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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    12 Marzo, 2024
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Fine asprezza

Una donna che, dopo una vita dedicata alla famiglia, si ritira in mezzo alla natura per godere in solitudine degli anni di riposo che le sono rimasti; una nipote giunta all'improvviso a dare un tocco di vitalità a quest'eremo; un'amica che è stata quasi una sorella e che dopo tanti anni ricompare reclamando, ormai in tarda età, quel legame che è stato così forte tanti anni addietro. Sullo sfondo l'Himalaya, tutto intorno un'atmosfera che sa d'altri tempi. Con ingredienti di questo tipo, è più che lecito aspettarsi, ad un primo impatto, un bel romanzo al femminile, tutto buoni sentimenti, legami familiari, senso dell'amicizia, immerso nella natura e nelle tradizioni indiane. Niente di tutto ciò, tuttavia, appartiene a questo breve romanzo di Anita Desai. A partire dall'ambientazione, un desolato pendio divorato dagli incendi e invaso da ogni tipo di rifiuto, liquame chimico, carcassa di animale, infestato da fastidiosi insetti e da famelici sciacalli. Per passare poi ai personaggi, Nanda Kaul, la protagonista principale, chiusasi in se stessa, isolatasi dal mondo, che vede nell'arrivo della piccola pronipote Raka nient'altro che fastidio e nelle telefonate e nelle visite della vecchia amica Ila Das soltanto scocciature. La stessa ragazzina appare scontrosa, isolata, silenziosa, capace di sentirsi a suo agio soltanto durante le sue scorribande solitarie in mezzo alla natura. Ila Das, che nasconde dietro un ostentato spirito battagliero e una decaduta nobiltà le ferite di una vita di stenti, sofferenza, fallimento. Solo un senso di profonda solitudine accomuna le tre donne, un sentimento quasi viscerale, innato, che soltanto chi è capace di sentirsi solo anche in mezzo agli altri può comprendere appieno. La tragedia è dietro l'angolo, sembra poter spuntare all'improvviso ogni volta che si gira pagina. Eppure, anche se nel complesso può essere definito aspro, duro, il romanzo risulta molto interessante, a tratti anche avvincente, caratterizzato da uno stile di scrittura asciutto ma al tempo stesso fine, da un'ottima caratterizzazione dei personaggi, da una profonda capacità di esplorazione dell'animo umano. A farla da padrone è un forte senso di malinconia che sembra incombere sulla condizione umana, così come incombe, insidioso, spietato, potenzialmente mortale, il pericolo del fuoco sulla montagna.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Marzo, 2024
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Misteri e solitudine metropolitani

Arrivato in Italia più di vent’anni fa, grazie alla casa editrice palermitana Sellerio, il romanzo "L’isola nello spazio" apparve in lingua originale nel 1964. Più che un romanzo breve, un lungo racconto la cui lettura si rivela però appassionante al pari di quella di scritti di ben più ampio respiro.
L’autore, Osman Lins (1924-1978), viene ricordato tra gli scrittori brasiliani che contribuirono al rinnovamento della letteratura del paese sudamericano; la sua penna ha dato vita a una trama in cui finiscono per confluire «un enigma degno di un romanzo poliziesco» – come sottolinea il curatore del libro Angelo Morino nell’interessante postfazione – ed elementi riconducibili alla letteratura fantastica. Fin dall'incipit si puntano i riflettori sui due blocchi, entrambi di venti piani, dell’Edificio Capibaribe, divenuto all’improvviso teatro di una misteriosa morìa tra i suoi inquilini, sullo sfondo della grande città di Recife, nel nord-est del Brasile, sull’Atlantico.

«Nel settembre del 1958, la scomparsa di Cláudio Arantes Marinho, sposato, quarantunenne, lasciò attonita la popolazione di Recife. Non per la scomparsa in sé, ma per le circostanze in cui si produsse e che dovevano trasformarsi nel punto culminante degli oscuri fatti di cui stampa e radio, per diversi mesi, si sarebbero occupate, facendo sì che rimanesse in prima pagina il maestoso Edificio Capibaribe, dove Arantes Marinho abitava. All’inizio, si credette che fosse morto […]».

Nello spazio di poche decine di pagine Lins ha saputo esprimere moltissimo, affrontando i temi dell'infelicità e della crisi esistenziale. La profonda solitudine di Antares, il protagonista, e la sua amarezza vengono rese alla perfezione e il lettore non può non restarne colpito. Il piano da lui elaborato per scomparire dalla vecchia vita e andare così alla ricerca di una nuova e più gratificante esistenza sa dell'incredibile; l'idea di fondo ricorda indubbiamente quanto messo in atto anche dal protagonista de "Il fu Mattia Pascal". Quanto all'epilogo, il mistero degli improvvisi decessi all'interno dell'Edificio Capibaribe viene svelato, e si prende amaramente atto che il vile denaro ha fatto la sua parte.
Nel complesso, una lettura scorrevole e di notevole piacevolezza; un piccolo, grande testo che merita di essere (ri)scoperto e apprezzato al pari del suo autore.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    11 Marzo, 2024
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Patto di sangue

La scrittura di questa autrice è avvolgente come i venti del Sud ed i suoi personaggi, specialmente quelli femminili, sono dei quadri, splendidi ed in continuo movimento. In questo episodio entriamo in contatto con le famiglie tentacolari del Sud Italia, ci ritroviamo avvinghiati in un patto di sangue, che è un groviglio stretto che vincola tre giovani ragazzi da più di vent’anni. Fra fregi barocchi, paesaggi costieri meravigliosi e vento di scirocco, scopriamo le pieghe di un Salento inaspettato ed il commissario Chicca Lopez ci guida, con la pazienza di una formica, nella ricostruzione di una vecchia storia di amicizia, di amore, ma anche di odio. Durante il racconto della rivelazione resti agganciato, perché sai che ti attende qualcosa che non avevi previsto. Così come verso la fine veniamo sorpresi da un abbraccio in un certo senso materno, che ci fa assaporare il calore della gratitudine, e che darà nuovi colori ad una donna che stiamo imparando ad amare, come Lolita o forse di più.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Marzo, 2024
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Artista vendesi

Ho recentemente riletto Le illusioni perdute di Balzac, romanzo che decenni fa, non mi aveva colpito particolarmente. Stavolta la lettura è stata molto più interessante. Lucien, giovane poeta pieno di grandiose speranze, pensa che gli siano dovuti amore e successo per il suo indubbio talento letterario. In realtà amore e piacere corrono su binari divergenti, così come arte e successo. Se si cercano piacere e successo è inevitabile oltre che necessario scendere a compromessi con la società, compromessi che svalutano umanamente chi li accetta. Arte e artista non meritano un piedistallo per la superiorità conferita dall'Arte, ma per la loro capacità rapace di saltarci sopra imponendo la propria opera alla società che la rifiuterebbe. Tuttavia questa imposizione a fin di bene comporta la realistica desolante constatazione della propria pochezza umana, la perdita di ogni illusione su se stessi, e uno stravolgimento della propria natura. . Per ottenere ciò a cui pensa di avere diritto , l'artista deve sacrificare la propria purezza e i propri valori. A quel punto può ottenere quello che vuole, ma non quello che merita, perchè il compromesso lo ha reso simile alla società su cui si erge, e dunque la società non ha più motivo di temerlo e di tagliargli le gambe.
Triste, realistico, cinico. I personaggi non sono simpatici: Lucien è troppo vanitoso e egoista, la sorella troppo pronta al sacrificio come il marito David, i rapporti umani sono conditi di cinismo che è come il peperoncino e rende tutto più interessante. Il poeta scrive poesie d'amore e sembra non sapere nulla d'amore. Sembra destinato all'inquietudine e al tradimento delle persone che lo amano e che forse, a modo suo, ama. La società è descritta in modo molto realista, e la funzione dei giornalisti è molto interessante. Il potere dell'informazione li rende potenti, quindi appetibili sul mercato delle notizie e ovviamente in vendita. Certi dialoghi sono un po' datati, ma non superati. Alla fine del romanzo sembra che l'artista se vuole esserlo con la a maiuscola deve avere forza di carattere e deve rifiutare ogni compromesso, a costo di non pubblicare niente. In un certo senso i due modelli opposti sono rappresentati dai due amici. Lucien in vendita e David integerrimo. Quest'ultimo verrà imbrogliato da tutti, ma alla fine del romanzo si guadagnerà pace interiore e solidità affettiva.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Marzo, 2024
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Michaela e Kacey

«[…] L’unica cosa che mi stupì fu che fosse stata capace di tagliarmi fuori dalla sua vita in quel modo. Che fosse riuscita a nascondere, perfino a me, i suoi segreti più importanti.»

Il suo nome è Michaela Fitzpatrick ed è una poliziotta che pattuglia le strade di Kensington, Philadelphia. Non è un luogo semplice dove lavorare, tra queste strade impervia la criminalità e dilaga l’eroina. Sua sorella Kacey non è altro che una delle tante vittime di questa droga e sono ormai cinque anni che le due non si parlano. Michaela ha un figlio di cinque anni di nome Thomas, è un bambino intelligente e molto più grande dell’età che dimostra, ella cerca di proteggerlo come meglio può dalle minacce e dalle bruttezze del mondo. Tuttavia, Michaela e Kacey non hanno avuto un’infanzia semplice. La madre è morta a causa della droga che erano piccolissime, il padre a sua volta era un tossicodipendente e la nonna, Gee, tutto è tranne che una figura affettiva e premurosa. Le prende in casa e le cresce tra mancanze e arrabbiature e sempre rinfacciando loro quel che ha fatto per tirarle su.

«Il peso di Gee, alla cui occasionale dolcezza ci aggrappavamo con tutte le nostre forze, ma le cui crudeltà si ripetevano quotidianamente. Il peso della nostra povertà.»

Kacey è ancora adolescente quando entra nel giro, la sorella più grande, invece, è seria e priva di grilli per la testa, vorrebbe studiare e andare all’università ma Gee non glielo permette. Dopo aver incontrato Simon in questi anni di difficoltà e lontananza da Kacey, decide di entrare in polizia.
Ma Kacey è scomparsa. Di lei si sono perse le tracce e nella città si stanno susseguendo diversi omicidi di donne tutte tossicodipendenti, tutte dimenticate, tutte prede facili. E se tra queste prossime vittime ci fosse anche sua sorella? Non può permetterlo, deve trovarla.

«Nelle sere in cui lei era a casa ci infilavamo nello stesso letto, ciascuna con il suo segreto, divise da un confine, un baratro che si dilatava con il passare delle settimane.»

“I cieli di Philadelphia” è uno di quei romanzi che si aprono al lettore sotto molteplici sfumature e che solo in apparenza sono soltanto polizieschi. Perché se da un lato c’è il giallo che si mostra al lettore come un omicida da arrestare, dall’altro c’è il legame tra due sorelle da ricostruire, da comprendere, da analizzare ed ancora c’è una società che non perdona e che trascina nel baratro tra infanzia infelice e incapacità di donare un riscatto e un futuro consapevole.
È un libro tosto, duro, crudo. Nulla risparmia, nulla cela. È uno di quei libri che ti trafigge pagina dopo pagina e che ti accompagna in una ballata fatta di dolore ed empatia. Tanti i nodi da sciogliere in questa matassa che si ricompone passo dopo passo.

«In altre parole, una ragione di vita. Qualcuno da far sentire orgoglioso. Non volevo privarla di questo. Non volevo spegnere quella piccola luce.»

Il puzzle si ricompone poco alla volta, alternando presente e passato e fornendo al lettore i tasselli per ricostruire il quadro d’insieme. “I cieli di Philadelphia” è uno di quei libri da non sottovalutare, è un testo pieno di emozioni, perfettamente tratteggiato, con personaggi vividi e tangibili. Uno spaccato di realtà da conoscere.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    09 Marzo, 2024
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Un velo di leggerezza

Secondo episodio della serie del commissario Ricciardi. Il delitto al centro dell’indagine è quello di una cartomante, un po' imbrogliona. Molti sono i personaggi che ruotano, come in una girandola nel corso della vicenda. Nella lettura a volte perdi un po' il filo, anche perché in alcuni punti ci sono flashback, che ci permettono di entrare meglio nella storia della vita del commissario e dei personaggi a lui più vicini, in alcuni punti ci sono voci parallele, quelle dei morti, che sono la sua ossessione, viste le raccapriccianti visioni di fantasmi che lo perseguitano. Colpisce, e davvero tanto, la malinconia intrinseca di questo uomo, la sua solitudine ed il suo bisogno di voler vivere una vita normale. Colpiscono, come uno schiaffo, le riflessioni sulla morte violenta e sulla morte naturale. Solo la primavera, con la sua leggerezza, porta un velo di leggerezza che è speranza, anche per il futuro personale di questo uomo, a cui ci stiamo già affezionando.

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Fantasy
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    08 Marzo, 2024
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Come piazzare nella sinossi un triangolo in un YA

Dopo essere rimasta piacevolmente colpita da "Raybearer", ero molto curiosa di scoprire come Ifueko avesse completato la sua duologia d'esordio sia perché dubitavo ci fosse abbastanza materiale da giustificare un sequel lungo quanto il primo volume, sia per la prossima pubblicazione in Italia: una volta tanto fa piacere poter dare la propria impressione su un libro prima della sua uscita.

La narrazione in "Redemptor" riprende appena qualche giorno dopo la conclusione del precedente capitolo, e ruota in gran parte attorno alla missione affidata a Tarisai dagli abiku: formare un suo personale concilio legando a sé i sovrani vassalli dell'impero di Aritsar. Nel frattempo la ragazza è determinata a sfruttare al meglio il potere nelle sue mani per migliorare la vita dei cittadini più umili, vessati dai nobili che controllano le principali attività produttive. Fanno da sfondo alcune parentesi romantiche molto carine, ma per nulla imprescindibili a livello di trama.

Premetto che per le prime cento pagine circa, questo sequel non mi sembrava per nulla all'altezza di "Raybearer", almeno per come lo ricordavo: avevo l'impressione venissero aggiunti troppi elementi narrativi in modo casuale e caotico. Pian piano il romanzo acquista però un suo ritmo ed i nuovi personaggi ottengono una giusta dimensione; di conseguenza, la seconda metà abbondante del volume è riuscita a convincermi, con qualche piccola riserva di cui parlerò più avanti.

Alcuni aspetti che già funzionavano nel primo libro ritornano, perfino migliorati! è il caso della rappresentazione -gestita in modo maggiormente approfondito- e della caratterizzazione della protagonista, che riesce a crescere molto soprattutto per quanto riguarda la consapevolezza con qui affronta il suo nuovo ruolo. Apprezzabile anche l'analisi dei suoi traumi passati (che riguarda in realtà diversi tra i personaggi principali) e l'allegoria della sindrome dell'impostore, qui personificata dagli ojiji che le mettono continuamente pressione per farla sentire in difetto a prescindere dal suo impegno.

Mi sono piaciuti molto anche gli emozionanti momenti di riflessione in cui i personaggi si confrontano tra loro; qui vediamo approfondito tra gli altri il rapporto di Tarisai con alcuni personaggi già presenti nel primo libro (in primis Dayo, Ye Eun e Sanjeet) e le sue interazioni con i regnanti dei quali dovrà ottenere la fiducia. Mi azzardo a dire di aver preferito questa seconda famiglia della ragazza, seppur venga mostrata poco, perché adesso è lei a doversi conquistare l'affetto dei suoi fratelli e sorelle: non apprezzare Dayo era praticamente impossibile, mentre Tarisai ha diverse ombre nel suo passato quindi devono essere fatti dei passi in avanti da entrambe le parti per arrivare infine al legame familiare.

Oltre ad una partenza non troppo convincente, sull'altro piatto della bilancia troviamo l'inserimento di un inutile triangolo amoroso (potendolo intravedere già dalla sinossi, i miei occhi si sono immediatamente alzati al cielo!) e di un numero eccessivo di nuovi personaggi in un cast abbastanza numeroso di suo; come conseguenza alcuni di quelli rimasti dal primo volume vengono purtroppo accantonati per gran parte del libro.

Per quanto riguarda il sistema magico, vediamo anche qui dei nuovi elementi, e non tutti risultano efficaci perché la sensazione è che siano troppo convenienti e utili a far proseguire la narrazione in determinate direzioni quando rischia di arenarsi. Nonostante si riprenda in corsa, la trama mi è sembrata decisamente confusa in più punti, e nonostante questo rimane alquanto prevedibile: spero che nei suoi prossimi lavori la cara Jordan possa migliorare da questo punto di vista.

L'ultima nota (dolente) è riservata all'edizione. Se per la mia copia di "Raybearer" avevo solo lodi, le modifiche apportate al seguito non mi sono affatto piaciute. In particolare, l'utile glossario è stato eliminato quando si sarebbe dovuto al contrario ampliarlo, e la mappa che rappresentava l'intero continente è stata sostituita da una piantina della capitale, esteticamente bellina ma del tutto inservibile.


