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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    24 Febbraio, 2024
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En attendant Godot

Titolo celeberrimo del teatro europeo del Novecento, “Aspettando Godot” suscitava in me da tempo molta curiosità. L’autore, Samuel Beckett (1906-1989), era irlandese di Dublino, ma la prima pubblicazione e rappresentazione dell’opera, rispettivamente nel 1952 e nel 1953, si ebbe in lingua francese con il titolo “En attendant Godot”; a Parigi Beckett si era trasferito già sul finire degli anni Trenta, partecipando poi attivamente alla Resistenza francese contro l’occupazione tedesca.
Malgrado le prime reazioni non troppo esaltanti ottenute sia a Parigi che un paio d’anni più tardi a Londra, si tratta del lavoro che ha dato forse maggior fama allo scrittore premio Nobel per la Letteratura nel ’69, al quale si aprì così la carriera teatrale. La trama prende avvio su “una strada di campagna, con albero”, come si legge all’inizio del primo dei soli due atti di cui l’opera si compone. Tale ambientazione interamente sullo sfondo di una strada di campagna alquanto desolata non muta sino al termine della vicenda, rimarcando una staticità (non solo di luogo) che finisce con l’avviluppare i personaggi principali, Estragone e Vladimiro, due vagabondi che aspettano un certo Godot, che non conoscono, al fine di ottenere da lui una qualche sistemazione. Sulla scena compariranno in seguito altri tre personaggi, di cui due in particolar modo bizzarri, ma non il tanto atteso e misterioso Godot che non si presenterà né alla fine del primo giorno né a quella del secondo.
Dramma? Commedia? Molto probabilmente entrambe. Senza dubbio, un’opera di estrema complessità interpretativa, nonché di forte innovazione a livello di struttura. “Sul piano del divertimento” scrive Carlo Fruttero, curatore e traduttore del testo nel 1956 per l’edizione Einaudi “si tratta di un vero gioiello, magistralmente congegnato […]. Ma ci vuol poco ad avvedersi che questa non è una commedia spensierata […]”. Innumerevoli possono essere le interpretazioni: da quella in chiave mistico-religiosa a quella dal sapore di guerra fredda, da quella esistenzialistica a quella sociale. Inutile arrovellarsi il cervello in tal senso, poiché tutto può essere.
Per quanto mi riguarda, la lettura non è stata particolarmente coinvolgente come speravo; nel complesso, ho trovato il testo appunto molto difficile da decifrare e, in verità, in alcuni punti abbastanza noioso da seguire, per non parlare del caos di qualche scena, con il sopraggiungere di Pozzo e Lucky, che più che sorridere induce a triste riflessione. Un libro, per me, su cui ritornare negli anni a venire.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    23 Febbraio, 2024
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A me non pare tutto OK

Rimandare per tanto tempo la lettura di un libro può portare a diverse conseguenze negative: non provare più interesse per la sinossi, ritrovarsi con una storia invecchiata malino, rendersi conto che forse non è più la lettura adatta a noi. Per me "Cattive compagnie" ricade in quest'ultima categoria perché, da quando ho acquistato la mia copia al momento in cui mi sono finalmente decisa a leggerla, ho sviluppato una certa avversione verso le autrici britanniche di suspence, il sottogenere del thriller domestico e gli scrittori stranieri che decidono di ambientare (parte del)le loro narrazioni in Italia per trattare la tematica della criminalità organizzata. E indovinate un po' quale titolo rientra in tutte e tre queste casistiche?

In realtà lo spunto di partenza sembra interessante: una donna inglese, Kate Grey, fatica a superare la morte del marito Charles "Charlie" Benson, avvenuta in circostanze tragiche ma anche poco chiare. Una foto che ritrae casualmente un uomo identico al suo adorato Charlie spinge Kate ad intraprendere un viaggio verso la città di Miami, nell'insensata speranza che il marito possa essere ancora vivo; viaggio nel quale sarà accompagnata da Luke Broussard, da sempre amico di Charlie. Nel primo terzo del volume, la narrazione al presente viene inoltre interrotta da dei flashback che mostrano com'è nata e si è evoluta la relazione tra Kate ed il marito.

Pur non avendo disprezzato del tutto questa lettura, mi trovo davvero in difficoltà nel trovarci dei pregi; e questo perché suddetti pregi sono compensati da difetti paralleli, oppure risultano così blandi da passare quasi inosservati. Diciamo che ho trovato carina la scelta di raccontare una protagonista un po' anticonformista, nonché decisamente spietata nella sua determinazione. Mi è piaciuto anche che Newman abbia investito tempo ed attenzione nella descrizione delle diverse ambientazioni, rendendo la prosa abbastanza curata in queste parti del testo.

Un altro punto a favore (con riserva) è rappresentato dai colpi di scena: alcuni sono resi davvero prevedibili dalla piega che prendono i dialoghi stessi, ma altri riescono in effetti a stupire, rendendo la lettura anche divertente in alcuni punti. Peccato che per stupire i lettori la cara Ruth sia stata costretta a provocare ai suoi personaggi degli attacchi di stupidità fulminante. È il caso dell'immotivata decisione della protagonista di togliersi i guanti in una determinata scena, ma in questa osservazione rientrano tranquillamente anche tutte le azioni compiute dagli antagonisti, nel finale e non solo: davvero non si capisce perché Kate non si faccia due domande sulle incongruenze in ciò che le viene raccontato!

Descrizioni a parte, la prosa ha secondo me ampi margini di miglioramento. A cominciare dall'eccessiva informalità nella narrazione, specie se accostata a delle linee di dialogo a volte fin troppo artificiose e ricercate. Boccio poi in toto la scelta di rendere la protagonista la voce narrante, perché se è vero che seguiamo sempre e solo lei durante la storia, non penso sia sensato da parte sua nascondere di proposito delle informazioni vitali; specie considerato che questo testo dovrebbe essere una sorta di racconto interiore. Un'ulteriore pecca nello stile di Newman è data dall'umorismo, ridondante e poco efficace: non penso sia necessario dedicare una pagina intera ad un'infelice battuta sul russare, neanche fossimo in un cinepanettone.

E concludiamo con qualche lamentela personale, come la discutibile edizione italiana nella quale parecchie frasi vengono tradotte in modo letterale, senza quindi tenere in considerazione giochi di parole o modi di dire inglesi. Mi ha fatto storcere il naso il modo superficiale con cui l'autrice ha parlato delle malattie mentali, delle persone di colore (con un simpatico sillogismo che li associa alla violenza di default) e della criminalità organizzata. Non farete fatica ad immaginare anche quale sia la mia opinione su una protagonista che si dimostra incapace di fare alcunché senza un uomo alto e muscoloso al suo fianco, per poi disdegnare senza possibilità di riscatto tutte le personagge femminili nelle quali incappa.

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68 Opinione inserita da 68    22 Febbraio, 2024
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Quale amore?

C’è un modus amandi in cui sostano ricordi, desideri, sogni, emozioni e sentimenti che non lasciamo per paura di perderli, ignorando il dolore che ci riguarda, affascinati dall’ idea che tutto sarà come avevamo creduto e desiderato.
C’è un sentimento di appartenenza che tralasceremo, ancorati al giardino d’ infanzia, a un amore idealizzato, soggiogati dalle circostanze, da una socialità deviante, da egoismo, paura degli altri, scarsa conoscenza di se’.
E allora la vita deraglia, legandosi all’ ignoto, all’ impossibile, all’ improbabile, soffocati da domande e risposte inevase in uno stillicidio di desideri perduti con un’ identità abbandonata in un vicolo buio.
Inizi del nuovo millennio, questa è la storia di Christopher Woods, detto Kid, e della sua impareggiabile devozione per Thaddeus, caro amico d’ infanzia, che oggi gli chiede sostegno economico, un amore non corrisposto che lo imprigionera’ nei ricordi, limpidi e lancinanti, tra New York e il poco tempo che gli rimane prima della reale incarcerazione.
Thaddeus è uno scrittore di racconti triti e ritriti, sull’ orlo del fallimento, la cui ambizione supera il talento, una carriera hollywoodiana infranta, un lungo matrimonio con Grace, pittrice inesplorata, una figlia forse non sua, un uomo carnale che insegue l’ ammirazione, incoerente, contraddittorio, persuasivo, affascinante, una vita cercando di accontentare persone che non potevano essere accontentate, i suoi genitori, due librai da cui è stato tollerato, non amato, l’ alfa e l’ omega della sua ansia di compiacere.
Kid, ai suoi occhi, è l’ amico ricco, colui che può salvarlo dalla rovina permettendogli di tenersi la residenza di Okney, un’ oasi di successo che rischia di perdere, sommerso dai debiti, senza guadagni, un amico gay che ha negato di esserlo, che lo ama disperatamente, soggiogato al bisogno di essere amato, fragilmente esposto alle sue dissertazioni e a un giogo da cui è difficile sottrarsi.
Okney e’ un castello di carta da mantenere a tutti i costi, i soldi la discriminante, il fine supremo, l’ unico parametro di riferimento, ti comandano, ti parlano, ti definiscono.
La stretta relazione tra Kid e Thaddeus ha origini lontane, si nutre di sogni irrealizzabili e di sostanziale materialismo, reale e immaginario hanno costruito due versioni diverse.
Chi è Thaddeus e cosa nasconde, lealtà, recita, quanto tiene a Kid, cosa prova per lui, da cosa e da chi vuole essere salvato, dal matrimonio, dall’ amico, dal disastro economico?
Di certo conosciamo i sentimenti di Kid, ciascuno conserva una verità che non vuole ascoltare ma che inevitabilmente ritorna. E allora la tensione cresce, recita invadente e avvilente, la vicinanza menzogna e sofferenza, la lontananza alimenta il pensiero dell’ altro, interrogandosi sul senso del proprio amore, dubitando di se’ e della bugia che ci si è raccontati in un viaggio di non ritorno per chi ha deciso di nascondersi.
Amore non corrisposto, ossessione, farsa, pura recita a soggetto?
La passione non corrisposta insegue la vanità, le debolezze, il respiro, l’ ombra dell’ altro, il suono della sua voce, l’ odore della sua testa, in fuga dal proprio mondo per entrare in un luogo oscuro pieno di fantasie, di ricordi archiviati, di simboli e insensatezze.
Si arriva a un punto in cui l’ illusione e la speranza di un probabile amore non corrisposto vanno rimosse, in cui è doveroso confessare o uccidere i sentimenti destinando il proprio amore a qualcun altro o qualcosa d’ altro, per contro non resta che convivere con il proprio dolore.
Amicizia e gratitudine, parole ovvie e sincere, terribili e inascoltabili possono portare a una svolta, una fine lacerante per un nuovo inizio, evasi da un’ ossessione che libera quella parte di se’ a lungo inesplorata e sottratta.
Scott Spencer, conosciuto e apprezzato in “ Un’ amore senza fine “, suo romanzo d’ esordio, si conferma autore di spessore e talento in grado di costruire con poche tracce, un amore non corrisposto, una trama corposa e ricca di suspance.
Un inizio contrapposto, la distruzione di un amore e la speranza di un amore, una fine sovrapponibile e necessaria per liberarsi di un’ ossessione protratta, una prosa matura e riccamente vestita, dettagliata e finemente esposta, anche se la struggente veridicità dell’ esordio si lascia preferire nella propria implacabile semplicità, quel turbamento interiore che qui odora del colore dei soldi e di una socialita’ troppo invadente, sottraendo intimità, identità, profondità e intensità allo spessore dei protagonisti.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    21 Febbraio, 2024
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Fuoco amico

A volte si è sorelle di sangue. A volte non si è sorelle di sangue, ma il legame che si crea è forse ancora più stretto e speciale, perché ci si è scelte. Nel nuovo libro della serie di Sara ad essere in difficoltà è l’amica di sempre, la Bionda, nata e cresciuta guardandosi alle spalle, ma che viene ora rapita durante una sessione di jogging mattutino e viene tenuta sotto sequestro, in quanto in possesso di informazioni speciali che potrebbero scombussolare gli equilibri politici e di potere della società. La Bionda è vittima di un fuoco amico, le possibilità di salvarla sono al minimo, ma il gruppo di investigatori speciali, un po' improvvisati, un po' accrocchiati, trova indizi e trova la chiave per aiutarla. Sara si dimostra, ancora una volta, una donna speciale, attenta, perspicace, intelligente, invisibile ma allo stesso tempo luminosa. Capace di slanci dell’anima come poche altre persone al mondo.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Febbraio, 2024
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Un giallo degli anni Sessanta

Pubblicato nel 1965, il romanzo "Senza pietà" della scrittrice statunitense Patricia Highsmith (1921-1995) non mi è parso un capolavoro né uno di quelli destinati a restare tra gli indimenticabili del genere in questione; diciamo pure senza infamia e senza lode, dal momento che si lascia sì leggere bene, ma come giallo, alla fin fine, non si rivela eccezionale, almeno secondo me.
Lettura, dunque, abbastanza scorrevole dopo aver superato le lente descrizioni della parte iniziale, propedeutica a mettere a fuoco la situazione, non delle migliori, tra i due giovani coniugi (lui scrittore, lei pittrice) protagonisti di questa storia di ambientazione britannica. A poco a poco, infatti, il ritmo della narrazione si velocizza e se in un primo tempo il personaggio di Sydney appare piuttosto indisponente e forse addirittura inquietante per via del suo atteggiamento nei confronti della moglie Alicia, da un certo punto in avanti tutto si ribalta e quello che avrebbe dovuto essere soltanto un sorta di gioco senza alcuna importanza diviene invece una trappola senza via di fuga per il povero marito. Povero perché nemmeno lui, così assorbito dalla scrittura e dalle storie diciamo movimentate a cui la sua fantasia dà vita nella speranza di sbarcare il lunario, avrebbe pensato di cacciarsi in un guaio del genere.

"La finzione con la quale si era divertito fino a quel momento era improvvisamente diventata realtà".

A privare la narrazione di fascino e maggior coinvolgimento è questo giocare a carte totalmente scoperte da parte dell'autrice con il lettore, il quale è persona costantemente informata dei fatti, almeno sino al capitolo 27. Certo, l'epilogo di lì a poco è alquanto spiazzante e l'effetto sorpresa stavolta c'è, ma le battute finali, a mio avviso, non sono sufficienti a rendere eccezionale l'intero romanzo che, qua e là, mostra qualche ingenuità, come lo sperare di Sydney che le impronte digitali lasciate nell'appartamento di Tilbury - in definitiva, un altro beffato come lui - non vengano rilevate (è presumibile che a inizio/metà anni Sessanta le tecniche della scientifica non fossero progredite come quelle attuali, ma la polizia qualcosa avrebbe pur trovato anche allora). Quanto alla protagonista femminile, Alicia è un personaggio poco convincente, nonché la vera responsabile, con il proprio comportamento vigliacco, della morte dell'amante e del fatto che il marito diventi un assassino. Tra i personaggi secondari, fa invece una pessima figura quello di Alex, il socio per così dire di Sydney, a cui poco importa né dell'uno né dell'altra dei signori Bartleby e che, pronto a trarre vantaggio personale dalla situazione, mostra soltanto tutta la sua avidità. Carino, e neanche mal riuscito, quello dell'anziana signora Lilybanks; peccato muoia d'infarto nel momento meno opportuno, senza suscitare inoltre grande commozione.
Nel complesso, il voto non supera le tre stelle.

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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Febbraio, 2024
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Per bambini di ogni età

Un bel volume illustrato per bambini di OGNI età, "Fiocco di neve", pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 2020 e apparso in Italia due anni fa grazie al marchio Giralangolo della casa editrice EDT di Torino.
Sia il testo che i bellissimi disegni sono stati firmati da Benji Davies, autore e illustratore londinese (classe 1980, così si legge in rete), i cui libri per bambini sono stati tradotti in oltre 40 lingue con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Vincitore di importanti riconoscimenti a livello internazionale, Davies è anche regista di animazione e di video di diverso tipo.
Quella narrata (e illustrata) in queste pagine è una piccola storia senza tempo sullo sfondo del periodo delle feste natalizie; il protagonista è un fiocco di neve che, volteggiando tra le nuvole, non vuole cadere giù. Il suo, in balìa del vento, sarà un lungo viaggio che lo condurrà sulla punta di un alberello improvvisato, là dove qualcuno, pur senza saperlo, già lo attende.
Si dovrebbe sempre trovare un modo per smettere di cadere, ed esiste per tutti un luogo in cui infine fermarsi nonostante le tempeste della vita.
Da leggere in prossimità del Natale o durante le feste di fine anno, ma non necessariamente.

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Romanzi storici
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    21 Febbraio, 2024
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Quando il postino era uno di famiglia

C'era un tempo in cui i portalettere giravano in paese a bordo di una biciletta. Un tempo in cui si aspettavano le lettere con ansia. C'era la gioia di toccare la busta, sentirne l'odore, aprirla lentamente e poi leggere con calma notizie dei cari lontani. E per chi era analfabeta c'era qualcuno, magari lo stesso postino ,che si sedeva al tavolo della cucina e la leggeva ad alta voce, diventando depositario dei segreti di tutto il paese. In quel tempo viveva Anna, che nel 1934 arriva in paesino in provincia di Salerno. Con sé porta un bambino piccolo e la ricetta del pesto, che spera possa aiutarla a sentire meno la mancanza della sua Liguria. Anna capisce subito che nonostante sia sposata con un uomo in vista lei sarà sempre una straniera. Ma non fa nulla per non essere diversa dagli altri. Contro il parere dei più fa il concorso per diventare portalettere, indossa i pantaloni, costruisce una casa per donne maltrattate. Insomma fa tante piccole rivoluzioni con garbo, ma con una tenacia ammirevole. Questo libro, opera prima di
Francesca Giannone è molto gradevole, scritto con una prosa curata, ma semplice, con una storia che dosa in modo ben equilibrato una storia d'amore con temi sociali che sono attuali ancora oggi. Non condivido tutto il clamore che ha suscitato questo libro, ma merita comunque di essere letto.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    21 Febbraio, 2024
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Chi si rivede!

Lo avevamo lasciato parecchi anni fa in fuga da una gang di mafiosi, e ancora peggio da un intero studio di avvocati furiosi. Eccolo ricomparire quindici anni dopo, ripulito, molto più ricco ma ancora con quella sua capacità di infilarsi in guai più grossi di lui. Ha inoltre il merito di aver dato il via alla carriera di John Grisham grazie al successo internazionale de "il socio". Si tratta di Mitch McDeere, che dopo quindici anni dal momento in cui è stato contattato dall'FBI è diventato socio di un importante studio di Manhattan che ha sedi in tutto il mondo. Proprio gli interessi di un cliente turco lo portano dapprima in Libia e poi in giro per il mondo in quello che, partito come un legal thriller, diventa un libro di azione con tanto di complotti internazionali. Per una persona come me abbastanza abitudinaria, questo libro è stato una mezza delusione. Lo scrittore non si discute, la sue descrizioni sono sempre chiare, credibili e coerenti. la trama è ricca, i personaggi sono convincenti . Però io da Grisham mi aspetto tribunali del profondo sud degli Stati Uniti, battaglie legali, giurie e prove dell'ultimo minuto. Questo intrigo internazionale, poi mi è sembrato un po' forzato, lontano da quelli immaginati da altri scrittori che si sono specializzati in quel settore. Insomma, non è il suo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    21 Febbraio, 2024
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L'ISTINTO HA SEMPRE RAGIONE

Serena è una broker finanziaria, "lo squalo biondo", viene chiamata, ha fatto arricchire tanti investitori grazie al suo fiuto per gli affari.
Ha pochi amici, rapporti occasionali con uomini diversi, abita in un appartamento al 19° piano di un palazzo a Milano, "è abituata a vivere la vita dall'alto, ciò che accade per terra non le interessa", ama fare shopping nelle boutiques del centro e passare qualche serata al teatro La Scala. Nella sua vita tutto è minuziosamente calcolato e scandito; non c'è spazio per gli imprevisti, eppure, dopo una vacanza a Bali, scopre di essere incinta. Non sa mininamente chi sia il padre e non potendo più interrompere la gravidanza, decide di dare in adozione il bebè, ma il destino si interpone ed è costretta a tenere Aurora, che viene cresciuta da tate, autisti senza che le manchi nulla, tranne l'amore materno. Una mattina, a colazione, Serena chiede alla figlia se vuole imparare a sciare; le dice che è stata iscritta ad un prestigioso Campus di una settimana a Vion, in Svizzera e sarà in compagnia di altre 11 bambine...si divertirà! Durante la notte precedente il rientro a casa, Serena riceve una telefonata da Berta, una delle tre tutors addette alla custodia delle bambine: è scoppiato un incendio e una bambina risulta dispersa,,ma Aurora sta bene...
Serena intuisce che non è la verità e decide di partire subito per Vion. Aurora è la bambina dispersa e in Serena si risveglia un istinto materno ma provato prima. Dov'è Aurora? Quali segreti nasconde Vion?
.
Fin dal colore della copertina sono rimasta sorpresa, infatti si discosta molto dai colori delle precedenti. Ed anche sulla trama posso dire la stessa cosa: l'inserimento nella storia del valore del sentimento materno, dell'empatia che sviluppano i personaggi tra loro è davvero ben riuscito e speciale . Il suo stile di scrittura è sempre brillante, accattivante, sa tenerti incollato alla lettura come pochi sanno fare.
Serena, il personaggio principale, è molto ben riuscito la sua evoluzione di donna in carriera senza scrupoli a madre dolcissima che si auto riscopre tale è bellissima, unica.
Per me assolutamente uno dei migliori romanzi di Donato Carrisi, ne consiglio la lettura oltre che per la trama avvincente, per questo nuovo assetto che ha voluto dare, l'effetto empatico coinvolge e appassiona maggiornamente.

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Consigliato a chi ha letto...
I romanzi di Donato Carrisi perchè tutti dei garndi thriller e per capirne meglio la diversità di questo
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Fantascienza
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    21 Febbraio, 2024
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Qualcuno liberi Max!

