchia come copertura per avere i locali nei quali riunirsi e organizza le prime azioni.
In questa parte il racconto si fa serio e circostanziato, talvolta molto intimo. Si respira l’aria degli anni ’70, lo stile è completamente diverso in questa parte ma non perde in piacevolezza e interesse. In particolare l’autore porta il lettore nel sorgere della necessità di ribellarsi al sistema, non ai fini di un arricchimento collettivo ma semplicemente di giustizia sociale per tutti all’interno di un’ideologia anarco-marxista connotata da una sua originalità e anche da una notevole dose di improvvisazione. Le azioni si susseguono, tutte con esito fortunato. E’ interessante questa parte, anche per i diversi caratteri dei componenti della brigata, che devono trovare un minimo comun denominatore all’interno dei paletti che si sono posti. Alla fine di questa parabola Tito Sella sarà condannato all’ergastolo.
Il romanzo narra poi la vita del protagonista a Parigi dove si recherà per studiare l’archivio di Tito Sella ed il suo successivo rientro a casa. Le due storie (quella di Marcello Gori e di Tito Sella) un po’ alla volta si intrecciano, tra colpi di scena e stili diversi che si avvicendano tra loro in modo perfettamente equilibrato. Il lettore è sempre più trascinato dal racconto.
Ho molto apprezzato questo “La ricreazione è finita”, sia, come ho già detto, per la molteplicità di stili, per la ricchezza di citazioni, per l’equilibrio interno della storia, per la piacevolezza e, non ultimo, per la perfetta definizione di tutti i personaggi che per tutto il libro e senza sbavature si muovono e parlano esattamente come l’autore li descrive. Ci sono personaggi di minor peso, non ci sono personaggi non perfettamente tratteggiati.
Un bellissimo romanzo, davvero da consigliare.

“L’accademia è un mondo psicotico affetto da una grave dispercezione della realtà, popolato da individui dotati di fama estremamente limitata(..) che operano in un settore marginale e assolutamente indigente come quello della cultura, e che nondimeno si sentono delle rockstar, e hanno ego e comportamenti commisurati a questa loro convinzione.”

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Gennaio, 2024
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Giuseppe in Egitto

“Giacché noi camminiamo su orme, e tutta la vita non è che un riempire di presente le forme del mito”

“Giuseppe in Egitto” è un libro ricco di rimandi e di allusioni, di corsi e di ricorsi. Giuseppe, venduto dai fratelli a una tribù di mercanti ismaeliti in viaggio verso la terra dei Faraoni, rivive infatti l’esperienza dell’esilio dalla terra dei padri che molti anni prima aveva già sperimentato Giacobbe, quando, per sottrarsi all’ira di Esaù dopo il “furto” della primogenitura, egli era fuggito presso suo zio Labano, al cui servizio aveva poi trascorso ben 25 anni. Ma l’esilio di Giuseppe è, a ben vedere, anche quello dello stesso Thomas Mann, il quale, durante la stesura del terzo libro della tetralogia, aveva deciso di trasferirsi in Svizzera, presso Zurigo, in quanto la sua aperta critica nei confronti del nazismo, che proprio in quegli anni si stava affermando in Germania, lo aveva reso un facile bersaglio del regime hitleriano. Il ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, nato probabilmente per mere motivazioni intellettuali, inizia pertanto ad assumere un sorprendente carattere autobiografico, con Giuseppe, il profetico interprete dei sogni, l’impareggiabile narratore di storie, il quale possiede una natura pseudo-artistica (in cui si compenetrano dimensione vitale e dimensione spirituale, fede e pensiero), che diventa quasi l’alter ego dello scrittore di Lubecca. L’impatto del giovane protagonista con la raffinatissima cultura egizia, nei confronti della quale egli esprime un misto di ammirazione e di beffardo scetticismo, sembra addirittura prefigurare quelle che devono essere state le impressioni di Mann quando, alla fine degli anni ’30, egli si trovò a vivere negli Stati Uniti d’America, i cui grattacieli probabilmente dovettero apparirgli come a Giuseppe le piramidi di Giza, e la affluente società americana come la ricca corte del Faraone, nonostante che la cultura europea, così come la religione monoteista di Abramo e di Isacco, rimanevano pur sempre largamente superiori a quelle in auge nei nuovi paesi di adozione dello scrittore e del suo personaggio.
Dopo le pagine cruente e drammatiche con cui si era chiuso il tomo precedente, “Giuseppe in Egitto” (conformemente all’alternanza di registri che caratterizza il ciclo biblico manniano, capace di passare dalle riflessioni filosofiche alle pagine avventurose, dalle atmosfere frivole a quelle tragiche) torna ad adottare un tono sereno e rilassato, misurato e scorrevole, con una prima parte, quella in cui la carovana di mercanti risale il Nilo (dando a Mann l’occasione di descrivere con appassionato gusto enciclopedico le città e le genti egizie incontrate lungo il tragitto), che sembra quasi un documentario geografico di duemila anni fa (così come qualche capitolo più avanti le feste religiose e le apparizioni pubbliche del Faraone a Tebe sembrano estrapolate da un trattato etnografico su quell’epoca lontana). Lungi dall’essere spaventato per il fatto di trovarsi catapultato in una terra sconosciuta, di cui non conosce né la lingua né i costumi, Giuseppe si lascia guidare dalla sua innata sete di conoscenza e osserva tutto quello che gli passa davanti agli occhi con estrema attenzione, “per accogliere profondamente dentro sé, nello spirito e nei sensi, il paese e la vita del paese, badando sempre che la sua curiosità non degenerasse in confusione e ottundimento fuori luogo, ma si mantenesse sempre all’erta e desta in onore dei padri”. Il suo obiettivo segreto è quello di diventare un giorno “il primo tra la gente di quei luoghi”, in ossequio con quello che egli ritiene essere il suo destino voluto da Dio e rivelatogli nei sogni dei suoi anni giovanili. Il fatto che il suo percorso sia in qualche modo già segnato, e debba solo palesarsi poco alla volta, a tempo debito, dà a “Giuseppe in Egitto” l’andamento del più classico romanzo di formazione, con l’eroe che da una posizione inizialmente infima si eleva fino al successo e alla gloria, con personaggi emblematici (come quello del fedele sovrintendente Mont-kaw, che accoglie Giuseppe, dopo che gli ismaeliti lo hanno venduto al ricco cortigiano Potifar, come un figlio, designandolo in breve tempo come suo successore, o quelli dei due nani Dudu e Teodoro, il primo che cerca in tutti i modi di mettere in cattiva luce Giuseppe e provocarne la rovina, e il secondo invece di favorirlo e proteggerlo) ed episodi cruciali (come il colloquio tra i due anziani genitori di Potifar, a cui Giuseppe assiste casualmente e che gli permette di venire a conoscenza dei segreti più intimi della vita del suo potente padrone, o ancora il fatidico dialogo tra Giuseppe e Potifar, con cui il giovane schiavo, interrogato mentre è al lavoro nel giardino delle palme, conquista con la sua facondia l’ammirazione e la fiducia del secondo, segnando così l’inizio della sua fortuna nella nuova casa).
Mann riempie con dovizia e intelligenza i tanti vuoti lasciati da una storia originariamente narrata in modo fin troppo conciso e succinto. Non bisogna però cadere nell’equivoco: lo scrittore tedesco mostra un grande rispetto, se non addirittura una sorta di venerazione, per la Bibbia, un libro che è stato da lui definito come un “monumento, il più singolare e grandioso della letteratura universale”, “ il libro par excellence, … proprietà del cuore, inalienabile”. Consapevole che intelletto e cuore, razionalità e sentimento possono seguire strade diverse, e addirittura contraddittorie, Mann non si vergogna di rivestire una storia che si è dimostrata nei secoli “intangibile da parte di qualsiasi critica intellettuale” di una nuova veste, più seducente nella forma e soprattutto più credibile nelle dinamiche psicologiche che la sottendono. “Ci sgomenta – afferma lo scrittore in “Giuseppe in Egitto” – la concisione sommaria di una narrazione che rende tanto poco giustizia alla amara minuziosità della vita”. E’ per questo che, nel già accennato dialogo di Giuseppe con Potifar, Mann si prodiga per rendere psicologicamente realistico, e in tal modo tanto più verosimile, il laconico verso “Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui”. Ciò si comprende ancora meglio nella seconda parte del romanzo, quella in cui viene raccontata l’infatuazione di Mut-em-enet per Giuseppe. Se il libro sacro accenna semplicemente che “la moglie del padrone di Giuseppe gli mise gli occhi addosso e gli disse: «unisciti a me»”, Mann impiega centinaia di pagine di raffinato erotismo per descrivere l’infatuazione della sposa di Potifar per il giovane servo del marito. E’ proprio questa seconda parte che rappresenta, a mio avviso, il principale motivo di interesse del libro: nell’esporre il lento ma inesorabile precipitare della ricca e venerata signora nei gorghi della passione, che le fa mettere da parte ogni remora dettata dalla vergogna e dall’onore per ricorrere ad ogni mezzo, finanche il sortilegio di una negromante, pur di accaparrarsi le grazie dell’essere concupito, Mann realizza una straordinaria, profondissima indagine fenomenologica del desiderio amoroso, facendo di Mut-em-enet una tragica eroina dell’amour fou, che non sfigura affatto al cospetto di più celebri ed emblematici personaggi come Madame Bovary o Anna Karenina.
Con la sua consueta, apollinea perfezione (solo in parte appesantita da dialoghi a tratti un po’ troppo ampollosi e pedanteschi), Mann trasforma quello che potrebbe a prima vista sembrare un semplice racconto di appendice, una storia d’amore dagli insoliti (conoscendo l’autore) risvolti pruriginosi, in un’opera di grande valore filosofico e meta-letterario. Ad esempio, Mann ci offre una profonda riflessione sull’opportunità dell’autore di essere dentro la storia narrata, di diventare un tutt’uno con essa, oppure di porsi anche al di fuori della storia, come una voce critica, che la analizza e ci ragiona sopra. Mann cioè affronta di petto quella che è la fondamentale differenza tra il narratore classico, ottocentesco (quello che lui stesso era al tempo dei Buddenbrook) e lo scrittore moderno, il quale non è più disposto a calarsi anonimamente nella storia, ad accontentarsi di essere un semplice registratore di ciò che in qualche modo è accaduto o accadrebbe anche senza di lui. Con il suo continuo sillogizzare ed elucubrare sui molteplici aspetti diegetici ed extra-diegetici della vicenda raccontata, Mann, ovviamente, tende a essere ben presente nella sua costruzione, attraverso un duplice percorso di demitizzazione ed umanizzazione da una parte, e di riflessione critica dall’altra, come quando ragiona sugli anni trascorsi da Giuseppe nella casa di Potifar cercando di conciliare verità storica e verosimiglianza con un metodo che, sottoponendo ogni fatto narrato a una solida controprova logica, si può quasi definire scientifico. Mann sancisce in tal modo l’importanza in letteratura del metodo a supporto dell’ispirazione poetica, affermando: “Può forse il sentimento, se vuole attuarsi, se vuole suscitare per esempio un senso di benessere pieno di fiducia, far questo senza calcolo e sapiente tecnica?”. Lo stesso Giuseppe, che già abbiamo detto in apertura essere quasi un alter ego dello scrittore, utilizza scientemente la letteratura, sia come valente lettore, sia come fine esegeta, per conquistare Potifar e rendersi a lui indispensabile, diventando in breve tempo il più influente tra i lavoratori della casa. Quello della relazione tra arte e vita e dell’importanza del metodo nell’arte non è che uno dei motivi di interesse del libro, il quale nelle sue oltre settecento pagine (che lo rendono il più lungo dell’intera tetralogia) riflette su una miriade di argomenti, come il rapporto tra presente e passato, tra tradizione e progresso o tra identità nazionale e cosmopolitismo, tematiche che trascendono l’epoca della storia narrata per entrare prepotentemente nell’attualità. Uno dei tanti motivi di pregio del libro è anche la simmetria che assume il racconto di Giuseppe giunto al suo terzo atto. “Giuseppe in Egitto” infatti ripercorre con nuove sfumature l’intera parabola narrata nel libro precedente: la benedizione in punto di morte di Mont-kaw riecheggia quella impartita da Giacobbe, e simili sono le tentazioni di Giuseppe (là la veste istoriata di Rachele, qui la profferta amorosa di Mut-em-enet) e l’invidia che muove i suoi antagonisti (con il subdolo nano Dudu che prende il posto dei fratelli di Giuseppe). Identico infine è il destino di Giuseppe: la fossa, ossia la caduta in disgrazia, la (apparente) sconfitta. Letto così, “Giuseppe in Egitto” ci appare come una sorta di splendida sonata musicale, in cui il mirabile tema principale, dopo la sua esposizione e il suo sviluppo, viene ripreso e arricchito con piccole ma decisive modifiche, prima che la coda finale (cioè il quarto e ultimo libro) possa finalmente condurci a una definitiva e liberatoria conclusione.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    21 Gennaio, 2024
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“Odiare è uno spreco di felicità”

Fa subito simpatia Diego, nove anni, lui e il suo camioncino rosso da cui non si separa mai anche se gli manca una ruota.
Diego ‘o chiatt, la balena, ‘o russ, il fesso, lo stupido. Gli altri, il branco. Lui che non riesce bene neanche di parlare in napoletano.
Avvelenato dallo sguardo della madre Miriam, che trova in lui sempre qualcosa di sbagliato, convincendolo di essere sbagliato. I silenzi di lei che maturano nella sua giovane mente i sensi di colpa. Troppi, soli silenzi.
Miriam e la sua faccia dura “sollevava il mento e s’appuntava sul viso la scortesia”, la gentilezza un concetto del tutto estraneo.