NB: Libro letto in lingua originale

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Racconti
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    07 Marzo, 2024
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"Napoli, capitale dell'anima".


Dopo aver letto il "vocabolario napoletano di effetti personali" (così recita il sottotitolo del divertente saggio di Erri De Luca), ho ricordato quella famosa frase di Luciano De Crescenzo che faceva : "Dovunque sono andato nel mondo, ho visto che c'era bisogno di un poco di Napoli". Ecco, Napoli è Napoli, città unica, dove non esiste una parola dialettale che indichi la noia. E di parole e detti dialettali napoletani De Luca ne sciorina ben 101, accompagnati da significativi disegni e spiegati con ironia, sapienza frizzante e note storiche che spaziano dalla fondazione della città da perte dei Greci fino ai tempi moderni, guerre mondiali comprese. Si comincia con " 'A capp' abbascio" che indica il moto del cadere, e qui De Luca inizia a intrattenere il lettore con una esperienza personale, quella di una assistente di volo che, alla richiesta del suo nome, rispose "Karim" (in napoletano "cadiamo") , spaventando a morte i passeggeri. E si continua poi, in ordine alfabetico, con Allucco (strillo), Ammappucciato ( stropicciato) , Ammuina ( baraonda apparente: qui voglio citare un mio ricordo, il famoso ordine di un ammiraglio della flotta borbonica, "facite ammuina", per dare l'impressione di un gran darsi daffare, in presenza del sovrano, senza nessuna pratica utilità). E via di questo passo. Alcune espressioni sono ben note anche a chi non è napoletano (ad esempio: Iamm' , Omm' e niente, Pazziare, Scètate, Scuccia', Zeffunno"...), altre invece sono veri e propri neologismi, incomprensibili a chi non è del posto ( Artéteca, Bafuogno, Cusetore, Frantellicco, Ggrare, Paparacianno, Sbafantiello, Secutasòrece, etc. : lascio al lettore la sorpresa di capirne il significato). Ogni voce è accompagnata da un commento, serio o scherzoso, dell'autore, e, come già accennato all'inizio, da ricordi di momenti storici importanti vissuti dalla città di Napoli: i tempi dei Borboni, con il sovrano disperato per la scarsa combattività delle sue truppe, anche cambiando divisa (" comm'e vieste 'e vieste, tanto fuieno sempe!"), le emigrazioni di fine Ottocento e primi Novecento (" pe' terre assai luntane" !), i bombardamenti nella seconda guerra mondiale e la fuga nei rifugi ( e la nonna dell'autore, che seraficamente non si muoveva dalla sua camera da letto), l'insurrezione popolare del '43 e la cacciata dei tedeschi, l'arrivo degli Americani e l'ospitalità dei napoletrani in cambio di vettovaglie, la VI flotta nel porto di Napoli ed i commerci in dollari al posto della lira, gli anni della Repubblica e la sopportazione paziente di diffamazioni gratuite. Non mancano riferimenti frequenti alle più belle poesie di Salvatore Di Giacomo e Raffaele Viviani, alle canzoni di Roberto Murolo, ai film di Totò e di Eduardo De Filippo.
Insomma, citazioni, ricordi familiari, storia napoletana: tutto scorre nelle pagine frizzanti e colte di Erri De Luca. Tanto da far scrivere allo scrittore e regista Stanislao Nievo: " Se ci fosse una capitale dell'anima, tra oriente e occidente, tra sensi e filosofia, tra onore e imbrogli, avrebbe sede qui".

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Marzo, 2024
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"L'Orrore! L'Orrore!"

Pubblicato nella seconda metà degli anni Sessanta e considerato uno dei più importanti romanzi arabi del Novecento, "La stagione della migrazione a Nord" è un romanzo dello scrittore arabo-sudanese Tayeb Salih (1929-2009).
Notevole la diffusione di questo libro non soltanto all'interno del mondo arabo, ma anche a livello internazionale come dimostra il gran numero di traduzioni (una trentina) e ristampe in circolazione che lo hanno ormai reso un classico della letteratura araba moderna. Inoltre, esso s’inserisce nel filone di quella che è stata definita letteratura postcoloniale; non a caso, di colonialismo si parla abbondantemente in queste pagine, così come di decolonizzazione.
Di ambientazione sudanese, la vicenda narrata presenta diversi personaggi, primi fra tutti quello di un anonimo narratore che, dopo una assenza di sette anni, dall’Inghilterra fa ritorno al proprio villaggio sull'ansa del Nilo, in Sudan appunto, e quello del misterioso, nonché ambiguo, Mustafà Sa'ìd che scompare infine durante una piena del grande fiume; di quest'ultimo si svela a poco a poco la vicenda (sarà lui stesso a raccontarla), attraverso la quale l'autore affronta appunto il tema dell'identità, del ritorno alle radici e del rapprorto Oriente-Occidente o, se si preferisce in questo caso, Nord-Sud.

[…] Le navi hanno solcato le acque del Nilo per la prima volta portando i cannoni, non il pane, e le ferrovie sono state costruite in primo luogo per trasportare i soldati. Hanno fondato le scuole per insegnarci a dire “sì” nella loro lingua. Ci hanno portato il germe della più grande violenza europea di cui il mondo non aveva mai visto l’eguale, quella della Somma e di Verdun, il germe di un male assassino che li ha colpiti più di mille anni fa. Sì, signori, sono venuto a voi da conquistatore fin dentro casa vostra. Una goccia del veleno che avete iniettato nelle vene della Storia. Io non sono Otello. Otello era una menzogna”.

Si tratta di un romanzo duro, inquietante e, senza dubbio, anche molto complesso (sia per i suoi contenuti sia per la struttura narrativa che procede attraverso richiami, anticipazioni, piani temporali sfalsati); nonostante tale complessità generale, l'affascinante scrittura di Salih riesce a mantenere vive l'attenzione e la curiosità del lettore.
Appropriato l'accostamento al celebre romanzo "Cuore di tenebra" e infatti, a mio parere, la nota esclamazione di uno dei personaggi di Conrad («L'Orrore! L'Orrore!») può ben adattarsi anche a quanto a un certo punto viene raccontato; del resto, la storia narrata da Salih - quella di un nero che arriva nel vecchio continente - sembra capovolta rispetto a quella narrata da Conrad ed espone come una sorta di reazione all'imperialismo occidentale, anzitutto sul piano sessuale. Anche la presenza del grande fiume, dispendatore di vita e morte al tempo stesso, finisce per accomunare questi due grandi romanzi.
Nel complesso, un'ottima lettura, anche se, in verità, non la consiglierei come primo avvicinamento alla letteratura araba.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    06 Marzo, 2024
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Ladri di polli

Certi autori stanno ai loro personaggi più fortunati perché, tra l’altro, le loro creature appartengono intimamente alle location in cui l’autore sceglie di farli agire: che è in genere una città che lo scrittore conosce al meglio, non di rado quella di origine del narratore.
Succede così per il Montalbano di Camilleri, siciliano ed intrinseco alla sua Vigata; per il commissario Luigi Alfredo Ricciardi di Maurizio De Giovanni, che agisce nella Napoli degli anni Trenta, in pieno regime fascista, o nella Partenope dei nostri giorni con la squadra investigativa detta dei Bastardi di Pizzofalcone; o ancora per il vicequestore Rocco Schiavone di Antonio Manzini, che è in servizio coatto effettivo in quel di Aosta, per un incidente di percorso, ma è un “romano de Roma” purosangue, ed alla capitale appartiene e riconduce il suo substrato vitale.
Infine, è di Milano, e tra le righe soprattutto di Milano si parla nella serie che vede protagonista Carlo Monterossi, personaggio dall’esistenza comoda e privilegiata dei romanzi ancora più fortunati di lui a firma di Alessandro Robecchi.
Robecchi è narratore abile e consumato, con scrittura affabile, un inciso divertente e godibile, ha una prosa piana e tranquilla, talora anche avvincente, ma per lo più articolata.
Intendo con questo sottolineare che Alessandro Robecchi è bravo a giocare su più tavoli, le sue trame cioè non sono mai uniche, è in grado di produrre come pochi altri una storia esauriente, ampia e spaziosa di suo, di piacevole lettura ed esaustiva di per sé. Però il nucleo principale dei suoi romanzi è come un grande bacino artificiale, che si riempie perché alimentato da tanti rivoli. Questi, come fiumi confluiscono a riempirlo ognuno con un proprio percorso, più o meno irto di ostacoli, dislivelli, curve e bruschi salti o cambi di direzione. Si crea infine una caterva di combinazioni, che allorché si aprono le chiuse del bacino, generano una cascata di fatti che formano un tutt’uno lineare, originale, logico, si ricostruisce un lago più in basso, al termine del romanzo, sulla cui superficie si riflettono i fatti e gli antefatti, i protagonisti ed i comprimari, a creare un paesaggio lacustre chiaro, limpido, incantevole. Il suo ultimo lavoro, “Pesci piccoli”, stavolta magari richiama un mare, in cui vivono tante specie ittiche, talora le più interessanti sono quelle piccole, abili a cavarsela contro i grandi predatori, o almeno ci provano, con tanti sotterfugi, dalla fuga al mimetismo.
Su questo mare, naviga il nostro Monterossi.
Carlo Monterossi è uomo dalla duplice personalità, come molti milanesi: con questo, intendiamo che non è affatto un campione di doppiezza, tutt’altro, anzi a modo suo è davvero una bella persona, di gran cuore e intelligenza, lineare e corretta, generoso in particolare nei confronti di coloro, spesso i più semplici e puri di cuore, con cui il destino non è mai stata granché prodigo.
In lui convivono però due anime, o sarebbe meglio dire due metà uguali e speculari, una estremamente pratica, da professionista capace ed affermato, ben adatta alla “Milano da bere” a cui appartiene, quella scintillante degli agi, dei lussi, dei privilegi; e l’altra lirica, malinconica, poetica.
Monterossi sarebbe un uomo semplicemente entusiasta della vita, di cui sa apprezzare le cose belle in tutti i campi, dall’arte alla gastronomia, dai lussi anche frivoli dell’esistenza fino all’accompagnarsi a donne di gran classe, è davvero un romantico sognatore, profondamente intriso di empatia umana. E però il suo vissuto quotidiano è spesso grigio, tetro, deludente ed avvilente, talora violento, lo fa ricredere e lo rende meno empatico e molto più amaramente diffidente.
Troppo intelligente e sensibile da restare indifferente a quanto vive; in un modo o nell’altro infatti, più spesso direttamente, tocca per mano e ha a che fare con le miserie umane, i delitti, gli intrighi, le ingiustizie dei potenti verso i più deboli, le loro insidie, gli inganni, le prepotenze e le soperchierie di quel tipo di umanità tanto potente quanto volgare ed egoista, assai più gravi e nascoste di quelle semplici, stupide, piccole cose la cui spettacolarizzazione lo rende, suo malgrado, un uomo facoltoso. Nell’ambito professionale, Monterossi è libero imprenditore di sé stesso; è dotato di notevole capacità di ideazione e realizzazione di format televisivi che meglio incontrano i favori del pubblico, richiamando succulenti sponsor pubblicitari. Questo nelle sue pie intenzioni: ne apprezza il lato pragmatico, è profumatamente remunerato, quale fortunato autore e ideatore di testi e programmi rotocalco che vanno per la maggiore nelle televisioni commerciali, ma sono diventate, disgraziatamente per la sua dignità e la sua intelligenza, prodotti di alto, altissimo gradimento delle masse, questo sì, ma di quelle ignoranti, ottenebrate dall’etica corrente dei nostri tempi, a base di frivolezze e stupidaggini vari. Carlo Monterossi è l’ideatore di “Crazy love”, un contenitore trash davvero di pessimo gusto, e però con audience da capogiro, che fa le scarpe ad analoghi programmi -spazzatura in giro sulle varie emittenti. Condotto dalla conduttrice Flora De Pisis, emblema perfetta della pochezza della trasmissione, dell’idiozia e della futilità del suo contenuto artistico e giornalistico, ciò nonostante, con seguito crescente. La De Pisis è avida di gloria ed ascolti, è più attrice che conduttrice, per di più falsa e bugiarda, senza alcuna remora morale, è una donna fintamente e posticciamente elegante ed amabile in video, in realtà con una perfida anima ben celata da sguaiata pescivendola, disponibile per il successo a vendersi anche il padre pescatore.
Una trasmissione di cui Carlo Monterossi si vergogna immensamente, prova un dolore lancinante a vederlo in onda, pur essendone stato origine e parte in causa, non riesce a liberarsene a causa delle forti penali contrattuali, cerca in qualche modo di tenerne le distanze, provando a riportarla, senza alcun successo, ad una dimensione più seria, magari sempre frivola e spettacolare, ma con un aspetto a misura d’uomo intelligente e non di massa bruta, e perciò decente, composto, decoroso.
Invano, e allora sopperisce diversamente, estrinseca nella vita fuori dagli spot il suo vero io.
Dentro di sé, nel suo cuore, all’esterno degli studi televisivi, magari anche all’interno della sua lussuosa abitazione, Monterossi mostra la sua vera essenza, la sua anima di milanese doc.
All’ombra della Madonnina vive la vita, e ne partecipa, è sodale con i suoi simili, non se ne sta con le mani in mano, porge la mano quando e se serve per ricomporre un minimo di equità civile.
Collabora allora, più che ufficiosamente, diremmo clandestinamente, con la polizia, o meglio con quei rappresentanti della legge a cui il fato lo ha legato con simpatia, gli agenti di polizia Ghezzi e Carella, e poi con gli amici investigatori privati Oscar Falcone ed Agatina Cirrielli dell’agenzia Sistemi Integrati. E poiché tutto il mondo è un grande paese, e siamo d’accordo, ma Milano è una grande Milano, ecco che allora fatti e persone diversissimi tra loro, come un presunto miracolo di un Cristo ligneo che si illumina, la costruzione di una diga in Africa, che vede impegnate grandi aziende di edilizia con tanto di segrete connessioni politiche, nonché ingegneri, guardie giurate, donne delle pulizie, vecchie sartine ed immigrati addetti al food delivery benché maghi dell’informatica, tutti si intersecano tra loro, si incontrano, si sfiorano, si scontrano in una miriade di combinazioni.
L’esistenza sfugge ad ogni logica, o meglio ne ha una tutta sua, tipicamente beffarda, si crea una reta fittissima di coincidenze, casualità, accidenti, imprevisti, tutte però parte in causa in un progetto super partes perché infine tutti i nodi vengano al pettine. Un’eterna lotta tra il bene ed il male, tra il potere bieco e prevaricante, e coloro costretti a subirlo, in un gioco a rincorrersi tra gente ricca e potente che maneggia affari loschi per milioni contro gente comune, come dire Davide contro Golia, guardie e ladri. Dove le guardie non sono certo gli amici di Monterossi, ma la classe dominante, spesso coincidente con i lerci parassiti della società, e i ladri sono, tutt’al più, ladri di polli, piccoli pesci che si arrabattano come possono per raggiungere, e con gran fatica, la paga da fame, la soglia minima degli ottocento euro mensili, indispensabili per la pura e mera sopravvivenza, quella per cui c’è tanta gente, tantissima, che corre. Ed è già tanto che non vengano ad impiccarci tutti. Perché Milano è una grande metropoli, è come un oceano, e nel gran mare nuotano sardine, tonni, squali. Inutile dire per chi solidarizza Monterossi, che di un pesce piccolo, o meglio di una sirenetta di nome Teresa, finisce pure per innamorarsi. Dopo tutto, è autore di Crazy Love.

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Alessandro Robecchi
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68 Opinione inserita da 68    06 Marzo, 2024
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Rassegnazione….