Prima di iniziare a leggere "Archenemies" (arrivato in Italia con il sottotitolo "Nemici giurati"), secondo volume nella trilogia Renegades di Marissa Meyer, mi ero lamentata perché non ne capivo la trama. Adesso ho compreso il motivo: non c'è alcuna trama! semplicemente si continua a seguire le storyline già avviate, con Nova che tenta di recuperare l'elmetto di Ace senza farsi sgamare dai Renegades e Adrian impegnato ancora nella ricerca di informazioni sulla morte della madre, nonché nel dimostrare le buone intenzioni di Sentinel.

Per tutto il libro si aspetta inutilmente le prevedibili rivelazioni sulle identità segrete dei due protagonisti, mentre l'autrice si prendere queste quattrocento e passa pagine per deliziarci con scene e personaggi filler: qualcuno mi deve spiegare il ruolo di Callum in tutto ciò! a tratti quasi speravo si rivelasse un villain. Non mancano inoltre degli sviluppi MOLTO fortuiti nella trama (ehm... Vitality Charm... ehm... cianografie) e delle contraddizioni con quanto successo nel primo capitolo.

E pensavate di poter leggere un libro o una serie YA senza l'imprescindibile scena del ballo? Stolti!
Devo ammettere però che questo romanzo ha anche degli aspetti positivi, primo tra tutti quello di saper intrattenere al pari di una serie TV trasmessa su CW. Anche se non credo si possa considerarlo proprio un complimento...

Il libro porta delle ottime riflessioni, già accennate in "Renegades", come la necessità di avere una propria indipendenza dagli eroi ed il valore di un giudizio ufficiale in contrapposizione alla giustizia sommaria delle squadre di Renegades; tematiche che, con qualche accortezza, si possono ben adattare alla nostra quotidianità. Anche lo sviluppo della romance tra Nova e Adrian ottiene parecchio spazio, e si riconferma uno dei punti di forza della serie; non si arriva mai a svelare le carte, ma la tensione si mantiene viva senza tediare troppo.

Inoltre, ho apprezzato che Meyer abbia spiegato più nel dettaglio i poteri dei personaggi principali, assegnando anche dei limiti che in un primo momento non erano troppo chiari.


NB: Libro letto in lingua originale

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Romanzi storici
 
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68 Opinione inserita da 68    21 Febbraio, 2024
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Nuovi giorni….

Dopo quarantuno anni di onesto servizio presso una compagnia assicurativa londinese per il signor Baldwin è arrivato l’ agognato giorno del meritato pensionamento. Quante possibilità ad attenderlo, giardinaggio, libri da leggere, hobbies, tanto tempo a disposizione, una libertà del tutto giustificata.
Una breve cerimonia di commiato, il regalo di dimissione da parte dei colleghi di lavoro, una nuova era, un ultimo viaggio verso la cara e vecchia abitazione da sempre riparo sicuro in compagnia della devota moglie Edith.
Non è un giorno qualunque e in Baldwin, da subito, un’ inquietudine prende forma, la paura di rimanere solo, dimenticato, invischiato in un senso di vuoto e di inutilità, di non sapere gestire tante ore di libertà, lui che è da sempre un uomo metodico. A cinquantotto anni si sente ancora giovane, impreparato alla noia, e allora non gli resta che valutare un ventaglio di possibilità e scegliere quella più adatta alle proprie inclinazioni.
Cosa farebbe, cosa lo appassiona, in passato avrebbe voluto essere uno storico, e allora non c’è tempo da perdere, tomi voluminosi lo attendono insieme alle ricerche sul campo.
Ma come ci si può improvvisare in qualcosa che non si riesce pienamente a comprendere, quando mancano le basi, le spiegazioni di un esperto, di certo Baldwin non può contare su Edith, da tutta la vita dedita ad altro.
Anche per lei Il suo pensionamento è cambiamento, adeguamento ai tempi altrui, a nuove abitudini ed esigenze, la sottrazione di quegli spazi che, in assenza del marito, si è concessa. Il loro è stato un matrimonio senza contrattempi, un quotidiano esercizio di reciproca lontananza, una relazione priva di un pozzo profondo di interessi condivisi a cui attingere, limitata al racconto serale di semplici aneddoti in una quiete consolidata, perché cambiarlo improvvisamente?
Dopo solo ventiquattr’ore il clima famigliare è stravolto, insostenibile, esplosioni d’ ira, litigi, una insoddisfazione manifesta, una situazione destinata a durare per sempre, il senso di una fine.
E allora una svolta è necessaria, qualcosa per cui vivere, sperare, costruire, l’abbandono del passato per un nuovo equilibrio famigliare, un se’ che restituisca la voglia di appartenere al mondo e alle sue convenzioni, nuovi amici, piaceri, luoghi, interessi, ma di nuovo una voce interiore incombe, l’ incubo di sentirsi stranieri in patria azzardando un futuro che farebbe rimpiangere il recente passato sepolto.
Sherriff, già conosciuto in “ Due settimane al mare “, grazie a una prosa semplice, lineare, di stampo cronachistico, si conferma cantore di una quotidianità fatta di piccole cose, note, vissute, reiterate, descrivendo una borghesia cinica, egocentrica, ansiogena, che auspica e rifugge il cambiamento, con l’ incognita di un futuro già’ scritto ( in teoria ) e piuttosto fragile ( in pratica ), che ricerca al di fuori di se’ soluzioni a un senso di smarrimento o creduto tale.
La solidità delle mura domestiche, della famiglia, di gesti ritenuti propri, una routine che sembra dimenticare e scongiurare la dimensione intima per aspirare a un reale artificioso da costruire, consegnano il protagonista a un senso di inquietudine rivolto al nuovo per scacciare il vecchio, un equilibrio che dia certezze immediatamente delegittimate dal desiderio di essere dove si era. ( il proprio integerrimo se’), un orgoglio ferito colmo di superficie per sfuggire alla propria ombra e a sconosciute profondità.
E allora l’oggi, a dieci anni dal pensionamento del signor Baldwin, lascia una scia di indifferenza a chi osserva con oggettiva imperturbabilità la sopraggiunta modernità ovattata di quieto vivere nel semplice e inalterabile scorrere degli avvenimenti …

… “ mi accompagnarono fino al cancello, mi salutarono con la mano mentre svoltavo l’ angolo che mi avrebbe allontanato da Western Close. Attraversai adagio il vecchio paesino, accelerai lungo la nuova strada, costeggiai la stazione mentre una folla di uomini e di ragazze di ritorno dalla City usciva in fretta, poi la rombante circonvallazione si impadronì di me e mi trascinò via, verso nord”…

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    20 Febbraio, 2024
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Cattivi ragazzi

Dimenticatevi il burbero bonario Maigret, questo è un romanzo di Georges Simenon un po' insolito, durissimo, spietato, brutale quanto il protagonista, l'autore ci appare più coinvolto direttamente in quanto scrive, e perciò più cupo, forse, e non solo perché l’epoca è quella buia dell’occupazione nazista. Direi invece che trapela chiaro come sia un romanzo letteralmente redatto da un autore sofferente interiormente per motivi suoi, come in effetti è, depresso e dolorante. Intendiamoci, la mano è sempre la sua, però la penna per quanto valente è intinta in un inchiostro nerissimo, accecante, cinico nella sua oscurità. Simenon è normalmente un attento osservatore di fatti e persone del suo tempo, ma in particolare sa leggere benissimo nel cuore dei suoi simili. Il più delle volte quello che legge non è luce, non tutto almeno, ma stavolta sembra soffermarsi particolarmente solo sulle linee più marcate a carbone brunito. Protagonista è Frank, un ragazzotto triste e sprezzante, all’apparenza uno come tanti, che però è quello che definiremmo un giovanotto parecchio problematico. Privo di padre e di una qualsivoglia guida morale, poiché la madre è coinvolta nei biechi affari del meretricio, è di conseguenza pessimo esempio educativo da seguire, il giovane Frank cresce come un vizioso sfaccendato, non studia, non lavora, batte la fiacca oziando con gli amici. Neanche ha bisogno di mostrare il meglio di sè, comportarsi da bravo ragazzo simpatico ed attraente per rimorchiare qualche ragazza, infatti nell’impresa di famiglia ha modo di sfogare i suoi ormoni in subbuglio, senza sforzo, gratis et amor dei, per cui persiste a militare tra i cattivi ragazzi. Il tutto lo rende un individuo affatto solare, con un cipiglio duro e cattivo. L’ozio è il padre dei vizi, e in un giovane immaturo e presuntuoso, con le carenze affettive del nostro, insieme ad una sorta di innata cattiveria e scarsa empatia per i suoi simili, inevitabilmente lo spinge sempre più in basso nell’abisso dell’abiezione, fino all’assassinio. Né vale ad arrestarlo l’intervento amorevole della crocerossina di turno, questa non è purtroppo una storia tipo la bella e la bestia. Di quella favola c’è sola la neve, ma non è candida, fresca, immacolata, è neve sporca, perciò grigia, scura, rispecchia l’anima del protagonista: una persona odiosa e pericolosa, da mandare a processo per il suo delitto perché gli venga comminato il giusto castigo, quasi come se “La neve sporca” fosse a suo modo un connubio tra “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij e “Il processo” di Franz Kafka.
Solo che, e questo Simenon lo dice tra i denti, più che le righe, la neve prima di sporcarsi è bianca, disarmata, virginea. Lo era anche Frank: che aveva il vizio, forse più che pavoneggiarsi che per altro, di stringere gli occhi a fessura. La luce sarebbe passata anche da quella crepa, illuminandogli l’anima nera che si ritrovava certamente non per sua sola colpa. Però è rimasto indietro, nessuno si salva da solo, chiunque chiede salvezza, Frank è ragazzo buio perché conosce solo il buio: aspirava anche lui ad amore, affetto, empatia. Ma aveva stretto gli occhi troppo forte perché le emozioni solari filtrassero; magari trapela un lieve barlume, diciamolo tra i denti, è un cattivo ragazzo, ma più vittima che carnefice. In sintesi, un Simenon diverso, sempre grande, però a denti stretti.
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Georges Simenon
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Romanzi
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    20 Febbraio, 2024
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Non aprite quella scatola

Nikki Erlick immagina che così, di punto in bianco tutta l'umanità inizi a ricevere a casa un innocuo pacco. Dentro c'è solo un pezzo di spago, tanto innocuo all'apparenza, tanto potente nella realtà. La lunghezza di quel pezzo di filo infatti corrisponde agli anni che ancora restano da vivere al suo destinatario. Dopo l'iniziale sconcerto, il mondo continua a girare come sempre. E come sempre ognuno reagisce a questa novità a modo suo. C'è chi vuole conoscere il contenuto della scatole per godersi al meglio il tempo che gli rimane, che preferisce vivere nell'ignoranza, c'è chi decide di farne un business, chi invece architetta truffe. La Erlich sceglie alcune persone che hanno ricevuto il pacco e ci accompagna nelle loro menti e ci fa conoscere le loro scelte. Il romanzo si legge con agilità. anche se i comprimari che si alternano tra le pagine sono parecchi. Nonostante il tema non sia poi così lieve, il libro ha una sua leggerezza, che probabilmente sarebbe maggiormente apprezzabile se non avessimo ancora fresco il ricordo dell'epidemia di covid, di cui immagino questo racconto sia un po' figlio. Nel complesso un libro non eccezionale, ma comunque gradevole e con molti spunti di riflessione.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    20 Febbraio, 2024
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Sembrava un posto tanto carico

Direi ottimo esordio per questo scrittore italiano, che si nasconde dietro uno pseudonimo. Bella l'ambientazione nordica, con i paesaggi tanto belli quanto inquietanti, con gli abitanti dell'isola cesellati dal vento e dal mare che con la complicità del clima chiudono fuori dal loro piccolo mondo tutto il resto dell'umanità. Questo è un giallo con tanto di polizia locale impreparata di fronte a una serie di omicidi che riguardano ragazze che vivono sull'isola. A dare una mano viene inviato Henning Olsson, un ispettore della scientifica che lì proprio non ci vuole andare. Ha frequentato quel posto come turista e non intende più tornarci. l'ostilità è reciproca e i residenti non fanno nulla per nasconderlo. Quindi non un eroe che arriva in sella al suo bianco destriero per salvare un isola in difficoltà, ma uno straniero saccente che non si vede l'ora di rimandare da dove è venuto. Veniamo ai delitti: agghiaccianti, incredibili per le modalità con cui sono stati eseguiti e apparentemente senza un colpevole. Ma un colpevole c'è, e basta sgomberare la mente dai preconcetti, da tutto quello che viene spiegato nei corsi all'accademia ed ecco la spiegazione, chiara logica anche se inquietante. L'autore con questo romanzo oltre che a mettere in scena un bel giallo, facile da seguire, ma comunque complesso ed articolato tocca anche temi importanti, in particolare quello di quanto sia difficile essere giovani, soprattutto per chi vive in un'isola e si sente ignorato quanto il puntino che sulle carte geografiche segnala il loro paese di origine. Non posso dire che lo scrittore abbia sfiorato questo tema con delicatezza e empatia. perché c'è andato giù piuttosto pesante, ma con dispiacere devo dire che considerando alcuni fatti di cronaca probabilmente questo romanzo è più realistico di quanto sembri all'apparenza.

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Fantasy
 
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Kvothe Opinione inserita da Kvothe    20 Febbraio, 2024
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TELA BIANCA

In cerca di una nuova saga fantasy da leggere mi sono imbattuto in Abercrombie e non potevo finire in mani migliori, questo è un libro scritto molto bene, con una prosa scorrevole, e nonostante ci siano più personaggi principali la lettura non ne risente. Questa saga è cruda e con personaggi che normalmente sarebbero: secondari, nascosti, depotenziati e ripuliti, in questo libro sono protagonisti senza censure; qua non c'è spazio per sentieri lastricati senza letame, qua si entra nel torbido e lo si fa in maniera netta. Abercrombie utilizza una ridondanza introduttiva ogni qualvolta uno dei personaggi principali entra in scena come narratore, questo può creare fastidio, oppure può creare una sorta di fidelizzazione con il personaggio; questa ridondanza di "intro" continua potrebbe risultare tediosa ad un certo tipo di lettore ma io l’ho amata. Torturatori, assassini, ingannatori, arrivisti ed esploratori, questi sono i protagonisti.

Il libro non è esente da difetti ma per chi cerca un libro che si legga tutto d'un fiato (700 pagine) non potrà trovare libro migliore di questo. All’inizio, il romanzo è scevro di informazioni sul mondo che lo riguarda, e salvo qualche accenno qua e là, non c’è nessuna mappa che ci faccia capire il mondo che andremmo a scoprire; diciamo che il libro si concentra più sui personaggi che a darci un’enciclopedia dell’universo della saga. Mi sono piaciute molto le descrizioni delle torture e quelle degli scontri, ma è giusto avvisare che sono molto realistiche e cruente, quindi non lo consiglio a chi è impressionabile o chi cerca un libro leggero.

La vera forza del romanzo sono I personaggi: con le loro particolarità, un loro passato e con una forte potenza narrativa. Per concludere, secondo me è una saga veramente piacevole e appassionante, non senza difetti, ma con grandi punti forza sfruttati in maniera intelligente. Il mio personaggio preferito è Sand Dan Glotka, personaggio molto stratificato con una vita insolita e piena di soprese ma non posso non citare Logen novedita e Ferro Maljinn tra i personaggi che mi hanno impressionato di più, ma in generale quasi tutti i personaggi sono scritti in maniera magistrale e sono loro la vera colonna portante della saga.

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Martin, Rothfuss e a chi piacciono i libri cruenti
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Romanzi storici
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    20 Febbraio, 2024
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I misteri di una reliquia scomparsa.


Marcello Simoni guida il lettore ancora una volta nei secoli oscuri del Medioevo, quando le accuse di eresia potevano condurre a processi e condanne e la condizione delle donne era di sottomissione, considerate "creature inferiori, irrazionali, facili alla suggestione". Ma non sempre era così: nel romanzo "Morte nel chiostro" emergono due protagoniste, la badessa del convento di San Lazzaro, situato fuori le mura di Ferrara, Engilberta di Villers, e suor Beatrice, una novizia qui rifugiatasi dopo la presunta morte del marito alle Crociate.
Siamo nel 1187, Ferrara ha appena assistito alle solenni esequie di papa Urbano III, confinato al nord da Federico Barbarossa e deceduto dopo anni travagliati e l'angoscia per la riconquista di Gerusalemme da parte dei musulmani.
La vita nel monastero femminile procede monotona, segnata dai rintocchi delle campane, da canti e preghiere liturgiche, quando un evento inatteso irrompe e dà inizio ad un vero e proprio giallo: una giovane suora, Agata di Corteregia, viene trovata impiccata nel pozzo del convento. Si saprà, nel prosieguo della narrazione, che Agata era coinvolta nel furto di una reliquia di San Giovanni: il cadavere del ladro, trovato sgozzato nei pressi del monastero, sarà nascosto con la complicità della badessa e di Beatrice, ma attirerà vari personaggi alla ricerca della refurtiva, consistente in una preziosa pergamena che metteva in guardia i veri credenti dagli eretici catari, sostenitori della dottrina dualistica secondo la quale il Bene e il Male rivaleggiavano con pari dignità per la conquista delle anime. Il monastero diventa così teatro di agguati, colpi di scena, scontri che oppongono Engilberta e Beatrice a cacciatori a vario titolo della reliquia. Engilberta, accusata di esserne in possesso, sarà portata via da padre Vespertilio, sacerdote e confessore delle monache, ma tornerà al convento, liberata da Volcmano, un vecchio e saggio canonico che rivelerà chi era stata la vittima del furto, addirittura papa Urbano III, custode della pergamena , derubato e deceduto, si sussurrava nel corteo funerario, per sospetto avvelenamento.
Altre monache agiscono da comprimari: da Ambrosia, "infirmaria", una specie di infermiera che si occupa di vivi e morti, conservati nel "putridarium" dove i cadaveri conservati si decompongono lentamente in apposite celle, a Nicodema, un'originale solitaria monaca che vive nella torre campanaria, dalla portinaia Prospera, un donnone da guardia ad Ursiana, la priora, vittima delle focose attenzioni di don Vespertilio ed alla disperata ricerca di tisane abortive.
Un monastero femminile dove, accanto al candore di un gruppo di giovani monache salmodianti, la ricerca di una reliquia, in nome dell'ortodossia e della lotta all'eresia, induce a malefatte d'ogni genere, delitti compresi. Marcello Simoni è un maestro del genere, riuscendo ad accostare a fatti storici reali (i funerali di papa Urbano III, l'esistenza del rarissimo codice di Giovanni evangelista) invenzioni di fantasia come il monastero di San Lazzaro, la badessa Engilberta e suor Beatrice. Storicamente vera invece è Ildegarda di Bingen, più volte citata come maestra della badessa: una grande donna dei suoi tempi, monaca talentuosa, scrittrice, teologa, dichiarata dottore della Chiesa da Benedetto XVI nel 2012, una di quelle donne "che hanno costruito la storia, quella vera, quella che raramente si racconta".
Lo stile narrativo di Marcello Simoni è preciso e raffinato nella ricerca di termini desueti per adeguarsi ai tempi ed all'ambiente particolare in cui si svolgono i fatti. Non mancano termini e citazioni latine, originali i disegni dell'autore all'inizio di ogni capitolo.
Per gli amanti del genere, un romanzo da non perdere.

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Altri romanzi di Marcello Simoni.
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Febbraio, 2024
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Una cerchia esclusiva

La tavola era apparecchiata in maniera perfetta, con posate antiche invecchiate da anni di pranzi e cene lucidate con cura, non troppo appariscente né ricercata, bellissima e confortevole, capace di creare un bel contrasto con la stilosità un po' hipster dell'appartamento. Il pranzo era pronto, vol-au-vent, merluzzo al cartoccio, torta di datteri con salsa al caramello. Anche Thea era perfetta, con un bell'abito fiordaliso dal taglio sartoriale, le unghie perfettamente curate, il suo corpicino esile. Suonarono alla porta, ormai era troppo tardi per rimediare ad eventuali dimenticanze. Ma Thea tentennava, la paura di perdere tutto la trasformò in un sasso incapace di muoversi. Una seconda scampanellata la ridestò, convincendola che fosse ormai giunto il momento di aprire la porta e far entrare il mondo nella sua oasi di pace, confortata dalle sagge parole di una persona anziana che le aveva predetto "La tua anima non cambierà mai". Attraverso questa porta, che la misteriosa Thea ha il timore di aprire, Juliet Ashton ci rende membri di una cerchia esclusiva, quel Club del pranzo della domenica che dà il titolo al libro. Affiliati del sodalizio sono i fratelli Piper, i loro passati ed attuali compagni, i figli, la nonna e chiunque graviti loro intorno in maniera sufficiente da essere reso partecipe. Infine, ovviamente, il lettore che, seduto tra la dolce e saggia nonna Dinkie e il fragile (ma sarà davvero così?) Josh, sentirà Maeve raccontare del suo ennesimo amore sbagliato davanti all'adolescente figlio Storm, vedrà il vanesio Neil battibeccare con il sensuale Santi sul modo di badare alla loro figlioletta Paloma, non potrà non notare quanto Sam sia ancora innamorato dell'ex moglie Anna, la vera protagonista del racconto. Divisa tra un doloroso passato che sale prepotentemente a galla, attraverso una serie di lettere anonime, e un futuro incerto ma pieno di speranza fatto di un nuovo amore e di una dolce quanto inaspettata attesa, è lei il punto di riferimento per gli altri componenti del club, il collante che tiene unito il gruppo, la sorella, la compagna, l'amica che ha sempre un consiglio, una buona parola per tutti. La location cambia ad ogni riunione, in una rotazione irregolare che alterna le abitazioni di ogni partecipante, i menù variano dal minimal al ricercato a seconda dell'inclinazione culinaria del padrone di casa di turno, il copione resta sempre lo stesso: chiacchiere, pettegolezzi, ricordi, progetti si mescolano alle pietanze e ai bicchieri di vino e di qualsivoglia liquore digestivo che non mancano mai. E non mancano, come in ogni famiglia, le liti, le lacrime, gli attriti, che si avvicendano alle risate e agli sfottò, ai non detto e alle questioni in sospeso che tardano sempre un po' troppo a trovare pace. La scrittura è semplice, fluida, rilassante, la lettura scorre piacevole e leggera, senza eccessi di virtuosismo, con qualche colpo di scena e con una lieve sovrabbondanza di buonismo.