L’Icam, Istituto a custodia attenuata per detenute madri, è una struttura costituita in via sperimentale nel 2006 per consentire alle detenute madri che non possono usufruire di alternative alla detenzione in carcere di tenere con sé i loro figli. Un carcere come una grande famiglia, detenzione attenuata, non ci sono celle ma piccoli appartamenti con camera da letto, bagno, cucina, affinché le detenute possano sentirsi come a casa propria insieme ai propri figli fino al compimento dei sei anni, in alcuni casi anche fino ai dieci se i bimbi non hanno nessun altro con cui stare.
Il direttore Giacomo Parisi parla di fiducia, ti puoi fidare le dice.
“Gentilezza viene prima della fiducia.”

Lorenzo Marone riesce a ricostruire gli eventi passati, sembrano prendere vita e accadere nel momento in cui i fatti vengono narrati. La percezione è viva. Le emozioni visibili sul viso di me che leggo. Rifletto su come alcuni destini nascano gia’ svantaggiati, la corsa al recupero sempre un poco indietro, lo sforzo più grande, il passo necessariamente più lungo. I giudizi così superficiali dati all’oscuro dei fatti.

“Chi in nessuno crede da nessuno verrà creduto.”

Un romanzo corale in cui Miki Cuomo, Greta, Gambo e Adamu, Jennifer, Amina, Melina con le gambe storte e la testa buona, Miriam che inizia a fare amicizia con Anna, Anna che le leva a poco a poco l’odio di dosso aiutandola a far pace …ci raccontano e accolgono nelle loro vite.

Diego e la sua allegria. Ma da dove nascerà mai?

“Lo sai che non ho mai visto i tuoi denti?
Che vuo’ dicere?
Che non sorridi mai.”

Fa tenerezza questa madre, che mi ricorda Rino Zena, il papa’ di Cristiano dal racconto di Niccolò Ammaniti. Questi genitori così profondamente padre e madre, così severi perché così profondamente innamorati dei propri figli, la paura della loro debolezza.
“Io starò con te e ti proteggerò.”

Per me è stato un romanzo di conoscenza. Di realtà di cui ignoravo l’esistenza.

Nonostante la prosa sia scorrevole, la lettura non è piacevole, non perché non sia interessante o coinvolgente, risulta molto dolorosa, impossibile non immedesimarsi in queste madri e pensare, mentre leggi, alle tanti madri e figli che vivono in luoghi angusti anche se privi di sbarre. Eppure la vena poetica dell’autore emerge ed è ciò che consola.

Mi ha deluso nel finale. Dei destini dei bimbi a cui mi sono affezionata avrei desiderato sapere la strada a loro destinata.

Non si è prigionieri perché in prigione, la prigione arriva prima, nel cammino, nelle scelte, nelle paure che attanagliano. La conferma che la parità dei punti di partenza è una favola anche mal riuscita.
La parità dei punti di partenza è un imbroglio imbastito per chi se ne riempie la bocca e intanto parte dieci file più avanti.

“Prima o poi quello che non sei riuscito a dire ti viene a cercare.”

Buone prossime letture

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silvia t Opinione inserita da silvia t    21 Gennaio, 2024
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Franzen da giovane

Se anche voi come me non avete mai visitato gli negli Stati Uniti e adorate immergervi in culture lontane , Franzen è il vostro autore.

St. Louis, Missouri, Midwest : queste le coordinate della protagonista del romanzo.

E' St.Louis a pervadere ogni pagina, a pulsare di vita, a decidere, a nascondere, a controllare, loro malgrado, i suoi abitanti.


Ormai apatica, ombra della passata dinamica città, St. Louis viene risvegliata dalla nomina di un nuovo capo della polizia: una donna indiana (ricordiamo che siamo nel 1988).

Questo il primo movens che dà inizio alla trama, caotica, a tratti senza senso, ma proprio per questo verosimile e avvincente.

I personaggi introdotti con la già sapiente penna del giovane Franzen, ci appaiono meno perfidi rispetto a quelli a cui ci abituerà in seguito, sono tratteggiati in modo da farci intuire le sfaccettature, ma senza indulgere troppo nelle descrizioni.

Lo stile è un po' acerbo, ma il potenziale è già presente e come di consueto chiudere il libro risulterà difficile.


L'intreccio fitto di fili, non tutti comprensibili, non tutti logici, è narrato come se il punto di vista non fosse quello di una persona, ma quello della città, che guarda quasi divertita ciò che gli uomini fanno, quasi grata per essere stata risvegliata dal torpore speranzosa di tornare ad essere la quarta città degli Stati Uniti e non più la ventisettesima.


Mentre si scorrono le pagine le vicende quasi si dissolvono in una nebbia densa, in un incedere lento e senza senso, la descrizione di vite inutili, che si trascinano solo per inerzia, per tradizione, per un interesse personale privo di fine, ma solo fine a se stesso.

Le emozioni non vengono riconosciute, travolgono senza che se ne capisca l'importanza.


Uno spaccato di vita davvero intenso, come di rado mi è capitato di leggere.


Il piano di lettura narrativo si muove agilmente tra il giallo, il dramma e a tratti la commedia, grazie sopratutto ai dialoghi vivaci e spesso sarcastici, ma è quello sociale il più interessante; la società di questa cittadina è portata alla luce dalle azioni e dai pensieri di coloro che la abitano e mostra tutte le contraddizioni di una collettività arretrata e arenata nelle proprie convinzioni.


Una lettura consigliata a chi ama (come me) Franzen, ma anche a tutti gli altri.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    21 Gennaio, 2024
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Meraviglia a singhiozzi

«[…] Corro per il campo in cerca della palla e desidero per la prima volta da quando sono nata andare avanti e non fermarmi e oltrepassare quelle sbarre grigio ferro e continuare a dare calci per far rotolare il pallone un po’ più in là, per vedere quanto “in là” c’è al mondo, quanto è spaziosa la prigione dei mica-matti.»

Quando conosciamo Elba sappiamo solo che è nata in manicomio perché figlia di una donna ricoverata perché considerata malata di mente. È una bambina particolare che cresce in un contesto particolare e che aspetta la madre. Siamo all’inizio degli anni ’70, è un periodo storico che vede l’introduzione della legge Basaglia, che si accavalla e si accoda a un momento della nostra Storia in cui bastava poco per finire catalogati tra persone non sane di mente. La stessa madre di Elba finisce in manicomio per lo stesso motivo, è una tedesca rifugiata politica che alla fine non riconoscerà nemmeno più la figlia a causa dei troppi elettroshock subiti.
Elba ha molta fantasia, è molto intelligente e non è matta. Dà soprannomi a tutto e tutti in quel del “mezzomondo”, basti pensare alle “suore culone” o a “Lampadina”, l’infermiere che pratica l’elettroshock, vive nella speranza e la sua vita cambierà davvero quando tra i medici entrerà il dottor Fausto Meraviglia. Sarà lui a rendersi conto dell’anomalia di una bambina sana in un luogo di confinati e quando i manicomi saranno chiusi, ecco che l’uomo la prenderà in casa con sé crescendola e facendola studiare. Se per il dottore ella è la figlia che si è scelto, per la bambina egli è il padre e la famiglia che non ha mai avuto. È un uomo non immune da difetti, anzi; è un donnaiolo, un bugiardo, spesso è incoerente ma è anche un uomo di grande umanità.

«[…] Forse festeggerò domani il nuovo anno andando a spasso per i campi elisi, in mezzo alle anime smarrite come me, che non si sono accorte di essere state truffate e di aver contribuito in qualche modo alla loro stessa truffa. Insieme a quelli che hanno goduto troppo presto per una vittoria che non c’è stata mai, per un rigore mai tirato.»

Elba sente il dolore per l’assenza di una madre che gli è stata negata ma lo sente anche nei confronti di tutte quelle figure femminili che non hanno potuto vivere una vita normale, a cui quest’ultima è stata per qualsivoglia motivo sottratta. Ed è anche per questo che la Ardone, tramite la sua protagonista, cerca di rivolgersi a un pubblico prevalentemente femminile.
Il racconto si divide in sezioni e si avvale del canonico salto temporale per svilupparsi. Questo non sempre rende favorevole la lettura, soprattutto quando a tornare in scena è la figura del Dottor Meraviglia che ora è giovane, ora è anziano. La frammentarietà rende lo scritto un po’ un singhiozzo continuo e non favorisce l’empatia.
Al modesto avviso di chi si scrive e fermo restando che la lettura è soggettiva, c’è anche una problematica di obiettivi disillusi e traguardi non raggiunti. Se vuoi parlare di manicomi, malattia mentale, Legge Basaglia devi anche un minimo addentrarti nel profondo di quello che è la tematica e qui, questo aspetto, non c’è. Si resta molto sul superficiale, quasi come se si volesse narrare una favoletta di un tempo che è stato e fine. Certamente in un romanzo di narrativa non è richiesto l’approfondimento di un saggio ma ci dev’essere comunque coerenza tra il narrato e gli intenti, cosa che in “Grande Meraviglia” non c’è.
C’è tanta discontinuità, tanta disarmonia tra queste pagine. Si fatica ad empatizzare con i personaggi, a farli propri. Il lettore resta un po’ distaccato da quel che viene proposto, è arenato dalla frammentarietà che si trova davanti ed è stordito dal quantitativo di frasi fatte. Lo stesso Meraviglia resta un personaggio sulla superficie, uno di quei volti che vedi ma che non ti prendono per mano trasportandoti in un caleidoscopio di emozioni. Elba non è da meno.
Un libro tanto, troppo commerciale. A maggior ragione per il tema che tratta, tema molto gettonato, tema trattato in tanti modi da altri scrittori, tema che merita un qualcosa di più. Si fatica sinceramente tanto a leggere un romanzo che per come è impostato si dovrebbe ultimare in poco più di una giornata.

«[…] L’ho carezzata senza rimproverarla: ho capito che dopo tanta prigionia aveva bisogno di costeggiare i limiti della sua libertà.»

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    21 Gennaio, 2024
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Insomma

Letto diverso tempo fa, l'ho trovato abbastanza palloso e poco incisivo.
E' un opera che ha avuto innumerevoli rappresentazioni teatrali e cinematografiche, tra le quali ricordo con sommo dispiacere quelle del Maestro Dario Argento, che andai a vedere secoli fa al cinema Cola di Rienzo a Roma. Purtroppo un film sfortunato che sancì definitivamente il declino del re dell'horror all'italiana.
La storia è interessante, ambientata in un teatro dove si aggira questa figura spettrale che veglia sui destini degli attori e degli spettatori.
Purtroppo avendo preso una edizione ultra economica, ne sono rimasto scottato, visto che la traduzione lasciava molto a desiderare e quindi portare avanti la lettura è stato alquanto difficoltoso e pieno di tempi morti, dovuti alla metabolizzazione del testo di certo non fluido e piacevole.
Parigi è la protagonista oscura del testo, spettrale e cupa, ove si annida il male, la lussuria e la cupidigia.
La morte aleggia un po ovunque, lo spettro si fa beffe delle persone, delle loro paure.
Un ombra si aggira tetra e minacciosa fra cunicoli dimenticati, assiste alle Opere e osserva la prossima vittima.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    18 Gennaio, 2024
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Il ragazzo

Per me è un Ni!! questo romanzo.
In lande desolate, arse dal sole e sventrate da piogge torrenziali, errano senza meta un gruppo di semi-uomini, marchiati dalla vita, dalla miseria e dalla sofferenza che non hanno pietà alcuna per ogni forma di vita, animale, umana che incontrano.
L'autore come è nel suo stile non risparmia un linguaggio crudo, ossessivo, spietato.
Fin qui tutto bene, si fa per dire....
Quello che non mi ha convinto è la ripetitività spesso anche abbastanza tediosa, di questo vagare senza meta di questi uomini-belve, che mi ha dato come l'idea che il romanziere non avesse in mente dove parare.
Con lo scorrere delle pagine ho avvertito la sensazione che a una buona idea germinale non abbia fatto seguito poi un buono sviluppo.
Le scene si ripetono, le crudeltà anche, il vagare senza sosta altrettanto, gli omicidi sempre fini a se stessi.....dove vogliono andare questi disperati?? a cosa serve errare per terre ostili, selvagge, senza leggi, senza cibo, acqua e speranza??
Protagonista è il Ragazzo, finito nel vortice della violenza che ha costellato la sua esistenza. Da dove viene, nessuno lo sa. Si aggrega a questi scellerati, che si odiano tutti fra di loro, che si farebbero la pelle anche solo per una pinta di birra in qualche saloon.....leggendo questo grande scrittore USA, per l'uomo non vi è speranza e la Natura non ha pietà del nostro destino ed è l'unica che può renderci schiavi.

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Non è un paese per vecchi
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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    18 Gennaio, 2024
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Un delitto incompiuto.