Un gelo onnipresente e onnicomprensivo, ambientazioni buie, cupe, pesanti, anime perseguitate da tristi presagi, due protagonisti lontanamente vicini fino a toccarsi, un nichilismo che profuma di dissolvenza. In una prosa ripetitiva, ossessivamente lucida, anche delirante, cara a Bernhard, pensieri difformi, monologhi torrenziali che creano, trasformano, trasfondono immagini, suoni, voci, oggetti, parole, una cupezza afinalistica che ritorna all’ essenza primaria, scartando l’ ovvio per cedere a solitudine, incomunicabilità, sofferenza.
Un giovane assistente medico inviato a Weng, sperduta località montana, dal chirurgo Strauch per studiare il comportamento del fratello, un ex pittore che ha bruciato tutti i suoi quadri. Situato in una fossa è il posto più malinconico che esiste, disossato, lugubre, funesto, presagio di malattia e morte. Alloggerà, come il pittore, in una locanda frequentata da individui loschi, ripugnanti, controversi, contornato da ombre di uomini, voci di ubriachi, infantili e stridule, frammenti di vite sconosciute, una gelida rappresentazione umana.
L’incontro e la frequentazione con il pittore innescano un monologo su tematiche perlopiù artistiche, filosofiche, esistenziali, sovente inconcludente, fatalista, mai banale, un meccanismo interno di disintegrazione difficile da comprendere per chi abita un mondo scientificamente costruito su un fine, la conservazione della vita.
Chi è Strauch, artista folle, fine pensatore, misantropo, egocentrico, anima indirizzata a suicidio certo, semplice oggetto di studio e diagnosi, un uomo che soffre di una malattia mortale, caduto in depressione, quanto presente a se stesso, agli altri, al reale? Come frequentarlo preservandosi dalla sua grandezza fagocitante, come relazionarsi con chi sa leggerti dentro conservando il proprio anonimato, fluidifica ogni cosa e ti sovrasta?
Malattia, dolore, ricordi, una vita da subito indirizzata alla solitudine affettiva dal desiderio di altro, un’ eccentricità straordinaria, unica, irraggiungibile nel proprio flusso autoanalitco, Strauch ha bruciato tutti i suoi quadri quando ha capito che non valevano niente, perso nei propri pensieri, condannato, a pochi passi dalla rovina.
Due vite estranee e complementari percorse da un fluire lento, agitate e corrose dai propri pensieri, che condividono un senso di solitudine, il non essere mai stati amati, costrette a badare a se stesse precocemente.
Una voce narrante non inquieta e irritata come il pittore, per il quale malattia e dalla morte sono cessazione del dolore, liberazione, in primis da se stesso e dal proprio vuoto interiore.
Un cambiamento in atto, corresponsione e dimenticanza, lo scopo del proprio soggiorno, immersi in una quotidianità monca, in

….” un’ umanità incomprensibile perché umana e comprensibilissima perché inumana”…

sovrastati da una tristezza sovrapposta alla sofferenza.
Il pittore e’ un individuo enigmatico in conflitto con se stesso, per il quale tutto e’ passato, lontano, finito, votato a un esito infausto, una soggettività sovrastante, il narratore ha un incarico a termine che lo costringe a prendere appunti ma non sa da dove cominciare. Strauch è inclassificabile, incompreso, incomprensibile, inabissato, si è impossessato dell’ interlocutore, preda impotente di opinioni, morbosità, assurdità.
Un percorso in parte condiviso, lunghe peregrinazioni, dialoghi interminabili, due individui, un esperimento, inizio e fine di tutto…

… “ la vita è disperazione pura, è la disperazione più chiara, la più oscura e la più cristallina delle disperazioni. Lì dentro ci conduce soltanto un sentiero che attraversa la neve e il ghiaccio, lì dentro nell’ umana disperazione in cui si è costretti a entrare: al di là dell’ adulterio commesso dalla ragione”…

….” sono così esausto, sono incredibilmente esausto”….

La lenta e ripetitiva prosa di Thomas Bernhard evidenzia un’ ossessione da subito manifesta, quel gelo onnipresente e onnicomprensivo, in primis nella mente di chi osserva e non si accontenta. Quanto il proprio paesaggio interiore, nella lugubre e spoglia esteriorità, in una infinita ragnatela di cause ed effetti, si alimenta e basta a se stesso, quanto la propria spiritualità riflette sul senso insensato di una vita vivisezionata e fluidificata?

Qualsiasi contatto esterno smarrito da tempo, una parte di se’ scomparsa prematuramente, condannati alla tristezza e alla sofferenza, dispersi, nel mentre c’è chi fa ritorno al proprio cammino pregresso.

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Racconti
 
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    05 Marzo, 2024
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Voci dalla memoria

Chi parla “a schiovere”, a Napoli, è uno che interviene in modo inopportuno, inappropriato, fuori contesto, a ruota libera, come certi temi o articoli senza né capo né coda. La locuzione descrive la pioggia che cade di traverso a causa del vento, quella pioggia da cui non ti puoi riparare neanche con l’ombrello, che anzi rischia, se lo tieni aperto, di “smerzarse” e di rompersi. E pensare che “schiovere”, in poeti classici come Di Giacomo, voleva dire "cessare di piovere" e oggi l'adoperiamo anche in questa seconda, opposta accezione: “Marzo: nu poco chiove/ e n’ato ppoco stracqua:/ torna a chiovere, schiove,/ ride ‘o sole cu ll’acqua” ("Marzo: un poco piove/ un po' cessa di piovere:/torna a piovere, spiove, /ride il sole con l'acqua"). E’ la centounesima voce, l’ultima, di questo glossario che De Luca ci propone, proseguendo una riflessione linguistica cominciata con “Napolide”, e il suo significato si allarga fino a diventare una personale concezione della vita, già in precedenza paragonata alla pallina di un flipper destinata a sbattere qua e là in maniera sconclusionata, senza mai trovare ancoraggi sicuri e stabili.
Da sottolineare l’equilibrio con cui l’autore sa valutare, senza stilare inutili graduatorie, questo suo “bilinguismo”, la compresenza in lui dell’italiano, lingua lenta di parole piane, e del napoletano, sbrigativo e di parole tronche, quelle verso cui si rivolge proprio per questo l’attenzione odierna di rappers e trappers, che lo vedono in ciò più simile all'inglese e più adatto ai loro ritmi.
Dietro ciascuna delle due lingue campeggiano le figure genitoriali: il padre, che gli schiude innanzi, con l’ italiano dei libri e della cultura, più ampi orizzonti di pensiero, la madre, che gli trasmette col dialetto la possibilità di un linguaggio nativo, intimo, proprio di una comunicazione originaria, intrisa di memorie ancestrali. Nel discorso di De Luca riecheggiano note pasoliniane, quando sembra di capire che anche per lui conservare questa prima lingua significa sfuggire all'omologazione culturale, a quella che oggi definiamo globalizzazione (ma considerazioni analoghe valgono, secondo lui, per l’italiano nei confronti dell’inglese).
Le voci dialettali che compongono questo dizionario dell'anima presentano, secondo l’autore, il limite di essere oggetto di scrittura e di essere perciò prive di componenti essenziali quali l’emissione di fiato, il suono che le accompagna, i gesti che ne modificano di volta in volta il significato, ma tracciano comunque un'autobiografia fatta di scorci e frammenti.
Ecco dunque le parole, le locuzioni, i proverbi adoperati e trasmessi dalla figura materna, cui si affianca quella della nonna, spesso accompagnati da sapidi aneddoti familiari, come quel nipote “traseticcio” (persona dotata di petulanza e faccia tosta) che la nonna stessa, sfinita dopo un’ interminabile visita, invita con un’altra espressione partenopea, ad andare via : ”Mo’ te n’ia i’”, "Ora te ne devi andare"(riporto il napoletano di De Luca così com'è scritto, pur non condividendo del tutto le sue soluzioni ortografiche: ma a Napoli, quando si tratta di scrivere in dialetto, nessuno è d’accordo con nessuno, si vive in una diffusa anarchia). De Luca è attratto spesso dalla struttura, dalla forma stessa delle parole e il verbo “i’” (andare, dal latino” ire”) costituisce per lui un primato mondiale di velocità e brevità, come “ammore” un rafforzamento di questo sentimento primario, “primma” e “ doppo” un'accentuazione della semplice idea del prima e del dopo.
Tra i ricordi della lunga coabitazione con la madre, l’autore annovera il costante bisogno di calore di quest'ultima, quando, nel freddo dell’inverno, invocava una “vrenzola 'e sole”, un piccolo raggio di luce che la riscaldasse. Parola ben lontana, “vrenzola”, dal successivo slittamento semantico che ai giorni nostri, in…neo-napoletano, l’ha condotta a contrassegnare piuttosto una figura femminile grezza e maleducata, come tempo addietro era capitato alle “vaiasse”, le serve di Giulio Cesare Cortese nella Vaiasseide, divenute nel tempo donne volgari e sguaiate.
Altre parole alludono a momenti di formazione e di educazione familiare, come quando l'io narrante viene esortato a non “frusciarse” troppo (“vantarsi”): una lezione di umiltà espressa con un verbo ancor oggi usato contro chi si compiace fin troppo di qualche sua dote o si fa troppo pretendere. A volte i lemmi fanno riferimento o vengono applicati da De Luca alla realtà sociale, come quando ravvisa negli anni settanta, ed in particolare nelle lotte dei disoccupati organizzati, un esempio di ”arteteca”, una febbre reumatica che provocava spasmi ed esuberanza motoria, che si tradusse allora metaforicamente in un incessante movimentismo di piazza. Altre volte l’autore si lancia in fulminanti sintesi storiche e antropologiche: così il verbo “spantecà” (spasimare) supera i confini del linguaggio amoroso tipico della canzone, per diventare la cifra di un’intera città perennemente irrequieta, insoddisfatta, desiderosa di un futuro diverso cui aspira ma che non riesce a raggiungere, la costante di un popolo “scarpesato” , calpestato, oppresso da ingiustizie, invasioni, sopraffazioni, anche se capace di ribellarsi con qualche improvviso “arrevuoto”, da Masaniello alle Quattro Giornate. Alcune voci vengono dal passato e sono forse obsolete, ma nella mente dello scrittore quella sensazione di secchezza che gli ricacciava il fiato in gola quando soffiava lo scirocco si associa… proustianamente al suono del termine” bafuogno” (ma nella mia famiglia era frequente l’espressione “tengo 'a cimma 'e scirocco”, per indicare una condizione di particolare nervosismo, durante la quale era preferibile non accostarsi troppo al genitore che ne era investito: ricchezza lessicale del napoletano! N.d.A.). Né mancano infine citazioni dalla letteratura e dal teatro, in particolare da Eduardo, di cui viene riportato il noto incipit di Natale in casa Cupiello per spiegare l’imperativo “scètate”, in alternanza con “sùsete”: “Lucarie’, scètate songh’e nnove”. E sembra di vederla la successiva svestizione di Eduardo dai numerosi… strati di panni con cui invano aveva cercato di “prendere “calimma” ("calore") durante la gelida notte prenatalizia.
Un saggio in forma di dizionario, questo di De Luca, che riesce piacevole e induce ad una riflessione sul modo in cui ci esprimiamo, in tempi in cui la forza tenace del dialetto sembra nuovamente riproporre le proprie ragioni, specialmente nella città in cui è ambientata una parte significativa dell’universo letterario e saggistico di questo scrittore. Diretto dunque ai napoletani che ne possono più immediatamente fruire, ma rivolto a tutti gli innamorati di quella espressività sorgiva, originaria, forte, cui il dialetto può attingere per contrastare la tendenza da tempo in atto verso un idioma “semplificato e convenzionale”.



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"Napolide" e i romanzi di ambientazione napoletana di Erri De Luca, "Scritti corsari" , "Lettere luterane", "Contro la televisione" di Pier Paolo Pasolini.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    04 Marzo, 2024
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Multiverso e body horror: combo vincente

E rieccomi a leggere horror fuori stagione, ma questa volta per un motivo assolutamente valido dal momento che "The Book of Accidents" (arrivato in Italia con il sottotitolo "Il libro delle cose sconosciute") è stato paragonato a Dark, una delle mie serie TV preferite. Ero quindi molto curiosa di scoprire se il paragone fosse calzante, per questo l'ho letto appena acquistato; a lettura ultimata, capisco perché queste storie siano state accostate: molti elementi le accomunano, ma dove Dark ha puntato più sul lato sci-fi, Wendig si è invece concentrato sull'aspetto horror andando a creare un romanzo che mescola molti generi diversi per ottenere una narrazione tanto cupa quanto affascinante. Ma forse non per tutti.

Parlare della trama non è affatto facile: da un lato si rischia di scivolare nello spoiler, dall'altro di non dire abbastanza per incuriosire i potenziali lettori. Il setting è un paesino della Pennsylvania, in cui si trova la misteriosa località di Ramble Rocks; qui si trasferisce Nate Graves con la sua famiglia, nella vecchia casa ereditata dall'odiato padre. Sia lui che la moglie Maddie ed il figlio Oliver assistono ad eventi bizzarri o sembrano avere capacità paranormali; il tutto si complicherà con la comparsa di Jake, nuovo amico di Oliver che nasconde più di un segreto.

Questa è meno della punta dell'iceberg che compone il romanzo perché il volume, pur avendo un ritmo ben equilibrato, impiega parecchie pagine per arrivare al nocciolo della questione e permettere al lettore di chiarirsi almeno in parte le idee su apparizioni inspiegabili e abilità quasi magiche. Da parte mia vi posso solo garantire che il caro Chuck non lascia nulla al caso e non rimarrete con dei quesiti in sospeso.

Al pari della trama, anche i personaggi risultano ben studiati ed analizzati a fondo, in particolare i Graves che ho trovato degli ottimi protagonisti, sia come singoli individui che come famiglia. In generale, l'autore cerca di rendere i personaggi non stereotipati; ci riesce nel caso dei comprimari, ma non posso dirmi altrettanto soddisfatta sul fronte degli antagonisti, un po' piattini. L'unica eccezione è Jake, un personaggio veramente sfaccettato e sul quale avrei letto volentieri qualche pagina in più.

Anche sul world building immaginato da Wendig non posso dirvi troppo ma vi assicuro che è decisamente interessante, e personalmente l'avrei sfruttato per basarci un'intera serie; nonostante la trama poco lineare, l'ambientazione risulta comunque comprensibile, ed i personaggi stessi ne parlano in più frangenti. Senza scendere troppo nel dettaglio, si tratta di luoghi cupi ed inquietanti, che trasmettono angoscia già nelle primissime pagine. Per non farsi mancare nulla, il caro Chuck rincara la dose abbondando in dettagli macabri che spaziano dallo splatter al post-apocalittico.

Lo stile del romanzo è solido; non ho notato troppo l'affinità con King, al quale viene spesso accostato, in compenso trovo che lo spunto su cui si basa la storia avrebbe potuto tranquillamente essere quello di un romanzo del caro Stephen. Per quanto riguarda le tematiche invece non sono entusiasta; l'autore va infatti ad inserire diversi messaggi a sfondo sociale assolutamente validi ma non sempre ben contestualizzati: ad esempio, la critica sulla differenza di trattamento tra bianchi e neri espressa da Fig è inserita in un momento (la prima settimana di lavoro di Nate) in cui quel commento ha ragion d'essere, ma lo stesso non si può dire di quando l'argomento viene tirato in ballo da Jake, che lo fa durante una scena in cui l'attenzione dei personaggi e del lettore è focalizzata sulla scoperta della magia.

In sostanza,un libro che si prende il suo tempo per esprimere appieno il potenziale che indubbiamente nasconde tra le sue pagine, e per questo chiede a lettore un piccolo atto di fede. Dategli qualche capitolo di fiducia e vi saprà ricompensare.