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Fantascienza
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    19 Febbraio, 2024
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Il cattivo ha un elmetto... allora è X-Men

Dopo aver concluso la tetralogia The Lunar Chronicles volevo leggere qualcos'altro di Marissa Meyer; avendo scartato l'autoconclusivo "Heartless", ho puntato la sua trilogia sci-fi da poco approdata in Italia che inizia con il volume dal quale prende il nome, ossia "Renegades".

La vicenda è ambientata in una metropoli statunitense che sembra però essere diventata una sorta di città-stato; in questa realtà sono presenti individui con dei superpoteri -per nascita o acquisiti casualmente- e da sempre perseguitati dalle persone comuni, fino a quando il villain Ace Anarchy non si oppone al governo ed instaura, per l'appunto, l'anarchia nella città. Questa situazione porta alla comparsa di svariate gang criminali che si disputano il territorio facendo valere la legge del più forte; solo diversi anni dopo verranno fermati dal gruppo dei Renegades, eroi che ristabiliscono l'ordine a Gatlon City per poi diventarne custodi e governanti.

La storia segue i punti di vista alternati di Nova, nipote di Ace dotata di poteri collegati al sonno che mira a smantellare la nuova società fondata sulla venerazione dei supereroi, ed Adrian, animatore di disegni e figlio dell'eroina Lady Indomitable, per l'omicidio della quale vuole far giustizia.

Il romanzo è sbilanciato: da un lato ci da poche informazioni e dall'altro perfino troppe. Non sappiamo quasi nulla del mondo oltre i confini della città, e il world building in generale è gestito in modo parecchio infantile; per averne un buon esempio basta leggere la scena iniziale della parata! Sono invece troppi i personaggi (senza contare che hanno uno o due alias a testa), le battute "da fumetto" e perfino la lunghezza del volume, soprattutto considerando che la trama è estremamente prevedibile.

Nonostante questi difetti, ho trovato il libro molto d'intrattenimento e, pur avendo dato la stessa valutazione, lo ritengo un inizio di serie migliore rispetto a "Cinder" con il quale ha anche diverse somiglianze, come la protagonista appassionata di tecnologia, le esclamazioni inventate e il segreto sul quale ruota la storia d'amore, che in questo caso ho trovato gestita meglio di quella tra Cinder e Kai. Anche se Adrian si è dovuto impegnare davvero poco per superare il nostro caro imperatore del Commonwealth Orientale!

Promuovo in toto la rappresentazione presente nella storia, molto varia e ben contestualizzata, nonché le riflessioni che il romanzo propone al lettore, specialmente sul ruolo delle forze dell'ordine e dei governanti, e su chi si possa definire un eroe.


NB: Libro letto in lingua originale

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    19 Febbraio, 2024
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Il “Socio” e il terrorismo

New York, 2005: Mitchell “Mitch” McDeere, conduce una bella vita: è socio dello studio legale Scully & Pershing “il più grande del mondo”; ha una bella moglie (Abbie) che ama e da cui è riamato; ha due bambini magnifici, bravi, spigliati e intelligenti; vive in un lussuoso appartamento a Manhattan dove, quasi tutte le sere, chef stellati vengono a cucinare piatti sopraffini (le cui ricette dovranno essere inserite nei libri di cucina di cui Abbie è editor). Insomma s’è buttato alle spalle il passato e il fatto che, circa quindici anni prima, aveva rischiato la galera e, fors’anche, la vita, quando l’FBI aveva messo gli occhi sullo studio Bendini dove era stato da poco assunto, per sospetti legami con la mafia.
Però il destino tornerà a bussare alla sua porta mettendolo, di nuovo, in una terribile situazione dove lui e tutta la sua famiglia rischieranno personalmente a causa di terroristi islamici.
Mitch è stato incaricato di occuparsi di una scabrosa controversia, sottoposta al giudizio di un collegio arbitrale internazionale, che vede contrapposti la grande società turca Lannack e il governo libico per centinaia di milioni di dollari di compensi non pagarti per un ponte nel deserto, voluto dalla megalomania di Gheddafi. Per preparare la difesa si recherà a Tripoli al fine di supervisionare le opere di cui è causa. Lo accompagnerà la bella Giovanna Sandrone, figlia dell’avv. Luca, socio romano di Scully & Pershing. Lui, malato terminale, non è più in grado di seguire dappresso il cliente turco nella complessa vicenda, la figlia, invece, per ora impiegata nella sede londinese della Scully & Pershing, s’è stancata del noioso lavoro d’ufficio e vuole vivere un po’ d’avventura. Troverà pane per i suoi denti.
Infatti, mentre Mitch è bloccato in ospedale a Tripoli per una fastidiosa intossicazione alimentare, Giovanna decide di partire ugualmente per il deserto, accompagnata dalle guardie del corpo dell’impresa turca. Non arriverà mai al cantiere: la scorta sarà brutalmente trucidata e lei rapita da un ignoto gruppo sovversivo nemico del leader libico.
Per la sua salvezza i rapitori chiederanno una cifra assurdamente alta che il pur ricco studio Scully & Pershing non può pagare. A quel punto Mitch sarà costretto a una angosciosa gara contro il tempo per trovare il denaro per il riscatto e salvare la vita a Giovanna, mentre i terroristi mostreranno periodicamente di quanta ferocia siano capaci.

Grisham torna a utilizzare il personaggio di Mitch McDeere, che era stato il protagonista del romanzo che gli aveva dato notorietà mondiale (“Il Socio”), per una nuova avventura adrenalinica. Questo libro, lasciate sullo sfondo le questioni giudiziarie, tratterà soprattutto delle difficili questioni dei rapimenti e dei relativi riscatti; in particolare: sin dove è lecito spingersi per salvare la vita di una persona? Quanti e quali sforzi sono moralmente legittimi se, in futuro, essi significheranno mettere a repentaglio molti più esseri umani?
L’abilità dell’A. di congegnare un intreccio avvincente e ben progettato è al di fuori da ogni dubbio e questo libro non fa che confermare le sue abilità di narratore. Tuttavia, a mio avviso, il risultato non è pienamente soddisfacente; siamo ben lontani dai fasti delle primissime opere dello scrittore americano e, forse, si pareggia solo il valore, non sempre eccelso, delle più recenti.
Nonostante il ritmo concitato della narrazione e l’agitazione con la quale Mitch salta da una costa all’altra dell’Atlantico e a parte l’episodio del rapimento che giustifica il racconto, il libro è privo di reale azione e di colpi di scena. Procede lineare verso il suo prevedibile epilogo senza che i protagonisti, e per essi il loro autore, abbiano un guizzo di inventiva per dare una svolta ingegnosa e interamente appagante alla storia. Senza voler svelare il finale, posso comunque dire che l’ho trovato piuttosto deludente, piatto e scarsamente appassionante. Anzi, sotto certi rilievi (che non posso precisare per evitare spoiler) m’è sembrato pure moralmente inaccettabile e, comunque, indigesto per la mia coscienza.
Anche l’utilizzo del personaggio dell’avvocato McDeere non ha alcuna reale giustificazione nella trama e sembra, più che altro, un’esca per catturare i lettori affezionati ai romanzi d’esordio. I primi capitoli, tra l’altro, servono solo a farci sapere cos’è accaduto a Mitch dal momento della sua fuga con gli svariati milioni sottratti alla mafia e prima della sua assunzione presso il mega studio legale. Però sono del tutto inutili e defatiganti ai fini della storia principale.
Il meccanismo narrativo, ben rodato, continua a funzionare e, se ci limitiamo a farci travolgere dalla vicenda, coinvolge, ma non è chiaro dove ci voglia condurre. Detto brutalmente: il resoconto di una transazione giudiziaria avrebbe lo stesso impatto emotivo, se la posta in gioco fosse la vita di una persona.
Ho apprezzato abbastanza la descrizione di noi italiani da parte di un americano: è priva dei soliti banali stereotipi e dà una visione abbastanza corretta dei nostri stili di vita. Evidentemente i lunghi soggiorni da noi di Grisham hanno avuto qualche benevolo effetto. Al contrario m’è parsa assai meno piacevole e, sotto molteplici risvolti, assai poco credibile, l’invenzione dell’ipertrofico studio legale, pletorico e autoreferenziale. Una struttura che pare agire con mezzi e poteri non troppo dissimili da quelli di uno Stato sovrano o di una pervasiva multinazionale, ma con risultati assolutamente deludenti se non proprio penosi. Anche molti dei personaggi di contorno sembrano sopra le righe ed eccessivi.
Inoltre ho il vago sospetto che l’A. abbia peccato in più di un anacronismo, soprattutto quando dota i terroristi di tecnologie e capacità oggi, magari, disponibili con certa ampiezza, ma che, vent’anni fa, erano a stento in uso presso le maggiori superpotenze statuali.
In conclusione si tratta di un romanzo non totalmente disprezzabile, ma sicuramente lontano dalle aspettative.

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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    19 Febbraio, 2024
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Intimità violate

Un ménage famigliare di unicita’ divergenti, momenti di uno stesso giorno in tre anni diversi, ( dal 2019 al 2021 ), sentimenti, attese, speranze, ricordi, rimpianti, assenze prolungate e definitive, il cambiamento indotto dalla rivisitazione di se’, da un presente crudo e ingombrante, dal desiderio di crescere, da una ridefinizione del mondo.
L’ oggi si traveste di normalita’ in attesa di assenze annunciate e indesiderate, sogni rappresi in illusioni gratificanti, giorni difficili, complicati, ingombranti, una vita svuotata di senso, anni di perdurante routine.
Due genitori ( Dan e Isabel ), due figli ( Nathan e Violet ), un giovane uomo, Robbie, fratello minore di Isabel, la quotidianità di un’ immaginaria star di Instagram ( Wolfe), una famiglia ristretta in una casa altrettanto ristretta, relazioni sospese e presunte in una convivenza forzata quanto necessaria.
Dan e Isabel amano Robbie, ciascuno a modo suo, nessuna apparente gelosia, anche Robbie pare innamorato di loro, o meglio di

…” quell’ unica inquieta creatura che sono diventati, la persona che insieme hanno creato, romantica, dal cuore generoso, dolce e gentile”...

Che cos’è una famiglia se non ciò che queste persone sono diventate,

..”una specie di conglomerato che sopravviverà alle proprie scissioni, persino al divorzio che Robbie vede profilarsi, così come sopravvivera’ al fatto che lui non vivra’ più’ al piano di sopra”….

Robbie presto se ne andrà, oltrepassando le aspettative di una vita ragionevole, alla ricerca del vero se’, di un sogno, abbandonando le ceneri di amori dissolti per riflettere altrove, nella lontana terra d’Islanda, immerso in una natura selvaggia, dove

…” il cielo canta e i fiumi continuano a scorrere”…

,…” nella solitudine più’ estrema dove percepire il tempo che lo attraversa e attraversa il mondo in modo totalmente nuovo”…,

in un isolamento forzato dopo lo scoppio della pandemia, e allora non restano che messaggi nostalgici in cui riversarsi e fotogrammi da postare per sfamare la curiosità di una massa indistinta.
Nel frattempo Nathan e Violet, rinchiusi nelle proprie stanze, vivono in modo diverso i sogni e gli incubi dell’ infanzia, parlano un linguaggio condiviso, si sentono un po’ speciali, stanno crescendo, Violet auspica il ritorno di Robbie,

…”allora il mondo sarà migliore, intriso di battute e di speranza, della sua spumeggiante generosità’, della grandezza di cuore che si è’ portato via quando se ne è’ andato”...

Nel frattempo Dan, un passato da rockstar decaduta, ligio al presente, cerca di ricostruirsi ritornando a una parvenza di quello che fu

…” l’ accettazione scherzosamente stoica delle proprie delusioni e l’assenza di un futuro che lo aspetta ancora da qualche parte lo hanno prosciugato dalla rabbia”

mentre Isabel e’

..” una donna paralizzata dal proprio egoismo e dalla propria superficialità’ che non e’mai riuscita ad amare la propria vita abbastanza”….

per lei l’ amore si è dissolto, come il suo matrimonio.

Che cos’è la famiglia e che cosa resta di essa, quali relazioni, come può ricomporsi?
L’ isolamento da Covid ha precipitato la convivenza in una schizofrenia del presente con il sogno di essere altrove, in una neo condivisione di un tempo che altrimenti non sarebbe mai stato, impegnati nella gestione quotidiana delle solite attività.
Quale famiglia all’ inseguimento di un improbabile se’ in una gestione sottratta ai genitori stessi, con un certo grado di intimità che riguarda altri, quale rapporto con figli che ci vedono per quello che siamo, egocentrici, banali, superficiali, attratti da desideri sterili e debolezze ataviche?
Ciascuno insegue un amore che legittimi la propria appartenenza alla vita e al respiro famigliare, per i genitori, e spesso si sbagliano, i propri figli sono i migliori del mondo, ciascuno costruisce una visione del reale a propria immagine e somiglianza.
Forse l’ amore è stato smarrito, non è totalmente finito, come ci si sente a passare da una casa sconosciuta all’ altra senza che qualcuno lo abbia notato, svuotati di senso, semplici fotografie di se stessi, alle prese con il senso di colpa, ricercando l’ amore materno, come ci si sente da sopravvissuti alla morte, possedendo una certa interiorità e un nuovo riserbo, pensando per la prima volta al proprio futuro?
Altrove, in una baita lontana, non rimangono che vecchi libri ingialliti, il presente sono assenze definitive, nuovi equilibri famigliari, una vita che ripropone se stessa in una dimensione diversa, percorsa da una neo consapevolezza, nel frattempo

…” a volte è bello sostare soli in silenzio, senza parlarsi, in attesa che qualcosa nel mondo cambi”…

…” ma presto sarà il momento di tornare a casa e riprendere da lì’ “…
.
“ Day “ segna il ritorno al romanzo di Michael Cunningham autore reso celebre da “ Una casa alla fine del mondo “ (1991 ) e da “ Le ore “ ( 1999 ), già premio Pulitzer. Una voce narrante che rimanda a un’ intimità famigliare e sentimentale attraverso la quale catturare ed esporre le dinamiche del presente, quel cambiamento che riguarda un periodo ristretto, crudo e greve, che ha segnato e ingigantito fragilità umane mai così evidenti.
Padri, madri, mogli, mariti, figli, amici, compagni, discutono e vivono in una sospensione temporale, attraversano il tempo per restituire ricordi, voci separate e connesse in un’ unicità sottratta a un’ armoniosa presenza che tuttavia ricercano continuamente.
Ciascuno esprime la propria visione, essenze ed assenze relazionali, fragilità esposte, intimità mai come oggi negate, anche a se stessi, sognando un luogo in cui sostare ed essere, in compagnia di nostalgiche assenze e melanconiche presenze, ciascuno evolve nel vortice inespresso di una vita che ricerca un senso incompiuto, spesso irraggiungibile, racchiuso in se’ e spogliato dei sentimenti più veri, una convivenza necessaria per tornare a essere.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Febbraio, 2024
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La memoria

«[…] Lo stesso accadeva per i frammenti di ricordi che tentava di annotare il più in fretta possibile: poche immagini di un periodo della sua vita, che vedeva sfilare velocemente prima che sparissero per sempre nell’oblio.»

Il tema della memoria, del ricordo evanescente che si perde nell’oblio sino ai massimi estremi, è molto caro a Modiano, autore che già in altri componimenti si è spinto ad interrogarsi in merito. Più passa il tempo, più l’età avanza, più la memoria diventa fragile, fallace e fa paura con il suo frantumarsi inesorabile.
Cambia la memoria, cambia l’età, cambia il mondo. I ricordi sbiadiscono, l’infanzia è sempre più lontana e ogni percezione di quel che è stato assume una nuova veste grazie alla riflessione adulta. “La strada per Chevreuse” riprende alcune delle situazioni e dei luoghi che il Premio Nobel per la letteratura Patrick Modiano aveva già affrontato in “Riduzione di pena”, classe 1988. L’io narrante ci rimanda naturalmente a un Modiano bambino che si trova con il fratello minore in una casa a Jouy-en-Josas. Siamo nel 1966 quando la vicenda ha inizio e protagonista è Jean Bosmans, alter ego dello scrittore già comparso in “L’orizzonte”, opera del 2010. Molti, come si evince, i rimandi al passato di Patrick stesso, un po’ come se si trattasse di un fil rouge che sembra voler resistere innanzi a quella memoria che sembra volersi invece sgretolare.

«[…] Pensò che dopotutto quel tale Guy Vincent era legato a certi suoi ricordi d’infanzia che non la riguardavano e le erano del tutto indifferenti.»

I due ragazzini vengono affidati per un periodo di tempo a dei conoscenti che vivono in quello che ha tutte le sembianze di un villaggio. Jean incontra due uomini; Michel de Gama, detto Degamat, e René-Marco Heriford. Ancora, Jean, conosce Kim, la figlia di René. È lei a occuparsi di lui, a prendersene cura. Il mistero ruota attorno alla casa di Chevreuse, tanto De Gama che Hereford che Philippe Hayward ne sono incuriositi e interessati.
Ad essere protagonista indiscusso di queste pagine è senza dubbio il ricordo. I ricordi riemergono nella mente, tornano a farsi spazio in noi in tempi, luoghi e in momenti particolari e spesso anche inaspettati. Nulla sembra accadere per caso, basta anche una piccola cosa, un piccolo dettaglio, ed ecco che il passato, sotto forma di memoria, torna a fare capolino nel nostro oggi, nel nostro presente. Cambia anche la forma che gli oggetti assumono. Se un orologio ha la funzione di scandire il tempo, una bussola di orientare, un accendino di far luce, un taccuino di essere scritto, ecco che ciascuno di questi diventa un mezzo per far scaturire la memoria in quello che è un ricordo sopito. Stessa cosa accade e avviene con i nomi, con le voci.
A condurre le parole è un ritmo narrativo ben cadenzato, pacato, che sembra sussurrare all’orecchio del lettore. Una parola silenziosa ma che infrange le barriere del suono. Con la perfetta delicatezza di un tempo che è stato e che è stato capace di sconvolgere.
Un Modiano, ancora una volta, che ricostruisce partendo dal presente e tornando al passato. Un Modiano che si interroga e ci interroga per mezzo di Jean.
Patrick Modiano è uno di quegli scrittori che non teme di affrontare le paure della nostra epoca, ancora una volta si appresta a solcare il confine tra memoria e ricordo inventato. La memoria nel suo essere labile e fragile, rende l’uomo nudo, spoglio, fragile, indifeso.

«[…] Nella sua memoria, questa Ferme d’Auteuil era molto vicina alla valle di Chevreuse, alla rue du

Docteur-Kurzenne e alla zona di Porte Molitor dove era nato. Tutto ciò formava una provincia segreta. E nessuna mappa o piano del personale avrebbe potuto dimostrargli il contrario.»
Il Premio Nobel Patrick Modiano con “La strada per Chevreuse” aggiunge un nuovo tassello alla sua “geografia poetica” basata su emozioni e sensazioni fornite dalle stagioni della vita umana.
Un’amara consapevolezza da cui non possiamo sottrarci. Oggi è già domani e ieri è un ricordo che non è più nostro.

«Il paesaggio era cambiato come se avessimo oltrepassato un confine. E da allora in poi, ogni volta che ripercorreva lo stesso itinerario da Parigi e dalla Porte d’Auteuil, provava la stessa sensazione: quella di scivolare in una zona fresca che le chiome degli alberi proteggevano dal sole. E in inverno, a causa della neve più abbondante che altrove in questa valle di Chevreuse, credevamo di seguire piccole strade di montagna».

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    18 Febbraio, 2024
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La profondità di Sara

Ad ogni nuovo episodio di questa serie aggiungiamo un tassello per conoscere Sara. Sia per capire com’è oggi, nella sua nuova vita da pensionata e da nonna, sia soprattutto per tessere la trama del suo passato e per capire com’era ieri, nella sua vita da analista e da donna innamorata. L’autore infatti ci permette, a capitoli alternati, di seguire le fila del presente e di scoprire veli sul passato, intrecciandoli. Perché quello che siamo oggi è sempre frutto di tutto ciò che siamo stati e che abbiamo fatto nel passato. In questo episodio riscopriamo, con una delicatezza speciale, il senso della nostalgia, che è un sentimento doloroso, ma anche dolce e avvolgente. Analizziamo i cambiamenti delle condizioni e delle persone e metabolizziamo che i cambiamenti non sono mai né buoni né cattivi, si prendono e si assorbono; prima ci si adatta e meno ci devastano. E’ interessante notare che il caso attorno a cui ruota ogni episodio diventa sempre meno importante. E’ sempre più interessante tutto il contorno, tutto l’insieme, tutto il contesto. Ed ogni episodio finisce con un qualcosa in sospeso, di terribile, che ti porta ad aprire le porte ad un nuovo capitolo ed a nuove scoperte. Uno storytelling d’eccezione, con un’eleganza che contraddistingue ogni sfumatura.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    18 Febbraio, 2024
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Libri e nazismo

Un lungo viaggio in treno, tra Mosca e Parigi, dà l’opportunità ad Annie, giovane inglese in cerca di nuova occupazione, di fare la conoscenza con Valerie, anziana signora franco-britannica, che dice di viaggiare sempre con i propri ricordi, incorniciati, dentro alla valigia.
La curiosità stuzzica Annie che, abbandonata la relazione che sta scrivendo al computer, comincia ad ascoltare la storia di Valerie. Questa inizia a narrare di come nel 1962, appena compiuti vent’anni, aveva deciso di lasciare Londra, dov’era vissuta sino ad allora con la zia Amélie, per recarsi a Parigi; di accettare il posto di lavoro in una piccola libreria (“Gribouiller” cioè scarabocchio) gestita dal burbero vecchio Vincent Dupont – il nonno che lei non ricordava di aver mai conosciuto e che credeva morto durante la guerra come i genitori; di cercare di indagare sul proprio passato e sul perché, diciassette anni prima, era stata spedita in Inghilterra con una parente che nemmeno conosceva.
In incognito, per paura di essere rifiutata dal nonno, comincerà a lavorare come commessa per quest’uomo bisbetico, sempre pronto a rimbrottarla, a criticare come veste, come mangia (all’inglese) e come pretenderebbe di sistemare sugli scaffali i libri, che, per lui, dovrebbero essere classificati solo a seconda del fatto che l’autore si fosse bevuto il cervello o meno, ovviamente a suo insindacabile giudizio.
In ogni momento libero Valerie cercherà di scoprire qualcosa di più su Mireille, quella mamma di cui aveva solo una foto ingiallita e spiegazzata. In questa sua indagine segreta le sarà d’aiuto Clotilde Joubert, la fioraia vicina di negozio, che era stata l’amica più cara di sua madre.
In tal modo Valerie, rivivrà i duri anni dell’occupazione, gli stenti di quegli anni, la cappa di oppressione che schiacciava tutti, la difficoltà stessa di vivere a contatto con un esercito brutale indottrinato dalla folle ideologia nazista. Alla fine scoprirà com’era stata sua madre e cosa aveva fatto; chi era suo padre; come e perché erano morti e, infine, la ragione per la quale il nonno, alla fine, s’era risolto ad affidarla alla cugina Amélie, affinché l’allevasse lontano da una Francia rancorosa e carica d’odio e rivalsa contro tutto ciò che le ricordava gli anni dell’occupazione.