Messi da parte il vicequestore Rocco Schiavone e le sue indagini, Antonio Manzini affronta in questo nuovo giallo il tema della legge e del suo rapporto con la giustizia. Perché, come si evince dal racconto, legge e giustizia non sempre vanno d'accordo: la legge ha le sue norme scritte, i suoi articoli ben definiti, mentre la giustizia, che dovrebbe applicare la legge, è gestita dagli uomini, che spesso la stravolgono, la adattano ai propri convincimenti, alle pressioni esterne, a legami più o meno stretti politici e sociali. Tutto questo non va giù ad uno dei protagonisti, il dottor Carlo Cappai, un solitario ex poliziotto, ora relegato, per una menomazione fisica, nell'archivio sotterraneo della questura di Bologna. In gioventù Cappai aveva assistito all'uccisione, in uno scontro tra manifestanti, di una ragazza, Giada, suo primo, indimenticato e unico amore. L'assassino ,Luigi Sesti, figlio di famiglia altolocata, se l'era cavata con un'assoluzione, suscitando in Cappai un sordo rancore ed una meticolosa ricerca, negli anni successivi, di tutto quanto poteva riguardare il Sesti. meditando anno dopo anno di farsi giustizia da sé. Non solo Sesti, anche altre ingiuste assoluzioni turbavano Cappai: quella di un giovane che aveva ucciso soffocandoli i genitori, rei di non dargli abbastanza soldi, ed ancora quella di un trafficante di droga, che aveva fatto fuori la moglie. Assoluzioni che Cappai non riesce a sopportare, perché "non siamo bravi ad osservare, non guardiamo con attenzione, prendiamo sotto gamba dettagli e virgole che invece sono essenziali, fondanti, risolutivi ...". Il nostro si trasforma in giustiziere, ma quando finalmente riesce ad avvicinare il suo bersaglio vero, l'assassino della sua amatissima Giada, ecco il colpo di scena architettato da Manzini, un colpo di scena che lascia interdetti e che condizionerà l'esito finale del giallo.
Altro protagonista è Walter Andretti, l'opposto di Cappai: tanto l'ex poliziotto è scorbutico, solitario, depresso, quanto Andretti, cronista sportivo passato alla cronaca nera di una piccola testata bolognese, è gioviale, socievole, attivo, sempre pronto a curiosare, indagare. Le storie di Cappai e Andretti si intrecciano, quest'ultimo intuisce le manovre di Cappai, indaga su certi delitti, si avvicina suo malgrado alla verità, sa ma non vorrebbe sapere. Tiene un diario meticoloso, sul quale annota tutto, i suoi pezzi giornalistici sono molto apprezzati, anche se la verità sembra sfuggirgli e le cose, come spesso accade, non sono come appaiono.
Manzini ha scritto un bel giallo, pieno di sorprese, teso, sempre sospeso tra verità e dubbi. Magistrale la sua descrizione particolareggiata dell'andamento di un processo: le sedute si trascinano stancamente, gli interventi di avvocati e giudici si perdono in questioni di nessuna importanza, domande poco attinenti, risposte risentite, perdite di tempo, faldoni impolverati che riempiono gli archivi, una giustizia degli uomini che sembra prendersi gioco delle leggi. Questo è il tema fondante di tutto il racconto, questa purtroppo la verità che spinge Cappai, l'incompreso protagonista, a farsi giustizia con le proprie mani.



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Lonely Opinione inserita da Lonely    18 Gennaio, 2024
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Il fou de Bergerac

Il pazzo di Bergerac, del 1932, è uno dei più famosi polizieschi di Simenon con il suo personaggio preferito, Maigret.
Mentre è in viaggio in treno per la Dordogna, ospite a casa di Leduc, poliziotto in pensione,
Maigret viene ferito inseguendo un uomo misterioso, che si è gettato dal treno in corsa, prima di arrivare alla stazione di Villefranche.
Maigret, ferito ad una spalla, viene ricoverato all’ospedale di Bergerac, ma senza i suoi documenti rimasti sul treno, viene accusato inizialmente di essere il “fou de Bergerac”, un assassino ricercato dalla polizia locale per aver ucciso due donne.
Leduc, venuto a conoscenza dell'accaduto si precipita a Bergerac e risolve l'equivoco.
Maigret nonostante sia costretto a letto per una lunga convalescenza, si interessa subito al caso e lo risolve senza muoversi dalla sua camera dell'ospedale, con l'aiuto di Leduc, appunto, e della sua fedele e paziente moglie Louise.
Sicuramente non è uno dei migliori romanzi di Simenon, ma io l'ho trovato una lettura piacevole e divertente.
Il detective che risolve i casi, senza uscire di casa, ci ricorda il personaggio di Nero Wolfe, di Rex Stout.
E il romanzo ricalca un po' la commedia degli equivoci, con i classici scambi di identità che creano situazioni che spesso confondono anche il lettore. Ma la descrizione dei personaggi è superba, come al solito, interessanti e intriganti, tutti innocenti e tutti colpevoli.
Non eccellente ma solo per la straordinaria umanità di Maigret, la caratterizzazione dei personaggi, e la descrizione degli accadimenti, vale la pena di leggerlo.

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Classici
 
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68 Opinione inserita da 68    18 Gennaio, 2024
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Coscienza di se’

Anne Elliott, la giovane protagonista di “ Persuasione”, impiegherà dodici anni a vivere e a costruire il senso profondo di parole e sentimenti rinchiusi in un se’ ancora acerbo.
Figlia di sir Walter Elliot, prematuramente vedovo, uomo vanitoso e fatuo, si innamora di Fredrick Wentworth, un giovane ufficiale di marina a cui dovrà rinunciare per differenza di rango, affidandosi ai consigli di lady Russell, sua tutrice, donna buona, generosa e altruista ma

…” con un debole per il lignaggio”….

La fine di un amore la esporrà all’ assenza di amore, la lontananza favorirà la dimenticanza, il ritorno di Wentworth dopo otto anni, arricchito e sicuro di se’, ridesterà un sentimento sospeso e negato ma ancora vivo e pulsante.
“ Persuasione “, romanzo postumo di Jane Austen, pubblicato nel 1818 a tre anni dalla sua morte, , ne possiede i tratti precipui, la rappresentazione di un universo femminile senza voce sospeso tra ragione e sentimento nella desolante accettazione di un patriarcato dominante, un microcosmo di superficialità solo apparente che concede alla donna il matrimonio come fine di una vita costruita sulle consuete attività

…” di cura della casa, rapporto con il vicinato, abiti, balli e musica”….

In una miscela di realismo dettagliato e di preromanticismo assistiamo alla presa di coscienza di una donna in merito alle proprie doti intellettive e alla possibilità di decidere il futuro.
Anne, dopo la morte della madre, soggiace all’ invisibilità del padre e delle due sorelle, allontanata dall’ amata dimora di Kellynch, finita in mani altrui per mancanza di mezzi, e, pur dotata di finezza mentale e di dolcezza caratteriale, vive di parole che non contano e di esigenze posticipate.
In famiglia si privilegiano ricchezza, lignaggio, aspetto, buone maniere, rapporti con il vicinato, come può una giovane donna esigente e sentimentale che rifugge l’ apparenza, attratta da modi suadenti, dalla lettura, desiderosa della compagnia di persone informate in grado di sostenere una conversazione intelligente, accettare una situazione siffatta?
Ancora debole e insicura si era arresa ai desideri altrui, cedendo a un eccesso di persuasione, allontanando l’ amore, un dazio fattosi onta, il capitano Wentworth oggi è tornato ma pare freddo, indifferente, la ritiene sfiorita e lontana, come dargli torto dopo essere stato trattato e rifiutato a quel modo.
Dodici anni hanno trasformato quella quindicenne fiorente, silenziosa e ancora immatura in una elegante giovane donna di ventisette, piena di bellezza seppure non in fiore,

…” dai modi consapevolmente impeccabili ma invariabilmente gentili”….


In lei oggi risplende la luce della consapevolezza, la pienezza di se’, la presa di coscienza di quello che è stato, quella saggezza e ragionevolezza auspicate e nascoste nella fredda educazione e nella cerimoniosa cortesia.
La fine di un sentimento e l’ indifferenza lasciano intendere altro, le trame della vita smaschereranno inganni e falsità, onesta’ e purezza insceneranno un futuro roseo con vista sul vero volto dell’ amore.
La scrittura di Jane Austen, semplice e formale, accusata di superficialità, nasconde un’ autrice che fu grande lettrice e fine letterata, e che, oltre l’ apparenza, allestisce e rappresenta una articolata commedia umana accompagnata da una dose di arguta e spontanea ironia.
Un “ femminismo “ sui generis la caratterizza, condito da un’ etica del tutto personale, la denuncia della inappropriata condizione femminile e la ricerca di un’ identità senza scardinare le istituzioni.
In fondo il matrimonio riveste ancora la cornice dell’ universo femminile, il lieto fine riguarda ogni suo romanzo insieme a una certa astoricita’, ma una nuova consapevolezza, psicologica, interiore, profonda ne riveste le protagoniste, donne sospese tra ragione e sentimento, alla ricerca di se’, incamminate verso il futuro e la modernità.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    17 Gennaio, 2024
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Carne contaminata

Tangeri. Sarah, moglie del vice commissario Driss Ikker, subisce uno stupro all'interno della sua abitazione, mentre il marito è fuori per un viaggio di lavoro. La scoperta del tragico evento fa precipitare immediatamente l'uomo in un baratro di disperazione e rabbia che lo allontana dalla consorte violata, quasi la donna, fino ad allora amata e rispettata, fosse ormai contaminata nel corpo e nell'anima. La sua mentalità maschilista mette in secondo piano il dolore e i bisogni di Sarah, l'amore che fino ad allora lo ha legato alla sua metà, l'empatia che, in momenti come questo, avrebbe dovuto avvicinare i coniugi ancora di più, per cedere il posto alla rabbia, alla sete di vendetta, all'orgoglio ferito. Sembra quasi che il vero torto lo abbia subito lui, marito e padrone, violato nella virtù e nel diritto di proprietà, e che quello patito dalla moglie sia soltanto un danno accessorio. Sarah cercherà in ogni modo di tornare alla vecchia complicità, all'ormai consolidata intimità, al solito menage, trovando però un muro invalicabile fatto di pregiudizio, maschilismo, furore. Estromesso per ovvi motivi dall'indagine per la ricerca del colpevole, disgustato dall'atteggiamento dei suoi colleghi, pronti a malmenare e gettare in galera il primo venuto pur di chiudere un caso di cui fondamentalmente non gli importa nulla, spinto dalla sete di vendetta, Driss seguirà un proprio filone d'inchiesta che, a partire da un gioiello ritrovato sul luogo del misfatto, lo porterà a ficcare il naso nei più altolocati ambienti tangerini, fino a giungere alla scoperta di una sorprendente e ancor più amara verità. Quello di Khadra è un noir con tutti gli elementi del genere, ma che va ben oltre l'aspetto poliziesco della vicenda, inoltrandosi nei recessi della mente umana e raccontando reazioni psicologiche diverse, alcune tutt'altro che condivisibili come quella del protagonista, che spiazzano e in un certo senso infastidiscono il lettore, ma che si rivelano purtroppo più vere e comuni di quanto si possa pensare. Sullo sfondo una società tangerina in particolare, ma in generale marocchina, magrebina, ma potremmo dire universale, sporca, corrotta, arrivista, dove dominano insaziabili l'ambizione, la sete di potere e denaro, la lussuria incontrollabile, dove la fallocrazia imperante tende troppo spesso a trasformare in colpevoli le vittime di violenza sessuale, dove l'onore machista conta più della tragedia fisica e mentale di chi lo stupro lo subisce sulla propria pelle, dove il corpo profanato diventa nient'altro che "carne contaminata", problema di minor conto rispetto a quello, considerato ben più grave, subito dall'uomo: l'affronto.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    15 Gennaio, 2024
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Ned Flanders aveva preso meglio la morte di Maude

Tempo fa mi lagnavo di quanto spesso mi deludessero le autrici britanniche di romanzi thriller, e per questo mi ripromettevo di riflettere molto attentamente prima di dare una possibilità a delle nuove penne in questa categoria. A quanto pare dovrò estendere il veto anche nei confronti dei loro colleghi uomini! tutto merito di Anthony Capella, scrittore inglese che ha scelto di scrivere un romanzo incentrato su protagoniste femminili, parlando di tematiche femminili e con un punto di vista esclusivamente femminile, e l'ha fatto adottando uno pseudonimo volutamente privo di genere. Bastano però poche pagine per capire come "La ragazza di prima" non possa che essere opera di un uomo. Un uomo con la sensibilità di un coltello a serramanico.

La narrazione è divisa tra due linee temporali e ruota attorno al il numero 1 di Folgate Street, nel sobborgo londinese di Hendon; qui sorge una residenza minimalista nell'estetica e ricca di dispositivi all'avanguardia, opera del noto architetto Edward Monkford. Nel passato vediamo Emma Matthews ed il fidanzato Simon fare carte false per poter affittare la casa, dopo il trauma di una rapina nella loro vecchia abitazione; tre anni più tardi troviamo Jane Cavendish in una situazione analoga, mentre cerca di voltare pagina a seguito del lutto per la figlia che stava per dare alla luce.