NB: Libro letto in lingua originale

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Marzo, 2024
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Il velo di Maya

Il protagonista di una fortunata serie di romanzi seriali, proprio come una persona reale, non è una realtà statica, è mobile, cambia, cresce, vive; negli autori migliori addirittura vive di vita propria, neanche il suo creatore sa di preciso dove andrà a parare crescendo e raccontandolo.
Talora sorprendendolo e sorprendendoci, esattamente come sa ben fare la vita da par suo.
Negli anni, un personaggio come una persona reale accantona ricordi lieti e tristi, rimpianti, nostalgie, acciacchi, tende a cambiare, a fare bilanci e considerazioni diverse proprio in virtù delle esperienze acquisite. Non è che non riesce più ad orizzontarsi, è che i colori non sono più accesi come in passato, la luce sta calando, il sole è al crepuscolo, l’orizzonte di notte c’è sempre, ma non si riesce a vedere.
Questo è quello che accade all’avvocato Guido Guerrieri ne “L’orizzonte della notte”, l’ultimo romanzo del magistrato felicemente prestato alla scrittura Gianrico Carofiglio.
Avvocato penalista in Bari, Guerrieri è investigatore quasi per caso, per forza maggiore; infatti, per indole propria nell’esercizio della sua professione cerca e persegue prima la verità dei fatti, certamente non per una astratta e irrealizzabile ideologia utopistica di giustizia, equità e rettitudine, fini a sé stante. Guerrieri è persona spiccia, pratica, esperta, considera acquisire il più possibile nelle diatribe giuridiche come sono andate effettivamente le cose, non la verità astratta, sempre relativa e opinabile, ma per appurare il contesto reale in cui i fatti stessi sono giunti a maturazione, è questo l’ elemento essenziale per un principio di equilibrata difesa del suo assistito, certo non per approntare scuse e cavillosità ostinate, che sono aliene al suo modo fondamentalmente retto di essere e di esercitare la sua professione. Guido Guerrieri è un legale che abbina ad una buona conoscenza delle aule giudiziarie una particolare sensibilità di persona, a renderlo professionista affermato, fallace ma coerente ed organico, prima con sé stesso e poi con colleghi, addetti ai lavori giuridici e clienti, è il suo essere persona aperta, ricettiva, cortese. Possiede spiccata indole e propensione all’ascolto ed alla logica derivante, ed è tanto a dargli spunti, idee e riflessioni per ricondurre un processo nell’alveo della conclusione più corretta, moralmente accettabile, soprattutto accessibile, poiché troppo spesso voler fare giustizia resta solo un concetto accademico. L’avvocato Guerrieri non difende, considera; indugia sulle prove ed i riscontri, ma li tiene in conto alla luce del contesto umano in cui si svolgono gli atti, quelli delittuosi in maniera particolare, perché spesso l’andare contro la legge è più una costrizione o una fallace ricostruzione anziché una utilità per il reo o presunto tale. Il nostro avvocato è felice protagonista di alcuni dei romanzi più belli di Carofiglio, la sua creatura forse meglio riuscita, resa benissimo da una scrittura precisa, diligente, calibrata e capillare.
Gianrico Carofiglio è titolare di una penna colta, ha trascorsi di magistrato, ma oltre ogni altra cosa è un fine intellettuale, un amante di libri e buone letture che gli hanno dato l’input a misurarsi come scrittore; non a caso nei libri di Guerrieri è presenza costante una caratteristica libreria esclusivamente notturna, l’”Osteria del caffellatte”, aperta tutta notte per una clientela d’élite affezionata, con chiusura appunto all’ora della prima colazione. Carofiglio scrive di ciò che sa e conosce a menadito, e bene, possiede prosa agile, scorrevole, spiega e rende, ma non è mai pedante, delinea il racconto in modo fiscale ed a tutto tondo, sottolinea con evidenza nitida i concetti del suo dire, redatti con logica deliziosa, leggere il magistrato significa fare letteratura della giurisprudenza, ammanta di poesia il codice più astruso, si fa seguire agevolmente. Non scrive di gialli, ma di violazioni della legge, non riporta investigazioni, ma riproduzione di condotte delittuose, sempre queste storie trovano il loro epilogo nelle aule dei tribunali, ed il loro compimento nella giustezza della ragione.
Guerrieri qui e ora è alla soglia dei sessant’anni, è uomo attivo, ma stanco: non è più un giovane avvocato con un piccolo studio ed una sola segretaria tuttofare ad assisterlo, è titolare di uno studio affermato, ed a detta del suo consulente finanziario potrebbe ormai ritirarsi a vita privata e smettere di esercitare. Cosa che medita di fare. Perché a lungo andare, le maglie della legge finiscono per mostrare tutti i punti, tanti e troppi, in cui la rete si è smagliata, Guerrieri allora un bel momento si ferma e si fa domande, non sa più che senso abbia la sua vita, e la sua professione, che occupa gran parte della sua esistenza. È come un vecchio pescatore oramai mezzo cieco che non fa più altro che tirare le reti a secco per ripararne i danni, dopo tanto navigare sui flutti dell’esistenza. Ha visto porti, solcato altri mari, incontrato persone nuove e ne ha riviste altre, ha variato cieli ed orizzonti, ora che cala il buio è stanco del continuo rammendare, la notte non mostra più l’orizzonte. Da bravo professionista sa che giunge un momento in cui si può, e si deve, cercare aiuto, ed accettarlo, e l’aiuto migliore sa darlo solo un altro bravo professionista, per cui il legale non esita ad affidarsi ad un valente psicoterapeuta. E intanto un vecchio amico, il titolare della libreria “L’Osteria del caffellatte” gli formula una richiesta a cui non può sottrarsi: difendere in giudizio una signora dell’alta società, Elvira Castell, rea confessa di omicidio nei confronti di un poco di buono, l’ex compagno della sorella gemella Elena, da poco morta suicida su probabile istigazione del pessimo soggetto. Il morto è un piccolo delinquente, ma della peggior specie di parassiti, bieco e violento, una specie di gigolò che vive di sotterfugi, espedienti, piccoli reati, abile manipolatore di persone fragili, colpevole di aver sottilmente istigato al suicidio la compagna per approfittarne dei beni, per finire poi ucciso nel mentre provava ad aggredire la sorella della defunta che gli rimproverava la sua colpa.
La cosa resa così però così com’è non persuade affatto Guerrieri, che tuttavia accetta l’incarico, fino al discusso e controverso finale. Nel mentre prova a ricomporre la vicenda, parallelamente l’avvocato si sottopone all’analisi, si crea così un connubio tanto intenso ed insistente, sentito e sofferto, eppure terso, lineare e intrigante tra analisi dei fatti e analisi dell’io, la scomposizione dei dati e dei personaggi dell’inchiesta e la ricerca e verifica del proprio vissuto, un dialogo interiore tra l’io corrente e quello trascorso, provando ad intuire il senso dell’iter esistenziale compiuto finora, a fianco all’iter giudiziario da gestire professionalmente. Guido Guerrieri allora a giuste dosi appronta sia il sale del delitto che il soluto della sua persona, giunge alla soluzione che è unica e univoca, la filosofia del vivere consiste nel sollevare con coscienza il velo di Maya, l’illusione che nasconde la vera natura della realtà. Per valutare le cose, non bisogna illudersi, le stesse non vanno viste, vanno vissute. Il giudizio va sospeso, le cose vanno accettate per come sono, con le loro rotture, le loro imperfezioni che non vanno nascoste, o peggio ancora cancellate e sostituite. Come, per esempio, si fa in una antica arte giapponese, che consiste nel riparare le ceramiche rotte stuccando le crepe con polvere d’oro: l’oro impreziosisce, evidenzia le crepe, e intanto le rende uniche e insostituibili. Gli errori rendono amabili.
La vita può scoraggiarci, è vero, ma il modo migliore per contrastare il nostro scoraggiamento consiste nell’incoraggiare gli altri. Aiutare gli altri, questo ristabilisce giustizia, ordine, equilibrio, ci fa stare bene, funziona per gli umani come per chiunque altro in Natura, restituisce un senso ai giorni della nostra vita.
Quindi anche a Guido Guerrieri ed alla sua arte giuridica.
Perché non è affatto vero che giunge il momento che non si distingue più l’orizzonte, che di notte l’orizzonte non si veda più. L’orizzonte esiste sempre, se solo vogliamo vederlo, è chiaro e luminoso, in verità, è davvero solare, come il sole di mezzanotte.

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Gianrico Carofiglio
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    03 Marzo, 2024
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Romanzo della maturità

"Ad alcuni (...) è concesso (...) di conoscere che cosa sono realmente. Lo conoscono di solito all'improvviso, e ne rimangono spaventati" .

Un romanzo breve della piena maturità dello scrittore (1937) .
E' "la storia di un verificatore dei pesi e delle misure" , quando ancora sulle divise compariva "l'aquila bicipite dell'Impero" , in un distretto "all'estremo lembo orientale della monarchia" .
"Da quelle parti (...) tutti coloro che rappresentano con inflessibilità le esigenze della legge, della giustizia e dello Stato erano considerati come altrettanti nemici" .
"Si vide subito che questo funzionario era un bell'uomo robusto, forte e probo, soprattutto probo" . E lui "ebbe la sensazione che lì (...) doveva compiersi il suo destino" .

Pur molto diverso, è un romanzo che ricorda un po' "La leggenda del santo bevitore", non per la trama bensì per quei rimandi in qualche modo 'sapienziali' che talvolta la grande letteratura sa evocare.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    03 Marzo, 2024
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Non si incatenano le emozioni

In un futuro non meglio precisato, l'umanità è soggiogata allo Stato Unico guidato da un unico leader, Il Benefattore, rieletto di anno in anno con agghiacciante unanimità. Questo governo rinchiude i suoi sudditi in una bolla di vetro, da intendersi non solo in senso figurato, quale garanzia di un discutibile benessere generale, ma addirittura in senso letterale, trovandosi questa società futuristica inglobata in una vera e propria campana trasparente attraverso la quale appare un cielo sempre sereno, che divide gli uomini da tutto ciò che di selvaggio e animale è rimasto sul pianeta. Una società che ha abolito qualsiasi forma di individualità, tarpato le ali ad ogni sprazzo di fantasia, troncato sul nascere qualsivoglia sentimento. È la matematica, fredda, prevedibile, affidabile, a regolare l'organizzazione e a scandire di ora in ora la vita di ogni singolo componente. Perfino i nomi sono stati soppiantati da cifre alfanumeriche, una consonante e un numero dispari per gli uomini, una vocale e un numero pari per le donne. L'io è stato sostituito dal noi che dà il titolo al libro, il sesso è regolato tramite preventive prenotazioni, la procreazione pianificata dal potere, la privacy abolita da muri di vetro, l'alimentazione legata a cibi derivati dal petrolio di cui viene perfino calcolata la masticazione. In questo contesto seguiamo la vita dell'io narrante, D-503, ingranaggio perfetto dello Stato Unico, servo devoto delle sue regole matematiche, fedele seguace del Benefattore. Il protagonista non si limita ad essere un suddito eccellente, ma addirittura partecipa all'evoluzione di questo sistema e, in un certo senso, alla sua espansione, essendo, in qualità di ingegnere, a capo del progetto dell'Integrale, una navicella che ha lo scopo di andare in giro per lo spazio a divulgare il verbo aritmetico della sua società perfetta. Dall'alto del suo essere stato allevato dallo Stato Unico e dall'aver quindi raggiunto le vette più alte accessibili all'uomo, il narratore si rivolge a noi poveri lettori ignoti come se fossimo dei bambini, raccontando di come ad un certo punto della sua esistenza sia entrata un'incognita imprevista, indecifrabile, ineluttabile, capace di scalfire la sua fede cieca, di minare le sue incrollabili convinzioni, di portarlo a dover ricalcolare le sue priorità: l'amore. Sarà infatti l'affascinante ed enigmatica I-330 a far esplodere la sua bolla dorata, trascinandolo in un vortice di passione, dissobbedienza, sovversione. D-503 passerà dal pensare "È chiaro. L'unico mezzo per liberare l'uomo dalle azioni criminali è liberarlo dalla libertà" a rendersi conto che "Era incredibilmente strano, inebriante: mi sentivo al di sopra di tutti, io ero un io, qualcosa di separato, un mondo, avevo smesso di essere un addendo, come sempre, per diventare un'unità a se stante. " Antesignano del genere distopico, "Noi" di Evgénij Zamjàtin apre le porte ad un indovinato filone novecentesco che vedrà nei vari Orwell, Bradbury, Huxley i più famosi e fortunati seguaci. L'autore russo ha il merito non solo di esserne il capostipite, ma di averne elaborato il concetto prima ancora che si affermassero i grandi totalitarismi del ventesimo secolo, cui sono facilmente riconducibili le opere dei suoi successori e a cui, se non guardassimo la data di pubblicazione, sarebbe facile legare anche questa. L'incubo generato dalla visionarietà di Zamjàtin invece non è legato a particolari eventi storici, ideologie, correnti, ma ad un inquietante pensiero: cosa sarebbe dell'uomo se si lasciasse guidare soltanto dalla logica? Che società verrebbe fuori se alla sua base ci fosse solo il mero calcolo matematico? A cosa porterebbe la razionalità se non fosse accompagnata, mitigata, addolcita dalle emozioni? Domande che, in verità, si possono porre rivolgendole a qualsiasi epoca storica, a ogni forma di governo, a qualsivoglia ideologia politica, al passato, al presente, al futuro e che troverebbero sempre le stesse risposte: non c'è meccanismo che può incatenare la fantasia, non c'è insieme che riesca ad annullare l'individualità, non c'è colore capace di azzerare le varie sfumature, non c'è vita se non c'è amore.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    02 Marzo, 2024
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La banda del Pleroma

Primi anni ’70, Don Pezza, parroco di Santa Liberata in Torino, è un sacerdote davvero particolare. Dopo aver vestito i panni (laceri) del prete contadino o del prete operaio, aver sperimentato i ruoli dell’apostolo degli umili, dei diseredati, di coloro che la società rigetta (talvolta pure a ragione), a seguito di tafferugli tra i suoi protetti e dei rimbrotti della Curia, sembra che si sia riconvertito a torvo e feroce pastore del suo gregge. Così, nelle funzioni speciali del venerdì sera lo terrorizza con le peggiori minacce tratte dall’Apocalisse di Giovanni. Proprio al fine di incutere sacro terrore alle sue “pecorelle”, ha staccato l’illuminazione elettrica della chiesa; ha allestito, per il riscaldamento della stessa, una specie di caldaia che richiama le fiamme infernali e, soprattutto, ha fatto costruire una impalcatura d’acciaio, alta sette piani (come i peccati capitali) per far scendere, con voce imperiosa e tonante, i suoi ammonimenti sull’ecclesia tutta.
Peccato che, proprio nella serata d’esordio, quando avrebbe dovuto recitare la predica dall’ultimo livello, un’esplosione d’ignota natura lo abbia scaraventato dabbasso, interrompendo per sempre il suo apostolato terreno. E tutto questo avviene quando due poliziotti erano presenti in chiesa e altri tre piantonavano, in borghese, l’ingresso, proprio per evitare problemi d’ordine pubblico.
Incaricati delle indagini i commissari De Palma e Santamaria. Soprattutto quest’ultimo si impegna nel cercare di capire chi fosse e cosa predicasse don Pezza e chi lo odiasse al punto da ucciderlo in quel modo.
Già dopo le primissime informative ne risulterà un quadro intricatissimo, che vedrà coinvolti l’arcivescovado (l’alto prelato era presente, in incognito all’omelia fatale), un manipolo di mafiosi in domicilio coatto, e, addirittura, la Fiat.
Tra sospette eresie gnostiche – con richiami alle dottrine di Carpocrate, Valentino, Marcione e Basilide (l’infame!) – e molto più terrene devianze dal codice penale, le piste da seguire saranno tante, confuse e intricate. Anche i sospetti e i fermati saranno numerosi, ma sulla base più di indizi vaghi o sospetti inconsistenti.
A complicare il quadro, già di difficile lettura, l’elenco dei morti violenti si allungherà: infatti, già il giorno dopo verrà trovato, ucciso nella sua auto, il corpo del maresciallo Aurelio Genovese dell’Arma dei Carabinieri che da parecchi giorni indagava, sotto copertura, sulla possibile presenza nel torinese di una fabbrica per la produzione di stupefacenti, ma che, misteriosamente, era stato visto nei pressi della chiesa di Santa Liberata proprio la notte dell’attentato a don Pezza.
Che i colpevoli siano i mafiosi della zona, il cui contabile (Graziano Scalisi) era ‘casualmente’ presente in chiesa, ufficialmente per accompagnare la sua ragazza (Thea) e conoscerne la di lei madre (la sofisticata signora Guidi)? Ma perché, allora il viscido, bavoso ing. Vicini della FIAT, collaboratore stretto del Pezza nelle recite del venerdì, s’era eclissato prima dello scoppio in chiesa? E che fine avevano fatto i due maneschi fratelli Boltolon, factotum del prete, anche loro misteriosamente allontanati dalla funzione? E cosa ci faceva lì un editore ‘impegnato” con tutto il suo staff? E lo storico carteggio Crispi-Oderici, di cui si occupa il Monguzzi, uno dei redattori della medesima, in che cosa influisce sulla vicenda di sangue?
Insomma “grande è la confusione sotto il cielo” di Torino.