“Il Segreto della Libraia di Parigi” è un romanzo che oscilla tra un tentativo (balbettante) di ricostruzione storica dei tristi anni dell’occupazione di Parigi e la voglia di scrivere la vicenda sentimentale di due povere anime travolte nella bufera della guerra. Purtroppo il risultato non è dei migliori né sotto il primo, né sotto il secondo aspetto.
Il libro alterna i toni da romanzetto rosa in stile collana Harmony a quelli di un lamentoso “way we were”, stucchevole e non particolarmente coinvolgente. Tra l’altro si percepisce molto la difficoltà dell’A. (sudafricana di nascita e inglese di cultura) di immedesimarsi in una Francia che non c’è più e di cui fatica a comprendere mentalità e sentimenti. Si ha la sensazione che le atmosfere siano descritte più sulla base di un 'sentito dire' che di una reale, efficace documentazione storica.
Sono abbastanza simpatici alcuni personaggi di contorno, a cominciare dal vecchio, scorbutico Vincent e dalla fioraia Madame Joubert. Ma per lo più, sullo sfondo di una Parigi opaca e non più concreta e tangibile di una scolorita cartolina d’epoca, si muovono figure abbastanza convenzionali, scontate. Ho percepito la rievocazione storica come stereotipata e basata molto su luoghi comuni e frasi fatte che non riescono a calare davvero il lettore negli anni della guerra.
A mio avviso, poi, è piuttosto fastidioso il fatto che ci si riferisca sempre ai soldati occupanti (si badi: soldati della Wermacht, non SS) come a “nazisti”, quasi si volesse fare un prudenziale distinguo tra gli occupanti del 1940-44 e gli abitanti della Germania. È pur vero che il principale antagonista di Mireille e Vincent, il crudele Valter Kroeling, è chiaramente un ufficiale indottrinato e partecipe dell’ideologia e dei crimini hitleriani, ma la semplificazione di per sé è una banalizzazione fuorviante che, tra l’altro, rende difficile spiegare i comportamenti, a quel punto “devianti”, del capitano medico Mattaus Fredericks, un uomo “normale”, soldato solo perché il suo Paese è in guerra e non perché animato da chissà quali istinti predatori.
Le due storie d’amore (quella di Mireille con Mattaus e quella di Valerie con Freddie) riprendono con pedissequa diligenza tutti i topoi del genere rosa, senza troppa originalità.
In definitiva si tratta di un librino, non disprezzabile negli intenti e nella struttura della trama, moderatamente piacevole, ma, del quale, tutto sommato, si può pure fare tranquillamente a meno.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    18 Febbraio, 2024
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Città nuova

Più che una forte scarica di un temporale, trattasi di uno scroscio improvviso di acqua piovana, che però, a causa di un forte vento che spira in senso contrario, crea un turbinio tale che le gocce di pioggia colpiscono il malcapitato di trasverso. Quindi non c’è ombrello che tenga, è battaglia persa proteggerci dall’acqua con il vento che gonfia il parapioggia in senso contrario, come una vela in balia del maestrale, a rischio di strapparcelo di mano, ci bagniamo lo stesso di piovaschi che ci beffano trasversalmente, siamo destinati a soccombere alla ria sorte, e a inzaccherarci comunque senza rimedio, per quanti sforzi facciamo con l’indomabile paracqua, inclinandolo per ripararci in qualche modo. Come dire, un fluire spiovente sorto inatteso e sgradito, fastidioso: un po' come un nostro antipatico e petulante conoscente, in cui ci siamo disgraziatamente incappati mentre eravamo presi dalle nostre faccende. Senza manco salutarci o perdersi in convenevoli, costui con voce querula attacca bottone e inizia a spettegolare di tutto e di tutti, taglia i panni addosso a chiunque ha la sventura di conoscerlo magari solo superficialmente, magnifica solo sé stesso, la sua sagacia e la sua oculatezza, senza interrompersi un momento per dare agio di qualsivoglia replica, e parlandoci sopra letteralmente si pone di trasverso, ci rimbambisce di chiacchiere futili, inzaccherandoci di fango.
Ecco, questo usuale tipo di umanità, anche molto comune, che è importuno e ci importuna nostro malgrado, a Napoli si usa dire che è uno che: “parla a schiovere”, vale a dire blatera fastidiosamente.
Tutt’altra cosa invece è “A schiovere”, l’ultimo lavoro di Erri De Luca; dove lo scrittore napoletano, però, prende il termine a prestito dalla saggezza popolare indigena sua per indicare come nascono i suoi raccontini: d’improvviso, mettendosi poi di trasverso rispetto a quanto stava già facendo, magari di urgente, mentre pensava e si industriava in ben altro, ma è colpa del suo estro potente che non lo molla più, lo spinge a costo di mettersi di trasverso sulla sua strada a scrivere, e per nostra fortuna a condividerci il suo pensiero. Pensieri, scritti e riflessioni che non ci vanno mai di trasverso come un boccone malandrino, sono invece gustosi, prelibati, ma non solo, anche essenziali nei sapori.
Erri De Luca è fortunato titolare di una scrittura scarna, asciutta, lineare, nessuno dei suoi libri conta mai molte pagine, sia che si tratti di romanzi, di saggi, di cronache, De Luca padroneggia la sua lingua e il suo dialetto, si cimenta finanche nell’ebraico, ma sempre usa poche parole, le più adatte alla bisogna, e sempre straordinariamente esaurienti, appropriate, esaustive, convincenti.
Qui lo scrittore napoletano ci presenta quello che a prima vista sembra un glossario, un vocabolario di voci e modi di dire nel dialetto della sua città. In verità, è ben altro, solo un titolo, un pretesto per dire di più, non “a schiovere” ma direttamente, incisivamente e senza tanti giri di parole; e mentre lo dice tende ad infarcirlo della memoria delle sue origini, dei suoi natali, aromatizza di gusto il suo dire con il racconto a volte comico, altre curioso, sempre istruttivo, dei suoi primi anni di vita, di studi, di lavoro nella sua Napoli, Nea-Polis, città nuova, perché è la sola che sa, che conosce e che si rinnova sempre pur restando sempre fedele a se stessa. L’esistenza dell’autore si è poi snodata e proseguita in altri lidi, ma Erri de Luca tuttora pensa in napoletano e racconta in italiano, ne viene fuori un felice connubio che piace, intriga, ammalia. De Luca è stato liceale del classico, operaio di infimo rango, politicamente impegnato come fondatore ed attivista di gruppi dell’estrema sinistra; partecipe in prima persona, rischiando più volte la morte, nelle iniziative di soccorso umanitario in zone di guerra; alpinista e amante della montagna e delle solitudini da eremita; studioso autodidatta di lingue straniere che padroneggia alla grande, tra cui yiddish e l'ebraico antico, traduttore della Bibbia, ma prima di ogni altra cosa, è un poeta, un osservatore, un romanziere: e racconta, e ci racconta. Racconta bene, con voce roca, esponendo i fatti essenziali, e dispensandoci leccornie di vita e di esperienze vissute in prima persona. Con parole scarne, austere, non è che qui si diletta a vantare la sua conoscenza del lessico arguto ed intelligente dei suoi conterranei, ne fa invece un discorso basilare di vita e di valori, ci offre un dizionario di sostanza e di concetto, sa che gli uomini che vivono mille difficoltà acquistano in saggezza e tolleranza, e l’uomo così fatto sapiente è un faro che indica il porto giusto ai suoi simili. Da qui nascono i detti brillanti, significanti, ironici e mordaci, millenari, qui riportati; giacciono sedimentati nelle antiche pieghe di una città che è spalmata su un golfo priva di difese naturali, e perciò nei secoli ha accolto tutti, e da tutti ha imparato, assorbendone il meglio, rimescolandolo con i propri posti e luoghi, usi, sapori, persone e costumi, così rimescolandosi ex novo e declamando il discernimento, l’oculatezza e la saviezza così acquisita nel tempo spennellandola nel proprio idioma. Adattabili a tutti, specialmente ai non napoletani: siamo tutti desiderosi di cittadinanza di una Nea-Polis, una città nuova clemente, aperta, disponibile, tollerante e gentile. In sintesi, umana.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    17 Febbraio, 2024
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Galeotti furon i libri e chi li consegnò

Victor Iordanescu è un giovane immigrato rumeno diplomato al conservatorio in composizione, ma, per vivere in Germania, s’è adattato a fare l’autista per una società di consegne a domicilio e, ogni giorno, gira la città sul suo furgone portando pacchi e pacchetti. Victor è intelligente e osservatore e si diverte a immaginare la personalità dei suoi clienti dagli oggetti che recapita loro a casa. Però la sua fantasia prende il volo quando un giorno gli capita di consegnare all’indirizzo di Bianca Martini, (a cui normalmente porta dei libri) una elegante confezione contenente, a tutta evidenza, della biancheria intima sexy. Come fare per incontrare questa misteriosa Bianca che, quando lui fa le consegne, non è mai in casa?
Dopo il lavoro pensa di recarsi in una piccola libreria per acquistare qualche bel libro da lasciare in omaggio alla bella (almeno così se la immagina) sconosciuta. Inizia così, per lui, un percorso che lo farà appassionare sempre di più alla lettura grazie al quale farà la conoscenza di una graziosa libraia, di Leòn, un ragazzino spigliato e accanito divoratore di libri e di un cagnone che ne diventerà l’ombra.
E che ne è di Bianca Martini? Si tratta, in realtà, di una anziana signora impiegata part-time in un negozio di te; le mutandine sexy le aveva ricevute solo per far un piacere alla giovane vicina. Ma il Caso è in agguato per far felice Victor, Bianca, Leòn e tutti gli altri protagonisti di questa favola moderna.

“Il club delle fate dei libri” è un piccolo romanzo lieve e delicato, verrebbe da dire, leggero come le ali di una farfalla o, per restare in tema, come quelle di una fata. Non ci sono drammi esistenziali da risolvere, non tragedie in agguato sui protagonisti. Anche l’unica ombra scura che aleggia sul piccolo Leon, alla fine, sembra dileguarsi. Insomma è una storia rasserenante e distensiva nella quale il protagonista principale è l’amore per la lettura. Non per nulla spesso la narrazione viene intercalata con ampi stralci che i protagonisti leggono da questo o quel romanzo che li ha particolarmente colpiti. Così, alla prosa di Montasser si alternano brani tratti da Defoe, Mann, Calvino o Martel e, talvolta, queste storie importate fanno da filo conduttore per guidare (dirottare?) le vite dei personaggi della storia.
Divertente, poi, che tutte le coincidenze e gli equivoci che inizialmente sembrano intrecciare le vite dei protagonisti in uno strano viluppo, alla fine congiurino assieme per un happy end consolatorio e rassicurante.
Lo stile, semplice e scorrevole, è, al pari della storia, un invitò alla lettura disimpegnata. Insomma non si tratta di un capolavoro letterario, ma di un librino che dona qualche momento di tranquilla serenità d’animo.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Febbraio, 2024
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Un tempo che è stato ed è

«Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio nella barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai. Passiamo le giornate al tavolo d’angolo dello Starlight Diner a discutere i capricci della vita. La nostra Harmony è una cittadina come tante. Tale e quale alla vostra. Piena di santi e peccatori, indistinguibili.»

Giovani. Giovani e irrequieti, giovani e incapaci di vivere in una dimensione di tranquillità. Giovani e soli. Una solitudine fatta di incomprensioni e di criticità. Non sentirsi a proprio agio e al contempo credersi padroni del mondo. Iggy, Cleo e Paul. Tre giovani ragazzi che vivono ad Harmony, una cittadina come tante. Una cittadina che potrebbe essere qualunque cittadina del nostro tempo e del nostro vissuto, una prima sezione ambientata nel 2018 che ci viene narrata dal compagno di classe del protagonista.
Ed è proprio da questo malessere che nasce il desiderio di farla finita. Maturato, coltivato, sedimentato. Un desiderio che sprigiona in Iggy, che introduce la seconda parte, e che lo porta a decidere di togliersi la vita dandosi fuoco in quel della Chiesa dove è in atto la funzione. Si cosparge di benzina, si reca nel luogo prestabilito, accende il fiammifero e… cade. La paura prende il sopravvento, il fiammifero cade di mano, il rogo ha inizio. Ma lui scappa, esce si mette in salvo. La condanna sopraggiunge, passano gli anni e Iggy attende il giorno dell’esecuzione della condanna a morte. Sa di non avere altre alternative, di non avere molto da raccontare se non quel vissuto fatto di ricordi e tempo passato. A breve non vedrà più nemmeno quel corniolo che gli ha fatto compagnia, ad attenderlo una cella di isolamento.

«Dalla finestra guardo il corniolo solitario. Si piega al vento. La cella si riempie di ombre corte e presto sarà ora di dormire. Il primo giorno della mia ultima settimana sta finendo. Sono pronto. Sapevo che sarebbe arrivato il momento. Rimpiango il futuro che non conoscerò dall’alto. Sogno di gridare il mio nome nella valle.»

Ed ecco che Iggy narra. Racconta della sua vita solitaria, dell’incontro con Cleo e Paul, delinea il suo mondo che crolla, crepa dopo crepa, la disperazione che prende campo. Narra anche della sua sfera affettiva, dell’omosessualità, del cerchio che intorno a lui si stringe, del mondo online che si apre come uno specchio alimentando il desiderio di morte, solitudine e incomprensione. Un po’ come in “Memorie di un condannato a morte” di Victor Hugo e molti altri testi del genere, è il racconto di Iggy.
Da questo ci stacchiamo per conoscere un nuovo e terzo narratore, Farber. Detto “Marilyn Manson” o “Morrisey” egli è un bibliotecario che nel suo orario di lavoro incontrerà un personaggio già incontrato nella narrazione e che lo porterà a cercare il suo personale cambiamento.
Il romanzo giunge al termine nel 2019 con una quarta sezione narrata da Nuvola che chiude l’opera con un finale dolceamaro.
Micheal Bible dona ai lettori un romanzo fortemente evocativo, con una struttura complessa e molto particolare che si fonde con una struttura stratificata su più livelli e archi temporali e che porta a una vera e propria dilatazione di questo. Unica pecca è che la narrazione talvolta tende a perdersi e a perdere di intensità, come se si smarrissero le coordinate del narrato. A far da padrona è la solitudine di ogni voce narrante che si scontra e incontra con altre voci e con quel caos che è la vita. Perché alla fine “La vita mi si confonde. Si attorciglia su se stessa”. E non potrebbe essere così anche per ciascuno di noi?

«Il mio cagnolino ha paura dei tuoni. La sera bevo il tè e leggo il giornale. Quando metto i tulipani alla finestra, si aprono verso il sole. In lontananza c’è qualcuno che mi chiama.»

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68 Opinione inserita da 68    17 Febbraio, 2024
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Inquietudine manifesta

…” È ora di andare. Per concludere voglio dire solo questo. Se c’è qualcosa che amate , tenetevelo stretto perché non si può mai sapere quando verranno a portarvelo via”….

Voci dal passato e nel presente a richiamare un’ inquietudine manifesta, assenze, peccati, peccatori, rabbia, violenza, insensatezza, vite percosse e azzerate da un gesto terribile e indigesto.
Harmony, cittadina del sud degli Stati Uniti, un luogo segnato per sempre dalla follia di Iggy, un ragazzino delirante, deragliato, psicotico, con una rabbia che rivolge contro se stesso e un’ intera comunità, venticinque innocenti arsi vivi nel rogo della chiesa, un fuoco da lui appiccato accidentalmente mentre, con un gesto estremo, voleva bruciare se stesso.
Prima, dopo, durante, che cosa sottende questa mattanza, chi è’ Iggy, chi è stato, perché lo ha fatto, quali conseguenze tra i sopravvissuti, i parenti, ii conoscenti, i nati dalle macerie di questo terribile evento?
Iggy, prossimo a morire in carcere, si racconta, ma non è quello che da lui ci si aspetta, confessione, chiarificazione, ricostruzione dei fatti, di chi la colpa, della società, delle sue idee politiche, delle droghe assunte, delle violenze subite, degli amori traditi?
Immagini e parole di un’ anima annegata nella solitudine più vera, morta da tempo, che ripensa al passato perché non ha futuro, a cui rimane poco tempo, che si è data forza guardando le foglie che cadono, una vita che scorre al contrario, una voce che non sa e non gli importa quale versione dare di se’.
Iggy è stato un ragazzino abbandonato negli affetti più cari, un padre violento e una madre assente, è stato un amante respinto, risucchiato in un vuoto di odio per la vita, per se stesso, è stato anche altro, colui che ha provato a salvarsi, eroe e cattivo, ricco e povero, tutto e niente, poco importa.
Il fatto è compiuto, il resto, indignazione, lutto, rabbia, dibattiti, cortei, petizioni, tutto quello che questa tragedia si è portata appresso non ha valore se non nel desiderio incompiuto di giustizia per morti che non torneranno o in un senso pacificatorio dopo che Iggy sarà giustiziato.
Voci e gesti rievocano a distanza l’ eco di quel momento, ne sono parte integrante, tuttora inseguiti dalla sua ombra, incrociano altre anime erranti, storie di manchevolezze, vivono attimi di intimità e comunanza.
Voci che parlano di se’ e di Harmony, un luogo senza felicità, dove non succede e non cambia mai niente, dove la gente non fa che lavorare e andare in chiesa, cosparsa di un passato nebuloso, oscuro, inquietante.
Voci di una vita che Iggy non ha mai capito,

…” Quello che all’ epoca ritenevo un problema era semplicemente la vita. Non era né un bene ne’ un male. Era e basta”…

nella lunga discesa verso un luogo oscuro sempre più oscuro, ricordando un amore che trasformava i sogni in realtà mentre il reale era un incubo, un amore allargato che rendeva sopportabili i giorni e scongiurava la noia.

Il romanzo di Michael Bible racconta con toni aspri, crudi, violenti e una prosa contratta costruita su immagini e sensazioni forti, una provincia americana da tempo implosa in un individualismo aberrante e in una violenza ovattata da perbenismo cinico, oggi completamente deragliata in una socialità artefatta da un contesto di virtualità che favorisce solitudine ed estremismo, giovani soffocati e privati del vero respiro della vita.
Ciascuno naviga controcorrente, in un comune senso di inadeguatezza, imbevuto di precarietà e asfissiato dal presente, c’è chi non aspira più a niente, chi è stato annientato in un luogo di pace, chi mostra le cicatrici di un destino infausto, chi è vissuto altrove gustando il sapore aspro della solitudine sentimentale e chi resiste nel presente sapendo che il mondo presto finirà e non esisterà più nulla, al momento

…” in lontananza c’è qualcuno che mi chiama”….

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Racconti
 
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68 Opinione inserita da 68    17 Febbraio, 2024
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Quale destino?

Le relazioni a nutrimento degli otto racconti di “ La vita altrove “, una scrittura densa, essenziale, fluida a penetrare un quotidiano nebuloso tra reale e immaginario, sogni, destino, fatti fortuiti, speranze disattese.
Relazioni prevalentemente famigliari, assenti, smarrite, negate, recuperate, irrecuperabili, rottura ed evasione per ridiscutere il se’ e l’ altro, un nuovo inizio, un solco relazionale nato per caso, frutto del destino, relazioni estese alla natura e al mondo animale, a oggetti che prendono forma nella mente dei personaggi, riacquisendo un senso smarrito o che si credeva altro.
Anni difficili quelli pandemici, una clausura forzata ad azzerare e a ridefinire la socialità nel lento torpore della dimenticanza, il lavoro, l’ amore, la famiglia, i figli, un nuovo mostrarsi percosso da un disagio mimetizzato e camaleontico.
Il presente mostra crepe evidenti, incomunicabilità, inquietudine, silenzio, chi sono i propri figli, che cosa è rimasto di noi, dei nostri convincimenti, desideri smarriti e sottratti tra vuoto e intontimento.
C’è chi ricerca emozioni altrove, chi vuole preservare e conservare un improbabile equilibrio famigliare, chi riscopre in una pianta le profonde radici della propria infanzia, chi dopo anni si affaccia a un’ intimità parentale sottratta, chi entra furtivamente in momenti e luoghi di vita altrui rendendoli propri, chi respira nel quotidiano uno stato prolungato di sonnolenza, chi pensa di riconoscere e condividere altrove la propria condizione di orfano, chi scopre in una specie aviaria un ritorno alle origini e un viaggio di solitudini condivise.
Altrove, casualità, destino, parole che ritornano con la sensazione che si tratti solo di un sogno, inseguendo pregiudizi, fantasmi del passato, non focalizzati nel presente.
La famiglia e i suoi misteri irrisolti, menzogne, segreti, scoperte, le sue inconfessabili turbolenze, la consapevolezza che il male ci tocca direttamente, percorsi da uno stato di assopimento che guida le nostre vite amare.
Cos’è il reale e che come si mostra? Chi siamo e come ci vedono gli altri? Relazioni vivide o percezioni distorte? Universi paralleli o singoli accadimenti?
Ci sono luoghi che custodiscono un archetipo di umana presenza, il ricordo delle proprie radici, volti che sembravano persi, mimetizzati in uno stato di sterilità , che esprimono altro, stanze che richiamano presenze, assenze, desideri di una vita che non è, strappata, svuotata, negata, persa, un senso di vuoto onnipresente, non sapendo esattamente quando e come sentirsi a casa.