Questa ridondanza voluta è uno dei pochi aspetti che redimono in piccola parte il romanzo: ho trovato interessante leggere due versioni delle stesse situazioni, delle stesse dinamiche e delle stesse relazioni, inquadrate però da diverse prospettive. L'autore fa della ripetizione e della sensazione di déjà vu il nucleo centrale della sua storia, e credo che il risultato sia a suo modo interessante. In generale, promuovo anche la prosa semplice ed il ritmo incalzante, che rendono la lettura decisamente scorrevole.

L'altro pregio di questo titolo è il concetto della smart house come versione moderna delle case infestate nelle narrazioni horror classiche; trovo che questo spunto abbia un grosso potenziale, ed è anche il motivo per cui mi sono interessata inizialmente al libro. Purtroppo questo elemento viene evidenziato soprattutto nella prima parte, mentre verso metà libro è accantonato in favore di altri aspetti, e torna a palesarsi soltanto nel finale.

Già esaurite le lodi, passiamo alle mie critiche su questo romanzo. In primis abbiamo un intreccio che non risulta mai sorprendente: le svolte sono tutte molto prevedibili per chi bazzica un minimo il genere, e verso l'epilogo sembra che Delaney stesso abbia rinunciato a stupire. La trama è inoltre svilita dai comportamenti assurdi dei personaggi stessi, che servono solo a creare tensione fine a se stessa: due esempi sono la scena del mazzo di gigli e quella del tatuaggio, momenti che vorrebbero sembrare drammatici ma risultano quasi ridicoli.

Pur non essendo un'esperta, ho trovano poi assurdo il modo in cui viene raccontato il funzionamento del sistema giudiziario inglese, per tacere di quello sanitario: c'è da pregare di non avere mai bisogno di alcun tipo di assistenza di quel Paese! Ma se questo aspetto è alla fin fine accettabile per ragioni di trama, ho trovato per contro agghiacciante la superficialità con cui vengono trattate tematiche molto gravi -come l'aborto e gli abusi domestici- con il solo intento di sconvolgere chi legge, ma senza farne un briciolo di analisi critica; tutto questo rende a mio avviso la lettura anche incredibilmente triggerante.

Non sono riuscita ad apprezzare neanche la caratterizzazione delle due protagoniste, che ho trovato a dir poco fiacca; immagino che l'autore volesse descrivere dei personaggi facilmente manipolabili, ma il risultato è quello di renderle due mentecatte incapaci di intuire quali saranno le conseguenze delle loro azioni. L'omogeneità della prosa purtroppo non aiuta a rendere interessanti le voci di Emma e Jane che risultano anzi praticamente identiche, e si possono distinguere solo per l'assenza delle virgolette nei capitoli dal punto di vista della prima. Amarum in fundo, trovo quantomeno bizzarro che il solo personaggio per il quale Delaney si è sentito in dovere di specificare l'etnia sia il delinquente nero.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    15 Gennaio, 2024
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Cromosoma XX

Il buon romanzo d’esordio di Aurora Tamigio è una saga familiare, forte ed efficiente, il racconto di un’epopea tutta declinata al femminile, che inizia nella Sicilia dell’immediato primo dopoguerra per terminare, in linea diretta da donna a donna, nei moderni anni Ottanta del secolo scorso.
La storia scorre disinvolta, funzionante per bene nelle intenzioni, costruita con proprietà di linguaggio ed intercalata da espressioni dialettali che la contestualizzano senza aggravio nella lettura, narra la vita vissuta, e vessata seduta stante già all’origine, della capostipite Rosa, passando poi per la sua unica discendente femmina, e vittima angariata, Selma; infine, la narrazione termina con le figlie di quest’ultima: la bellicosa ed indomabile Patrizia, Lavinia, tanto fascinosa come un’attrice quanto rammaricata di non poterlo essere, ed infine l’ultima nata Marinella, vaga e confusa, a tratti smarrita.
Tutte donne, dal loro fato così segnate per l’esistenza difficile, sofferta, limitata dallo strapotere maschile e maschilista imperante, dalla mentalità patriarcale prepotente e prevaricatrice del loro tempo, immutata al trascorrere delle generazioni.
Le segna un modo di pensare degenere e degenerato, dapprima addirittura ostentato e motivo di vanto, in seguito con il trascorrere degli anni ed il crescere delle coscienze, certamente sempre manifesto ma in qualche modo velato, fattosi accorto per motivi di comodo opportunismo, e però tacitamente tuttora divulgato e applicato di fatto dal consorzio del vivere comune, ieri come oggi. Cambiano i tempi e le mode, non le storture.
Giacché, sebbene con modi diversi, ognuna dei personaggi del romanzo viene considerata, e trattata di conseguenza, esattamente come all’inizio della nostra storia il papà di Rosa considerava le donne, all’alba del secolo scorso: nulla più che campane.
Oggetti, quindi, in primo luogo, e per di più inanimati, perché sebbene provviste di sapienza e parola, non godono di volontà propria di decidere e agire.
Non a caso, letteralmente campane: manufatti da cui trarre suoni, anche piacevoli per il suonatore, e altre pratiche utilità di qualche costrutto, solo allorché vengano scientemente battute, e non per modo di dire.
Violenza, e non parole; prepotenza, e disumanità.
Il solo modo, per diffusa convinzione, per poterne trarre sinfonie di qualche vantaggio per un solo genere, quello dominante; per la controparte femminile non si assegnano diritti e meno che mai pretese accampate per meriti e fatiche, in sintesi le donne protagoniste del romanzo, e le loro contemporanee, sono soggette e sottomesse alla volontà e giurisdizione esclusiva di un uomo, non necessariamente il proprio uomo.
Lo status di genere vale di per sé come precisa distinzione di ruolo tra libero e sottomessa, semmai il legame di parentela è un di più, semplicemente certifica ex lege, per quanto assurdo ed abietto, un diritto esclusivo di proprietà sulla persona e sui suoi beni.
Né più né meno di quanto tuttora occorra, in modo diafano, impercettibile, minimale, e però concreto. Esiste tuttora una ferma volontà, magari inconscia, di predominio sociale fondato sull'autorità assoluta dell’uomo, patriarcato e maschilismo sono realtà tanto abiette quanto reali, non si tema di esagerare nell’affermarlo, ed è inutile che si rivendichino emancipazioni e conquiste basilari già da tempo acquisite.
Il rifiuto ostinato alla parità dei generi è dimostrato di fatto dal costante aumento di violenze registrate periodicamente nelle cronache contemporanee, sempre e solo a discapito di un solo genere, guarda caso quello femminile.
Tutto il romanzo è un affresco, un ritratto di famiglia angusto e addolorato, inserito in un preciso contesto storico di costume, che descrive non tanto l’usuale esistenza di queste donne, ma sottolinea i vari modi, che paiono diversi ma sono infine sempre gli stessi, immutati nei secoli, con cui si manifestano i vincoli, le restrizioni, gli abusi e le soperchierie a cui sono obbligate a forza le donne di tutti i tempi non solo dai propri ma anche dagli altri uomini. Ciò che il libro denuncia, in forma più cronistica che romanzata, e perciò tanto più reale ed aderente alla realtà dei tempi, è sempre la stessa canzonetta, il trito ritornello del maschilismo, il solito refrain del becero e deleterio spirito maschilista, arcaico e patriarcale. L’ atteggiamento mentale tanto assurdo quanto di comodo, un pretesto per giustificare un dominio, il pregiudizio culturale che recita la superiorità dell'uomo rispetto alla donna, altro non è che un’indole nefasta, deleteria, immonda che da sempre ammanta l’animo di certi uomini, troppi, tanti, la stragrande maggioranza.
Sorge perciò spontaneo il fondato sospetto che tale modo di essere altro non sia che una tara ereditaria, la storpiatura del gene XY, che niente ha a che fare con la perfetta comunione di intenti, l’ umana solidarietà, la bontà, la dolcezza e la delicatezza dettate dalla più sana coppia gemella dei cromosomi XX.
Gli uomini non sono vittime della mentalità corrente dei tempi che vivono, dei costumi e delle circostanze, dell’educazione e degli insegnamenti sbagliati, il romanzo non è un elenco di torti, ma offre una visione omnicomprensiva, riporta per esempio personaggi campioni del genere umano pur essendo maschi, come Sebastiano Quaranta, il marito di Rosa. Ma per altri, come ad esempio Santi Maraviglia detto Santidivetro per la sua pelle diafana, è comodo fare proprio un modo di vivere situando la donna, che lo voglia o meno, in un posto parecchio indietro rispetto al maschio, dapprima di manifesta sudditanza e vassallaggio, poi successivamente in forma velata, di giogo invisibile, di passività se non di prigionia a sbarre velate. Perché “Il cognome delle donne” è in sintesi il racconto di una appartenenza, le protagoniste sono indicate sempre con il loro nome di battesimo, perché non appartengono a se stesse, ogni donna porta sempre, o quasi sempre, il cognome del maschio che l’ha messa al mondo. Un cognome che è un marchio, un codice di assegnazione, un timbro di destinazione. C’è solo da sperare, quindi, di trovare un uomo buono, una volta usciti dall’alveo familiare di sudditanza a padre e fratelli, un buon marito, comunque un altro maschio che sia magnanimo, perché:
“…i maschi gentili sono preziosi come l’oro.”
Non sono quasi mai gentili, gli uomini, perché sono soli, ed isolati, sono uno sbaglio di natura; le donne che non sono preziose come loro e l’oro, hanno invece un valore incalcolabile. Infatti, sono duplici, vanno in coppia come il loro cromosoma doppio insegna, si cercano, si uniscono, solidarizzano, fanno fronte comune come una sola donna.
E cambiano il fronte, finanche quello del loro cognome:
“Adesso la legge dice che te lo puoi tenere se vuoi, lo aggiungi a quello di tuo marito.”
Come dire: c’è ancora domani. E domani vincerò.

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Più che altro, a chi ha visto il recente film di Paola Cortellesi: "C'è ancora domani". Oppure, che ha letto "Olivia Denaro" di Viola Ardone.
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68 Opinione inserita da 68    14 Gennaio, 2024
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Fragilità esposta

L’ amore di una madre ( Lucia ) sfociato nella nostalgia, il ritorno della figlia ( Amanda ) nella terra d’ origine, il ricordo di genitori che non hanno amato abbastanza, uno spuntone di roccia, spartiacque tra passato e futuro nel luogo che da’ il nome al bosco e al terreno della propria famiglia, l’ assassinio di due ragazze che da venti anni ha indirizzato una vita.
Ciascuno è e conserva le cicatrici del proprio passato, un prima e un dopo, traumi irrisolti, un’ incomunicabilità di fondo che è sofferenza e paura di esporsi, soffrire, riaprire vecchie ferite, sensi di colpa ancora presenti, per tutto quello che si poteva fare, per quello che non si è stati, aggrappandosi a una forza inespressa per ricomporre i cocci di una fragilità esposta.
Amanda, abbandonati gli studi, è tornata in Abruzzo, spenta, demotivata, depressa, rinchiusa in un silenzio enigmatico, abbracciata a un sonno protratto, nessuna voglia di fare, l’enigma di un passato recente in una Milano che avrebbe dovuto assecondarne il futuro.
Lucia a sua volta è stata una figlia inascoltata e ribelle in una società patriarcale indecifrabile e inscalfibile, rivolta al futuro e al cambiamento prima che quell’ atroce delitto l’ abbia cambiata per sempre, oggi è una donna stanca, logora, tradita, con un matrimonio esaurito e un marito altrove.
Da madre riconosce la sofferenza di Amanda, si interroga sulla propria assenza, debolezza, noncuranza, sull’ impossibilità di dialogo, incolpandosi di averla lasciata sola, figlia di un passato di sopravvissuta, terribile, gravoso, logorante.
Due fragilità esposte, una figlia che non racconta il proprio vissuto altrove e una madre che rievoca i tragici eventi passati, ignare l’ una dell’ altra, tenute a distanza da confidenze inespresse, un dolore attutito negli anni e ancora da metabolizzare, certe violenze non se ne vanno con la condanna, ti riempiono dentro svuotandoti, incatenati al ricordo di giorni spensierati che non torneranno.
Ciascuno esprime il dolore a modo proprio, conoscere la verità sarebbe un passo importante, comunicare e’ complicato, talvolta impossibile, troppe assenze, vuoti, paura. Rimane un amore materno inarrivabile e non corrisposto, la paura di una solitudine affettiva inaccettabile, la più terribile delle condanne, nel silenzio coperto di indifferenza e nel ricordo di una insensibilità genitoriale ancorata nell’ unico luogo possibile, la propria terra, un’ altra madre schiava della necessità.
Un luogo la cui bellezza non ci riguarda, figli di una natura che nutre e che affama, che si deve combattere, archetipo della memoria, che allontana e avvicina i protagonisti diretti e indiretti di una storia atroce da raccontare.
C’è un coro che rievoca e accoglie il passato funesto, un canto che introduce un rituale mentre una voce si alza, due fanciulle escono leggere dalla parte più scura del bosco, incontrano una cara amica e ascoltano sorridenti.