La premiata Ditta “Carlo Fruttero & Franco Lucentini” ha notevolissimi meriti nella letteratura italiana. Oltre ad aver sdoganato filoni narrativi una volta ritenuti marginali o di serie B (vedi fantascienza e polizieschi) curando collane e antologie di grande importanza, ha avuto una feconda produzione di romanzi di pregio.
“A che punto è la notte” è un libro del 1979 che utilizza alcuni dei personaggi già protagonisti del precedente, e più famoso, “La donna della domenica” e ci porta in una Torino agitata dallo spettro del terrorismo, dalla penetrazione mafiosa e da una generale insicurezza diffusa e pervasiva tra gli abitanti della città.
L’ho preso in mano seguendo il consiglio di un amico che me lo ha caldamente consigliato come un libro di grande valore letterario e l’impressione finale è sicuramente buona, ma con qualche distinguo.
Indubbiamente il duo F&L si conferma essere un’accoppiata di abilissimi narratori e la storia che ci offrono è senz'altro intrigante e divertente. Molto ben congegnati e dipinti sono sia i personaggi principali che quelli secondari, i quali, tutti, sono molto più che comparse usate per riempire il fondale della vicenda. La storia, poi, ha il pregio di essere assolutamente plausibile con le indagini che, come nella realtà, spesso si perdono in mille rivoli, confuse come sono da indizi contraddittori e false piste.
Decisamente interessanti sono il filone d’indagine relativo allo gnosticismo, con tutte le sue criptiche ramificazioni, e le divagazioni – al seguito del pedante, tenerissimo Monguzzi – sul carteggio storico tra l’Oderici e il Crispi.
L’ambientazione, che all’epoca della stesura doveva essere contemporanea, ora ci porta indietro in un tempo che ci appare remotissimo, in un’epoca che ormai non esiste più, in una Torino ove aleggiano (dietro le quinte, ma minacciose), le ombre del terrorismo degli anni di piombo. Un’epoca dove la FIAT è ancora ammantata di sacra inviolabilità quasi ieratica e ultraterrena, più della stessa Chiesa cattolica; dove le tensioni sociali sono ancora vive e palpabili; dove la telefonia mobile è ancora in mente dei, mentre i computer sono solo enormi macchinari in dotazione alle grandi aziende e usano, come supporti di memoria, banali audiocassette da 1/8 di pollice non dissimili da quelle usate dai registratori portatili in voga in quegli anni.
F&L approfittano della storia poliziesca per fare anche una satira di costume, lanciando qualche feroce strale contro l’istituto del domicilio coatto, certo clericalismo bigotto e i vari moralismi, l’assurda, pretesa inviolabilità della FIAT e il viscido servilismo (fantozziano) dei suoi quadri intermedi nei confronti dei vari potentissimi dirigenti.
La trama è interessante e ben costruita, ma (e qui cominciano i “distinguo”) forse troppo, troppo intricata e contorta. Come detto sono decine i personaggi coinvolti e tante le storie che si intrecciano e intralciano l’una con l’altra: oltre al filone principale del neo-gnosticismo di Pezza e delle supposte trame mafiose, c’è la storia d’amore tra la dolce Thea e l’equivoco Graziano; l’attrazione tra il commissario Santamaria e la signora Guidi; le perversioni e le devianze dell’ing. Vicini, dello stesso don Pezza, della viceparroca (sic!) alcolista Caldani, del Priotti e di tutti gli strambi individui che gravitano attorno a Santa Liberata; le apparizioni, a lungo misteriose, del “venditore di matite”, e le manie dell’editore e del suo team di redattori. Insomma il lettore fa presto a perdersi mentre tenta a fatica di star dietro al racconto. In qualche caso, addirittura, sarebbe opportuno pigliare appunti per ritrovare i riferimenti indispensabili a capire tutto.

Molto interessanti sono gli esperimenti linguistici di F&L che giocano in modo vivace e indisponente con l’italiano e pure (com’è avvenuto anche ne “La donna della domenica”) con certe equivoche espressioni piemontesi. Però, forse, sarebbe stato preferibile in molte occasioni una tecnica stilistica meno sbarazzina e una minor libertà nell’uso della punteggiatura; meno descrizioni in stile colloquiale; meno frasi troncate a metà con l’uso dei puntini di sospensione (quasi un tormentone in tutto il testo). Pure le annotazioni infarcite di abbreviazioni negli appunti dell’assistente di polizia Pietrobono talvolta risultano faticose e tediose.
Insomma alla fine ne risulta un bel libro da leggere che nel mentre ci consente un viaggio nel tempo che fu, ci diverte e distrae, ma che, a mio modestissimo avviso, poteva essere pure migliore se si fossero curati di più alcuni aspetti stilistici e se la storia fosse stata snellita e resa meno erratica con le troppo frequenti divagazioni.

Chiudo con la citazione di una battuta del commissario Santamaria che ben sintetizza il suo stato di confusione e turbamento, come uomo e come poliziotto, e che dà pure corpo al sentimento che agita gli altri personaggi e tutta la società di quegli anni.
“Niente è più quello che sembra, niente sembra quello che è… La porta alla fine si apre, ma con una chiave sbagliata, o magari era una porta già aperta. Oppure la chiave giusta arrugginisce, si spezza dentro la serratura…”

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68 Opinione inserita da 68    02 Marzo, 2024
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Vita sottratta

…” Ho il mio posto tra due pareti sotto una finestra, appoggiata a una sedia sbilenca “…

Algeri, primi anni ‘70, una vita strappata a se stessa, invecchiata precocemente, nelle mani di una religione e di un padre che ne intralciano il cammino, all’ ombra della propria madre, abdicazione dei sensi, trionfo di rassegnazione, passività, paura.
Che cosa rimane senza presente e futuro, accettando una personale colpevolezza per qualcosa che non si è commesso, quando si è uno spaventapasseri articolato, una femmina dal sesso marcio, quando si cerca di rubare un frammento di vita che mai ci apparterrà?
Questa la quotidianità di una ragazza musulmana nata in un paese musulmano, respinta, annoiata, repressa, prigioniera nella propria casa,

…”una vecchia adolescente avvizzita prima del tempo”…,

pervasa da una tristezza che è un’ appendice di staticità, sostanza viva

…” fusa ai lineamenti del proprio volto”…,

una tristezza appiccicosa, sorda, cupa.
Quali pensieri la attraversano, come trascorrere il tempo, non annoiarsi, vivere l’ assenza del vivere? Si può ignorare ciò che non passa, considerare le cose semplicemente per quello che sono, immaginare recandosi altrove, in un altro tempo, trasportati da creatività e forza interiore.
La giovane protagonista svela una quotidianità infausta, buio, mutismo, solitudine poco gratificante, rassegnazione certa, rinchiusa in un corpo femminile che è peccato da nascondere, diventando

…” L’ ombra di un quadro mal riuscito”…

A contorno un film da sbirciare in lontananza, dietro una finestra, spettatrice clandestina, sospesa sopra la città. Allora tutto crolla,

…” il domani diventa ieri e l’ oggi non è che un intermediario tra il simile e il simile”…

In una condizione siffatta non resta che alimentare i pensieri in un’ esistenza sterile sbocciata nel ventre della propria madre, come quella delle proprie figlie un giorno sarà nel proprio. Un paese maschile da cui eclissarsi, uno smisurato manicomio percorso da uomini impazziti, schiavi della religione, separati dalle donne per sempre.
La salvezza? Un mondo irreale ma benevolo, l’ immaginario.
Il proprio cuore? Una tabula rasa.

…”lucidata dall’ indifferenza, rivestita di gelo, intagliata dalla roccia”….

La solitudine le ha insegnato la , l’egoismo e la rassegnazione, nessuna lacrima per gli altri, eco di se stessa, unica interlocutrice in una casa tempio dell’ austerità, nella quale tenerezza, gioia o pietà sono decapitate dallo sguardo inquisitore di un padre e dall’ odio di una madre.
La menzogna riempie i vuoti di un’ adolescenza rubata a un’ anima deceduta da tempo, rovinata dalla sottomissione e con una certezza

…”Una donna musulmana lascia la sua casa per due volte, per il matrimonio e per il funerale, così ha deciso la tradizione”…

Poche parole esprimono l’ intenso e toccante contenuto di un racconto trasudante immagini vivide e significanti e, oltre i crudi temi affrontati, profondamente poetico, cronaca di un’ educazione non sentimentale, gesti dolenti, sguardi intensi, una tristezza stagnante sottratta a ogni umana presenza.
Come può una vita essere maledetta, nascosta, contraddetta nella propria accezione più vera, ostaggio di un Dio e di un padre, con un destino già scritto, rinchiusa e reclusa in un corpo esiliato, privata di amore, pulsioni, slanci emotivi, costruzione sentimentale, una stanzialita’ abbandonata a se stessa, la fantasia unica alleata fedele, sogno allucinato e allucinante con vista su una fetta di mondo…

…”una vita fatta solo di sguardi”...

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    01 Marzo, 2024
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Un mystery senza misteri

Edizioni E/O ha una gran fortuna: che tanti lettori parlino bene dei romanzi da loro pubblicati e mi incoraggino spesso e volentieri a recuperarli; perché se al contrario dovessi basare il mio interesse soltanto sulle copertine che propongono, mi terrei ben lontana dalle loro edizioni. Questo mi è successo di recente con la serie L'amica geniale, ed è ricapitato ancora con "Amabili resti", un titolo che certamente affronta temi molto pesanti ma non credo proprio si meriti una cover capace di far scappare a gambe levate il potenziale acquirente nella direzione opposta. Anche se avessi voglia di leggere una storia più seria, credo che mi terrei alla larga da un volume presentato in questo modo! Per merito di alcune recensioni favorevoli mi sono però fatta forza, e ora non posso che esserne... moderatamente felice.

La narrazione ci porta nella città di Philadelphia, nella Pennsylvania del dicembre 1973, quando la quattordicenne Suzanne "Susie" Salmon scompare in modo repentino e misterioso. Nonostante la sinossi prometta di assistere ad un'intricata indagine, il lettore viene informato fin dalle primissime pagine che la ragazza è stata adescata da un vicino, tale George Harvey; l'uomo, che si rivela essere un serial killer, le fa violenza, la uccide e ne fa a pezzi il cadavere, per poi sbarazzarsi abilmente delle prove ed allontanare da sé ogni sospetto. Il punto di vista non è però quello dell'omicida, né delle forze dell'ordine impegnate ad investigare o della famiglia Salmon, ma della stessa Susie; dal suo Cielo personale, la ragazza continua a seguire le vicende terrene, mentre attende di raggiungere una sorta di pace interiore.

E partiamo quindi dai dolorosi punti a favore del romanzo (dolorosi perché vengono pian piano spodestati da altrettanti punti a sfavore), dal momento che la partenza d'impatto rientra sicuramente in questa categoria: raramente ho letto incipit tanto riusciti, nonché abbastanza crudi e diretti! forse solo "Rose Madder" è riuscito ad ispirarmi una reazione simile. Da subito scopriamo anche l'insolito POV, che da ricercatrice dell'originalità non potevo che apprezzare, sia per il tono scelto per Susie sia per le possibilità offerte a livello narrativo. Ho apprezzato molto anche il modo in cui vengono raccontate le reazioni dei vari personaggi, in particolare della famiglia Salmon: magari non saranno sempre in linea con i desideri del lettore, ma le ho trovate decisamente verosimili.

Per quanto riguarda le tematiche affrontate, ritengo che l'autrice sia stata molto coraggiosa nel parlare tanto chiaramente e senza remore di violenza sessuale, un tema delicato di per sé e ancor più pesante se si considera la sua storia personale. A livello di prosa invece il mio elogio è frenato da una sorta di riserva; perché se da un lato ho adorato l'ottimo uso delle metafore fatto da Sebold, che rendono estremamente potenti alcune scene -nonché più digeribile la violenza-, dall'altro non mi è piaciuta la scelta di mantenere la narrazione non sempre lineare. Questo senso di confusione permea anche i dialoghi, dove abbondano i sottintesi lasciati alla libera interpretazione del lettore; inoltre l'idea di realizzare dei capitoli tematici, in cui si parte da un luogo o da un evento per seguire più personaggi o scene, per quanto carina rende l'esperienza di lettura caotica senza ragione.

Altri difetti soggettivi riguardano la visione un po' stereotipata della vita in Cielo (mi sembra sia la stessa di tanti film basati sullo stesso concept), alcune scelte narrative relative al finale che ho trovato di cattivo gusto, ed un contesto storico non sempre reso al meglio: più volte mi sono proprio dimenticata che la storia era ambientata dai primi anni Settanta in poi. Personalmente reputo poi poco coerente la scelta di permettere a Susie di vedere anche eventi passati, pensieri e ricordi dei vari personaggi.

Il problema principale è però nella dispersività della trama, che racconta semplicemente le vicende successive alla tragedia iniziale, senza mai focalizzarsi su un intreccio specifico. L'unico filone con un minimo di concretezza è quello della missione auto-assegnatasi da Jack Salmon per smascherare l'assassino della figlia, e anche quella perde progressivamente d'importanza; la narrazione lascia poi intendere un ruolo più centrale per la figura di Ruth Connors -in quanto unica personaggia ad essere stata in contatto diretto con l'anima di Susie-, ma anche lei ha un ruolo circoscritto e marginale. Del contributo dato dalle forze dell'ordine, non parliamo neanche!

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    28 Febbraio, 2024
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Solo comparse di una guerra

"La voce di Ivo era scabra, Omar la sentì scalfirgli la nuca, riempirgli il petto di angoscia come una richiesta d’aiuto, e cercò Sen, mentre sui vetri delle rare finestre ancora integre una nuvola sfilava lenta, immacolata nel cielo blu senza dolore, un paradiso digiuno d’inferno, una città qualunque, una città non bombardata, dove i ragazzi ascoltano a bocca aperta un amico cantare – ma hanno denti storti, seghettati, denti caduti senza alcun premio, e ogni tanto tossiscono, anche se è quasi la fine di maggio, e tirano su col naso, anche se l’aria è calda, un’aria da terremoto o da spari in agguato, tengono in tasca proiettili raccolti per strada, ne fanno la collezione, li scambiano come figurine, il freddo del metallo nel palmo, e seduti sull’erba di un’aiuola che nessuno ha rasato loro sanno di non essere ragazzi qualunque, e non sono fantasmi, neppure eroi, solo, canta Ivo, solo comparse di una guerra." Prendendo ispirazione da un evento tragicamente vero, cioè il bombardamento di un orfanotrofio a Sarajevo nell'estate del 1992, Rosella Postorino racconta una drammatica pagina di storia contemporanea vista attraverso gli occhi di un gruppo di ragazzini costretti ad espatriare per sfuggire alla guerra. Omar, Senadin, Nada, Danilo, nomi di fantasia, storie partorite dall'immaginazione della scrittrice ma molto più tangibili di quanto si possa credere. Come accaduto infatti nella realtà, i nostri piccoli eroi e tanti altri compagni di viaggio cui è toccata la stessa sorte, vengono caricati su dei pullman diretti in Italia. L'obiettivo è quello di allontanarli dagli orrori di un conflitto fratricida, sanguinoso e insensato come lo sono tutti. Omar e Senadin sono fratelli, vivono in orfanotrofio anche se la loro mamma è ancora viva, perché la donna, abbandonata dal marito, non ha la possibilità di mantenere i figli. Mentre Sen, il maggiore, vive questa situazione come una colpa della madre, rifiutando di vederla quando possibile, il piccolo Omar gioisce ogni volta che ha la possibilità di passare un po' di tempo con lei. Proprio durante una di queste uscite madre-figlio, i due vengono drammaticamente separati dallo scoppio di una granata. La donna viene data per morta, ma Omar non accetterà mai questa versione e continuerà a sperare di poterla riabbracciare. Nada è figlia di una prostituta e vive in orfanotrofio insieme al fratello Ivo, il leader degli ospiti dell'istituto, abbastanza grande da non potersi sottrarre alla chiamata alle armi. Con una madre assente, un fratello maggiore, unico vero riferimento, impegnato al fronte, la piccola con la passione per il disegno si trova ad affrontare i tragici eventi confortata soltanto dall'amicizia viscerale che la lega al piccolo Omar. Durante il viaggio della speranza verso il Bel Paese, la ragazzina conosce Danilo, figlio di una famiglia borghese, messo sul pullman dai suoi genitori come disperato tentativo di regalare, almeno a lui, un futuro migliore. L'ambientamento in Italia non sarà facile per nessuno, ma mentre Senadin e Danilo riusciranno a trasformare la sventura in opportunità, Nada e soprattutto Omar vivranno il distacco dal loro mondo, dalle loro radici, come una tragedia capace di creare un vuoto incolmabile. Reazioni differenti, nel caso dei due fratelli addirittura diametralmente opposte, raccontate con grande forza narrativa ed estrema sensibilità, in un romanzo corale coinvolgente e commovente, caratterizzato da un ottimo stile di scrittura. Chiaro ed inequivocabile atto di accusa nei confronti della guerra, il romanzo di Rosella Postorino punta il dito anche verso un sistema di adozioni superficiale, frettoloso, ipocrita, volto più a placare i bisogni e i desideri delle famiglie occidentali coinvolte che a curare la riconciliazione con quelle di origine, di cui nessuno si è veramente voluto occupare una volta terminato il conflitto. Il tema della famiglia rimane centrale per tutta l'opera, dalle prime pagine fino ad un finale proiettato vent'anni più avanti, affiancato da quello dell'amicizia, caposaldo della vita di ognuno di noi e ancora più necessario, se possibile, in situazioni drammatiche come quelle in questione, e da quello disperatamente necessario della pace e costantemente ineludibile della speranza. "Sei ragazzi a un chilometro dalle postazioni serbe, sali, parti, scivola scivola scivola bum, cappottato, bum, bum, cappottato, caduto, la neve è soffice, la fronte è gelida, per sempre gelida, la neve è rossa, lo slittino riverso.In italia hanno detto candidiamoli al nobel per la pace, i bambini uccisi dalla guerra, pare uno scherzo, l’ennesimo oltraggio, candidateli a un premio che non potranno ritirare, perché no, candidateli, lo hanno vinto perché sono morti di guerra, che bell’esempio di pace, basta poco per vincere, basta soccombere, scivolare su uno slittino in un quartiere assediato, ridere come ragazzi in un giorno di sole invernale, a gennaio dato che per la pace non fate nulla, ne lasciate la responsabilità ai nostri figli trucidati, ai frammenti dei nostri figli sparpagliati sulla neve, siamo stati noi a raccoglierli, il nobel per una cosa che non sapete quantificare, descrivere, una cosa astratta, un fatto solo nostro, “basta non ci sia la guerra”, la maledizione di essere umani, mortali, di avere figli, di essere figli."