…”il mondo è pieno di rarae aves, di bestie rare che non sanno neppure di essere tali” …

…” di sicuro mi dimenticheranno come dimenticano tutto e finiranno con l’ abituarsi alla mia assenza. Forse arriveranno persino a credere di avermi conosciuto in sogno”…

Guadalupe Nettel riesce a trasferirci il meglio di se’, un universo cangiante di relazioni e accadimenti a richiamare un senso di spiritualità sovente disatteso nell’ incomunicabilità di silenzi protratti. Una scrittura limpida nelle acque limacciose del presente, quella vita moribonda che richiama il proprio senso più autentico cercando, dove possibile, una direzione oltre il semplice stato di sopravvivenza.
Non sempre ci riesce, nelle piccolezze del quotidiano si nascondono le verità più vere, quel respiro che induce alla riflessione rendendoci fragili, soli, infelici, dimenticati, misteriosi, ma ancora autenticamente vivi.

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Fumetti
 
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Sceneggiatura 
 
4.0
Disegno 
 
5.0
Originalità 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Febbraio, 2024
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Le bugie hanno le gambe corte?

Pedro ha undici anni, è figlio di un ingegnere italiano che – venuto in Brasile per lavoro e restato immobilizzato lungo il Rio delle Amazzoni, nel piccolo paesino di Rablasinas, per un’avaria del “barco” che lo trasportava – s’era innamorato della bellissima ragazza che gli aveva portato da mangiare; l’aveva sposata e messo su famiglia assieme a lei.
Sono gli anni ’60 e ora Pedro è rimasto orfano di entrambi i genitori, ma vive una vita serena e piena di sogni a occhi aperti. Bada a lui il fratello maggiore José, che si occupa pure delle due gemelline Ana e Ava, ma lui è totalmente infatuato da Vicente, per tutti Cent, il fratello giramondo che rimane a Rablasinas solo per pochi giorni tra un viaggio e l’altro; viaggi che lo portano nei posti più remoti e affascinanti della Terra, dove vive mirabolanti avventure. O almeno questo è ciò che racconta a Pedro al suo rientro. Il bambino resta incantato dalle sue storie e dai libri che lui gli porta in regalo ogni volta, e per lui si aprono i mille mondi della fantasia.
Ma quelle di Cent sono reali peripezie o il fratellone affascinante ed esuberante non è che un contastorie, un raccontaballe, un fanfarone e la sua vita è assai meno splendida e, soprattutto, onesta di come la racconta?
Il caso complotterà a che Pedro scopra chi è veramente suo fratello e cosa combina assieme alla banda di scansafatiche che pencola sempre dalle parti della capanna da Cabelereira (parrucchiera) della bella Amalia.
Comincerà così, per il ragazzino, un viaggio verso una consapevolezza da adulto, ove dovrà dare prova di maggiore maturità di quanta ne abbia mai avuta il, per lui, mitico Cent; anzi più di una volta sarà il piccolo Pedro che dovrà salvare lo "scafato" Cent da guai che potrebbero essere davvero tragici.

Il duo Radice e Turconi ci regala una bella favola moderna, una specie di rivisitazione delle avventure di Huckleberry Finn, dove il Mississippi è sostituito dal Rio delle Amazzoni e il Barco a motore che fa la spola tra Rablasinas e Manaus prende il posto della zattera che segue la corrente verso l'Ohio..
La storia ci viene raccontata in prima persona dal piccolo Pedro, che, su un quadernino a righe, ci relaziona sulla sua famiglia, sui suoi pensieri, le sue paure e sull’avventura incredibile che, suo malgrado, vivrà al seguito del ribaldo Cent. Sono pensieri semplici, a volte ingenui, ma pure profondi e, non di rado, disperatamente accorati. È una storia di crescita e di presa di consapevolezza dove anche i cattivi maestri, alla fine, riescono a impartire buone lezioni. La vicenda, melanconica e struggente, non avrà un lieto fine da favola, ma solo un aggiustamento meno doloroso delle eventuali alternative, un epilogo che lascerà aperte tutte le porte, compresa quella della speranza.
Come al solito bellissime le tavole ad acquerello di Turconi che riempiono gli occhi dei meravigliosi colori della foresta, popolata da variopinti animali, alberi altissimi e accecanti riflessi sulla superficie del grande fiume. La sceneggiatura con i testi di Radice è semplice, come può essere semplice il racconto di un bambino, ma anche dolce e tinta da quella saudade tipicamente brasiliana che la rende accattivante e coinvolgente. I dialoghi sono scarni e, talvolta, secchi, interrotti da lunghe pause. La voce interiore di Pedro, fissata dalla sua scrittura infantile sul quadernetto, entra nel cuore per la essenziale, sintetica autenticità dei concetti espressi. Deliziosa e commovente la piccola storia parallela dell’ascesa e caduta del grande tenore Pepe Jobim, inserita come un cameo nelle vicende di Pedro, a mo’ di parabola sulla caducità delle cose umane.
Insomma “Il Contastorie” è una graphic novel da leggere e godere dalla prima all’ultima pagina dove, come cadeau finale, troviamo una carrellata di provini tracciati in febbrili tratti a matita grassa di tutti i personaggi principali della vicenda.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    16 Febbraio, 2024
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Chi sarà il vero serial killer?

L'ennesimo giallo di James Patterson appartiene alla serie delle donne del club omicidi, le ben note, per chi ama il genere, Lindsay Boxer (detective), Cindy Thomas (giornalista), Claire Washburn (medico legale) e Yuri Castellano (avvocato). Un quartetto ben affiatato, una collaborazione ed un'amicizia che durano nel tempo consolidate da riunioni conviviali in cui sono esaminati e discussi i casi più interessanti nei quali sono coinvolte.
Il giallo inizia con la scomparsa, senza apparenti motivi, di una giovane donna, Tara, e di sua figlia, una bimba di appena sedici mesi. Cindy, la giornalista, è allertata dalla madre di Tara, sconvolta, che accusa Lucas, il marito della scomparsa, un uomo violento, di averle addirittura uccise. Iniziano così le indagini: Lucas non è proprio uno stinco di santo, si dice che picchi la moglie e che abbia una relazione con una sua allieva, Misty, con la quale addirittura vorrebbe, in un futuro più o meno lontano, convolare a nozze. Viene intanto ritrovato ill cadavere della bimba, in mare, successivamente quello di una giovane semisepolta, con la gola tagliata, e, in una macchina, abbandonata in un parcheggio, il cadavere di Misty, uccisa nel medesimo modo: il mistero si complica, Tara non si trova, Lucas si dispera e proclama agli investigatori la sua estraneità ai delitti. Quando Tara verrà ritrovata, sgozzata, nella sua auto sul fondo della baia, Lucas, messo alle strette, accuserà dei delitti suo padre, Evan, a suo dire un feroce serial killer, già autore di svariati omicidi e, per giunta, amante di Tara. La polizia, sulle tracce del presunto assassino, riuscirà a scovarlo dopo svariate peripezie: l'uomo però riverserà tutte le colpe sul figlio, un individuo secondo lui spietato, bugiardo, capace dei più efferati delitti. Ci sarà un lungo processo a Lucas, il principale indiziato e Yuri Castellano avrà modo di distinguersi con una lucida requisitoria come pubblico ministero: il verdetto sarà unanime ma un colpo di scena negli ultimi capitoli sovvertirà gli indizi, i dubbi riemergeranno sull'identità del vero colpevole.
Se non ci fosse un finale tumultuoso e pieno di imprevisti, il giallo si baserebbe solo sui vari cadaveri ritrovati e su prove indiziarie fragili: con svariati capitoli dedicati al processo, l'andamento di tutta la vicenda tende ad annoiare il lettore anche se le donne del club omicidi fanno di tutto per ravvivare la storia, con i loro incontri, le loro battute e le loro vicende personali. Non il miglior giallo di James Patterson, scritto, come quasi tutti quelli dedicati alle donne del club omicidi, con Maxine Paetro: la trama, prevedibile, è tirata pò per le lunghe, lo stile narrativo come al solito scarno ed essenziale, privo di approfondimenti psicologici dei personaggi. Un giallo come tanti, scritto a più mani, che gli amanti del genere potranno apprezzare, soprattutto per le fasi concitate e le sorprese degli ultimi capitoli.

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Consigliato a chi ha letto...
Altri gialli di James Patterson e della medesima serie.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Febbraio, 2024
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Vita da cani per i cani di strada

Nero è un grosso cane da combattimento, incrocio tra un mastino spagnolo e un fila brasileiro. Per due anni ha lottato con altri cani nell’arena clandestina, lo Scannatoio, dove gli uomini si giocano soldi a pacchi e i cani la vita contro loro simili addestrati a uccidere.
La fortuna lo ha assistito, il suo padrone lo ha ritirato dai combattimenti prima che diventasse troppo vecchio per sperare di sopravvivere. Inoltre Nero è riuscito a conquistare la fiducia dell’uomo rivelandosi un ottimo cane da guardia. In tal modo ha evitato anche l’atroce fine che tocca ai vecchi combattenti non più utili a far vincere soldi ai proprietari: un colpo di fucile o un cappio di ferro al collo e una impiccagione lenta e straziante.
L’unico svago per Nero è girovagare per la città con i suoi simili e ritrovarsi la sera all’Abbeveratoio di Margot: uno spiazzo accanto agli scarichi di una distilleria di anice, dove Margot, una bovara delle Fiandre, cura che tutto sia in ordine e pulito. L’industria sversa nel fiume i suoi liquami e i cani vanno lì a bere, stanno in compagnia con altri vagabondi come loro, si raccontano a vicenda e si rilassano sotto i fumi alcolici. Però, ultimamente, all’Abbeveratoio si latra solo della scomparsa di Teo, un ridgeback rhodesiano, e di Boris il Bello, un levriero borzoi da esposizione canina, vincitore di numerosi premi. Sembrano scomparsi nel nulla e i cani pensano che sia successo loro qualcosa di veramente brutto.
Teo è l’unico reale amico che Nero abbia mai avuto; quando c’è stata necessità si sono sempre spalleggiati a vicenda. Ora la sua sparizione lo agita, soprattutto quando, dopo brevi indagini, viene a sapere che i due scomparsi sono stati visti per l’ultima volta, una sera, mentre passeggiavano assieme. Forse sono stati catturati da chi organizza i combattimenti, per utilizzarli come sparring partner, cioè come carne da cannone per far allenare e abituare a uccidere i combattenti dello Scannatoio.
Nero dice che fa fatica a pensare rapidamente, che la vecchiaia e la vita passata lo hanno reso tonto e tardo, ma in questa occasione concepisce in fretta un piano audace: si farà catturare anche lui e, una volta dentro ai recinti, cercherà di far evadere Teo. Così, lui che aveva deciso di non combattere più, di stare lontano da quell’inferno che lo costringeva a infierire sui suoi simili, sarà di nuovo sbattuto nell’arena a versare il sangue di povere bestie mandate al macello, con il miraggio di salvare il suo amico.

Ho comprato il libro sulla base della sola stima che da sempre nutro per la prosa di Pérez-Reverte, Tuttavia confesso che, inizialmente, avevo creduto che il titolo fosse solo una metafora per descrivere la vita randagia di uomini reietti che vivevano ai confini della società. Lo scoprire che i protagonisti sono proprio cani in carne ed ossa mi ha abbastanza stupito, poiché non è certo un argomento familiare allo scrittore spagnolo.
Però, superata la sorpresa iniziale, sono stato catturato dalla sua narrazione. Ben presto ci si dimentica che i protagonisti hanno quattro zampe e una coda e si partecipa della loro vita con ansia ed empatia, quasi fossero umani. Anzi, ancor di più, perché chi, come me, adora gli animali, mal sopporta la crudeltà che noi, pretesa specie superiore, siamo in grado di infliggere a creature che ci si affidano con l’amore e la dedizione che pochi bipedi senzienti sanno esprimere.
Il romanzo è crudo e dolente, ma nel contempo toccante ed emozionante. Pregevole l’abilità dell’A. che riesce a farci partecipi della dura vita di quegli animali, trattati come oggetti e sottoposti alle peggiori crudeltà. La trama è avvincente come potrebbe esserlo un thriller con protagonisti gli umani e non sono rari i colpi di scena che aggiungono tensione e interesse.
Sotto molti punti di vista il libro è quasi una denuncia del trattamento riservato a molti cani in Spagna (ma davvero in Italia siamo tanto migliori?), tra perreras da incubo in cui vengono reclusi e, spesso, soppressi, agli allevamenti clandestini che sfruttano sino allo sfinimento le povere bestie e, appunto, ai combattimenti all’ultimo sangue, preceduti da allenamenti in cui poveri cuccioli indifesi sono usati come sparring partner per i molossi da addestrare all’uccisione.
Ma è anche un inno alla libertà, all’amicizia e al principio che, per esse, è giusto e nobile giocarsi tutto, anche la vita. Non per nulla Agilulfo, il cane “intellettuale” del gruppo, più volte farà riferimento alla ribellione di Spartaco, il gladiatore, e, alla fine (che non anticipo) qualcuno di loro deciderà di imitarlo.

In conclusione, si tratta di un bel libro, inconsueto, ma che sviscera temi profondi e importanti; scritto con stile incalzante e coinvolgente. Non mi sono sentito di dare il massimo alla piacevolezza, per il solo motivo che certe scene, certi passaggi sono davvero duri da mandar giù e dopo averli letti ne sono rimasto profondamente amareggiato e sconfortato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    16 Febbraio, 2024
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Qui Sine Secretum Est Vestrum

Sono rimasta talmente colpita dalla serie A Good Girl's Guide to Murder che appena è arrivata la notizia della pubblicazione di un nuovo romanzo da parte di Jackson ho deciso di fare un preordine, scelta rarissima per me. Avrò fatto bene a dare tanta fiducia alla cara Holly? non proprio, perché forse aspettare l'uscita e leggere prima qualche recensione mi avrebbe preparata meglio a questa lettura, che è abbastanza diversa dalla sua prima trilogia.

Le differenze si notano già a partire dall'ambientazione: lasciamo la provincia inglese per spostarci negli Stati Uniti dove un gruppo di sei amici sta facendo un viaggio in camper per raggiungere Gulf Shores, dove intendono trascorrere la loro spring break. La narrazione è in terza persona, però si focalizza principalmente sui pensieri della diciottenne Redford "Red" Kenny, una ragazza affetta da ADHD che soffre anche di PTSD a seguito di un evento tragico del suo passato. Inoltre Red ha problemi economici, e proprio questo ha spinto i suoi amici ad optare per un viaggio on the road anziché prendere l'aereo come altri loro coetanei; il camper però si ferma in mezzo alla campagna della Carolina del Sud, e non per un banale incidente: fuori dal veicolo un cecchino è pronto a sparare se uno dei ragazzi non rivelerà il segreto del quale è a conoscenza.

Questa è l'idea alla base del romanzo, ma si impiega oltre metà volume per arrivare al punto in cui i personaggi desistono almeno in parte dai tentativi di fuga e capiscono che l'unica via d'uscita per loro è svelare questo fantomatico segreto. In sostanza, il ritmo è molto più lento di quanto mi aspettassi, basandomi sulla sinossi e sul genere di storia raccontata. Oltre a questo problema, la narrazione pecca di una buona introspezione di tutti i protagonisti -che pure sono davvero pochi- e devo dire di non essere rimasta troppo stupita neanche dai colpi di scena: seppur ben studiati, non riescono a impressionare come vorrebbe l'autrice perché sono presenti troppi elementi di foreshadowing. Un'ulteriore difetto riguarda il modo in cui viene dipinto il mondo della mafia, ma in questo caso penso si tratti di un gusto quasi esclusivamente soggettivo.

Queste problematiche si possono però perdonare parzialmente visti i tanti pregi del libro. In primis, si nota una crescita dello stile di Jackson -sia nella scelta del lessico, sia nella capacità di generare dell'ottima tensione narrativa-, tensione che ha un crescendo nel corso della storia e riesce così a trasmettere tutte le emozioni provate dalla protagonista. Ovviamente il climax di questa escalation ansiogena arriva nelle ultime pagine, con la parte più incisiva e riuscita del volume.

Ho apprezzato inoltre come la cara Holly ha reso su carta la degenerazione della cosiddetta civiltà in un arco temporale molto breve, mostrandoci nel finale dei caratteri decisamente diversi da quelli presentati all'inizio. Valida anche la caratterizzazione dei protagonisti, che in poche pagine riescono a diventare familiari, siano simpatici oppure completamente detestabili. E seppur io abbia trovato un po' tediosa la parte centrale, mi è piaciuto leggere di come il gruppo cerca di escogitare dei piani intelligenti ma credibili per scappare.

Tutto considerato, penso di aver inaugurato l'anno con una lettura valida, specialmente perché dal target YA ormai mi aspetto sempre delle mezze delusioni. Parlando a livello emotivo, vi potrei consigliare di chiudere un occhio sui difetti: è una storia che può trasmettere tanto, dietro la patina del thrillerone.


NB: Libro letto in lingua originale

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Romanzi
 
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Tatiana77 Opinione inserita da Tatiana77    15 Febbraio, 2024
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A Murano con Juliet e Marcus, Marina e Zeno

Nella vicenda principale al presente, Juliet è una ragazza americana che contro il parere della famiglia va a Murano per imparare l’arte del vetro. Ho scelto il libro per l’autrice e per l’ambientazione a Venezia, ho provato anch’io la stessa meraviglia quando ci sono stata e vorrei tornarci, Juliet tuttavia l’ha provata con una profonda commozione fino alle lacrime ma lei è così, si commuove davanti ai paesaggi, con un libro o con qualsiasi altra cosa la emozioni. Bella la parte sentimentale, descritta in modo soave e coinvolgente. Interessanti le parti nel passato, con la storia di Marina, che mi ha man mano incuriosito e anche deliziato. Gli antagonisti al presente sono le difficoltà emotive di Juliet, mentre al passato è Luigi, il fratello di Marina, che mette i bastoni fra le ruote a tutta la famiglia. È descrittivo ma anche introspettivo e naturalmente c’è un legame tra la parte al presente e quella al passato, che poi si scoprirà. Il romanzo parte lentamente per poi diventare veloce nella seconda parte e questo l’ho molto apprezzato.

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Romanzi storici
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    15 Febbraio, 2024
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Gli scorpioni pungono pure l'arte?

Autunno 1937. L’agente franchista Lorenzo Falcò, appena tornato da una missione — nella quale ha “recuperato forzosamente” a Biarritz un finanziatore della fazione repubblicana che, in Spagna, dovrà dare molte risposte e, poi, esser messo a tacere — viene convocato dal suo capo, l’Ammiraglio, il quale gli affida un nuovo incarico, urgente.
Si dovrà recare al più presto a Parigi per cercare di screditare lo scrittore attivista Leo Bayard, noto per il suo appoggio finanziario, ma anche personale, da eroe di guerra, alla causa repubblicana e far sì che venga sospettato di collusione con i franchisti, in modo che “chi di dovere” provveda a toglierlo di mezzo. Però c’è pure un’altra missione che lo aspetta: nel suo studio di Rue des Grands-Augustins, il grande pittore Pablo Picasso, noto per le sue simpatie socialiste, sta lavorando a un enorme quadro che dovrà apparire nel padiglione spagnolo (gestito dai repubblicani) dell’Esposizione internazionale «Arts et Techniques dans la Vie moderne» che dovrà aprire i battenti tra poco nella capitale francese. Quel quadro avrà lo scopo di denunziare la brutalità dei falangisti e l’orrore della guerra che stanno facendo contro il loro stesso popolo. Si intitolerà “Guernica” (!) e Falcò dovrà distruggerlo o, comunque, renderlo impresentabile per la mostra.
Questa missione, oltremodo ambiziosa e pericolosa, a cui collabora pure l’Abwher tedesco guidato dall’Amm. Canaris (e forse pure un insospettabile MI5 britannico), lo porterà in una Ville Lumière, che vive ancora una falsa illusione di spensieratezza nella sua ultima stagione di grandeur, e gli farà conoscere personaggi di spicco della cultura di quegli anni, in un accavallarsi di azione frenetica, intrighi e vita mondana nei prestigiosi night club della città.