…” il coro di stasera è una sorpresa, rompe il silenzio degli anni. Cade nel cielo sopra il Dente del Lupo l’ ultima stella dell’ estate”…

“ L’età fragile “ è un condensato non sempre armonico di un mondo che accoglie e separa i propri protagonisti, al centro una voce che da’ voce a un atroce fatto di cronaca, e una narrazione che, in un coro di presenze, rievoca assenze protratte e definitive proiettando la propria dissolvenza nella vita di una figlia ritornata all’ ovile.
Uno schermo di silenzio che sembra impossibile da scalfire e da decifrare, la cui porzione di storia è solo presunta nella fragilità che la riguarda, perché Amanda sembra essere una semplice appendice materna e la proiezione di se’, auspicando una fine diversa.
Quanto il passato ha determinato il presente, la propria fragilità richiede ascolto, quanto le ferite costituiscono la nostra essenza più vera, come comunicare con il dolore silente dell’ altro?
In una scrittura sincopata, essenziale, tagliente, dura, attraversiamo la durezza scolpita e selvaggia di un luogo immutabile nel respiro di una donna e di una madre, le cui risposte riguardano solo una parte e si scontrano con le decisioni dell’ altra.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Gennaio, 2024
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Petra specchio a specchio con Petra

«[…] No, pe molto tempo fui convinta che mi volessero bene e basta, fino a quando compresi che il loro non era un amore incondizionato, era un amore “nonostante”.»

Alicia Gimenez-Barlett, ideatrice del fortunato personaggio di Petra Delicado, propone ai suoi lettori un romanzo che si struttura in una autobiografia narrata in prima voce dalla stessa protagonista. Ce lo dice sin dalle prime pagine, Petra; è necessario uno stacco da tutto e tutti, dall’umanità. Ed è proprio per questo che la donna si ritira per una settimana in un austero convento di religiose, un luogo totalmente estraneo ai suoi soliti interessi e in cui è isolata anche da ogni forma di tecnologia. Non è altro che un modo per ritrovare se stessi, per riscoprirsi e fare il punto su tante situazioni.
La grande forza di questo scritto sta proprio nella sua naturalezza: non vi è bisogno di cercare scheletri nell’armadio o di far disconoscere autrice/protagonista, la forza di Petra è il suo essere imperfetta nel tempo che scorre e in un vissuto che sembra non avere titolarità.
La creatura nata dalla finzione narrativa prende autonomia, raggiunge i suoi lettori, cammina con le sue gambe, un po’ come Pinocchio dopo che ha ricevuto la vita e inizia a fare i suoi primi passi nel mondo.
Normalmente Petra è una donna risoluta, solida, salda. Una donna dedita alla professione così come alla vita privata, una donna completa e profonda. È, ancora, una donna estranea al cliché, alle consuetudini e grazie anche alle origini materne è canonicamente priva di tolleranza per il maschilismo ma anche per quel femminismo così fortemente inculcato. Anche quando la madre verrà a morire rivelandole il perché del suo essere stata talvolta troppo ferrea, Petra non perderà il suo aplomb duro e perentorio perché nemmeno con se stessa è possibile venire a compromessi o adottare attenuanti.

«[…] Ognuno è così com’è, e qui non si tratta di stendere un inventario di soprusi materni.»

Petra Delicado è una donna comune, una donna come tante ma anche una donna autonoma e matura, una donna che fa dell’intelligenza e della sensibilità le sue colonne portanti. Rappresenta alla perfezione i suoi tempi, descrive l’epoca in cui è cresciuta, delinea con precisa e minuziosa maestria l’epoca franchista sino alla sua conclusione. Ma il “nuovo mondo” sarà davvero un nuovo mondo o continuerà a portarsi dietro come una zavorra quel che è sempre stato?
Al tutto si aggiungono perfette descrizioni dei personaggi che sono vivibili nella mente del lettore ma anche volti di uomini e donne che credono in principi che differiscono da quelli che sono stati gli insegnamenti. Tante le tematiche trattate con acume e brillantezza.
Un romanzo sinceramente gradevole, che accompagna e che dimostra non solo la grande originalità della scrittrice ma che conferma anche la sua indiscussa dote di narratrice.

«[…] Successe davvero, e adesso, dopo tanto tempo, ripensando all’enormità della cosa ho l’impressione di averlo sognato. Non ne ho mai parlato con nessuno. Come potevano reagire le mie amiche a un simile racconto? Non mi avrebbero creduta, avrebbero riso di me, sarebbero rimaste disgustate. Non valeva la pena di parlarne.»

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    10 Gennaio, 2024
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Beethoven Gone Wrong

Ultimamente mi sono imbattuta in una serie di letture mediocri e non all'altezza delle aspettative che le sinossi stesse creavano. Per ritrovare un po' di piacere nella lettura, ho ripiegato quindi su uno dei miei autori preferiti, andando a pescare tra i suoi primi lavori "Cujo", un titolo che mi sembra rientri tra i più apprezzati dai fan del caro Stephen. E oltre a potermi felicemente accodare alla fila dei suoi estimatori, sono anche contenta sia riuscito a tenermi compagnia in un periodo parecchio impegnativo e stressante.

Il romanzo ci riporta a Castle Rock, località kinghiana già al centro di una delle sottotrame de "La zona morta" (il cui epilogo qui viene spoilerato, tra l'altro), nell'estate del 1980; il Cujo del titolo è il mastodontico San Bernardo del giovane Brett Camber, il figlio del meccanico locale. Mentre insegue un coniglio selvatico, il cane viene morso da un pipistrello e contrae una forma particolarmente violenta di rabbia, che lo trasformerà in una sorta di mostro idrofobo pronto ad attaccare chiunque abbia la sventura di trovarsi sul suo cammino. Questo evento unisce le vicende della famiglia Camber con quelle dei Trenton, da pochi anni trasferitisi nell'immaginaria cittadina del Maine.

Questo spunto di trama temo non renda al meglio il contenuto del romanzo, anche perché la vicenda al cuore della narrazione impiega parecchie pagine prima di acquisire concretezza: il primo terzo del volume risulta così un po' lento e macchinoso. Si tratta di un difetto sul quale però soprassiedo tranquillamente; per contro mi ha un po' infastidito non fosse presente una divisione in capitoli, ma questo è dato dal mio essere una pedante completista.

L'unico altro (serio!) punto debole del romanzo penso sia nella sottotrama legata alla Adworx -la società pubblicitaria avviata da Victor "Vic" Trenton con il suo amico Roger-, perché per quanto utile a dare il via alla trama, da un certo punto in poi perde gran parte della sua rilevanza e risulta perfino una fastidiosa aggiunta in alcuni momenti nei quali la tensione è al massimo.

Passando invece ai punti di forza, posso includere proprio la tensione che il caro Stephen riesce a creare, in particolare nel crescendo finale che porta il lettore a correre quasi da una pagina all'altra, in angoscia per la sorte dei personaggi. Ho trovato molto ben gestito anche l'elemento horror: dosato con giudizio e decisamente inquietante, con qualche accenno anche alla possibilità che ci sia di mezzo qualcosa di sovrannaturale nella furia del gigantesco San Bernardo.

Sul piano della prosa, ho apprezzato molto come siano stati descritti i pensieri di Cujo, mantenendoli abbastanza semplici da essere verosimili ma per nulla scontati o banali; li ho trovati particolarmente toccanti nella scena in cui vede Brett prima della sua partenza. Altro aspetto interessante è la sensazione di storie diverse che confluiscono in una narrazione più complessa: anche se in un primo momento potrebbe risultare poco chiaro leggere di tanti personaggi senza legami netti tra loro, pian piano ogni evento prende il suo posto nel disegno tragico e grottesco di King.

Ciò che ho personalmente apprezzato di più è però la buona rappresentazione fatta di problematiche ancora attualissime, come la violenza domestica e il revenge porn. Mi ha colpito scoprire come Cujo stesso diventi nel corso della storia l'allegoria di un uomo all'apparenza innocuo e amichevole che, posto in una condizione di difficoltà come l'umiliazione, reagisce con modo crudele nei confronti di una donna cercando di limitare la sua libertà e facendo leva sull'affetto che prova per i figli, con la conseguenza di innescare una catena di reazioni altrettanto brutali.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    09 Gennaio, 2024
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Aurora è veramente dispersa?

Il significato del titolo può trarre in inganno, se ne comprenderà il senso leggendo pagina dopo pagina tutta la storia, ricca di colpi di scena, narrata dall'autore con il consueto stile preciso, attento alle sfumature ed abilissimo nell'introspezione psicologica dei personaggi.
Protagonista una donna, Serena, una manager dell'alta finanza, sicura di sé, abituata a vivere ad alti livelli, al successo, alle conquiste sociali: nel suo ambiente è chiamata lo "squalo biondo", definizione azzeccata quanto mai, per una professionista regina in un mondo liquefatto, che seduce ed evapora, onnipotenza e successi effimeri. Non ha spazi per la vita privata, sesso solo per necessità e con rapporti occasionali che non implichino affetti duraturi e impegnativi. Purtroppo le capita di restare incinta durante una vacanza a Bali (un muscoloso surfista? un norvegese affascinante? un gioielliere raffinato?): un incidente di percorso che Serena pensa di liquidare con un'interruzione di gravidanza (ma è troppo tardi) o con l'affido ad altri dopo il parto. Ma un cesareo urgente l'obbligherà ad altre prospettive: si terrà la bimba appena nata, Aurora, tutta riccioli biondi, alla quale darà tutto il necessario per un'infanzia agiata ma non un sincero affetto materno.
Tutto cambierà quando Aurora verrà mandata a sei anni in un esclusivo collegio svizzero, a Vion, una nota località sciistica: un incendio (doloso?) divorerà la palazzina ospitante, tutte le bimbe verranno salvate tranne una, Aurora, dispersa. Inizia qui la parte più intrigante del giallo e, nel contempo, la trasformazione di Serena: nasce in lei un istinto materno mai provato, la disperante assenza della figlia sconvolgerà la sua vita e la porrà di fronte a tanti interrogativi. Partirà per Vion, conoscerà strani personaggi, proverà l'ostilità dell'ambiente, si accorgerà che certi silenzi potrebbero nascondere connivenze, timori, convincendosi lentamente ed a suo rischio e pericolo che Aurora potrebbe essere ancora viva, forse rapita e nascosta da qualche parte. Serena è distrutta, esasperata, corre anche seri pericoli per la sua incolumità: alla fine si arrende e torna a casa. Passano anni, conoscerà Lamberto, un professore, si innamorerà, si ritroverà incinta, nascerà in lei la speranza di una vita diversa, anche perché, licenziata, dovrà trovarsi un nuovo più modesto lavoro: il pensiero di Aurora sarà sempre presente, finché una vecchia foto trovata in una cassetta la indurrà a ripartire per Vion dove l'attendono nuovi drammatici colpi di scena e la soluzione inaspettata della vicenda.
Serena ha compiuto il suo percorso, così ben descritto dall'autore: lo squalo biondo è diventato una donna matura, che troppo ha sofferto e tanti ostacoli ha dovuto abbattere per far riemergere un senso materno soffocato per anni da una vita nei grattacieli del potere.
E l'educazione delle farfalle? Ci vuole tempo, sembra alludere l'autore, per trasformare un lombrico a sangue freddo in un essere umano, ci vuole tempo per sviluppare dal vuoto esistenziale un istinto materno struggente e convinto come quello sperimentato da Serena nella sua affannosa ricerca della verità.
Le farfalle hanno le ali, come il costume indossato da Aurora nell'ultima notte a Vion, prima dell'incendio: e le ali possono portare lontano e causare addirittura straordinari effetti ai quali accenna Carrisi, riferendosi alla famosa conferenza di Edward Lorenz del 1972 (" "può il batter d'ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas ?").
La trasformazione di Serena e di Aurora è descritta magistralmente dall'autore: non è comunque il solo pregio del romanzo, di cui consiglio la lettura anche per la presenza, soprattutto nella seconda parte, di altri personaggi che contribuiscono a tener viva l'attenzione di chi legge fino all'ultima riga.








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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    08 Gennaio, 2024
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Il pirata della strada

I protagonisti di questo giallo fanno il loro ingresso chiamati come “il ragazzo che presto sarebbe morto” e “l’uomo che presto avrebbe ucciso”. Diciamo che l’autore crea già la storia, svela già il finale, anche se è solo il primo anello della storia e crea uno spartiacque. E’ un giallo che fa riflettere su quanto una vita normale può cambiare, anche a seguito di un solo evento. Come le palle da biliardo che, nel loro percorso, cozzano contro altre palle e cambiano direzione imprevedibilmente, o forse perché era scritto che avrebbero preso quella via. Il primo anello, che è di fatto un incidente, crea un domino, una catena di eventi, e di errori, in cui il pirata della strada diventa sempre più colpevole e sempre meno scusabile. Tra il primo e l’ultimo anello della catena stupisce quanto sia assente la voce della coscienza. Così come stupisce anche la bravura del commissario nel ricostruire e collegare gli eventi, pur essendo così tanto coinvolto in prima persona, aspetto che potrebbe fargli perdere di lucidità. Intuizioni e pregiudizi hanno un odore molto simile. In questa storia si respira odore di solitudine, di tristezza ed anche un po' di follia.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    07 Gennaio, 2024
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La vita in un paese di poche anime

La penna di Malvaldi permette di trascorrere qualche ora in completa serenità, in una angolo di sicurezza emotiva che è gradevole eallo stesso tempo rassicurante.
Si potrebbe pensare che i racconti siano banali e prevedibili, ma sta qui la bravura dell'autore: rimane sempre uno spunto di riflessione su cui indugiare.
Anche in questo titolo, che non fa parte della serie del bar Lume, ci si immerge in una realtà che ad un primo sguardo potrebbe sembrare arcaica, un piccolo paese sperduto tra i monti popolato da cacciatori che si conoscono tutti.
In un paese del genere ci vivo, ma come direbbe Molvaldi ci sono piovuta, per cui mi sono immedesimata molto bene!
Lo stile di Malvaldi è lineare con un ritmo incalzante che costringe a rimanere incollati alla pagina fino alla risoluzione del caso.
La peculiarità dell'autore è non prendersi sul serio, riconoscere i propri limiti,.essere consapevole dell'opera che va a creare e questo fa si che ogni volta la lettura sia piacevole.
I personaggi trovano spazio per una evoluzione nello poco meno di duecento pagine, da macchiette si fanno vere figure tridimensionali foriere di sentimenti e recriminazioni, pochi dialoghi azzeccati permettono di comprendere la loro storia e dove mancano i particolari la nostra fantasia permette di colmare i vuoti.
Possono apparire stereotipati e in parte lo sono, espediente necessario alla comprensione delle azioni svolte, ma che non si fa limite alla sottostante sfaccettatura anche solomintuira delle varie personalità.
Una lettura leggera, piacevole ma che può lasciare il posto, soprattutto sul finale ad una riflessione sociale .