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    28 Febbraio, 2024
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Più spin-off che sequel

Cerco sempre di leggere i volumi all'interno di una serie abbastanza ravvicinati, così da non dover fare riletture o cercare (inutilmente) dei riassunti online, ma nel caso di "Realm of Ash" (portato in Italia da Fanucci con il titolo "Il regno delle ceneri") avrei potuto lasciar passare tranquillamente altro tempo dal momento che gli elementi in comune con il primo capitolo di The Books of Ambha (da noi, I libri di Ambha) sono pochi e vengono ribaditi in modo estremamente chiaro. Questo volume si presenta infatti come uno spin-off de "L'impero di sabbia" (in originale "Empire of Sand") e vuole raccontare la storia di Arwa, la sorella minore di Mehr, che lì avevamo incrociato solo fugacemente da ragazzina.

La narrazione si ambienta circa dodici anni dopo la conclusione del primo capitolo: ritroviamo Awra nelle vesti di giovane vedova di un ufficiale, morto in un misterioso attacco al Darez Fort del quale la donna è l'unica superstite. Convinta che il suo sangue amrithi metterà in pericolo la sua famiglia, Arwa decide di passare il resto della vita in un eremo; qui incontra l'anziana Gulshera, tramite la quale capisce di poter contribuire alla salvezza dell'impero ambhan, ormai in decadenza.

Avrete forse notato che questa non è proprio la sinossi in quarta di copertina, ma sembra sia una costante dei romanzi di Suri: quanto la CE ci promette non si concretizza prima di un centinaio di pagine. Quindi sì, ad affiancare Arwa abbiamo un coprotagonista di nome Zahir, ma non aspettatevi di incontrarlo da subito; in generale la prima parte del volume procede molto lentamente e si arriva per gradi a quello che sarà il conflitto al cuore della narrazione.

Questo ritmo placido potrebbe scoraggiare alcuni lettori, ma permette all'autrice di esplorare con i giusti tempi il carattere dei suoi protagonisti, e se in un primo momento li ritenevo meno convincenti rispetto a Mehr ed Amun, con il procedere della storia ho trovato sempre più interessante la loro evoluzione individuale e lo sviluppo romantico. Anche in questo libro abbiamo infatti una sottotrama sentimentale, forse un po' marginale ma decisamente ben scritta.

Ad differenza del primo volume qui troviamo degli elementi di fantapolitica, grazie alla presentazione della famiglia regnante e del palazzo imperiale, tra le altre ambientazioni. Nel corso della narrazione vengono poi introdotte anche altre location, molto apprezzate specialmente perché la cara Tasha ha un grande talento nell'arricchire le descrizioni dei luoghi con tanti elementi affascinanti ed esotici. L'edizione si guadagna un punto in più per aver aggiornato la mappa, cosa che raramente succede nelle serie.

Un altro aspetto che ho molto apprezzato è la scelta di affrontare delle tematiche decisamente mature, in particolare viene trattata l'elaborazione del lutto e del trauma in relazione alla strage di Darez Fort, evento che ha colpito profondamente Arwa nelle sue certezze. Mi sono piaciute anche le riflessioni sui sacrifici necessari per salvare un popolo, senza doverne condannare per forza un altro nel processo.

Oltre alla lentezza iniziale, mi hanno invece lasciata tiepida i personaggi secondari e gli antagonisti: messi vicino ad Arwa e Zahir si nota chiaramente come siano meno caratterizzati. Ho trovato poi un po' noioso dover aspettare che la protagonista arrivasse a determinate realizzazioni, che noi lettori avevamo già analizzato ampliamente in "Empire of Sand".

Alla fin fine, ho assegnato la stessa valutazione del primo libro, ma forse questo mi è piaciuto leggermente di più, soprattutto per lo sviluppo dei protagonisti e per i temi analizzati. Peccato non siano collegati in modo più netto: una giustificazione a questo viene fornita, ma l'ho trovata non del tutto convincente, soprattutto pensando al tanto tempo passato.


NB: Libro letto in lingua originale

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    28 Febbraio, 2024
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Un'anima rattrappita

Bacci Pagano è un animale ferito. Negli ultimi anni ha osservato gli altri vivere ed ha riempito la sua esistenza con quello che riteneva fosse il suo dovere. E già questo è un ritratto che mi colpisce profondamente, perché mi sembra di guardarmi allo specchio. E’ l’investigatore privato dei caruggi di Genova, uomo di punta di una serie di noir dolci e amari che lasciano un retrogusto nel lettore che è davvero particolare. E’ un’anima rattrappita nell’illusione di attutire i colpi della vita. In questa storia scopriamo lati suoi particolari e privati che ce lo fanno amare particolarmente, al di là del caso specifico su cui si ritrova coinvolto ad indagare. Fanno da contorno i suoni e gli odori della città vecchia, che sono anche una seconda pelle che lo tiene insieme, rivestendo e mascherando le sue angosce ed i suoi dolori privati.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    27 Febbraio, 2024
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Omicidio premeditato o legittima difesa?


L'avvocato Guido Guerrieri è uno stimato penalista di Bari. Vive da solo, un'esperienza matrimoniale finita, un nuovo amore sparito nel tempo, una donna, l'ultima, che lo lascia rivelando un inopinato lato oscuro della sua vita. Guerrieri ama le buone letture, la musica, il lavoro, e, nel contempo, non riesce a superare paure ed incertezze che lo turbano e lo costringono ad affidarsi alle cure di un amico psicoterapeuta, il dottor Carnelutti, che, in sedute periodiche, cerca di aiutarlo scavando nei suoi ricordi d'infanzia ed in certi sogni ricorrenti.
Il lavoro, intanto, lo impegna a fondo, da professionista serio e capace quale si è sempre dimostrato. L'ultimo caso, quello trattato nel romanzo, riguarda una donna, Elvira Castell, che, in un momento di rabbia incontrollata ha ucciso con un colpo di pistola il compagno della sorella gemella Elena, suicidatasi qualche mese prima. La poveretta aveva subito per anni le angherie dell'uomo, un violento, truffatore e profittatore, che, dopo la morte della convivente, aveva occupato da padrone l'appartamento rifiutando ogni tentativo di accordo. Si era giunti così ad un colloquio definitivo, Elvira armata, lui (così pare) con un coccio di bottiglia in mano, pronto a sfregiarla: era "esploso" un colpo di pistola, lui morto colpito al cuore, lei arrestata e raccomandata, per la difesa, a Guerrieri. Negata la richiesta di libertà provvisoria e rifiutato il rito abbreviato, comincia così il processo in corte d'assise. Come Pubblico Ministero, una giovane e battagliera avvocatessa punterà sulla premeditazione e sul fatto criminoso , Guerrieri, da difensore, sosterrà la non colpevolezza di Elvira, costretta a reagire per legittima difesa e per difendersi dall'energumeno. Il verdetto, che ovviamente non riferisco, pur previsto da Guerrieri, non lo accontenterà e lo costringerà ad amare riflessioni sulla giustizia in genere e sulla sua stessa professione, di cui sente, ormai stanco, il peso e le scarse soddisfazioni, tanto da indurlo a concludere che "il mondo dei processi è uno dei più imponderabili che esistano, accade di tutto e fare previsioni è una pessima idea".
Guerrieri si sente, quasi, costretto a vivere in un mondo che non ama ed in cui non si trova a suo agio. Nelle sedute da Carnelutti rivive la sua infanzia, ricorda i suoi genitori, i momenti belli della scuola, i primi entusiasmi e le prime sconfitte, la sua passione per il pugilato, il conforto che trae dai discorsi che rivolge a Mister Sacco, il punching ball personale, al quale confida sogni e paure. E' un'anima candida, Guido Guerrieri: ama le passeggiate solitarie nei quartieri più amati della sua Bari, la compagnia dell'amico Osvaldo, titolare dell'Osteria del Caffelatte, una libreria notturna, aperta dalle 22 alle 6 del mattino, i libri e la musica, i viaggi improvvisati, in solitudine, uno zainetto e via, magari in Irlanda ... E si incanta, e si commuove, aprendo uno scatolone trovato in soffitta dal quale emergono come in un sogno lettere, fotografie di lui bambino in braccio alla mamma, diplomi scolastici e universitari. A volte, non riesce a trattenere il pianto, ricordando un passato che non c'è più e rattristandosi per quelle speranze giovanili che non si sono mai avverate e per l'attività professionale alla quale ha pur dedicato tutta la sua vita ma che non lo soddisfa più perché, afferma, "nei processi tutti vogliono vincere e della verità, della giustizia non importa niente a nessuno ".
Nelle ultime pagine del romanzo si apre forse uno spiraglio, una luce, in quell'orizzonte della notte, indistinguibile perché è tutto buio: un incontro inaspettato, una donna provata dalla vita e da una lunga malattia, un ricordo di tempi lontani. In quel "Come ti chiami?" che chiude il libro l'avvocato Guerrieri attende una risposta che può cambiargli la vita.
Lo stile narrativo è preciso, misurato, elegante, ricco di riflessioni profonde e di citazioni dotte. Guido Guerrieri è in grado di citare a memoria una lunga poesia di Nelson Mandela, e, addirittura, l'incipit di Finnegan Wake, di Joyce, opera leggibile con difficoltà ma, per i comuni mortali, straordinariamente incomprensibile.
Comprensibile è invece la lapidaria massima di Confucio: " La categoricità è sinonimo di mediocrità", che Guerrieri confida al suo psicoanalista, e che mi trova pienamente d'accordo.
Da leggere con calma, perché c'è molto su cui riflettere.




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68 Opinione inserita da 68    27 Febbraio, 2024
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Assoluzione difficoltosa

"…Non c’è vita senza una doppia vita…”

Daniel Savage vive come una svolta la propria nomina a giudice penale, un giudice di colore che pensa sia finito il tempo delle metamorfosi e di essere finalmente diventato se’ stesso.
L’ acquisto di una casa con un nuovo caminetto e un nuovo pianoforte, la rappacificazione con la moglie Hilary, insegnante di musica, il tempo da dedicare ai figli Sarah e Tom, la possibilità di diventare grasso, contento e appagato.
Il passato ha archiviato tradimenti e storie dimenticate, il presente è un ruolo di esempio e di integrità da sostenere al cospetto dell’ opinione pubblica e della comunità.
Una storia a lieto fine che comincia a scricchiolare, telefonate notturne, una giovane coreana che lo riporta a una relazione pericolosa e fugace, l’ ostilità di Sarah, la diffidenza di Hilary nel riconoscergli il ruolo di marito devoto, un amico sopraffatto da una profonda crisi depressiva, un fratello con cui riallacciare il legame perduto, nuove scappatelle sentimentali, l’ importanza del proprio ruolo istituzionale alle prese con un caso nebuloso e contorto.
I pensieri di Daniel corrodono la sua tranquillità, si formano e si autoalimentano, braccato dalle ombre di un passato controverso, dai propri desideri inevasi, da una leggerezza emotiva che ogni volta ritorna e che non riesce a dominare. Si scopre vulnerabile, debole, un bersaglio, di fatto sussiste una contiguità tra il tribunale e la sua famiglia, entrambi vanno convinti di un reale possibile in uno stato di menzogna protratto.
La sua felicità nasconde l’ idea di una vita in qualche modo giunta al termine, esaurita, il divario tra realtà e abito cerimoniale sembra stritolarlo, confondendo le acque, chi lo circonda pecca di limpidezza, si mostra per quello che non è, forse un doppiogiochista.
Un giudice che vive una strana sensazione di turbolenza, risospinto in un passato recente, si chiede chi è realmente, un attore con una buona educazione che ha imparato a essere un bravo ragazzo, cresciuto in una famiglia di cui conservare le tradizioni, un egoista che ha sempre pensato a soddisfare i propri appetiti sessuali, un uomo dalla doppia-tripla vita con un ego smisurato?
Quanto sa dei suoi figli, del suo migliore amico, della moglie, delle conoscenze più intime, fino a che punto è disposto a cambiare per salvare la propria continuità famigliare? Solitamente non ricorda le proprie colpe, in parte rimosse, presente e futuro gli restituiscono un vissuto controverso.
Come può un giudice avere la coscienza sporca, guardare gli imputati e pensare di sostituirsi a loro, immaginare di essere altrove, accatastare immagini, paure, sentimenti, travolto da un vortice di precarietà e ricadere nei medesimi sbagli?
Quale realtà nel paludoso giogo tra vita e morte, verità e menzogna, imputati, giuria, vittime, colpevoli, tutto si gioca su un equilibrio precario in un fondale grigio e limaccioso che ogni volta confonde e ribalta ipotesi, indizi, supposizioni.
Il doppio se’ imperversa, la vita non è ciò che dovrebbe, tutto pare finire, rinascere, il telefono strilla, c’è chi è scomparso, chi si è negato, chi cerca di sopravvivere ai propri fallimenti e chi pensa che tutto gli e’ stato sottratto.
Il romanzo di Tim Parks promette una trama ricca di suspance sulla scia di misteri irrisolti e di una vita contorta dagli innumerevoli volti. La prosa è vivace, scorrevole, persuasiva, il giudice Savage insegue e rappresenta voci raffiguranti reale, immaginario, sogni, ipotesi, una coscienza sporca invischiata tra es e super io, uno stato confusionale che finisce con il riproporre identici gesti e parole, mentre il lettore tra le pagine ipotizza scenari improbabili.
Semplicemente permane uno status quo che è il limite del romanzo, perché tutto alla fine si è mostrato esattamente per quello che è lasciandoci un senso di incompiutezza in una ovvia e poco intrigante commedia umana .

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    27 Febbraio, 2024
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Il ritorno di Monterossi

Carlo Monterossi, autore e creatore della trasmissione tv spazzatura “Crazy Love” presentata da Flora de Pisis, programma di punta della “Grande Fabbrica televisiva della m…”, è nuovamente tornato! In quest’ultimo romanzo di A. Robecchi, Monterossi si trova coinvolto, come di consueto, da una parte nel caso mediatico del momento avente a che fare con presunti miracoli, crocefissi che si illuminano e la predicazione di un ex prete diventato santone, e dall’altra invece in un’indagine privata che coinvolge i compagni-amici di sempre, Oscar falcone e Agatina Cirrielli.

Le storie di Robecchi sono una sicurezza, perché in ogni romanzo si ritrovano quegli elementi conosciuti dai lettori affezionati, a partire dalla “solita” Milano che vive di contrasti, di luci e di ombre, di ambienti lussuosi che si mescolano con quelli popolari. Poi ovviamente c’è Monterossi, ci sono le sue crisi di coscienza, i sensi di colpa che lo attraversano per “la creatura televisiva” ideata, per lo share altissimo frutto della tv spazzatura rappresentata, ma che al tempo stesso sono le ragioni della sua fortuna e del suo benessere. Nonché i contrasti tra la vita agiata che conduce “al sicuro, al caldo, protetto e tranquillo” e la vita invece vissuta da quei “Pesci piccoli” che danno il titolo a questo romanzo, “gente che pena, che striscia...che si guarda alle spalle, che può finire in ginocchio ad ogni momento e non rialzarsi mai più”. Spesso si tratta di piccoli delinquenti sprovveduti che fanno più male a loro stessi che agli altri, ma in tanti altri casi invece si tratta di brava gente che fatica a sbarcare il lunario. Lo spunto narrativo di Robecchi nasce da questi estremi ed ha il pregio di raccontare una storia noir assolutamente attuale, nella quale si fondano truffe, tentativi di estorsione, presunti ricattati che diventano ricattatori, ma anche quei pesci piccoli che all’improvviso, per eventi fortuiti e casuali, possono sfruttare a loro vantaggio questa situazione per emergere dall’abisso in cui si ritrovano.
Il tutto condito poi da un sano romanticismo, perché tutto sommato l’alternanza tra il rosa ed il noir non stona nelle avventure del Monterossi, così come non stona il sottofondo della colonna sonora, come sempre rappresentata dalle canzoni di Bob Dylan.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Febbraio, 2024
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Tre verità

«È il riflesso della sopravvivenza, l’istinto che la natura ci ha donato perché ci allontanassimo da ciò che è marcio e malato. Ma come fare per allontanarci da noi stessi?»