Terzo e (per ora?) ultimo capitolo della trilogia dedicata all’anti-eroe Lorenzo Falcò, dove la finzione letteraria sfuma in modo inavvertibile nella realtà storicamente documentata. In una Parigi in gran splendore per l’imminente esposizione internazionale si muovono sia personaggi che hanno lasciato la loro impronta nel ventesimo secolo e ancora brillano per la loro fama, che individui cupi e pericolosi che nei torbidi anni d’anteguerra operarono losche trame nella crescente contrapposizione tra i vari totalitarismi. In mezzo ad essi agisce — con la solita, inusuale perizia, meccanica efficienza e scanzonata fredda indifferenza — l’agente spagnolo, fascinoso ammaliatore, abile trasformista, ma anche spietata macchina di morte.
In un mondo in cui l’essere “politicamente corretti” è assurto a precetto a cui tutti, obbligatoriamente, dobbiamo sottostare, pena il pubblico ludibrio, leggere le avventure di Falcò è come assaporare una ventata d’aria fresca e impudentemente sbarazzina. Lui è l’esatto contrario di tutto ciò che l’odierno sentire imporrebbe. È amorale e, talvolta, immorale; freddo calcolatore e, se serve, brutale esecutore anche di compiti deprecabili, senza alcun freno morale. Cinico, sprezzante di tutte le convenzioni, impudente e impunito in tutti i suoi atteggiamenti; apolitico e religiosamente agnostico. Esplicitamente concreto e non intellettuale, ma in grado di muoversi in mezzo all’intellighenzia e al bel mondo dell’alta società con assoluta naturalezza e savoir faire. È fedele solo a sé stesso e, se ha deciso di servire una delle parti in lotta nella sanguinosa guerra civile spagnola, lo ha fatto non perché creda nei principi del franchismo, ma solo perché, con fredda valutazione razionale, ha scelto di stare dalla parte di chi risulterà il vincitore finale. Ammira e stima le donne, di cui riconosce il valore e la determinazione, le tratta da sue pari (a differenza di ciò che è il sentire dell’epoca), ma si rapporta con loro solo come un predatore e si dimentica di loro dopo essersele portate a letto.
Insomma, un vero eroe negativo, ma, forse proprio per l’esasperata contrapposizione al convenzionale che lo contraddistingue, Falcò è inesorabilmente simpatico, l’individuo a cui tutti gli uomini vorrebbero assomigliare e che tutte le donne vorrebbero incontrare sulla propria strada: una specie di James Bond mefistofelico, ma, ancor più dell’eroe di Fleming, decisamente umano e realistico. Non è un supereroe invincibile, perché anche lui commette errori che potrebbero costargli la vita, ma la fortuna gli ha sempre arriso e, per ora, è sempre riuscito a cavarsela, in avventure ad altissima tensione emotiva che avvincono il lettore.
Questo terzo romanzo, oltre alla consueta attrattiva della trama, ben congeniata e ottimamente ambientata, ha un ulteriore spunto di interesse che viene offerto al lettore: alle rapide incursioni nella finzione letteraria di personaggi reali, come l’Amm. Canaris, Picasso, Marlene Dietrich si frammischiano altri personaggi chiaramente ispirati a figure realmente vissute, ma abilmente mimetizzati in false identità; sta a chi legge giocare a scoprire chi si nasconda dietro la loro maschera. Facile individuare nella bellissima Eddie Mayo, quella stupenda artista che fu Lee Miller. Ma Leo Bayard a chi dovrebbe somigliare? E dietro a quel pletorico sbruffone alcolista che è lo scrittore americano Gatewood, chi dovremmo scorgere? E il comandante Verdier, capo della Cagoule? E la bellissima e bravissima cantante di colore Maria Onitsha? Insomma un gioco di specchi che invoglia a discernere la realtà storica in mezzo alla finzione ucronica.
Come al solito lo stile di Perez-Reverte è ottimo, anche quando indulge nelle iperboli volutamente pulp, fuori luogo in diverso contesto, ma che qui ben si adattano a questa storia spionistica dove l’esasperazione è d’obbligo.
Insomma un bel romanzo tutto da godere in tutte le sue irriverenti sfaccettature, con l’unico rammarico che, forse, questo è l’ultimo romanzo che vedrà protagonista l'incontenibile Falcò.
_______________
Chiudo con una riflessione che Lorenzo fa sulla sua vita sempre ai limiti; riflessione che ben lo descrive:
“Gli uomini, pensò ancora una volta, nascono, camminano, lottano e si spengono. Nel frattempo, era formidabile continuare a giocare giochi mai dimenticati, vivere in margini fabbricati da sé stessi; naturalmente, a patto che si fosse disposti a pagare quando fosse arrivato il conto. Che alla fine arrivava, o sarebbe arrivata. Però nel frattempo il sangue scorreva nelle vene in un altro modo, e sentirlo così era un privilegio prossimo alla felicità: azione, donne, una sigaretta, un’aspirina, alberghi di lusso, pensioni sordide, passaporti falsi, frontiere incerte attraversate all’alba, un completo di Savile Row, un berretto proletario, un paio di scarpe su misura di Scheer & Söhne, un bicchiere di vino in un bordello da quattro soldi, una lametta da barba nella fascia di un cappello da ottanta franchi, una pistola identica a quella che aveva scatenato la Grande Guerra, un sorriso ironico e divertito di fronte allo spettacolo di un mondo che Falcó si beveva fino all’ultima goccia della bottiglia. Una sfida, insomma, alla vita e anche alla morte, in attesa della risata finale.”

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Consigliato a chi ha letto...
... i primi due libri della serie ("Il codice dello scorpione" e "L'ultima carta è la morte"), ma anche a chi apprezza le storie d'azione ben ambientate entro un bel romanzo storico.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    14 Febbraio, 2024
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Occhi osservatori

I suoi occhi sono due lune che hanno un colore indefinibile tra il verde e l’azzurro, sono come due pezzi di vetro screziato. Capaci di cogliere ogni sfumatura di ogni minimo gesto. E’ un dono quello di Sara. Perché riesce a vedere l’invisibile e ad essere invisibile lei stessa, nel suo impenetrabile silenzio di osservatrice. Con il trio di detective tanto improbabile quanto formidabile che si è costruita affronta una caccia all’uomo che può salvare la vita al suo nipotino e che si rivela essere un vaso di Pandora del suo passato. Ad ogni episodio di questa serie di gialli facciamo un passo in avanti nel conoscere lei e la sua personalità. Ed un passo indietro nello scavare nel suo passato. Lo stile descrittivo dell’autore è sempre accattivante, ammaliante, magico. Nella scrittura e nelle atmosfere che riesce a creare: ti fa sentire calore nelle pagine.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    14 Febbraio, 2024
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Ardelia veste a lutto

I giorni di Ardelia Spinola scorrono tutti ugualmente monotoni e mesti, immalinconita dalla scoperta che, forse, tra le due persone che più ama (l’ex commissario Bartolomeo Rebaudengo e la talentuosa pianista Norma Picolit) sia scoccato l’amore. Poi, inaspettatamente, una sera, riceve una telefonata enigmatica da Arturo Granero, l’ex fidanzato mollato per i suoi troppi misteri. Il breve colloquio più ricco di parole non dette che di vere comunicazioni, la lascia inquieta e dubbiosa. Qualche giorno dopo, chiamata per i tristi rilievi su un cadavere ritrovato dentro la piscina in una villa di Albenga, fa una scoperta sconvolgente. Il morto, ucciso da una fucilata, è proprio Arturo, il suo Arturo.
Precipitata nello sconforto più nero, la donna si domanda se in quella telefonata l’uomo avesse voluto comunicarle qualcosa, lanciarle una muta richiesta d’aiuto che, per il disinteresse da lei manifestatogli, non si era esplicitata. Forse lei, Ardelia, è stata una delle concause della sua morte? Ovviamente, in quanto parte interessata, non potrà eseguire gli esami autoptici, ma la bramosia di scoprire chi ha ucciso Arturo la tormenta e la deprime. Tra l’altro un dubbio la arrovella: l’uomo era ospite di un suo amico di recente data, tal Davide Drusi, uomo dagli ignoti traffici, che gli assomiglia come un gemello monozigote. Che il povero Arturo sia stato vittima di uno scambio di persona? Forse la vittima designata doveva essere proprio quel Drusi, che, tra l’altro, ha una serie di conti in sospeso con il vicino, un sociopatico iroso e vendicativo.
Per fortuna di Ardelia, il buon Bartolomeo Rebaudengo le è subito a fianco, per sostenerla, rincuorarla e, grazie alle ancora salde conoscenze tra le forze dell’ordine, tenerla aggiornata sulle indagini. Ma si sa, il medico legale, nonostante le spergiurate promesse di non immischiarsi, non riuscirà a starsene fuori. Anzi, proprio grazie alla sua tenacia, sarà possibile svelare tutte le trame oscure che reggono la truce faccenda; trame che il magistrato incaricato, per la troppa fretta di chiudere il fascicolo, non avrebbe mai scoperto.

Trovare in libreria i romanzi di Cristina Rava è sempre una piacevole sorpresa, però, come si suol dire, non tutte le ciambelle riescono col buco. Questo romanzo, pur scritto con il solito stile garbato, corretto e ben strutturato, stenta a decollare, sembra quasi che il meccanismo perfetto che aveva mosso le vicende precedenti, si sia in qualche modo arrugginito, che necessiti di essere lubrificato. I primi capitoli sono un triste (e un po’ monotono) resoconto degli umori neri della Spinola. Si sente la mancanza delle auliche descrizioni d’ambiente o dei sentimenti umani; delle osservazioni, apparentemente colloquiali, ma ricche di considerazioni profonde; dei divertenti dialoghi, talvolta battibecchi, che i protagonisti intrecciano tra di loro. Questi ultimi, in particolare, almeno nei primi capitoli, appaiono abbastanza piatti e i vari interlocutori scarsamente caratterizzati. In passato non era neppure necessario precisare chi pronunciasse le varie battute, perché l’autore era immediatamente identificabile. In questo romanzo spesso accade che tutte le frasi sembrino pronunciate dalla stessa bocca senza una precisa coloritura distintiva negli interventi. Anche i girotondi sentimentali dell’anatomo-patologa non ravvivano a sufficienza la vicenda, anche se, per gli affezionali lettori della serie, si preannunciano vere sorprese.
Dal punto di vista della vicenda poliziesca, poi, il fatto che la Spinola, per la maggior parte del tempo, se ne debba stare alla finestra a osservare ciò che fanno gli altri senza poter intervenire (o senza intervenire troppo) nelle indagini, spoglia il libro dell’azione che ravviverebbe la narrazione.
Per fortuna, seppur lentamente, la storia prende quota e si ritrovano pagine che ricordano i migliori romanzi della serie. Il racconto non si limita più a esporre il lento procedere delle indagini, ma spazia su altri temi, sull’umanità dei personaggi coinvolti, sulle loro vicende private, su considerazioni importanti. Tuttavia si ha la sensazione che la fase di spleen dell’A. (o la sua mancanza d’ispirazione) non sia ancora cessata e pure la produzione letteraria che offre al suo pubblico ne risenta. Alla fine, l’epilogo, decisamente non catartico e parzialmente insoddisfacente e incompiuto, lascia con un po’ d’amaro in bocca, mentre alcune vicende, rimaste in sospeso, forse in attesa di una futura risoluzione, abbandonano il lettore, dubbioso, nel mezzo di un cammino letterario che non mostra chiaramente la sua meta.
In definitiva, questo appare come un romanzo un po’ dimesso, sottotono, un interludio un po' vano, pur conservando i pregi della prosa sempre affascinante e curata della scrittrice ligure. Comunque da leggere, anche solo per non perdere di vista le vicende della simpatica dottoressa “frugamorti”.

___________
Chiudo con una tirata d’orecchi agli editor (o ai correttori di bozze?) della Rizzoli. Non si può vedere in un volume di una casa editrice di tale pregio una frase di questo tipo: “Ci vediamo di rado. L’hanno scorso capitava più spesso”. Un errore da matita blu anche alle elementari!

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... i precedenti romanzi della doppia serie Rebaudengo-Spinola, con l'auspicio che, in futuro, la scrittrice con un colpo d'ali torni a volare alto nei cieli della letteratura poliziesca italiana.
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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    14 Febbraio, 2024
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Madri e figlie

Il rapporto controverso tra una madre ( Anna ) affetta da una malattia tumorale in stato avanzato e una figlia medico ( Sigrid) che da anni ne sottolinea le colpe, una famiglia allargata, figli, mariti, nipoti, un padre con un’ invalidità permanente, separazioni, sconvolgimenti, un se’ che non sa e non vuole rileggere la propria infanzia.
Sigrid, terminati gli studi, ha abbandonato il passato trasferendosi a Oslo, tralasciando il sentimento per il marito Jens, per il padre Gustav, per l’ invadente solitudine della madre Anna,
chiusa in se’ stessa e nella malattia del consorte, una donna arcigna, assente, lontana dai propri figli.
Oggi il reale assume colorazioni diverse, l’ invecchiamento e la malattia di Anna e un rapporto da recuperare, nel mentre Sigrid e’ immersa nel proprio senso persecutorio, nel legame con il compagno Aslak che ha saputo accoglierla e sostenerla dopo la separazione da Jens, nei sentimenti che ancora la legano a lui, nel rapporto turbolento con la figlia Mia, così vicina alla figura paterna.
Come può rimediare e ricominciare chi non si è sentito amato, abbandonato a se’ stesso, a un io ferito e dissolto, vittima da sempre dell’ egoismo materno?
Una malattia incurabile e un futuro a termine possono sospendere il passato, l’ essere figlia e la professione medica convivere e influenzare l’ oggi?
In primis si dovrebbe rivedere se’ stessi, quel camice bianco fallimento e riparo da ferite incurabili, anche se le relazioni madre-figlia e medico-paziente non sono complementari e la paura più grande rimane la scomparsa della propria madre.
Anna non sopporta la tendenza di Sigrid all’ autocommiserazione, quel suo ricondurre all’ infanzia dispiaceri e amarezze, anche per lei la vita è stata dura, alle prese con l’ invalidità di Gustav, due figli da crescere. Non tollera la paura, l’ ansia, la prudenza della figlia, vorrebbe decidere per se’, giorni intrisi di una spensierata consapevolezza, lei che sa di non essere una brava paziente, di non averne la capacità, la voglia, la forza.
Un rapporto che vive il non detto, il senso di abbandono e di solitudine, l’ essere state giovani madri e mogli di mariti assenti con la necessità di spiegare ai propri figli che cosa stava accadendo, un legame a tempo, da centellinare, diluire, conservare.
E allora crescono i rimpianti, la nostalgia di affetti negati, la rabbia per un sentimento di abbandono che costantemente ritorna e una neo dimensione, il non sapere come sopravvivere alla propria madre, l’ impossibilità di dire tutto ciò che andrebbe detto, facendo i conti con il passato.
Sigrid vive il desiderio di stare da sola con Anna, di condividere i pochi momenti rimasti, respirando il suo affanno, nel presente ascolto, leggerezza, silenzio, la dimensione più vera accolta in un ultimo bagno…

…” Fletto le ginocchia, spingo i piedi contro il pontile, mi lancio obliquamente contro la superficie scura. Sento uno sbuffo nelle orecchie, l’acqua è accogliente e fresca, io sono senza peso ma i movimenti sono impacciati dalla resistenza del fluido, solo dopo un po’ trovo il ritmo. Sincronizzo i quattro arti, bracciate lunghe e vigorose, scivolo in avanti verso la boa rossa”…

….”Nuoto veloce verso la quarta boa, la doppio e mentre torno indietro vedo Sigrid sul pontile. Si è messa il maglione verde, si fa solecchio con una mano, come se stesse scrutando l’acqua in cerca di me. A metà del percorso mi fermo e le grido: “ Forza, resto qui finché non arrivi”…

Helga Flatland scrive un romanzo relazionale e sentimentale con radici lontane, madri e figlie, un rimescolio che ne ridefinisce le parti. I pensieri di Sigrid e di Anna inseguono una dicotomia evidente, la razionalità medica e l’ irrazionalità del paziente che non ha più nulla da perdere.
Le sovrastrutture di una psicologia sentimentale datata si scontrano con la fragilità di un presente difficile e a termine, ciascuna rappresentazione discutibile e fallace, abbracciando le emozioni più vere, quei fugaci attimi di serenità che possono restituire il senso di una vita.
Un romanzo a forti tinte nordiche laddove penetra nei meandri di un’ intimità sovente celata e sottratta, in primis a se’, voci negate, un senso di vuoto a rendere, il dolore imploso nel tempo.
Tra le pagine la forza dell’ ironia, la capacità di leggere la complessità della vita e i suoi rivolgimenti cavalcando un senso di leggerezza che sa di profondità.



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Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
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4.0
68 Opinione inserita da 68    14 Febbraio, 2024
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Parole suadenti

…” i cuori e le labbra che si toccano, uniti ed eternamente separati”…

Il destino silenzioso e opaco di due vite corrose dal tempo, una sofferenza onnipresente in un oggi muto e senza volto. A lezione di greco antico, una lingua fredda e dura, morta ma tuttora vivida nella propria autosufficienza, richiamo di ragione e poesia, un’aula per ricomporre spezzoni di se’, una presenza-assenza rivestita di un tono dimesso, il linguaggio pacato di chi sta perdendo la vista riacquisendo il senso del tempo, il silenzio rarefatto di chi non ha più l’uso della parola imprigionato nell’ assenza di affetti negati.
Una donna muta e un uomo ipovedente, allieva e maestro, infanzie difficili, parole svanite improvvisamente, rinchiuse in un luogo più profondo della lingua e della gola e in un se’ sofferente, la vista che andava peggiorando, un amore sordo con il quale sognare di condividere l’ esistenza.
Oggi non resta che camminare nell’ arsura di una città rovente, sognare per vedere nitidamente, assaporare il suono di parole che bastano, condividere un luogo e la presenza dell’altro in un crescendo di percezione e di comunanza.
Il presente, dopo vent’anni, è un silenzio freddo, pungente, come

…” un ombra privata del proprio corpo”…

è un viso sulle cui guance non scorre nulla, una frase che risuona nella testa,

…” ci è mancato così tanto che non nascessi”…,

la perdita della madre, dell’ affidamento di un figlio, uno stato di necessità in cui ritrarsi progressivamente.
E allora ci si aggrappa al viso del proprio figlio e alle strofe di una lingua morta da incidere sulla carta, l’ uso della parola più lontano senza un vero motivo apparente.
A quarant’anni, condannato alla cecità, i dettagli prendono forma attraverso l’ immaginazione, luci e ombre si fanno indifferenti nel ricordo ancora sanguinante di un amore giovanile perduto per sempre, come per il mondo visibile, le giornate scorrono così’,

…” sotto l’ enorme massa opaca del tempo”…

Un’ unione rarefatta che oltrepassa il linguaggio e la vista, che si nutre di attesa e di silenzi parlanti, che ascolta, attende, assapora l’ altrui presenza, parla di se’ e della propria essenza, scrive parole cariche di senso, che ricorda i versi di un amore perduto, due cuori che si toccano e che continuano a non conoscersi.

….”Giungo le mani all’ altezza del petto.
Con la punta della lingua inumidisco il labbro inferiore.
Mi torco l’emani con movimenti rapidi e silenziosi.
Le mie palpebre tremano. Come ali d’ insetto che sfregano convulsamente tra loro.
Dischiudo le labbra, di nuovo secche.
Faccio respiri più profondi e ostinati.
Quando pronuncio infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli.
Come se mi preparassi a scoprire, nell’ istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita”…

Un romanzo quantomai intenso e sofisticato, viaggio stratificato e carezza dell’ anima nonostante quella sofferenza insistente e persistente nel cammino dei due protagonisti.
Avvolti in un silenzio inspiegabile e in una cecità progressiva, le parole non sono mai state così significanti e gli sguardi così dolci e intensi, ricolmi di attesa. Ambientazioni prevalentemente notturne in una Seul appiccicosa e rovente, toni pacati, attese protratte, gesti ripetuti, significati riposti, parole scritte che prendono forma, oggetti avvolti da un’ oscura presenza, frammenti di ricordi che si muovono generando immagini, colori scintillanti che brillano al sole, ombre oscurate dalla notte, morte, dissoluzione, parole terrificanti rivolte a se stessi…
Questo l’ universo poetico di Han Kang, un dono da fare proprio e da custodire gelosamente mentre

…” il silenzio si ammassa come neve che cancella per sempre le tracce”…

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Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
3.2
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Febbraio, 2024
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“Bisogna vivere… Bisogna vivere…”

Con “Tre sorelle” sono approdata poco tempo fa al teatro di Anton Cechov (1860-1904), che da tempo suscitava la mia curiosità.
Composta nel 1900 e portata in scena per la prima volta, a Mosca, l’anno immediatamente successivo, l’opera si compone di quattro atti, nel corso dei quali si succedono altrettanti periodi della vita familiare dei Prozorov: Andrèj Sergèevic e le sue tre sorelle (Olga, Irina e Maša), figli di un generale venuto a mancare – quando si apre il primo atto – proprio l’anno prima.
La loro casa viene abitualmente frequentata da un gruppo di ufficiali alquanto variegato al suo interno, mentre l’ambientazione è quella della provincia russa, in un capoluogo di governatorato, come si rende noto all’inizio sotto la lista dei personaggi.
Questo lavoro di Cechov non è propriamente un dramma, ma un vaudeville, secondo quanto precisato nella prefazione da Gerardo Guerrieri, traduttore del testo per l’edizione Einaudi che ho avuto modo di leggere. Il termine vaudeville indica una commedia dai toni leggeri, ma a ben guardare “Tre sorelle” non dà l’impressione di esserlo, non pienamente per lo meno. Al di là di alcuni passaggi che possono suscitare qualche sorriso, la rappresentazione nel suo insieme, per quanto ben lontana dalle atmosfere del teatro del più anziano Ibsen, tocca temi esistenziali che non invitano certo alla spensieratezza. Il tema del tempo che, inesorabile e indifferente, scorre troppo velocemente portandosi via aspirazioni, sogni e illusioni dei personaggi si lega a quelli del lavoro e delle trasformazioni della società che da militare tende a farsi sempre più civile e borghese, come sottintende non solo il trasferimento della brigata cui appartengono gli ufficiali frequentatori di casa Prozorov, ma anche il fatto che una delle sorelle, Maša, sia stata data in moglie a un insegnante di ginnasio e che lo stesso Andrèj, invece che seguire le orme paterne, insegua la carriera da accademico per poi perdersi nel gioco d’azzardo.

“[…] Una volta l’umanità non si occupava che di guerre; la sua esistenza era un seguito d’invasioni, di spedizioni, vittorie. Tutte queste cose adesso sono sparite, e hanno lasciato un vuoto enorme che non è ancora stato colmato; l’umanità è alla ricerca, alla ricerca, e finirà col trovare! Per forza! Chissà quando però: speriamo in tempo! […]”

La penna dell’autore fotografa una società in pieno disfacimento, dove si ritrovano insieme, non senza contraddizioni, nuove istanze e vecchie tradizioni, coesistenza che culmina nel duello finale che si porterà banalmente via il barone Tuzenbach o nello sprezzo arrogante di Nataša nei confronti della servitù. Le tre sorelle Prozorov sono testimoni di tutti i cambiamenti, piegandosi a un destino di infelicità e insoddisfazione che non condurrà nessuna di loro nella tanto agognata capitale Mosca.
Particolarmente filosofici suonano alcuni scambi di battute e considerazioni sul futuro, la felicità e il progresso dell’umanità, nonché a tratti utopistici. Presumo che il ferreo senso del dovere incarnato da certi personaggi dell’opera in questione sia stato rivalutato e apprezzato in un secondo momento dal successivo regime sovietico, dinanzi al quale il teatro di Cechov non godette all’inizio di grande favore.
Nel complesso, una lettura abbastanza scorrevole che, tuttavia, non mi ha coinvolta pienamente.