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I delitti del Bar Lume
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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    06 Gennaio, 2024
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Il silenzio parlante

Il rumore del silenzio, vite intrecciate in attesa di altro, amori desiderati, vissuti, parcheggiati, consumati, sottratti, speranze ammuffite in un senso di inutilità, vuoto, rabbia, disperazione, esistenze parallele nel soffio casuale della vicinanza, un passato torbido condiviso in attesa di una resa dei conti.
Andrea, Andreina, Ralph, Umberto, Alba, Viola, Mirko, tre coppie e un bambino, legami che prevedevano altro, incroci che sanno di vita vissuta, casualità apparenti, vuoti di memoria, bugie, verità sommerse, profili psicologici in cui riversare i cocci di se’, l’ impossibilità di un futuro schiacciati da un cupo presente.
Legami famigliari forgiati su un ideale giovanile consunto, nel presente indifferenza sentimentale, un tentativo di ricostruzione tardiva, il trattenere chi se ne è andato da tempo.
Che cosa ha portato al desiderio di altro precipitando nella disperazione più vera mentre la propria solitudine affettiva abbraccia chi ci ascolta e ci sussurra parole dolci e gentili, qualcuno rinchiuso nella propria tragica storia.
Tutto non è come sembra, caos e caso hanno inciso solo parzialmente in vite indirizzate da tempo, Mirko è vittima delle ingiustizie quotidiane e avrebbe bisogno di una vera famiglia, una creatura fragile desiderata e sottratta, percepita come propria, frutto di un amore impossibile, quante bugie e verità negate a se stessi, il tempo delle risposte è scaduto.
Che ne è stato di Alba, ex infermiera riciclatasi a donna delle pulizie, e di Umberto, ex principe azzurro, un orco che ha rinchiuso la propria donna in una spirale di terrore, violenza, egoismo? Eppure sembravano possedere delle affinità, in particolare una certa solitudine interiore.
Che ne è stato di Ralph, tecnico del suono apparentemente realizzato e in pace con se stesso, e di Viola, ex attrice di teatro, quando si nasconde all’ altro la verità più vera, ingannandosi reciprocamente e ogni fiducia è sepolta, limitandosi a una semplice convivenza che sa del respiro di un figlio?
Che ne è stato di Andrea, fotografo, e di Andreina, infermiera, quindici anni di bugie, di sensi di colpa, due reni condivisi pensando di sconfiggere la morte ed entrando nell’ illusione di un amore eterno, quando il proprio ego ha ignorato i desideri altrui e si è disposti a ritrattare il passato per tenersi aggrappati al presente?
Una rottura sarà inevitabile, soglia di non ritorno, epilogo di anni vissuti indebitamente, un nuovo rumore imperversa, quel silenzio che rivolge il proprio sguardo altrove, che ricorda persone, volti, occhi sottratti all’ indifferenza in un equilibrio che riporta al passato e lo cancella, e allora non resta che arrendersi all’evidenza, liberarsi dei giorni ingombranti, piangere un destino funesto, ritornare sui propri passi, affidarsi all’ amore di chi rimane.
“ Il rumore delle cose nuove “ è una vivida rappresentazione dei fluidi e fugaci rapporti della contemporaneità, tra precariato e desiderio di genitorialita’ in una Milano sfuggente profondità relazionali in una povertà che percuote le famiglie, mentre la paura del futuro genera l’ ansietà del presente, la fragilità personale sfocia nel patologico, il desiderio di calarsi nelle vite altrui prende il sopravvento,
La ricostruzione di una storia variegata e complessa riporta spezzoni di un passato lontano dieci anni, quando tutto ebbe inizio, un passato rimbalzato nel presente in un ritmo sempre più incalzante con un epilogo sorprendente, laddove la vita non concede sconti e il destino si scontra con desideri fragilmente esposti.
Un romanzo a sfondo psicosociale con una certa dose di intimità, forte nei toni e nei contenuti, dolce nella fragile quotidianità esposta, che affronta temi importanti, in primis relazioni matrimoniali e desiderio genitoriale, giovani coppie scoppiate tra un’ incomunicabilità manifesta e il lettino dello psicanalista .
Una trama veloce, molto cinematografica, ricca di suspense, tragicamente reale, analisi e rappresentazione scenica dei vizi e delle virtù di un’ umanità fragile e dolente in cui specchiarsi e riconoscersi, non solo a tratti.

…” la morte ha un suono discreto, un suono che non si sente in maniera distinta perché in fondo è sempre presente. È un rumore incessante, che si insinua senza che nessuno se ne accorga e, quando alla fine si percepisce, quando finalmente siamo in grado di urlare che è proprio quello, non rimane che il silenzio”…

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Gennaio, 2024
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Intrighi di famiglia

«[…] Zio Antoine è morto martedì, vigilia di Ognissanti, probabilmente intorno alle undici di sera. Sempre quella notte, Colette ha tentato di buttarsi dalla finestra. Pressappoco nello stesso momento si veniva a sapere che Eduard era tornato e che diverse persone lo avevano visto in città. Tutto questo ha creato una certa agitazione nella famiglia che ieri, al funerale, è apparsa al completo per la prima volta da anni.»

Quando pensiamo a Simenon è naturale pensare a Maigret, il personaggio forse più famoso e di cui il romanziere è stato anche ideatore prolifico. Tuttavia Simenon non è solo noto al grande pubblico per il celebre commissario, Jules, è stata solo una delle tante personalità create che si sommano ai tanti racconti e volti che non lo vedono quale eroe principale ma che si confermano essere testi di particolare spessore. Il marchio Simenon lo si percepisce a distanza e anche in questo titolo edito per Adelphi” e intitolato “Gli altri”, classe 1961, è evidente la sua presenza.
Siamo nella provincia francese e già dall’incipit percepiamo la forza evocativa di uno scritto che si stacca dal poliziesco per soffermarsi sul ritratto psicologico dei personaggi che sono introdotti. Narratore delle vicende è Blaise Huet, insegnante di disegno all’Accademia, non particolarmente noto e ancor meno brillante, che in queste pagine e sotto la forma del diario, propone ai suoi lettori quelli che sono gli avvenimenti familiari che si susseguono nonché le impressioni e gli intrecci che emergono dopo il fatto scatenante determinato dalla morte dello zio Antoine, un avvocato giurista di grande fama, e che non trascura nemmeno l’aspetto finale dell’apertura del testamento e delle varie evoluzioni che subentrano. Molti i dubbi sulla morte, si pensa a un auto-avvelenamento, a una morte forse non proprio volontaria, ma l’attesa dell’apertura della successione prevale. L’occasione della morte diventa occasione per ricontrarsi, per riallacciare legami, per tracciare una storia fatta di conflitti, pettegolezzi, cadute, incomprensioni, umanità.
Come spesso accade nelle opere di Simenon non Maigret anche in questo caso ad emergere sono le figure femminili, non sempre in modo positivo. “Gli altri” è un testo fatto di uomini e donne imperfetti e che rappresentano lo specchio di una società del tempo a sua volta composta da omertà e apparenza. Da Colette, la moglie dello zio defunto che tenta il suicidio e ha costanti crisi isteriche, a Irène, moglie di Blaise che si intrattiene con un compagno che è noto e accolto dal coniuge che a sua volta si accompagna con la servetta di casa, Adèle, tutto è perfettamente e naturalmente normale. Anche se nel concreto queste situazioni potrebbero far storcere il naso o comunque aggrottare la fronte, nella realtà definita da Simenon è tutto perfettamente normale.
Ed è così che il belga ci dimostra, ancora una volta, come tutto possa essere fatto cadere nell’oblio laddove sia necessario al fine di una consuetudine sociale fatta di apparenza, sfornita di valori, debole nel suo essere.
“Gli altri” è uno scritto di Georges Simenon che ci propone un’analisi psicologica profonda in un panorama appartenente a un’epoca diversa ma non così lontana, per similitudini e contraddizioni, alla nostra.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    06 Gennaio, 2024
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Anche lui è un figlio di Dio

E' un periodo che sto scoprendo la letteratura statunitense, in special modo, leggendo ed apprezzando due grandi autori come Steinback e Mc Charty, entrambi purtroppo deceduti.
Sono molti i punti in comune che legano questi due scrittori, soprattutto per quanto riguarda lo studio minuzioso delle realtà sociali più difficili, che si celano dietro i lustrini del grande sogno americano o quello che ormai ne rimane.
In questo romanzo l'autore mette come protagonista una figura quasi demoniaca che erra per le montagne in cerca di giovani donne da uccidere e poi violare. Un necrofilo, di cui non si sa nulla sul suo vissuto, sulla sua infanzia e su come sia finito a barboneggiare e poi uccidere come un barbaro di altri tempi.
Abbandonato a se stesso, con uno Stato sociale praticamente assente, che non da speranza a chi si ritrova senza più nulla, qui si torna proprio allo stato della Pietra, dell'uomo primitivo che sopravviveva nelle grotte e si nutriva di sterpaglie, radici, piccoli roditori.
La follia cieca che prende al protagonista avrà dure ripercussioni su una cittadina, fin quando l'altrettanto spietato sceriffo con i suoi assistenti decidono che è arrivato il momento di porre fine a tutta quella sofferenza, atrocità e violenza.
Le descrizioni di ciò che accade sono vive, crude, riempiono la mente. La natura è ostile all'uomo come sempre, soprattutto attraverso un freddo implacabile che l'autore ha il merito di trasmettere al lettore in tutta la sua potenza.
Per stomaci forti, per chi ha deciso di scavare sotto alla superficie e ha trovato un cimitero di ossa senza nomi.

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Non è un paese per vecchi
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Romanzi storici
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    05 Gennaio, 2024
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COME UN QUADRO DI BRUEGEL

Leggere un suo libro dà la stessa sensazione di contemplare un quadro di Bruegel. Una miriade di personaggi piccoli, che sembrano tutti della stessa importanza, quasi tutti uguali, ma, più osservi il quadro, più ognuno di loro ti colpisce per un particolare e lo ricordi, durante la lettura, seguendone l’evoluzione, sia personale, sia nel contesto, storico e sociale, in cui il personaggio è inserito. Questo è il terzo libro della saga storica di Kingsbridge ed è forse quello che mi è piaciuto meno dei tre, forse perché l’ho trovato molto, troppo incentrato sulle guerre di religione, mentre nei primi due avevo preferito seguire il filo di vicende più personali. I libri storici di Ken Follett sono così: affollati, intensi, lunghi. E quando li leggi ti vedi proprio catapultato nel mondo medievale, ti ritrovi in un’atmosfera dalle tinte calde, con gli stessi colori della copertina, un lume di candela intenso. Le vicende che mi sono piaciute di più sono quelle di Ned e di Margery, fino alla vecchiaia di Ned. Tutte le altre storie intrecciate purtroppo mi sono scorse sotto gli occhi senza lasciare un grande segno.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    05 Gennaio, 2024
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In cui Stephen King non avrebbe scritto "22.11.63"

Il lato positivo di pescare dei titoli in modo casuale dalla propria TBR è senza dubbio quello di dare finalmente una possibilità a delle storie che si ha un po' dimenticato; sull'altro piatto della bilancia, bisogna considerare il rischio di incappare in un romanzo diverso rispetto alla vaga impressione che se ne ha. Personalmente, ricordo di aver acquistato "Fatherland" all'usato diversi anni fa attirata soprattutto dalla particolare ambientazione ucronica; quando mi sono infine decisa ad iniziare la lettura ho realizzato che purtroppo quello non sarebbe stato l'elemento principale nella storia.

Qualche parola sul contesto fantastorico va comunque spesa: ci troviamo a Berlino in una versione alternativa del 1964, nella fattispecie una versione in cui Adolf Hitler è ancora al potere e l'intera Europa è sotto il controllo diretto o meno del Terzo Reich, mentre i suoi nemici storici si sono dovuti arrendere o accettare la pace. A dispetto dell'insolito setting la storia parte come il più classico dei noir, con il tipico investigatore -nel caso in questione, Xavier "Zavi" March della Kripo- divorziato e stacanovista impegnato a far luce su un decesso sospetto. Questi due elementi si scontrano quando il protagonista realizza che dietro la presunta morte accidentale ci potrebbero essere degli individui collegati al partito nazionalsocialista.