Lucija osserva. La sua vita è scandita dal ricordo di un amore, quello per Dorian che prima era Dora. La prima voce che conosciamo è imprigionata in un corpo che non le consente più di un battito di ciglia, più di un suono gutturale. Ma non è sempre stato così. Non è sempre stata blindata nel suo corpo. Ha osservato Dorian, è stata al suo fianco. Dorian è cresciuto nel corpo di una donna, non si è mai sentito a suo agio, ha sempre cercato un’approvazione che non è mai arrivata. E la stessa Lucija ha dovuto combattere con la non approvazione del diverso. A causa di un incidente è costretta a vivere di pensieri e ricordi, in una vita di silenzi interni e rumori esterni. Immobile.
Il secondo personaggio, e dunque la seconda storia che conosciamo, è proprio quella di Dorian e del suo viaggio di transizione in una società fatta di crepe e contraddizioni. Infine ecco la terza storia, quella della madre che è una donna cresciuta all’interno di una famiglia e poi costretta a convivere con i genitori del marito. Soffre. La madre non ha mai accettato Dorian perché per lei il diverso va punito, ripudiato, represso. È male. È una devianza. È una donna succube prima del marito, poi della suocera, poi della società. Ha due figli, Tomislav e Lucija. Lui uomo e dunque potente e con il potere di far tutto, anche di maltrattare il prossimo, lei la reietta. A lui tutto è concesso. Nell’ultima storia ella si mette a nudo, ricompone la sua vita e da qui il perché della diversa educazione e del suo pensiero così rigido verso la figlia. Perché è lei che l’ha partorita, è lei che può farla e distruggerla e come madre in figlia ha potere su di lei.

«[…] I giorni dell’infanzia erano impressi nel tuo essere, i giorni pieni di angoscia, ma anche di crescita, della serenità tipica dei bambini che la vita sin da subito espone a dolori inconcepibili, le piccole vittorie, i passi che ti hanno fatto diventare quello che sei oggi. Una piccola parte di quel passato era fatta anche di noi, ci eravamo trovati proprio nel momento in cui tu ti stavi lacerando dentro per uscire fuori attraverso la pelle, il muco, il sangue e i punti. […] Eravamo due pazzi davanti a famiglie con figli, a corpi scolpiti, all’esigenza di essere un uomo perfetto, una donna perfetta, perfettamente banali.»

Chi siamo davvero? Cosa gli altri pensano di noi? Perché la nostra identità viene violata? Perché temiamo il diverso? La vita scorre invisibile quanto invivibile. Il nostro vero essere non è percepibile, il rimpianto è amaro, la colpa è una costante che si mescola ad egoismo, paura, indifferenza. Dov’è allora l’umanità in queste tre storie fatte di una immobilità che è moto all’ennesima potenza? Una madre con un passato di torture alle spalle e anaffettività, una figlia immobile in un letto d’ospedale che chiama silente con un battito di ciglia il suo amore, una bambina infelice e che non riesce a trovare il suo posto nel mondo nemmeno da adulto dopo aver fatto la transizione; tre storie, tre volti, tre (in)umanità(?).
“Figli, figlie” è un romanzo intenso, doloroso, crudo. È una storia di violenza, possesso, ribellione, perdita, identità violate. È una storia che si sostanzia nella memoria, nella solitudine. È un romanzo corale a tre voci, “Figli, figlie” in cui l’una storia ricompone l’altra in modo uniforme e complementare.

«Bambino e bambina come lo eravamo noi una volta. Ragazzo e ragazza, uomo e donna, tutti insieme meno di un essere umano. Ridotti alla pelle mucosa in mezzo alle gambe.»

Al tutto si somma una prosa essenziale, evocativa, diretta. Tanto tagliente quanto profonda. Tra emozioni, guerra, società, sentimenti, ricerca di una accettazione, una superficie fatta di famiglia e sentimenti inattesi quanto conseguenti. Un registro, infine, che segue la voce dell’io narrante ricomponendo di ciascuno i giusti tratti e invitando il lettore a riflettere tra molteplici domande.
Il mio sincero ringraziamento a Sellerio per la copia di lettura.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Febbraio, 2024
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Alla ricerca della memoria dell'amore

«[…] Se un pensiero non è ancora tradotto in parole non si riesce a elaborarlo: è come un nemico invisibile, non si può ridurlo al silenzio, né parare i suoi affondi.»

Accade per caso. La vita raggiunge una dimensione inaspettata, una pandemia planetaria fa capolino nel quieto scorrere del vivere, un amore perduto e ritrovato per mezzo di una richiesta di amicizia su Facebook. Pochi e semplici ingredienti che portano il lettore a vivere un lungo viaggio che porta all’amore, che porta a un tacito accordo, che sa di malinconia, che sa di dolcezza, che conduce per mano dall’Islanda sino al Giappone.
Due vite che si sono unite nel 1969 e che in quell’anno hanno continuato a vivere nel ricordo. Al tempo Kristofer aveva vent’anni, era approdato a Londra in cerca di un futuro, oggi ne ha settantaquattro. Lei invece, Miko, si trova, nel ricordo, sulla soglia del ristorante di suo padre. Qui conosce il giovane uomo che si è recato lì per un colloquio di lavoro. Tuttavia, è subito amore. In questo presente fatto di Covid-19 l’uomo decide di intraprendere il cammino che lo porta a lei, tra memoria, immagini, sguardi, speranza, dolore. Kristofer vive tra due poli: da un lato vi è Niko Nakamura che rappresenta l’amore idealizzato, dall’altra ha una figlia frutto di un legame con una donna che rappresenta il non-amore. In tutto questo è solo. Cosa lo aspetterà in Giappone? C’è un senso anche quando tutto sembra non averne? Perché proprio adesso decide di intraprendere questa avventura nella memoria? Forse proprio perché adesso non ha più niente da perdere? O forse semplicemente perché quei pochi momenti di felicità di quel 1969 a Londra sono stati così brevi ma indelebili da rappresentare la possibilità di un futuro diverso da quello che è stato?

«[…] Per soffermarsi sul passato bisogna avere parecchio tempo da perdere, e oltretutto, in generale, non se ne ricava nulla.»

“Sotto la pioggia gentile” di Olafur Olaffson è un romanzo sobrio e dalle tinte incantevoli. Oscilla tra la fiaba e la malinconia, tra la speranza di una seconda occasione e una carezza fatta all’anima. È un romanzo gentile, con un finale che può dividere ma che sa anche condurre e far provare emozioni intense proprio per quella voglia e quella volontà di un uomo di tornare a vivere il grande amore della gioventù, quell’amore che a prescindere dall’età si incontra, forse, una volta nella vita.
Al tutto si aggiunge uno stile ben cadenzato, fluido, carezzevole.

«Nel mio bagaglio ho messo la città, i ricordi, la gioia, la tristezza, la rabbia… e quell’amore che mi è stato d’ostacolo in tante cose, per tutti questi anni.»

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    26 Febbraio, 2024
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La bestia umana

Mi sono ritrovato questo libro in casa e ho voluto conoscere l'autore di cui non avevo mai letto niente. Non riesco a trovare punti di forza in questo romanzo se non la morbosità che la rende, forse, commerciale. La psicologia dei bambini delle elementari è poco credibile, soprattutto quella del bambino più grande. Si capisce subito dove si va a parare se vuole essere un noir. Lo stile non ha niente da dichiarare. Vorrebbe essere forse un romanzo introspettivo di formazione, ma non ci riesce anche se ci sono alcune intuizioni che riguardano il protagonista e il suo disagio nella situazione iniziale dell'arrivo in ritardo e della mancanza dello zaino che sono interessanti. Per me è un tipo di storia di cui si può fare a meno.

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Fantasy
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    26 Febbraio, 2024
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Il grimdark per ragazzi esiste!

Dopo aver esplorato un po' tutti i continenti del Mondo Circolare, ho pensato di prendermi una pausa dall'universo narrativo de La Prima Legge, ma non per questo precludermi la prosa sempre sopra le righe del caro Joe. Ho cominciato così la lettura della trilogia Il Mare Infranto, una serie rivolta ad un pubblico giovane che nonostante il diverso target riesce a mantenere inalterati gli elementi caratteristici dell'estetica grimdark, glissando però su dettagli grafici e scene gore.

La premessa de "Il mezzo re" è altresì un classico del genere: dopo l'improvvisa morte del padre e del fratello maggiore, il giovane principe Yarvi è costretto ad abbandonare il percorso per diventare ministrante, ritrovandosi suo malgrado sovrano del Gettland; carica con la quale assume anche il solenne impegno di vendicare la morte dei propri familiari, caduti vittime di un'imboscata nel Vansterland, regno confinante e da sempre nemico. La sua missione subisce però un cambio di rotta, tanto brusco da trasformarlo in uno schiavo rematore sulla galea mercantile Vento del Sud, dalla quale parte poi il suo percorso di rivalsa, sempre con l'obiettivo di far giustizia contro i suoi antagonisti.

Già da questa premessa capirete che il romanzo ha una marcia in più rispetto ad altri titoli dello stesso autore, proprio perché segue una vera trama anziché un'accozzaglia di eventi messi lì per giustificare l'introspezione dei personaggi. Per onestà ci tengo a precisare che l'intreccio in questione non presenta svolte davvero imprevedibili -con una sola, inaspettata eccezione verso il finale-, ma conferma la sua solidità sia nel delineare il percorso di crescita del protagonista, sia nella ciclicità della vicenda: abbiamo quindi un ritorno al punto di partenza, con un contesto ben diverso tutt'attorno. Ho apprezzato che Abercrombie abbia saputo dare il giusto spazio alle difficoltà incontrate da Yarvi sul piano ideologico ma soprattutto su quello fisico (a causa della sua disabilità), perché lo fa con leggerezza ma senza un intento denigratorio.

Un altro enorme pregio di questo romanzo è rappresentato dalla sua ambientazione: se è vero che non si tratta di nulla di nuovo sotto il sole per quanto concerne il genere fantasy, non si può negare come la narrativa per ragazzi raramente presenti dei world building tanto curati e vasti. È poi molto carino il modo in cui viene inserito l'elemento della found (in tutti i sensi!) family, che mi auguro avrà modo di risaltare anche nei seguiti.

Per quanto riguarda i personaggi, solitamente il punto di forza nei libri del caro Joe, ho invece sentimenti contrastanti: da un lato ho adorato la caratterizzazione di Yarvi -specialmente per come reagisce di fronte alle difficoltà e per la sua determinazione priva di troppi scupoli- e credo ci siano diversi comprimari interessanti da esplorare maggiormente nel corso della serie; dall'altro alcuni personaggi risultano un po' stereotipati, oltre a poter vantare dei nomi a dir poco astrusi. È il caso della mercantessa Ebdel Aric Shadikshirram, che mi è sembrata una versione al femminile del non troppo compianto Nicomo Cosca, o della Regina Dorata: a parte la propensione per il commercio, è una copia carbone di Lady Catelyn Stark di Game of Thrones.

A parte queste similitudini e la già menzionata mancanza di colpi di scena efficaci, i difetti di questo titolo sono individuabili in una narrazione troppo veloce -specialmente nei primi capitoli, dove di diverse scene cruciali si vedono soltanto gli effetti- e nella vaghezza del sistema magico, che è quasi la norma nel grimdark ma visto quanto spesso vengono menzionati gli elfi mi sarei aspettata qualche informazione in più a riguardo. Ed infine abbiamo l'edizione! che avrà anche il pregio di aver mantenuto la mappa originale, ma ha senza dubbio devastato il testo con una traduzione densa di refusi, rendendo alcune frasi incomprensibili. Ciò rallenta purtroppo una lettura che avrebbe altrimenti tutte le carte in regola per correre a briglia sciolta.

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Romanzi
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    26 Febbraio, 2024
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È possibile rinnegare se stessi?

Può una donna essere costretta a rinnegare se stessa, le proprie origini, la propria religione, il suo aspetto fino al suo stesso nome? A questa domanda cerca di dare risposta soprattutto la storia della prima delle tre donne protagoniste di Ti rubo la Vita.
Nel 1936 Miriam, donna araba sposata con Ibrahim e con una figlia piccola, Yasmin, si trova ad assistere al massacro dei padroni di casa, ebrei, uccisi brutalmente nel cortile della loro stessa casa insieme alla figlioletta, più o meno della stessa età di Yasmin. Superato lo sgomento iniziale Ibrahim, che ha alle spalle una storia di fallimenti professionali e che aveva in essere un contratto di acquisto merci con il mercante ebreo Azoulay matura la decisione di assumere l’identità dell’ebreo, di fingere adesione alla religione ebraica e di trasformarsi anche nell’abbigliamento e nell’aspetto al mercante ucciso. Tutto questo deve però avvenire anche da parte della moglie. Miriam però non vuole rinnegare se stessa e cercherà di opporsi per quanto le è possibile a questa trasformazione. Alla fine non riuscirà a sopportare il peso della negazione di sé stessa mentre la figlia crescerà senza ricordare chi è stata.

La seconda delle tre donne di cui il libro narra è Giuditta, ebrea originaria di Ancona che si trova a vivere nel periodo di inizio della dittatura fascista. Espulsa da scuola, cacciata dalla squadra di nuoto nella quale eccelleva, con la madre morta ed il padre al confino, Giuditta e suo fratello dovranno cercare di sopravvivere in un mondo sempre più ostile. Scapperanno, continueranno a nascondersi tra mille stratagemmi pur di evitare la cattura insieme al ragazzo di cui Giuditta è innamorata, Giovanni, cristiano e che ha lasciato l’esercito.

La terza storia ha come protagonista Esther, figlia di Giuditta, ebrea per nascita e cristiana di formazione, che si sente in un mondo di mezzo tra ebraismo e cattolicesimo senza essere compiutamente né l’uno né l’altro. Riceve però una strana offerta di matrimonio previa firma di un contratto da parte di un ricco avvocato ebreo che desidera una moglie ebrea che gli consenta di creare una famiglia e di avere figli. Esther, pur tra mille dubbi, si lancia nell’avventura di questo strano matrimonio combinato.

Al termine del libro questa terza storia si ricongiungerà con la prima creando un rapporto circolare tra le tre vicende.

Il libro è molto scorrevole, avvincente soprattutto nella prima parte, e lavora molto sul sentire di donne che per motivi diversi non riescono ad essere del tutto o in parte ciò che vorrebbero. Sono donne forti, determinate, che sanno chi sono e vedono per sé stesse un avvenire che non sarà quello che la sorte ha preparato per loro. Eppure lottano con tutte le loro forze per realizzare non un sogno ma semplicemente la loro vita.

La prima delle tre storie è sicuramente quella che mi ha coinvolto di più e che mi è parsa avere più potenza narrativa. Di fatto però più che la storia di Miriam il libro racconta la storia di Azoulay, suo marito, uscendo quindi un po’ dal sentiero narrativo. La vicenda è interessante, bella e potente benché un po’ già sentita, ma si perde la centralità della figura femminile che in questa prima storia rimane decisamente sullo sfondo.

Giuditta, protagonista della seconda storia, è una donna forte, la vicenda però, è dal punto di vista di piacevolezza un po’ sfilacciata. Questo non vuol dire che perda di capacità di tenere avvinto il lettore, è un fatto però che si arrotoli un po’ su se stessa.

La terza storia, quella di Esther, lascia intendere al lettore un finale che sarà poi diverso da quanto immaginato ma che forse dà un senso alla storia nel suo insieme. La scrittura è fluida e sempre molto piacevole. Il libro si legge volentieri.

Ho avvicinato questo romanzo dopo aver amato molto il successivo della stessa autrice (Vieni tu giorno della notte) e devo dire che mantengo la mia preferenza per l’ultimo. Cinzia Leone è comunque un’autrice da seguire per capacità narrativa e stilistica, sperando che la maturità della sua ultima opera ci regali in futuro ancora buoni frutti.

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68 Opinione inserita da 68    25 Febbraio, 2024
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Relazioni pericolose

Lo scorrere di una vita invivibile e invisibile, chiedendosi chi realmente si è , che cosa gli altri vedono di noi, qualcuno o qualcosa, figli e figlie, quanto tempo a rigettare l’ evidenza per ritrovarsi a rimpiangere chi si è amato e inesorabilmente perso per indifferenza, paura, egoismo.
Ognuno è la propria unicità ma si trascina la colpa di chi non ci ha voluto, investendoci delle proprie manchevolezze, delle violenze subite, di tradizioni vetuste, di rabbia, della paura della diversità.
E allora quale umanità se nel presente una giovane donna immobilizzata in un letto non può esprimere i propri sentimenti e incontrare la persona amata, se un giovane che è stato una bambina infelice tuttora è ignorato e respinto, se una madre abbandonata sentimentalmente dai propri figli nasconde un’ infanzia di violenze, di torti subiti e una giovinezza rubata ai propri sogni di donna?
Ciascuno ha una storia da raccontare, contigua e diversa, capolinea di un luogo della memoria che respira di solitudine, amarezza, rimpianti, consapevole di avere perduto per sempre chi in momenti più o meno lontani gli è stato accanto, ha cercato di capirlo, di renderlo libero, la vicinanza può esprimere lontananza.