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Fumetti
 
Voto medio 
 
4.3
Sceneggiatura 
 
3.0
Disegno 
 
5.0
Originalità 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Febbraio, 2024
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Lombroso il Cuore insanguinato

1889, Torino, il professor Cesare Lombroso, vuole dimostrare la fondatezza delle sue teorie sulla fisiognomica e, soprattutto, che il comportamento criminale dipenda dall’atavismo e sia rivelato dalle caratteristiche somatiche del soggetto che delinque. A tale scopo riesce a ottenere il permesso per un esame autoptico del corpo di Giulio Perboni, ex maestro elementare all’Istituto Moncenisio, morto suicida nel carcere “Le Nuove”, dove scontava una pena detentiva per estorsione ai danni degli ex alunni. Assistono all’esame gli studenti di Lombroso e l’agente De Rossi, ex alunno di Perboni.
Lombroso si presenterà pure ai funerali dell’uomo, durante i quali entrerà in contatto con molti degli ex studenti del maestro che, nonostante tutto, continuano ad amarlo come una fulgida guida. Ma gli eventi precipitano, Enrico Bottini, altro alunno del Perboni, viene trovato morto in casa sua, ucciso barbaramente. La sorella Silvia si rivolge a lui per scoprire cos’è avvenuto, ma, prima che il medico possa esaminare il cadavere, questo viene trafugato e l’agente De Rossi, che lo stava sorvegliando, ucciso.
Inizia così una pericolosa indagine per Lombroso che si troverà a investigare sui vizi privati degli alunni di Perboni e sui moventi che potrebbero aver spinto all’omicidio di Bottini.

Con questa graphic novel inizia una trilogia dedicata al discusso scienziato del secolo XIX che si trasformerà, per necessità, in investigatore privato in una Torino fin de siecle affascinante e attentamente ricostruita.
Chi di noi non ha mai ironizzato sul libro Cuore e sui suoi personaggi? Qui gli A.A. fanno un passo avanti e proiettano i ragazzini della III elementare del 1882 (ma in realtà nel fumetto sono assai più grandi di quanto dovrebbero esserlo secondo una mera logica anagrafica) in un loro immaginario futuro e nel farlo si permettono più di uno sberleffo ai danni di quei personaggi. Enrico, l’autore dei diari scolastici di cui al romanzo di De Amicis, ci viene mostrato come uno scrittore fallito e, per questo, divenuto un tossicodipendente dedito all’assenzio. Sua sorella maggiore, la protettiva Silvia di De Amicis, ora è diventata una prostituta! Il terribile Franti sconta una pena carceraria pesante, ma resta sprezzante e irridente l’autorità. Il ricco Derossi è entrato in polizia, ma cade subito sotto i colpi dell’ignoto assassino. Garrone resta il gigante buono del libro, ma si dimostra un incontenibile iroso tanto da mettersi nei guai con la giustizia. Insomma, con un gusto un po’ perverso, ne “Il cuore di Lombroso” viene smontato il giocattolo troppo mieloso di De Amicis, per riportare gli attori di quelle storie a una realtà cruda e molto meno idilliaca e a un’Italia ancora realmente da fare come Nazione.
I disegni, tutti rigorosamente in bianco e nero, sono stilisticamente impeccabili e le ricostruzioni d’ambiente sono davvero affascinanti e frutto di un attento studio storico. Meno curata appare la sceneggiatura della storia, un po’ affrettata e non particolarmente strutturata: sarebbe stato più interessante descrivere con maggiore accuratezza i personaggi e le loro vicende. Tutto sommato, comunque, resta un fumetto gradevole, anche grazie alle beffarde strizzatine d’occhi che gli A.A. fanno al lettore che ben conosce l’opera deamicisiana. Un buon esordio per la trilogia che proseguirà con una rivisitazione dei personaggi collodiani e con una terza opera ancora da scoprire.
Insomma un fumetto (rectius, una sofisticata graphic novel) davvero divertente e originale, da godere dalla prima all’ultima tavola.

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... "Il naso di Lombroso", successivo a questo come pubblicazione editoriale, ma antecedente nella cronologia interna delle storie.
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Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    13 Febbraio, 2024
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Dissing alla Mattel

Un sacco di pareri positivi mi aveva portato ad iniziare la lettura di "Tanti piccoli fuochi" con le migliori intenzioni, nonostante la sinossi proposta nell'edizione italiana non fosse chiarissima circa l'effettivo contenuto. E se in un primo momento ero pronta ad accodarmi alla schiera dei fan di questo romanzo, nella seconda metà del volume diversi elementi hanno fatto vacillare il mio apprezzamento, portandomi alla fine ad assegnare un voto comunque positivo, ma con meno entusiasmo di quanto mi augurassi.

Riassumere la trama non è facilissimo, perché il romanzo si dipana seguendo un gran numero di vicende, che in alcuni casi ottengono una risoluzione chiara, mentre in altri vengono come lasciate in sospeso perché il lettore possa inserire un finale di suo gradimento. Il cuore della storia è comunque Shaker Heights, una città dell'Ohio progettata per rendere felici i suoi abitanti, a patto che ne rispettino con precisione le regole. Alla fine degli anni Novanta qui si trasferisce Mia Warren, una fotografa di talento che spera di aver trovato una dimora stabile per crescere la figlia adolescente Pearl; il modo scanzonato ed istintivo di vivere della donna viene messo da subito a confronto con quello della sua padrona di casa, Elena Richardson, che ha invece passato tutta la vita a seguire felicemente i dettami di Shaker Heights.

Come accennato, attorno a questo contrasto ruotano molte altre vicende. Alcune riguardano i rapporti tra i figli delle due donne, altre le origini misteriose di Pearl, altre ancora il caso mediatico che scoppia quando una collega di Mia riconosce come sua la bambina appena adottata da una coppia di amici di Mrs Richardson. A fare da collante in tutte queste sottotrame è il tema della maternità, che viene esplorato in una moltitudine di prospettive e contesti diversi -parlando anche di casi un po' estremi- ma sempre con l'intento di spingere il lettore a riflettere e farsi un'opinione in merito.

Uno dei punti di forza del romanzo è proprio l'intenzione di mostrare visioni alternative -a volte opposte-, delle quali la bella prosa di Ng riesce a mettere in luce i pregi ed i difetti. Ho trovato poi interessante come la stessa Shaker Heights diventasse un elemento centrale in questi conflitti, rendendola ben più che una semplice l'ambientazione. Mi è piaciuto anche vedere come si sviluppassero i rapporti tra la famiglia Richardson e le Warren, inoltre ho trovato ottima la scelta avviare la narrazione con una scena di foreshadowing davvero potente, che senza dubbio riesce a catturare da subito il lettore nella storia.

Per contro, quando sono arrivata a scoprire cosa avesse causato quella specifica scena, il mio entusiasmo era in parte scemato, per varie ragioni. In primis la trama comincia a presentare una serie di rivelazioni dai toni parecchio soapoperistici, con tanto di sceneggiate e personaggi che corrono da un posto all'altro in preda all'emozione del momento. Ho faticato inoltre a capire su quali elementi dovessi porre l'attenzione in una narrazione fin troppo corale; questo è reso difficoltoso anche dalla struttura episodica del testo (con alcuni salti temporali di intere settimane) e dalla sinossi, che non presenta in modo onesto il romanzo perché si concentra su degli sviluppi relativi alla seconda metà del volume.

Proprio nella seconda metà, il mio apprezzamento di questa lettura ha subito un netto calo perché non mi è piaciuta la brusca interruzione dovuta all'inserimento di un flashback troppo lungo, ma anche per il modo in cui l'equilibrio tra Mrs Richardson e Mia si spezza, facendo diventare quest'ultima l'eroina senza difetti in un romanzo che fino a quel punto era più equo e verosimile. Pur avendo trovato poi carina la metafora del fuoco, con le diverse scintille che potrebbero portare a degli incendi, non mi è sembrata molto sottile e dopo un po' risulta anche ridondante. Anche il finale non ha saputo convincermi del tutto, perché lascia troppe storyline in sospeso, per i miei gusti e per il tempo che era stato dedicato ad esse fino a quel punto.

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Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    13 Febbraio, 2024
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Abel e il suo fantastico West


E' un West immaginario quello descritto da Alessandro Baricco, una specie di luogo creato apposta per inserirvi un personaggio, Abel Crow, che spicca da protagonista tanto da far passare in secondo piano il contesto in cui vive e opera. Un pistolero, che rende credibile tutto il resto, anche se frutto di fantasia che solo la grande abilità dello scrittore riesce ad assimilare a quell'ambiente western che siamo abituati ad ammirare nei film o ad apprezzare nei tanti racconti sull'argomento, che pur Baricco riporta in un'accurata bibliografia. In sostanza è West, ma rivisitato e trasformato quasi in un non-luogo, un western metafisico, come definito dalla critica letteraria. La trama si intuisce, non è ben definita temporalmente, va a singhiozzo, da episodio ad episodio: Abel nasce da famiglia di allevatori di cavalli e agricoltori, ha diversi fratelli, un padre di cui si sa poco e una madre ribelle che ad un certo punto fugge con alcuni cavalli facendo perdere le sue tracce. Abel cresce e diventa un abilissimo e temuto pistolero, famoso per saper usare contemporaneamente due pistole e colpire ad incrocio due bersagli. Il suo amore è Hallelujiah, una giovane con un passato avventuroso, rapita bambina dagli indiani Dakota, fuggita, accolta da un guaritore girovago ed ammaestrata come abile guaritrice: incontrerà Abel, gravemente ferito in uno scontro con alcuni banditi e lo guarirà con arti sciamaniche... Abel diventa sceriffo, ma il suo sogno è scendere al Sud, lasciare le armi: l'ultima impresa è salvare, con l'aiuto dei fratelli, la madre, rediviva, condannata all'impiccagione per il furto di uno stallone. Ci riusciranno, con l'aiuto della dinamite e della precisione da consumati pistoleri, ma Abel verrà colpito a morte.
La trama si ferma qui, ma gli episodi sono tanti, inframmezzati nel racconto. Come l'incontro con un Giudice ed una strega, segregata all'esterno del villaggio, una donna senza età ("ho cento anni, dieci, uno solo, sono appena nata ma l'ho dimenticato") che tutti temono per i suoi poteri distruttivi. E ancora, una leggendaria cavalcata sotto un muro di pioggia, una cittadina mineraria abbandonata per l'invasione di una tribù indiana, l'arrivo di una nave di corsari in una cittadina lungo l'estuario di un fiume, l'incontro con un grande Vecchio, il nonno materno, possessore di una sella straordinaria, istoriata, sulla quale sono intarsiate tutte le storie del mondo, eventi religiosi, personaggi famosi: una specie di sinossi sapienziale, che incanta e rapisce gli ascoltatori.
Abel è una figura reale, la sintesi di una vita, l'immagine dello scorrere del tempo, il protagonista di una avventura di fantasia, senza un vero inizio ed una vera fine. Lo stile narrativo di Baricco lo esalta e ne fa una figura carismatica ma, nello stesso tempo, sfuggente, quasi al fuori del tempo e di uno spazio ben definito. Il West di Baricco, pur evidenziando caratteristiche ambientali ben note comprese le sparatorie e le scorrerie delle tribù, appare come una costruzione astratta, senza tempo, vivificata dallo stile immaginifico dello scrittore, uno stile unico, difficile e impervio se volete, ma capace di incantare e sedurre, anche quando cita Aristotele o David Hume. Uno stile da centellinare, dotto, ogni parola sembra pesata con arte raffinata, non per vedere l'effetto che fa ma per inserirla al posto giusto e nel momento giusto. Esercizio di stile? No, è lo stile di Baricco: s'inerpica come una mongolfiera tra le nuvole per cadere poi in picchiata a terra, senza timori, finendo a volte in espressioni popolari inattese ( tipo " ma và un pò a cagare"), quasi a significare la capacità di adeguarsi ad altri livelli...
Abel è un viaggio interessante in un West di fantasia, è anche il fluire imprevedibile di una vita, quella vita che, come sussurra il grande Vecchio, "corre comunque, non ha bisogno di noi per farlo. Corre di padre in figlio, nei gesti più stupidi e nelle grandi curve della Storia, corre dappertutto e in ogni direzione. Noi c'entriamo poco, fa tutto da sola. Se vi dovesse accadere di incrociarla, non abbiate paura. Datele una mano, e godetevi lo spettacolo".



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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Febbraio, 2024
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Gli scorpioni possono provare amore?

Nel marzo 1937 la Guerra civile spagnola pretende il suo penosissimo tributo giornaliero di sangue e dolore, mentre le fazioni non lesinano colpi feroci per cercare di aver la meglio l’una sull’altra.
I Repubblicani sono sempre più legati all’Unione sovietica per il sostegno militare necessario a impedire che le schiere falangiste, e i contingenti italiano e tedesco che affiancano Francisco Franco, riescano a sopraffarli sui campi di battaglia. Così – ufficialmente per proteggerli dalle mani dei Nazionalisti, in realtà come pagamento delle forniture d’armi russe – già moltissime tonnellate d’oro prelevato dalle casse del Banco de España sono state spedite a Mosca. Però c’è ancora un carico che non riesce a raggiungere Odessa. Una trentina di tonnellate sono imbarcate sul cargo Mount Castle che è stato sorpreso in mare dalle navi da guerra franchiste. Per evitare la cattura s’è rifugiato a Tangeri, protetta dal suo stato di città con statuto internazionale. Da lì sperava di poter ripartire per il Mar Nero, ma è stata raggiunta dal cacciatorpediniere nazionalista Martín Álvarez, che le si è ormeggiato vicino e la sorveglia dappresso come un predatore affamato. Il Comitato di Controllo che governa la città ha già fissato un termine improcrastinabile entro il quale le due navi dovranno lasciare il porto. Ma è chiaro che se ciò avverrà, dopo, in alto mare, il cargo, lento e poco maneggevole, non riuscirà a sfuggire all’agile nave da guerra e, se non si arrenderà e farà catturare, finirà a fondo sotto le cannonate del caccia.
Lorenzo Falcò, spregiudicato mercenario agli ordini dell’Ammiraglio, capo del Servizio informazioni della Marina nazionale, riceve l’ordine di recarsi al più presto a Tangeri e cercare, in ogni maniera, di evitare che il carico d’oro finisca in bocca ai pesci, ma, al contrario, divenga preda dei nazionalisti senza necessità di uno scontro a fuoco. Ha libera mano su come agire, anche cercando di corrompere il capitano Quirós del Mount Castle. Ma nella città nordafricana è presente pure la spia sovietica Eva Neretva che Falcò ha conosciuto in una precedente missione, amato selvaggiamente in una Alicante squassata dalla guerra civile e salvato da morte certa quando lei era finita nelle mani della polizia franchista: una donna dura, determinata e animata da una fede incrollabile nel marxismo. Sarà una avversaria temibile, perché è a Tangeri proprio per consentire al mercantile di raggiungere la sua meta prefissata.

Seconda avventura della spia franchista che si muove secondo il codice dello scorpione (osservare con calma, pungere veloce e ritirarsi ancor più rapidamente) e seconda occasione per immergersi nell’atmosfera torbida e violenta della guerra civile spagnola, dove l’unico modo per sopravvivere è restare fedeli, ma solo a sé stessi.
Nel romanzo viene ulteriormente precisata la figura di Falcò, che ci appare come un James Bond ante-litteram: spregiudicato, implacabile, coraggioso sino alla temerarietà, ma pure cauto e astutamente programmatore dei propri movimenti.
Con le tipiche esagerazioni della letteratura di genere spionistico, ci vengono descritti gli intrighi, i doppi-giochi, le minacce, i sotterfugi e, purtroppo, inevitabilmente, le inumane torture che vengono inflitte alla vittima di turno, sia da una fazione che dall’altra, senza che sia possibile individuare una parte buona e una cattiva.
La trama scorre rapida e incalzante e la figura di Lorenzo Falcò spicca su tutti gli altri per la personalità travolgente: un guascone ribaldo, privo di ogni morale ed etica, bramoso di assaporare tutte le emozioni che ci può offrire la vita, senza remore o pregiudizi, ma, nonostante tutto, inesorabilmente simpatico, proprio per la sua sfacciataggine. Si muove disinvoltamente sia nel bel mondo degli alberghi lussuosi e delle dame in abiti di seta, che nei sordidi vicoli di angiporto e nelle bettole frequentate dalle peggiori ciurme. Non c’è donna che sappia resistergli e lui si fa vanto di non averne risparmiata nessuna. Insomma un tipo decisamente poco corretto politicamente, visto con gli occhi di oggi, ma terribilmente divertente nell’ambientazione che gli è riservata.
Inoltre, forse, pure gli scorpioni hanno un cuore e la fine del romanzo ce lo fa pure sperare o, quantomeno, dubitare.
Un buon libro appassionante e incalzante, da leggere tutto d’un fiato.

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...il romanzo che precede questo nella serie ("Il codice dello scorpione") e chi ama la prosa di Pérez-Reverte
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    12 Febbraio, 2024
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Un poliziotto scientifico per Luigi Filippo

Parigi, 1830. La Francia è appena riemersa dai tumulti che hanno causato la caduta del regno di Carlo X Borbone e l’ascesa di Luigi Filippo d’Orleans, ma la città è ben lungi dall’aver trovato pace e tranquillità e l'odio tra le varie fazioni non s'è spento.
Valentin Verne è un giovane poliziotto colto e affascinante. Suo padre Hyacinte, deceduto tragicamente quattro anni prima investito da un fiacre, gli ha lasciato un ingente patrimonio e il ragazzo potrebbe vivere di rendita, ma ha scelto di assolvere una missione: catturare e assicurare alla giustizia il sedicente Vicario, un uomo di chiesa brutale che rapisce giovani orfani per soddisfare la sua lussuria.
Damien Combes è uno di quei poveri derelitti: abbandonato in fasce era stato allevato dall’amorevole famiglia di un guardaboschi, ma, quando l’uomo era caduto a Waterloo, la vedova non aveva avuto altra scelta se non di affidarlo al religioso che s’era detto disposto ad accudirlo e educarlo. Purtroppo per Damien, lo aspettava l’orrore assoluto: era stato sbattuto dentro una lurida cantina e usato per anni come giocattolo sessuale dal religioso che, in caso di ribellione o anche solo di titubanza nell’eseguire le pratiche che pretendeva da lui, lo rinchiudeva in una gabbia poco più grande di una stia per polli.
Per salvare Damien e tutti i poveri, piccoli martiri caduti sotto le grinfie del Vicario, Valentin ha accettato di entrare in polizia, nel più sordido dei suoi distaccamenti, la Buon costume. Però un giorno viene convocato dal commissario Jules Flanchard, capo della Sûreté. Dovrà indagare sul suicidio di Lucien Dauvergne, unico figlio maschio di Charles-Marie Dauvergne, potente magnate con solidi agganci nella politica francese. È indubbio che il giovane si sia ucciso da solo, gettandosi da una finestra, sotto gli occhi terrorizzati della madre, ma la sua morte appare così assurda e inspiegabile che il padre pretende una solida inchiesta che, eventualmente, individui chi ha istigato il figlio al folle gesto.
Inizierà così, per Valentin, una difficilissima indagine nella quale più volte rischierà la vita e che, alla fine, mostrerà risvolti inquietanti e sorprendenti che chiameranno in causa pure persone altolocate e nuove scoperte della medicina.

Éric Fouassier ambienta, in un inusuale periodo del passato francese, un poliziesco altrettanto singolare che miscela azione, puntigliosa rievocazione storica e ambientale, un pizzico di romanticismo e meraviglia, ma anche inquietudine per i coevi ritrovati di scienza e medicina.
In uno stile che riecheggia quello di certi feuilleton del XIX secolo, l’A. ci cala in una Parigi tormentata, sporca, cattiva e indocile, dove gli spiriti rivoluzionari covano sotto la cenere dell’apparente calma portata dalla monarchia costituzionale di Luigi Filippo. Anche le forze dell’ordine non appaiono più fedeli alla legalità di quanto lo siano i peggiori delinquenti. Con una precisione pignolesca si viene condotti tra boulevard e vicoli sordidi di una città in piena evoluzione, dove un antro scuro può nascondere un sicario armato di coltello, un cadavere può esser fatto sparire facendolo scivolare nella Senna e anche la edificanda Place de la Concorde può celare sotterranei minacciosi. La capacità descrittiva rende vive e palpitanti le scenografie usate come fondali per l’azione. La ricostruzione storica è perfetta e avvincente. Pure gli aneddoti di contorno sono rigorosamente corretti e documentati da apposite note in calce. I personaggi inventati sono altrettanto credibili di quelli che realmente vissero in quegli anni. Questi ultimi, spesso, fanno da comparse nel racconto, a cominciare dal leggendario Eugène-François Vidocq, criminale, avventuriero e, infine, investigatore e creatore della Sûreté; qui ci appare spesso come un deus ex machina risolutore delle situazioni più critiche.
Molto interessante l’aura di mistero che ammanta tutti i protagonisti, mentre la trama, decisamente cupa e angosciante, pur con digressioni più leggere, trascina il lettore in un climax di emozioni che affascina senza che far venir meno il rigore descrittivo.
Complessivamente un bel libro di intrattenimento che, però, racchiude in sé anche un nucleo istruttivo di non minore importanza. Forse l’unico difetto del libro è avere un finale aperto per consentire all’A. di proseguire la serie con altri romanzi aventi come protagonisti gli stessi personaggi. E, infatti, il secondo libro (Il fantasma del Vicario) è già uscito qualche mese fa.