Nonostante non venga sfruttata quanto mi sarei aspettata, l'ambientazione rimane uno degli aspetti migliori di questa lettura: è stato un interessante esperimento mentale scoprire una situazione geopolitica da un lato molto diversa da quella reale (ad esempio, qui la Guerra Fredda vede la Germania contrapporsi agli Stati Uniti), dall'altro con degli elementi in comune, come l'Unione Europea che è presente ma si rivela un'istituzione fantoccio dei nazisti per controllare meglio gli altri Paesi europei.

Sento di poter promuovere poi tranquillamente la prosa di Harris -che non avrà particolari guizzi, ma ha una buona resa specie nei dialoghi- e l'intreccio del giallo, capace di catturare l'attenzione del lettore. Per quanto sia prevedibile, anche il finale contribuisce a portare questo romanzo alla sufficienza; l'ho apprezzato per la coerenza ed il coraggio di non scadere in un lieto fine forzato.

Purtroppo i pregi per me terminano qui: quando ho cominciato la lettura mi aspettavo davvero di individuare molti più elementi positivi, ma anche nei punti di forza ci sono lati meno riusciti. Prendo ad esempio il world building immaginato dal caro Robert, che viene appesantivo sia da una gran quantità di spiegazioni fin troppo prolisse e piazzate nei momenti meno opportuni, sia da una dubbia utilità ai fini della storia raccontata: la stessa vicenda avrebbe potuto tranquillamente avere come ambientazione la Germania reale dei primi anni Quaranta. Questo porta un senso di frustrazione, perché si ha investito parecchio tempo per conoscere un mondo quasi inedito senza che fosse in fin dei conti indispensabile.

La caratterizzazione è un altro punto debole a mio avviso, perché March si dimostra il tipico protagonista di una narrazione mystery noir nella storia personale e nel comportamento; vista la premessa, ero convinta si sarebbe rimostrato un personaggio grigio e sfaccettato invece non ha neanche mezzo tentennamento. Devo ammettere di non aver capito neppure cosa lo renda tanto speciale: dal mio punto di vista la storia della foto ritrovata non è sufficiente per stravolgere completamente la visione del mondo di un individuo cresciuto in una società così indottrinata, come viene dimostrato tra l'altro anche dei comportamenti degli altri personaggi più avanti nella storia.

Infine, con il rischio di sembrare una volta in più l'antiromantica per eccellenza, devo bocciare anche la parentesi romance. Non solo penso sia priva di basi concrete, ma anche nello sviluppo della relazione ho avuto l'impressione mancassero dei passaggi; cercando di evitare spoiler, menziono la scena dell'incubo che proprio non ho capito cosa dovesse trasmettere, o quali conseguenze abbia avuto per i personaggi. Quando poi l'interesse amoroso di March gli confida un certo dettaglio sulla sua precedente relazione diventa chiara (e preoccupante!) una sua debolezza verso le dinamiche di potere sbilanciate, che ovviamente il testo non individua come tale.

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Romanzi
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Gennaio, 2024
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Una vita spezzata

Stefano Sartor vive a Parigi, insegna filosofia alla Sorbona. Nel suo ultimo saggio, bestseller internazionale, racconta il suo passato, una vita spezzata a metà da un incidente, dove Stefano perde tutta la memoria della prima parte della sua vita: infanzia, adolescenza, tutto perso nel buio della mente.
Con una storia nella storia, il romanzo porta avanti l'incontro di due adolescenti, Nina e Lupo, quegli amori che nascono sulle onde di un 'estate e che rimangono nei cuori di chi li ha vissuti.
Ma il destino gioca sempre un ruolo importante nelle nostre vite, e proprio quando non ce lo aspettiamo il passato torna a presentarci il conto e rimette tutto a posto come per magia.
E' proprio questa la parola chiave dei romanzi di Francesco Carofiglio, la magia ,e non quella occulta, ma quella che lui crea con le sue parole e con le su atmosfere, sempre misteriose, ma comunque romantiche e nostalgiche. Nelle sue pagine assaporiamo la nostalgia di un tempo che non c'è più, quello dell'innocenza perduta; quel momento preciso in cui di colpo, qualcosa accade che cambia il corso degli eventi e delle vite dei protagonisti di questo bellissimo romanzo. Tutto funziona perfettamente nei libri di F. Carofiglio, la storia, i personaggi e soprattutto le atmosfere, che coinvolgono il lettore e lo assorbono nel suo mondo , allontanandolo piacevolmente dalla realtà.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    03 Gennaio, 2024
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La fiamma dell'amore.


E' la storia di Chiara, che, tramite tre lettere, alle due figlie ed al marito, ripercorre la sua vita, narrandone vicissitudini liete ed amare, dall'infanzia alla maturità, e inducendo il lettore a riflettere su legami familiari apparentemente solidi ma sempre esposti ai capricciosi soffi del vento, che "fugge dove vuole".
Lei, Chiara, è una sessantenne di nobili origini, biologa con antenati famosi, agnostica non battezzata, lui, Davide, il marito di umili origini, pediatra per vocazione, un montanaro refrattario alle contese tra baronie ospedaliere, tutto dedito alla cura disinteressata di bambini poveri e fragili. Le figlie sono due, più diverse non potrebbero essere. Alisha, adottata, di origini indiane, solare, introspettiva, ansiosa di conoscere le proprie origini, e Ginevra, la figlia naturale, più pratica e socievole, concepita inaspettatamente proprio alla vigilia della partenza per Calcutta per portare a casa la piccola Alisha.
Nelle tre lettere Chiara, approfittando di una prolungata assenza dei familiari in gita, mette a nudo la sua anima e la sua vita, un viaggio senza sconti sul proprio passato, alla scoperta di sè stessa, e, forse, di quello che poteva essere e non è stato.
Ad Alisha confida la propria disperazione quando si accorge di essere incinta di Ginevra: vuole rinunciare al viaggio in India, diventa intrattabile, finché, passando alcune notti nella stanza preparata per la bimba adottata, si rasserena, convincendosi di poter idealmente "partorire" anche la piccola indiana. Piccola che, crescendo, vuole sapere le sue origini e che, grazie alla luminosità del suo carattere, accetterà senza ripensamenti.
Nella lettera a Ginevra Chiara aprirà il suo cuore senza tentennamenti. Sapremo della sua famiglia di ricchi latifondisti ferraresi, della vita nel collegio di Poggio Imperiale, della sua espulsione per ribellione, della laurea in biologia, dell'incontro con Davide pediatra di campagna e dei primi timidi approcci fino alle nozze. Nozze religiose, anche se Chiara non è battezzata: il Vescovo accetta il suo "sì", perché, sostiene, l'amore vero e incondizionato supera qualsiasi ostacolo procedurale. Chiara confida a Ginevra anche un segreto familiare: il nonno materno, notissimo avvocato, era deceduto per infarto in casa della giovane amante. Una morte inaspettata, disdicevole: sorpresa e rabbia della nonna, ceneri gettate in un canale, una macchia sulla nobiltà del casato.
Ed infine la lettera di Chiara al suo Davide, il compagno fedele, l'uomo che ha ben chiaro il concetto di bene e di male, il medico che per dedicarsi ai suoi piccoli pazienti ha rinunciato ad una carriera più prestigiosa. Il cuore di Chiara si apre, ci sono ferite che ancora sanguinano: l'aborto che aveva affrontato come il male minore dopo una relazione spensierata con Carlo, uno studente che diceva di amarla, è una macchia che a distanza di anni ancora pesa e la induce ad amare riflessioni sui grandi temi della vita e della morte.
Così come l'infamante accusa, infondata, di pedofilia a Davide, che sconvolgerà la vita dei coniugi e li indurrà ad una vita ritirata nel convento benedettino di un lontano parente: qui Chiara ritroverà lentamente la serenità perduta, una spiritualità che si era diluita nel tempo, una specie di rinascita alla vita ed un accostamento alla fede che la convincerà ad accostarsi al battesimo contemporaneamente all'ultimo nato, Elia.
Si può essere d'accordo o in disaccordo con le tematiche e le convinzioni di Susanna Tamaro sui grandi temi affrontati, come quello dell'aborto e dell'accostamento alla fede dopo una vita di convinto agnosticismo. Leggendo le lettere di Chiara non si può comunque non essere attratti da una scrittura ammaliante, che affronta con leggerezza e con sapiente dosaggio di argomenti grandi temi di convivenza generazionale, soprattutto in tempi come gli attuali, dove tecnologia esasperata e miti superficiali ed ossessivi la fanno da padroni.
Si legge la Tamaro come si ascolta una fiaba: trasportati dagli aliti di un vento che fugge dove vuole. Le tre lettere, a ben pensarci, sono tre fiabe, con un unico pressante invito. A "non temere". "Non temere, Ginevra" scrive Chiara alla figlia in un messaggio accorato che non può lasciare indifferente anche chi legge " perché la vita è sempre più grande e più forte dei cupi fantasmi che si aggirano nei nostri cuori e si rinnova con straordinaria creatività quando siamo in grado di tenere viva in noi l'unica fiamma capace di affrontare il dolore del mondo: la fiamma dell'amore".









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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Gennaio, 2024
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Una vita in incognito

Marias è uno dei miei primi amori. Ogni tanto ci ritorno e riscopro il piacere di leggere per pensare, per riflettere.

Le sue storie sono tutte belle, ma io le trovo pretestuose, perchè attraverso di esse, Marias, ci mostra sempre un po' di sé stesso, del suo modo di vedere la vita, la sua opinione sulla natura umana, sull'amore, sul senso della vita. Il caso e il destino giocano sempre un ruolo importante nei suoi romanzi, ed anche qui Thomas Nevinson, si ritrova, per uno scherzo del destino (o per mano dell'uomo?) costretto a vivere una vita che non ha scelto

"La cosa peggiore che si possa immaginare è non poter dire di no, non poter discutere né ragionare né argomentare, dover fare tutto ciò che viene in mente a qualcuno che ricopre un grado gerarchico superiore, anche ciò che si disapprova o di cui si ha ripugnanza, essere costretti a ingoiare il boccone amaro che un altro individuo ci obbliga a ingerire. In maggiore o minor misura questo tocca a quasi tutti noi, qualunque sia il nostro mestiere, dalla culla alla tomba; c’è quasi sempre qualcuno sopra di noi che ci indica quello che dobbiamo fare, e che non possiamo contraddire"

Egli è stato manipolato ed è costretto a vivere nella menzogna e a mentire anche con chi ama

«Di quello che non ci raccontano non sappiamo nulla, di quello che ci raccontano nemmeno, nemmeno di quello. Noi abbiamo la tendenza a credere, a pensare che la gente dica la verità, senza far troppo caso e senza diffidare; la vita non sarebbe vivibile se non facessimo cosí, se mettessimo in dubbio le affermazioni piú insignificanti, perché mai qualcuno dovrebbe mentirci riguardo al suo nome, al suo lavoro, alle sue origini, ai suoi gusti e alle sue abitudini, a quella massa di informazioni che tutti ci scambiamo disinteressatamente, spesso senza che nessuno ci chieda nulla, senza che nessuno mostri il minimo interesse nel sapere chi siamo, che cosa facciamo, come ci va la vita, quasi tutti raccontiamo piú di quanto dovremmo o,peggio, imponiamo agli altri informazioni e storie che a loro non interessano affatto e diamo per scontata una curiosità che non esiste, perché mai qualcuno dovrebbe essere curioso di sapere qualcosa di me, di te, di lui, pochi sentirebbero la nostra mancanza se sparissimo da un giorno all’altro e pochissimi si porrebbero il problema."

Berta Isla è la sua donna, non chiede, non indaga, ma accetta e aspetta, una sorta di Penelope moderna, pervasa da una rassegnazione oltre misura, conscia di questo suo ruolo, assurdo per una donna dei nostri tempi.

"L’accettazione della sua probabile e sempre piú sicura scomparsa non fu immediata. Non lo è mai, neppure quando vediamo morire qualcuno con i nostri occhi e vediamo il suo corpo immobile e silenzioso e lo vegliamo e lo seppelliamo secondo tutte le regole, passo dopo passo, e il dubbio non c’è. Addirittura in quei casi, che sono i piú normali, per un lunghissimo periodo l’assenza è sentita come transitoria, come qualcosa che prima o poi dovrà finire. Si ha la sensazione – ed è duratura, a volte può essere morbosa – che la fine di una persona vicina e amata, che fa parte della nostra vita esattamente come l’aria, sia come una specie di falso allarme o di scherzo o di finzione, una montatura o il frutto delle nostre fantasie piú paurose, e per questo il sonno spesso ci confonde: sogniamo il defunto, lo vediamo muoversi e forse toccarci o penetrarci, lo sentiamo parlare e ridere, e al risveglio ci pare che si sia solo nascosto e debba ricomparire, che non possa essere svanito per sempre, che è la veglia a ingannarci. Crediamo che è solo questione di tempo ma tornerà. "

Nevinson sparisce per mesi e poi per anni senza lasciare traccia di sé, e Berta Isla vive questo tempo infinito, scandito solo dalla routine quotidiana, con la speranza e il timore di affacciarsi alla finestra e di vederlo apparire in lontananza: è lui? O qualcuno che gli somiglia e che non gli somiglia più

"All’inizio il volto che ci sforziamo di ricordare è nitido e onnipresente, ma via via che passa il tempo – forse proprio per quel nostro accanirci, che lo consuma e lo snatura e lo deforma – quel volto comincia a sfumare, e finisce per diventare quasi impossibile per gli occhi della mente rievocarlo e rappresentarselo fedelmente"

Oltre a tutte queste continue riflessioni, sull'accettazione e la rassegnazione per vivere una vita che entrambi non hanno scelto, il romanzo viaggia quasi in parallelo con una serie di continue citazioni letterarie, soprattutto i continui riferimenti a "litlle gidding" da I Four quartets di Eliot, che spesso entrambi i due protagonisti si ritrovano a citare a memoria, compenetrandosi nella poesia. E insieme ad Eliot, ritroviamo Shakespeare e Dickens e Flaubert, in uno sfoggio di letteratura applicata, ma mai pedante.