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Giovanni Crotti Opinione inserita da Giovanni Crotti    11 Febbraio, 2024
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Un romanzo ambientato in un Israele inconsueto

Leggendo questo romanzo si è subito catapultati dentro una storia potente, scritta benissimo da una voce femminile contemporanea della sempre fertile letteratura israeliana.
Ci si perde nel deserto del Negev senza però mai perdere l'attenzione né la bussola tra le pagine. Ci si perde tra le menzogne che parlano in ogni riga, paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina, diventando sempre più efficienti.
E quando si entra in una casa, il sole disegna sulle pareti macchie stupende.
E quando un pescatore entra in quella cosa enorme che è il mare, si duole perché non può essere accompagnato da due fessurine: gli occhi di chi lo ama.
Ci si innamora di Sirkit, la 'straniera' che incanta con la luce dei suoi occhi e che farebbe annegare la mano dell'uomo bianco nel velluto della propria pelle.
"Stava giusto pensando di non aver mai visto una luna più bella, quando ha investito l’uomo. Per un momento, dopo il tonfo, ha pensato ancora alla luna ma poi ha smesso di colpo, come una candela spenta da un soffio."
Chi guida la jeep è Eitan Green, marito, padre e medico israeliano; l’uomo che ha investito è un migrante africano.
Non siamo in una delle ‘classiche’ città israeliane che la narrativa del secondo dopoguerra ci ha permesso di conoscere attraverso pagine e pagine di grande letteratura. Non siamo a Gerusalemme, né a Haifa, né a Tel Aviv: siamo a Beer Sheva, nel sud di Israele, in una città di 200mila abitanti, ricca di accampamenti beduini, di kibbutz sempre più in via di abbandono, di tanti africani (soprattutto dal Corno d’Africa) e tante famiglie israeliane operaie. Siamo al confine della geografia e siamo anche in una zona liminale della coscienza.
"Eitan, senza accorgersi che per la prima volta Sirkit non gli rivolgeva solo monosillabi, ha guardato incantato la luce nei suoi occhi. Sirkit era raggiante."
Eitan, da medico, è costretto clandestinamente a curare l’uomo investito e frequenta ogni giorno, in cambio del silenzio, Sirkit, donna molto prossima al ferito. La storia si incammina verso il ricatto e quindi le menzogne iniziano a parlare, sempre più frequentemente, in modo sempre più stringente, diventando sempre più efficienti. La paura e la meschinità diventano quindi le uniche testimoni della trama, a partire da quel fatidico incidente in una notte sotto una luna mai vista prima così bella.
"Improvvisamente, questa storia gli è piombata addosso da chissà dove. Tutte le conoscenze restano valide, tranne la conoscenza di se stesso. Una notte ha investito un uomo sul ciglio della strada e incontra un’eritrea sulla porta di casa. Perché scappando s’incontra quello da cui si scappa."
Lui, Eitan, proviene da un mondo in cui il sole gli illuminava ogni giorno l’esistenza. Lei, Sirkit, viene invece da un paese in cui il sole sorge sempre sporco di sabbia.
Che romanzo è “Svegliare i leoni”? E’ un corpo a corpo con storie intime e personali che sanno diventare universali, storie spietate, letteratura che riscopre anche il suo ruolo etico e critico, una trama che ci conduce, come succede a Eitan, in ruoli interiori inimmaginabili, è una storia sulle fragilità e sui principi morali e sulle responsabilità. È un romanzo anche sui desideri proibiti e sulla vergogna, srotolate anche con una tela di bugie.
Siamo nel deserto vero, nel triste deserto della coscienza, siamo nel retro di Israele, in una città che letterariamente sembra essere una porta di servizio.

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Giovanni Crotti Opinione inserita da Giovanni Crotti    11 Febbraio, 2024
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Discesa agli inferi al sole di mezzanotte

Romanzo epico e molto contemporaneo, La valle dei fiori della giovane scrittrice groenlandese Niviaq Korneliussen è un'opera che nasce per proteggere dalla luce (e non dal buio) la mai nominata io narrante.
Con un impressionante meccanismo a decrescere dei suicidi che affliggono quei territori remoti (il romanzo ha anche parti sociologicamente impregnate di dati statistici reali sulla 'felicità' dei suoi abitanti), Korneliussen ci introduce a numerosi cambi di scena che oscillano tra le tradizioni inuit, i suoi amori saffici e la modernità razzista della patria madre (non madrepatria) danese.
Su tutto aleggiano senza sosta i social network (vere e proprie connessioni che superano le enormi distanze di quei luoghi), il buio di un clima estremo, l'alcool vera piaga sociale, la costante paura di volare cadere e precipitare della giovane protagonista, la violenza domestica, le molestie sessuali, la terribile catastrofe sociale dei suicidi tra i minorenni.
E un corvo, onnipresente con il suo manto nero che conduce il racconto verso una lenta e costante discesa agli inferi, accompagnata da un corredo di emozioni ancestrali che risalgono controcorrente non riuscendo però a scalfire l'enorme senso di solitudine emanato dalle 300 pagine di questo magnifico romanzo.
“Vorrei essere sepolta nella Valle dei Fiori”, dice perentoria a un certo punto la protagonista della storia. E, parlando di una coetanea che si era suicidata, “magari sentiva che questo non era il suo posto, che non apparteneva a questo mondo”. Sono concetti centrali che riecheggiano frequentemente: sono affermati in danese mentre le espressioni in lingua inuit ci riportano a una dimensione ancestrale che si oppone alla modernità e al progresso.
La storia è ambientata in luoghi estremi, dove le condizioni meteorologiche influenzano moltissimo la quotidianità e, inimmaginabile pensando ai sessanta mila abitanti che popolano quell’immensa isola, l’autrice ci rende vive le tensioni e i pregiudizi tra chi vive l’area più sviluppata (quella attorno alla capitale nella costa occidentale) e le aree meno avanzate della costa orientale. Tensioni e pregiudizi che incrociano, anche grazie alle pagine più sociologiche del romanzo, il tentativo della protagonista narrante di riconoscere il proprio posto in seno alla società. Cercando di sfuggire al dato statistico per il quale la discesa agli inferi si compie maggiormente con l’arrivo della luce di giugno e spesso in coincidenza con l’arrivo del sole di mezzanotte.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    11 Febbraio, 2024
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Donne e romanzo

« Qui dunque, Mary Beton smette di parlare. Vi ha raccontato come è arrivata alla conclusione – conclusione prosaica – che se dovete scrivere romanzi o poesia è necessario che possediate cinquecento sterline l’anno e una stanza con una serratura alla porta. »

Dello scritto di Virginia Woolf, “Una stanza tutta per sé”, del 1928, colpiscono la lucidità dell’analisi del problema, la chiarezza delle argomentazioni, la piacevolezza dello stile.

Il celebre saggio si basa su due conferenze tenute da Woolf presso la Arts Society di Newnham e la Odtaa di Girton sul tema, complesso e affascinante, “Donne e romanzo”.

Partendo dall’analizzare la situazione a lei contemporanea, riguardante la letteratura e le donne, Virginia Woolf delinea un quadro profondamente maschilista e patriarcale della società in cui vive, che ha portato inevitabilmente ad una affermazione molto più lenta e difficoltosa nel tempo delle scrittrici rispetto agli scrittori maschi. La funzione della donna, per secoli, è stata quella si specchio riflettente per la figura dell’uomo; lo scopo della donna si è esaurito nel compiacere il senso di superiorità del maschio.

Non sarà quindi difficile scoprire la vera causa per cui nel corso del tempo quasi nessuna donna ha scritto poesia o opere teatrali. Certamente non si tratta di inferiorità intellettuale, di minori capacità del cervello femminile, come, purtroppo, è stato anche pensato e dichiarato dalla società maschilista e patriarcale. Molto semplicemente invece, sottolinea Woolf, la ragione va cercata nella disparità di condizioni materiali, che hanno portato alcune donne, anche dotate dello stesso ingegno creativo dei corrispettivi maschi, a dover rimanere in disparte, mute, in silenzio, costrette a privarsi di impegno intellettuale. Ecco spiegato perché è stato impossibile che una donna abbia scritto le opere di Shakespeare, all’epoca di Shakespeare.

E una volta trascorsi i secoli, e, arrivati finalmente al momento in cui alcune coraggiose donne, appartenenti alla classe media hanno rotto il tabù e hanno scritto, perché si sono cimentate con successo soltanto nel genere letterario del romanzo? Anche in questo caso occorre cercare la risposta non in questioni fisiologiche o in sospette disparità intellettuali fra i due sessi, ma nel fatto che, nell’Ottocento, una famiglia della classe media possedeva una sola stanza di soggiorno per tutti i suoi componenti e una donna che volesse scrivere era costretta a farlo soltanto nel soggiorno comune, dove veniva continuamente interrotta dalle incombenze familiari e dai visitatori. Inoltre, l’educazione letteraria che una donna riceveva agli inizi dell’Ottocento era unicamente un’educazione rivolta allo studio del carattere e all’analisi delle emozioni.

«Da secoli la sua sensibilità veniva educata sotto l’influenza della stanza di soggiorno comune.»

Nonostante tutto questo, possiamo dire, abbiamo avuto Jane Austen, Emily e Charlotte Bronte, George Eliot.

E siamo giunti ai primi decenni del Novecento, quelli in cui scrive Virginia Woolf. Qualche progresso era stato fatto rispetto al passato, ma ancora in quel momento pochissime donne erano laureate, quasi nessuna era una professionista, per non parlare dell’affermazione in politica, nell’esercito, nella diplomazia o nelle alte sfere economiche. Eppure erano pronte per entrare nella stanza della loro forza creativa.

Potremo mai dare una voce alla sorella di Shakespeare? E a tutte le donne che invece di studiare, pensare e scrivere si sono dedicate a allevare bambini, lavare i piatti e accudire genitori anziani? Secondo Virginia Woolf, che scriveva circa un secolo fa, sì, possiamo farlo. E effettivamente, lo stiamo facendo.

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68 Opinione inserita da 68    11 Febbraio, 2024
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Quale colpa?

..”In realtà aveva le stesse paure degli altri, anche di più, compresa quella di guardare gli uomini in faccia”..

..” era molto stanco, era sceso nel profondo di stesso”..

Alain Poitaud, direttore di una delle riviste più lette in Francia, è un uomo arrivato che guadagna soldi a palate e che si accosta alla gente con un’ intimità esagerata e apparente, sposato con Jacqueline, che chiama Micetta, una donna immobile, assente, spesso silente, una semplice presenza.
La sua vita va di fretta, donne di ogni risma nel suo letto, frequentazioni importanti, epicentro del suo mondo, ma una sera di ottobre tutto e’ destinato a cambiare quando sotto casa si imbatte in un ufficiale giudiziario e in una notizia sconvolgente, Jacqueline ha confessato l’assassinio della sorella minore Adrienne con un colpo di pistola per ritirarsi, da quel momento, in un assoluto silenzio.
Invero Adrienne, giovane donna con dei grandi occhi inespressivi, e’ stata segretamente la sua amante, una storia nata per caso, finita da un anno, quale la causa del suo assassinio, gelosia, vendetta, inganno, e perché Micetta non gli parla più’ se non per scusarsi?
Inizia un’ altra storia, scontata prosecuzione della stessa, la colpevolezza di Jacqueline, rea confessa, è manifesta, i sensi di colpa di Alain non tardano a manifestarsi, mascherati da una vita dedita ad altro, svuotata di tutto, colma di niente, assente dal se’ più profondo. Ogni accusa è infamante, la propria estraneità evidente, che ci sia un’ altra verità da rincorrere?
Alain entra in una narrazione inversa che scava nel passato, fotogrammi di un’ infanzia infelice che vorrebbe cancellare, un matrimonio senza amore, rapporti famigliari scontati e formali, un figlio che vive altrove, il desiderio di riscatto, la paura della solitudine, una convivialita’ artificiosa per non guardare gli altri, decine di donne delle quali conservare vaghi ricordi, una continua anestesia alcolica per cancellare l’ evidenza.
Puo’ uno stato di innocenza tingersi di colpevolezza, invischiato in un fatto di cronaca nera che non lo riguarda ma che lo sottopone allo sguardo e al severo giudizio degli altri, al sospetto dei parenti, come può accettare questa colpa, inviso persino a se stesso?
Perché questo d’ imbarazzo, in fondo non ha fatto niente, il delitto appartiene al passato, non avrebbe potuto intervenire, da che cosa è scosso e in che modo si sente coinvolto? Che abbia paura della solitudine, di non contare più niente, lasciato in disparte, caduto nella dimenticanza, impossibilitato a frequentarsi, di certo si abbandona a una fuga tra un caffè e l’ altro, svuotato, ferito, vittima di se stesso, al termine di una recita impietosa e insensata, tutto, come sempre, nasce da se’.
Quale assassinio si è realmente compiuto, chi il vero colpevole, come vivere e sopravvivere quando predomina l’ insensatezza?
E allora cosa c’è di peggio di un ininterrotto rimuginio, di un’ assenza definitiva, nel rivedersi uno qualunque sostando in uno stato di indifferenza, inevitabilmente perso, abbandonato a una solitudine molesta.
Simenon scompone e ricompone, in una dettagliata e sopraffina indagine psicologica, un thriller che già possiede un colpevole ma che ricerca le cause primarie di questo gesto estremo. Invero tutti gli indizi di una vita confluiscono in uno stato di colpevolezza non punibile perché figlio di un preciso modus vivendi e operandi e l’ estraneita’ dai fatti e’ inversamente proporzionale al proprio sentire.
In una solitudine e inquietudine sempre più’ manifeste un contorno spoglio ed essenziale riversa sul protagonista un’ onta insostenibile, e quella paura che

..”da sempre gli apparteneva e che adesso tutti conoscevano”..

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68 Opinione inserita da 68    10 Febbraio, 2024
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Quale identità’ ci appartiene


. …” Non importa quanto dai da mangiare al lupo, guarderà sempre verso il bosco. Siamo tutti lupi nell’ impenetrabile bosco dell’eterno”…

Identità, fratellanza, famiglia, scienza, bioetica, immortalità, Karl Ove Knausgard scrive un’ opera enciclopedica tra Norvegia e Russia, richiama un tempo reale e sentimentale, vita e destino di due fratelli di padre, Syvert e Alevtina, per quarant’anni ignari l’ uno dell’altra, riavvicinati da alcune lettere che ne svelano origine e comunanza.
Vite a distanza per comprendere quello che non è stato, cosa è mancato, cosa resta, chi si è realmente.
La prosa di Knausgard è un flusso inarrestabile di dettagli, gesti quotidiani e pensieri difformi, la coscienza dei protagonisti percorsa da un’ inquietudine manifesta mentre grandi temi, origine, identità, senso del vivere e del morire, occupano e percuotono il palcoscenico dell’ esistenza.
Syvert, ventenne rientrato a casa dopo il servizio militare, è un giovanotto acerbo e senza prospettive, che vive alla giornata con una dose di superficialità e spensieratezza, uscite con gli amici, birra e calcio, amori paventati e idealizzati. Dovrà cambiare rotta, crescere in fretta, occuparsi del fratello dodicenne Joar, un’ anima ipersensibile e intelligente che va preservata dal mondo in assenza della madre malata e del padre, morto da dieci anni.
Un padre che Syvert non ha mai conosciuto realmente, che gli appare in sogno, del quale non ha ricordi evidenti, che ha vissuto un’ esistenza parallela e amato un’ altra donna con cui avrebbe voluto costruire un futuro in Russia. La sua vita cambia, il fantasma paterno si ripresenta, alcuni ricordi si risvegliano insieme a dubbi e domande in un presente in cui Syvert deve sostituirsi ai genitori, cercarsi un impiego, vivere nel reale.
Alevtina è una donna affascinante e controversa, con un passato da biologa evoluzionista, un figlio ventiseienne e un altro di cinque, una relazione giovanile sepolta e un nuovo compagno, dolce e affidabile. Percorsa in gioventù da un’ inquietudine intellettiva che spazia dalla letteratura alla biologia, sceglie un approccio scientifico che spieghi l’ origine dell’esistenza, per cedere a un senso di fallimento personale e dedicarsi alla professione medica sulle orme della madre defunta.
In lei vive il rimpianto di non averla conosciuta e capita abbastanza, di averla condivisa con altri, di non poterla più abbracciare, ancorata a un padre rinchiuso nella propria testa e nei libri, totalmente disinteressato alla natura.
In lei emerge una menomazione genitoriale evidente, l’ idea di un’ altra famiglia, la possibilità che tutto crolli improvvisamente.
Chi siamo realmente e che

…” cos’è la vita oltre il vuoto desiderio di colmare il vuoto”…?

C’è una vita in natura che scorre a prescindere, che basta a se stessa, cresce, ricopre, si espande, e c’è dell’ altro, pensieri che creano distanza in un’esistenza fondata sul tempo e sulla differenza.
Permane una sensazione forte che tutto sia dentro di noi, che si possa esserci e non esserci, vivere e adattarsi, lasciare andare, adeguarsi, affidarsi alle capacità, accettare i propri limiti, apprezzare quello che non si è scelto.
Inevitabilmente ci si interroga sulla propria identità, sui sentimenti, su che cosa si conosce di se’, pervasi da un senso di solitudine, da un’ allegria malinconica, da sempre in fuga, ignari di non avere pianto abbastanza, ricoperti di finzione, menzogne, terrorizzati dall’ idea di accedere

…” a una stanza completamente nuova nella casa che ero io”….

La resa dei conti ci pone di fronte a uno specchio, in fuga dal ricordo di un padre che non abbiamo conosciuto abbastanza, incapaci di includere gli altri come faceva nostra madre, con la sensazione di non amarsi abbastanza.
La resa dei conti ci siede di fronte, quella metà di noi che un po’ ci somiglia, qualcuno che non vuole mentire, parole che non sanno di circostanza e una domanda:

…“ Chi sei?”…

E’ questo l’eterno dilemma, la ricerca delle proprie origini, di chi ha contribuito a determinare quello che siamo. Difficile dirlo in un percorso controverso che ci ha sottratto al nostro io più profondo, con assenze sostanziali, una vita che poteva andare diversamente.
Spogliati e soli, persi gli affetti più cari, gettata la maschera di superficialità e inconcludenza, vagando nell’ ombra, indugiando davanti a una porta spalancata su qualcosa che ci appartiene,

…” tutti portiamo dentro la nostra morte”…

ma c’è una stella lucente che risplende in cielo improvvisa e la morte in quel mentre si assenta.
Karl Ove Knausgard conferma il proprio talento, un flusso narrativo ininterrotto, la rara capacità di penetrare e descrivere il cuore dell’ esistenza partendo dal quotidiano, scavando nell’io, una sospensione enigmatica e malinconica tra vita e morte che investe i protagonisti oltre la banale apparenza.
È una narrazione complessa rivestita di semplicità, imbevuta di dissertazioni scientifiche e filosofiche ( Il dibattito aperto sull’ immortalità ), che non basta a se’ stessa e che lascia un senso di inquietudine, tra ironia e sarcasmo, che induce alla riflessione, continua, ripetuta, asfissiante, degno erede della grande tradizione nordica.

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68 Opinione inserita da 68    10 Febbraio, 2024
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Quale vita?


…“ nel cielo infinito si estendevano da una parte un mare di ricordi nostalgici e dall’ altra un futuro invisibile, mentre qua e là brandelli di nuvole fluttuavano alla deriva”…

Tre donne, due sorelle ( Natzuka e Makiko) e una figlia ( Midoriko ), un legame sopravvissuto nel tempo, il lento protrarsi di una vita segnata da un sentimento inequivocabilmente al femminile, il desiderio di essere riconosciute nell’ inesorabile lotta tra cambiamento corporale e necessità spirituale, la povertà incollata addosso tra mille difficoltà e perdite premature.
Natsuka è un’ aspirante scrittrice con una vita di parole e di storie da raccontare tra difficoltà economiche, assenze, incognite, desideri, immersa in una sensazione di solitudine e in un crescente e inspiegabile desiderio di maternità per una giovane donna con una spiccata avversione ai legami sentimentali.
Un viaggio confuso e frammentato dentro il nuovo secolo, la scrittura unico amore, passione, divertimento, fuga dal mondo, narcisistica presenza, blocco del presente e visione sul futuro ignorando la possibile relazione tra i ricordi e il bisogno di scrivere romanzi.
Makiko lavora in un bar, esprime una fragilità estrema sfociata nel desiderio di una mastoplastica additiva, la figlia Midoriko non la comprende e comincia a trasferire le proprie emozioni su carta, Natzuko è disinteressata al corpo della sorella, con lei condivide esperienze e ricordi del passato.
Momenti di se’ bambina riemergono, veri o illusori, colori, odori, sensazioni sovrapposte che generano falsi ricordi, reale l’ immagine di una madre in difficoltà che si è data da fare per crescere due figlie in una solitudine estrema.
Passato e presente si intrecciano, il proprio desiderio di madre si scontra con la difficoltà di esserlo, la possibilità di crescere un figlio da single, l’ incapacità di avere un compagno, normali rapporti sessuali, una vita di coppia, una certa stabilità economica, il senso di incompletezza in un futuro incerto la riporta all’ immobilismo abituale.
Come amare, accudire, crescere un figlio, quanto il proprio egoismo rigetta l’ amore per chi non ha chiesto di nascere, che cosa intende Natzuko quando dice di volere incontrare il figlio, quanto conta l’ impossibilità di conoscere il proprio padre biologico, quanto i problemi legali e fisici legati alla fecondazione assistita si incastrano con i pregiudizi sociali di una nazione in cui ancora prevale un’ ideologia patriarcale che deprezza la figura femminile?
Natzuka scivola nel tempo accompagnata dall’ amata scrittura, dieci anni di incontri accrescono la sua solitudine consapevole anche se

…” Pur di credere in quel che vuole credere la gente è disposta a ignorare il dolore e la sofferenza altrui”…

Il ritorno in una Osaka completamente mutata le riconsegna i luoghi dell’ infanzia richiamando vecchi ricordi, lo scorrere dei giorni dissolve assenze protratte, la morte ritorna insieme a fantasmi e tormenti interiori, gli anni rafforzeranno il proprio sentimento di unicità e una presenza consapevole nella certezza di un amore.

…” lei, quella creatura unica e irripetibile era lì con me e non nei miei ricordi, nella mia fantasia o altrove. Era lì con me, in quel preciso momento, e non aveva incontrato nessun’altra persona prima di me, dov’eri, sei venuta da me?, immaginavo di chiederle, e continuavo a fissarla mentre piangeva sul mio petto. Lei, la mia bambina”….

“ Seni e uova “ ci consegna un preciso ritratto di Mieko Kawakami a partire dai molti riferimenti autobiografici in esso contenuti. Una scrittura forte, cruda, anche violenta ma che riesce a cogliere e a trasferire anche un senso di infinita dolcezza e una certa dose di umorismo spesso paradossale.
L’autrice è nota in patria per le proprie posizioni rigidamente femministe, per la critica a una società giapponese tuttora maschilista e retrograda, denunciando la condizione di subordinazione femminile, i suoi romanzi inseguono una profonda ricerca interiore ( filosofica e religiosa in primis ) privilegiando l’ unicità d una vita complessa, fragile, mai banale, sorretta dalla forza della ragione e del sentimento.



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