E’ una spy story di alto livello internazionale, questa di Berta Isla, ma è anche la storia di un matrimonio, una storia di attesa e di assenza, una storia che racconta anche il lato oscuro della politica e dei governi, nello specifico quello inglese.

Una storia che nonostante la sua complessità, anche o solo nel descrivere ogni pensiero dei due protagonisti nel minimo dettaglio, vivisezionandolo quasi, che ha bisogno di un certo tempo per essere assimilata, ma che al contempo ci coinvolge e scorre via nella curiosità di scoprirne un finale che ci spieghi, e ci dia soddisfazione ma

«Vide la polvere nell’aria, la vide con chiarezza meridiana nella piazza sfigurata della sua resa, dal suo sfinimento, e pensò: “si ritorna solo quando non si sa più dove andare, quando non ci sono altri luoghi e la storia è finita.”»

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Gennaio, 2024
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Sam Spade alla ricerca del Falco

Dashiell Hammet è l'inventore della letteratura, cosi chiamata, hardboiled, una sorta di poliziesco più realistico, dove il protagonista assume questo atteggiamento tipico da duro, freddo e arrogante, ma che sotto la scorza, oltre ad essere furbo e intelligente, subisce fortemente il fascino femminile.
Sam Spade è il protagonista dei romanzi di Hammet, ed è il precursore di Philip Marlowe, del più famoso Raymond Chandler, che riprenderà questo filone negli anni trenta e ne farà un successo nel suo genere.
Nello specifico la storia è abbastanza intricata, ricca di colpi di scena e di cambi di fronte.
Personalmente rispetto a i romanzi di Raymond Chandler, direi che c'è un abisso, questo l'ho percepito più come un fumetto raccontato, una descrizione di scene unite insieme dalla storia, che è si, complessa ma non coinvolgente. E anche Sam Spade, è solo una bozza di quello che sarà Philip Marlowe, un personaggio davvero affascinante, integro ma corruttibile, seduttore senza sedurre, scaltro ma difensore dei più deboli...Un plauso però ad Hammett per avere creato questo genere nuovo che rimane una pietra miliare nel panorama dei gialli d'epoca

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    02 Gennaio, 2024
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Non convince

Non completamente convincente questo nuovo lavoro di Donatella di Pietrantonio. Protagonisti una madre, Lucia, una figlia, Amanda, e un terribile fatto di cronaca realmente avvenuto, l’omicidio di due ragazze.
Da questo fatto la storia prende spunto e lo immagina successo nell’età della giovinezza di Lucia. Tania e Virginia, le due vittime, erano ospiti di un campeggio costruito non lontano dal Dente del lupo, la montagna al centro di quella zona d’Abruzzo immaginata di proprietà del padre di Lucia. Solo la terza ragazza, Doralice, amica di Lucia, era riuscita a scampare all’assassino.
La storia si svolge all’epoca del primo lockdown, quando Amanda, che era andata a studiare a Milano, torna a casa con uno degli ultimi treni disponibili, senza libri, e si chiude in un potente mutismo nei confronti della madre che non riesce a trovare la strada per riprendere a comunicare con lei che ha, evidentemente, interrotto gli studi.
Quando andrà a Milano a sgomberare la casa affittata dalla figlia Lucia capirà che qualcosa lassù è successo, e che forse la figlia avrebbe avuto bisogno di lei che invece, per rispettare il suo bisogno di indipendenza, forse le è stata poco vicina. Dove passa il confine tra necessità di far camminare i figli con le proprie gambe, di dar loro autonomia e capacità di affrontare anche la parte brutta e difficile della vita e vicinanza con loro? Lucia se lo domanderà, chiedendosi se alla figlia non sia mancata la presenza materna quando forse le sarebbe stata più necessaria.
Il libro alterna la storia del rientro a casa di Amanda a lunghi racconti del passato: dal delitto delle due ragazze ai processi, soffermandosi anche sull’amica di Lucia, Doralice, figlia dei gestori del campeggio che dopo il delitto non è più stata quella di prima, rosa dai sensi di colpa e dalla difficoltà di ricostruirsi. Andrà per questo a lavorare lontano.
Il racconto della di Pietrantonio è in realtà un racconto di silenzi e di incomunicabilità tra tutti i protagonisti: tra Lucia e suo padre, tra Lucia e Amanda, tra Lucia e l’amica Doralice, e anche con il marito da cui è separata. Nessuno qui riesce a parlarsi davvero, a confrontarsi con sincerità, a dire quelle parole che aiuterebbero a vivere meglio, ad essere più vicini, a capirsi. In questo racconto delle diverse incomunicabilità il romanzo mi è piaciuto molto: l’autrice lo sa rendere davvero bene.
La storia nel suo complesso invece mi ha convinta poco. Le due vicende, passato e presente, si incastrano poco tra di loro e gli spazi destinati alle due storie sono forse poco equilibrati. Amanda ci rimane in fondo estranea, difficile empatizzare con lei, forse è difficile per il lettore capirla davvero. Ben presente invece lo smarrimento di Lucia nel suo rapporto con la figlia.
La tematica della necessità di un rapporto compiuto genitori e figli all’interno di un percorso di autonomia non è approfondita come dovrebbe. Gli altri personaggi sono sullo sfondo.
La scrittura è funzionale al racconto, non suscita reazioni, non scalda.
Un romanzo, per me, riuscito a metà.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    02 Gennaio, 2024
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Storia di famiglia

Difficile pensare che una storia come quella di Tara Westover si possa raccontare senza indulgere in recriminazioni, senza cercare pietà o lanciare accuse verso la famiglia, lo stato, la stessa comunità in cui si è svolta. Eppure l'autrice lo fa: ci racconta in modo schietto e deciso quello che le è successo durante l'infanzia e nel corso degli ani in cui da giovane donna avrebbe dovuto guardare al futuro con entusiasmo e speranza. Lascia da parte critiche, letture psicologiche, valutazioni psichiatriche e ci snocciola davanti tutta la sua famiglia come se fosse qualcosa di naturale. Tiene solo a precisare che il fatto che i suoi fossero mormoni è solo un caso, niente a che vedere con quello che le è successo. In effetti il padre non solo ha scelto di interpretare in modo piuttosto rigido e personale i dettami religiosi, ma ha una serie di altri problemi, che lo portano a far vivere la famiglia in un isolamento pressoché totale. Niente scuola per i figli, niente medici, ma solo gli intrugli preparati dalla moglie. inutile dire che sono esclusi da casa loro anche televisioni, computer o qualsiasi cosa che possa mettere la famiglia in contatto con il mondo. Quando Tara, seguendo le orme del fratello decide di lasciare la casa ed iniziare a studiare le cose sembrano andare meglio. In realtà il legame d dipendenza che ha sviluppato nei confronti della famiglia non si vuole spezzare. Legata con una specie di elastico, riesce ad allontanarsi anche di parecchio dal gruppo, ma viene sempre irrimediabilmente attratta verso quel gorgo infernale fatto di violenze sia fisiche che psicologiche. Come già detto ho trovato il libro ben scritto e anche piuttosto onesto. Difficile credere che cose del genere possano succedere, e che siano ospitate negli Stati Uniti. Il genere umano però da dimostrato più volte quello di cui è capace, quindi anche se vorrei che tutto quello che c'è in questo libro fossero fantasie, temo che invece corrispondano alla realtà.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    02 Gennaio, 2024
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Prede e predatori

Colter Shaw, un cacciatore di teste, già noto agli appassionati lettori di Jeffery Deaver viene ingaggiato per recuperare un segreto industriale. fFnito il lavoro per cui è stato pagato si trova quasi per caso in mezzo a quella che inizialmente sembra solo un brutto caso di violenza domestica. L'ingegnere capo dell'azienda che gli aveva commissionato il lavoro, infatti risulta in fuga. Il marito, incarcerato per averla picchiata brutalmente, infatti è stato rilasciato in anticipo e pare avere giurato che porrà fine alla sua esistenza. Parte quindi una caccia alla donna e alla figlia. Da un lato l'investigatore e dall'altro il marito e due sicari assoldati per fermare la donna. Solo sul finire della storia, però tutte le carte verranno messe in tavola rivelando un quadro ben più complesso di quello che ci era stato prospettato all'inizio. Confesso che questo genere di romanzi di solito non è la mia prima scelta. In realtà pensavo di trovarmi davanti uno dei libri alla Lincoln Rhyme. Si tratta di tutt'altra cosa anche se un bravo scrittore lo è sempre indipendentemente dal genere con cui decide di cimentarsi e quindi il risultato è buono anche per una come me che non ama inseguimenti e sparatorie. Magari c'è un po' troppo buonismo, tanti voltafaccia, troppi colpi di fortuna, ma del resto ci troviamo pur sempre dentro una fantasia.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Gennaio, 2024
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Lucia, Amanda e Doralice

«[…] Ho addomesticato la paura che avevo all’inizio per lei. Un posto che aveva tanto desiderato non poteva farle del male.»

Nota al grande pubblico per il suo “L’Arminuta”, Donatella Di Pietrantonio torna in libreria con “L’età fragile”, uno scritto che tra i tanti intenti si propone anche di sensibilizzare il lettore su un tema oggi molto attuale; il femminicidio. Per farlo ella torna indietro nel tempo, ci riporta al 1997 e più precisamente nella sua terra dove si perpetrò il delitto del Morrone. Due ragazze, mentre erano in escursione sulla Maiella, furono trucidate.
Ma procediamo con ordine. Conosciamo in primis Lucia e Amanda, una madre e una figlia che vivono in un paesino vicino Pescara e che nella finzione narrativa si fa protagonista del locus commissi delicti di un tempo trascorso. Sappiamo che Amanda si è trasferita nel milanese, che sta inseguendo il sogno della grande metropoli, che sta studiando per il suo futuro. Sappiamo ancora che tra Lucia e suo marito le cose non vanno più e che la separazione ufficiale è ormai l’ultimo tassello. La madre vorrebbe proteggere la figlia, tenerla al riparo, ma non può. C’è un momento nella vita in cui i figli devono essere lasciati andare, devono crescere, cadere e sbagliare ma anche imparare a rialzarsi. Siamo a ridosso dello scoppio del periodo pandemico e dei vari lockdown quando Amanda riesce per un soffio a prendere il treno che la riporta a casa. Con sé porta tutto, come se fosse un ritorno definitivo, tranne i libri. Lucia cerca di leggere oltre, di capire cosa si cela dietro il suo mutismo, dietro quel chiudersi in se stessa. Intuisce che qualcosa è accaduto ma non riesce a percepirne la vera portata, la vera devastante conseguenza. Amanda è taciturna, si trova un lavoretto in zona, trascorre il tempo chiusa in camera senza rispondere al telefono.

«[…] Nel rispetto della sua libertà, le sono mancata quando aveva bisogno di me.»

A questa prima narrazione del presente, si aggiunge quella del passato. Sotto a quello che è conosciuto come il Dente del Lupo, un terreno che appartiene loro e che un tempo ospitava un campeggio, tanti anni fa è successo un qualcosa di terribile. Oggi è oggetto di speculazione edilizia, ma quel che è stato non può essere dimenticato. Torniamo così agli anni della giovinezza di Lucia, conosciamo Doralice e le altre due ragazze, Tania e Virginia. Ricostruiamo tra presente e passato quello che è stato, dalla scomparsa, al delitto, alle udienze con la sopravvissuta.

«[…] La ferita era superficiale, si sarebbe presto rimarginata. Non vedevo il danno più duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa.»

E forse è vero, la nostra unica verità sono proprio le ferite. Ferite che sanguinano oggi, che sanguinano domani perché forse non è possibile una vera guarigione. “L’età fragile” è uno scritto che trasporta in una dimensione narrativa nuova della Di Pietrantonio, è anche uno scritto coraggioso per i temi che affronta e quel che si prefigge. Si noti bene che il libro non si prefigge di trattare nel dettaglio le fasi del delitto del Circeo, ne prende spunto, ricostruisce una storia che vi si ispira per molteplici aspetti, ma non si tratta di una cronaca dettagliata dei fatti.
Manca qualcosa, qualcosa sfugge nella dimensione complessiva a livello di emozione, forse perché nella totalità tende in parte a perdere il centro, ma nell’insieme “L’età fragile” è un romanzo che può offrire molto a livello di riflessione.

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