Lucija è un corpo immobilizzato dopo un terribile incidente, sente e comprende ma non riesce a esprimersi se non a cenni, porta la sua storia dentro, un amore bellissimo e impossibile perché diverso, abbandonato a se stesso quando andava tenuto stretto e ora, paradossalmente, in una totale dipendenza fisica, il proprio sentimento non è mai stato così lucido e presente.

…” Non c’è orrore che possa più ferirmi, io al momento non esisto nemmeno, il mio corpo è triturato, la mia anima è altrove. Era rimasto il soffitto al tramonto, tutto quello che ho”…

Dorian e’ stata Dora ma si è sempre sentita Dorian, un cammino doloroso e dolente per acquisire una nuova identità, costretto a nascondere quello che è e che sente di essere, i propri sentimenti e l’ amore per Lucija.

…”Sono io la causa di tutto questo, è colpa mia quello che è successo. Il mio nome corrisponde alla mia immagine, la mia immagine alle vostre aspettative, le vostre aspettative sono la garanzia della mia esistenza”….

La madre di Lucija, che non ha mai approvato la relazione della figlia, nasconde una fragilità che le rimanda una se’ bambina tra privazioni, violenze, sogni infranti, arrendevolezza in una società patriarcale in cui la donna è da sempre ridotta al silenzio e considerata un’ appendice di manchevolezze.
I suoi due figli hanno scontato l’esito infausto di una vita fagocitata dalla furia materna, ma lei ha un’ intensa storia da raccontare consapevole che

…” ora, a distanza di tempo, so che se l’avessi lasciata andare, l’avrei avuta con me per sempre “…

E c’è un uomo trasformato in un grumo di dolore che, posto di fronte a una scelta, ha imbracciato un fucile per andare in guerra, ha visto corpi deturpati, case bruciate, la follia, in lui odio, buio e violenza ormai sedimentati.

Oltre l’ indicibile sopravvive un desiderio di normalità e di libertà che andrebbe ridefinito, una vita coraggiosa vissuta in prigionia, genitori soli, un corpo triturato, un’ anima altrove, chi senza passato e chi senza futuro in

…..” una società in cui era iniziata la persecuzione di quelle persone che la natura, nel suo affascinante miscuglio, aveva reso diverse, che soffrono sin dall’ infanzia l’ impossibilità di essere quello che sono, perdendo sovente casa, famiglia, lavoro, dignità”…

E allora non resta che abbandonarsi al caos, vivere la profondità delle proprie storie e dei propri mondi …” ingordi di pensiero”…, allontanandosi da chi crede che i propri …”occhi difettosi”… controllino la realtà.

“:Figli, figlie”, della scrittrice croata Ivana Bodrozic, è un romanzo intenso, a tre voci, diverse e complementari, che si avvale di una prosa essenziale, cruda, diretta per esprimere l’ insensatezza di una vita continuamente sottratta e violata.
Emozioni, sentimenti, società, famiglia, tradizioni, guerra, una superficie stratificata nel proprio desiderio più intimo, sovente inespressa e repressa, un linguaggio dosato e un timbro che insegue i tratti dei personaggi. È una vita invischiata tra possibilità di essere e obbligo di apparire, denuncia sociale e famigliare con intensi e fugaci attimi di intimità in una mirabile lucidità descrittiva.

Come l’ autrice ha sottolineato,

….”questo romanzo è una profonda richiesta di perdono verso gli invisibili, i sottomessi, gli indesiderati, coloro che hanno subito violenze e che sono stati costretti a vivere in Croazia all’ epoca della discussione sulla convenzione di Istanbul, questo romanzo è un atto di amore”….

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    24 Febbraio, 2024
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Giochi di guerra

Sulle piattaforme streaming è disponibile il film omonimo a regia del noto attore Claudio Bisio, che ne ha tratto in verità un buon lavoro, permeato da una sottile ironia, talora insistendo come da suo ruolo più in una palese vis comica che in un concentrato di genuina ed affettuosa amicizia tra coetanei preadolescenti, come in effetti è, riuscendo tuttavia a mantenere intatta almeno un tanto del valente intento etico e poetico del romanzo che, nel testo all’origine della sceneggiatura, è l’attributo principe. L’amicizia vera, innocente, genuina, è il punto di forza, il cardine su cui ruota agevolmente il toccante resoconto di un viaggio di iniziazione. “L’ultima volta che siamo stati bambini” è un libro dolce, gradevole, davvero delicato, a firma di Fabio Bartolomei, un racconto suggestivo e struggente una volta letto per bene il contenuto tra le righe. Perché il testo scritto in sé può apparire didattico e moraleggiante, magari piatto, banale, parecchio infantile, più un racconto pedagogico, a tratti idilliaco, anziché quello che in effetti è, una cronaca spassionata, stupita e sconcertata di tempi aspri e tormentati. Durissimi per il corpo e per l’anima, specie per gli ultimi come possono esserlo solo i bambini, da loro stessi testimoniata, e perciò reale, prosaica. Succede spesso quando si narrano le storie con bambini protagonisti, che si sottovaluta il contenuto, quasi che la letteratura con bambini sia identica a quella per bambini, che è cosa ben diversa.
Si tende a classificarla in serie inferiore, quella delle favole fini a sé stesse, a scambiare l’infanzia per un universo alieno, gratuito e superficiale, da sopportare con pazienza, magari sorridendone, e scadere nello stereotipo dell’incanto del tempo dell’infanzia innocente e inconsapevole, ignara e persa dietro futilità, marachelle, pensieri e parole fatue. Quasi che i bambini non fossero individui in divenire, si, ma pensanti, soggetti attivi a sé stanti, creature seppur con meno anni, e però senzienti e recipienti, ricettivi con attenzione, elaborazione e saggezza di tutto quanto gli si propina nella crescita.
Trattandosi di bambini, si tende a sminuire, a distrarsi, a non prestargli importanza, quasi fosse un’epoca della vita in cui quanto gli accade, tranne pochi accidenti, non può rivestire soverchia importanza ed interesse, niente a che fare con i fatti davvero importanti dell’esistenza.
I bambini sono irrilevanti, infine, i fatti salienti sono altri, almeno all’epoca in cui è ambientata la storia, all’indomani del disastroso armistizio di settembre del ‘43 nel nostro Paese, diviso in due tra tedeschi e repubblichini da una parte, alleati e partigiani dall’altra, insomma cose serie, cose da adulti: la guerra, la politica, le leggi sulla razza, il rastrellamento di ebrei e la loro deportazione, e cose così, affari assennati, fondati, giudiziosi, di primaria importanza, non giochi da bambini. Dimenticando che i bambini ci guardano, assimilano, imitano, fanno loro anche i giochi di guerra, e però la loro mente, il loro giudizio, le loro considerazioni non sono ancora deteriorate dalla crudeltà umana dettata dal delirio di onnipotenza, di odio per i presunti diversi, dall’assenza assoluta di empatia, affetto e solidarietà per i propri simili. Le gesta, i pensieri, le riflessioni dei piccoli, in particolare dei primissimi preadolescenti, sono ancora germogli in divenire, il loro primo humus ancora si basa sull’empatia, sull’amicizia, sull’affetto e sul calore tra di loro, sulla concordia e l’armonia, finanche sul cameratismo, inteso però come aderenze comuni, lealtà, accordo, in sintesi rispetto, tutto quello che purtroppo troppo spesso si perde poi in là negli anni, per pura omologazione con la massa disgraziata.
Fabio Bartolomei utilizza con semplicità una prosa agile, rapida ma non sbrigativa, funzionale ed efficace nel tratteggiare i suoi personaggi, stilizzandone i caratteri significativi e le loro azioni, con poche pagine svelte, spedite. Direi che è dotato di uno stile disinvolto che dice, descrive, racconta, poi lascia il lettore libero di fare le sue considerazioni, fornisce un assist spiccio, però logico e ordinato, da cui trarre inevitabili riflessioni che ammaliano, colpiscono, spesso commuovono, sempre ti toccano.
Questo romanzo non è un racconto di crescita, è piuttosto una storia di resistenza di bambini che non intendono crescere a misura di adulti, di quegli adulti, i più, che manifestano sentimenti a loro estranei di inimicizia, di contrasti, di dissapori e discordie.
Quattro bambini nella Roma bombardata dagli alleati, con la guerra becera, il duce destituito, i tedeschi pronti a rastrellare i partigiani, la fame, la miseria, la paura: eppure si ostinano a restare bambini. A fare amicizia tra di loro, a parlarsi, a confrontarsi, ad aiutarsi malgrado differenze di vario genere, manifestando il tutto nell’unico modo con cui i bambini comunicano magnificamente tra loro, con il gioco. Finanche giochi di guerra: ma la loro non è la distruzione cieca ed insulsa degli adulti, fanno la guerra magari con spade di legno, scudi di cartone, fionde, certo finanche con armi più moderne, armi giocattoli o realizzati ex novo con la loro fantasia che ricicla abilmente materiale di risulta. Bambini diversissimi tra loro: Italo, l’obeso ragazzetto balilla figliolo del podestà locale, Cosimo, che viene da una famiglia popolare, privato a forza dal prediletto papà spedito al confino perché antifascista, Vanda, una ragazzina orfana cresciuta in un convento dalle suore, tanto abile e intelligente quanto sofferente per la mancanza di una famiglia, ed infine un piccolo ebreo, Riccardo, con tanto di stella di Davide cucita sul petto.
Tutti insieme appassionatamente: poiché la loro unione genuina, e di conseguenza di fratellanza, di intesa, di elezione. crea tra loro un legame leale di appartenenza, una vera e propria etica amorosa che li isola, li protegge, li accudisce, come e meglio della migliore delle famiglie.
Perciò quando un bel giorno il piccolo ebreo Riccardo sparisce di colpo, e con lui tutta la sua famiglia, e quasi tutti i residenti del ghetto ebraico, i tre rimasti chiedono, girano, indagano, finiscono per scoprire che il loro amico, del tutto uguale a loro, anzi molto più “ariano” di quanto favoleggiano gli adulti, i tre sono tipici italiani bruni e scuri ed il loro compagno ebreo è invece biondo e con gli occhi chiari, finiscono per scoprire che Riccardo è stato caricato su un treno con destinazione in Germania, in un posto un po' misterioso, ma comunque non malvagio, si dice che lavoreranno e se si comporteranno bene, ecco, allora sono al posto giusto, lì il lavoro rende liberi.
I tre però non ci stanno: si informano, pare che la Germania non sia poi così lontana, basterà seguire i binari del treno, poi una volta giunti lo libereranno, spiegheranno tutto ai tedeschi, la bambina grazie ad una suora germanica parla bene il tedesco, uno di loro è il figliolo di un gerarca fascista della prima ora e fratello di un eroe militare, il terzo è pronto a giurare che l’amico ebreo è in realtà di razza italiana pura, insomma i tre, di nascosto dalle famiglie, si mettono in viaggio decisi a raggiungere Riccardo e riportarlo alla base. Un viaggio che si rivelerà un percorso di iniziazione, un tour a modo loro avventuroso e faticoso, una specie di traversata con una zattera sui marosi dell’esistenza adulta, un po' come quello che a suo tempo descrisse Mark Twain, quello di Huck Finn e dell'inseparabile amico Tom Sawyer; solo che il mondo degli adulti, avranno modo di scoprire, è ben altro che saggezza, maturità, benevolenza, è un universo ignorante, maleducato, anaffettivo e inconciliabile con la sola vita detta a misura d’uomo, che è quella a guisa di bambino. Per questo, a cose fatte, per potersi salvare l’anima, dovranno necessariamente rivedersi dove tutto è iniziato, l’ultima volta che sono stati bambini. Loro direbbero per amore del loro amico, ma gli adulti, si sa, sono sempre tanto stringati quanto pomposi, usano dire: Per non dimenticare.


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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Febbraio, 2024
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Salvarsi insieme

«[…] Lasciate che il cuore faccia una pausa, fosse anche solo il tempo di cento battiti, tanto per riprendere fiato, e tutto è finito.»

Perché continuare a vivere? È questo che si chiede Onni Rellonen, direttore ormai plurifallito che decide di porre fine alla sua vita. È una bella giornata d’estate quando il proposito prende forma e sostanza. Ha anche trovato la location perfetta in un vecchio granaio nel bosco. Nessuno potrà sentire lo sparo della sua pistola, un clic e tutte le sue sofferenze avranno fine. Ma si sa, non sempre le cose vanno come vorremmo, sì, anche quando si parla di propositi di trapassi. Eh sì, perché entrando nel granaio Olli scopre di non essere stato l’unico ad avere questa idea; Hermanni Kemppainen, colonnello, ha avuto la stessa idea, seppur con una modalità diversa costituita da un bel cappio al collo. I due si salvano vicendevolmente e decidono di ritornare a casa di Onni per parlare, confrontarsi, conoscersi. Si interrogano su questa loro volontà comune e si chiedono anche se non sia cosa diffusa in Finlandia. Pongono un annuncio, si offrono come fautori per l’intento. Ben 600 missive sopraggiungono a seguito di ciò. Impossibile rispondere a tutti senza l’aiuto di qualcuno, tra questi stessi candidati suicida selezionano Helena Puusaari, vicepreside che a sua volta ha il desiderio di morire e a cui viene affidato il compito di gestione delle lettere e conseguente risposta. Indicono anche un seminario a tema in un ristorante ed è da qui che parte l’avventura del suicidio di gruppo nel luogo perfetto. Certo, tutto deve essere magistralmente organizzato, nulla può essere lasciato al caso. È da qui che i nostri eroi finiranno, tra mille peripezie, a girare mezza Europa e anche a sorprendersi del legame che nascerà da questa gita organizzata fuori dalle righe.

«[…] Solo chi si è spinto fino alla soglia della morte comprende che cosa vuol dire in pratica l’inizio di una nuova vita.»

“Piccoli suicidi tra amici” è un romanzo intriso di una profonda ironia ma anche genialità. È un libro attuale, moderno e arguto, un testo che si prefigge di parlare di un argomento delicato e che ancora oggi è capace di far parlare di sé. Con un linguaggio pungente l’autore riesce a mostrarci il volto più cupo di un paese che è preda di questo fenomeno. Paasilinna ci insegna a prendere la vita in modo diverso, ci sprona a darci una nuova possibilità e ancora ci invita a riflettere anche su quei piccoli cambiamenti che però cambiando la nostra routine possono cambiare la nostra vita in toto. Anche il consolidamento di nuovi legami può suscitare questo effetto, lo stare insieme può risollevarci e farci riscoprire nuove realtà.
Questo scritto non è solo capace di farci ridere per mezzo di una storia tragicomica ma è anche un invito a non scoraggiarci. A tutti è capitato di “sentirsi perso”, di non sapere cosa fare della propria vita ma con un piccolo aiuto, tutto può cambiare. Un libro che è un vero e proprio inno alla vita.
“Piccoli suicidi tra amici” è il libro che si cerca quando si ha bisogno di un amico e come ogni vero amico non abbandona. Buona lettura!

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    24 Febbraio, 2024
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Poema d'amore alle città

“Che cos’è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città.” Immedesimandosi nel celebre Marco Polo, Calvino immagina di trovarsi al fianco dell'imperatore Kublai Khan. Il sovrano tartaro chiede al suo interlocutore di intrattenerlo con i suoi racconti di viaggio, dimostrando particolare interesse verso la descrizione delle città da lui visitate. Com'è ovvio quando c'è di mezzo Calvino, il resoconto dell'esploratore veneziano prenderà una piega ben diversa rispetto alle aspettative del Khan e dello stesso lettore. Quelle descritte dall'autore, infatti, sono città invisibili, oniriche, immaginarie, città che hanno nomi di donna e che non sono riconducibili a quelle reali, se non per qualche aspetto che può richiamarne alla memoria qualcuna di quelle esistenti. Città spesso fuori dallo spazio e dal tempo, che Calvino divide in una serie di bizzarre categorie associate a sentimenti, a luoghi, ad aggettivi, a sostantivi, che a volte si ripetono e che danno il titolo ai vari capitoli, ognuno dei quali ha l'obiettivo di generare uno spunto di riflessione. La stessa città può assumere aspetti diversi a seconda di chi la guarda. Quella vista da chi ci entra per la prima volta non è la stessa che vede chi ne è appena uscito, come diversa ancora può essere per chi ne è talmente affascinato da perdervisi o per chi semplicemente ne dà uno sguardo superficiale di passaggio. Avremo quindi ora le città e il desiderio, ora le città e gli occhi, passeremo dalle città sottili alle città e i morti, visiteremo le città continue e arriveremo fino alle città e il cielo, in un racconto variopinto, poliedrico, coinvolgente, fantasioso come solo Calvino può essere. Scritto in maniera saltuaria, un pezzo per volta, nel corso di diversi anni, questo libro subisce le influenze dei diversi stati d'animo dell'autore, delle sue letture, dei suoi spostamenti, dei discorsi fatti con gli amici, quasi fosse un diario su cui riversare sensazioni, stati d'animo, ispirazioni, fantasie, trasformando tutto ciò in quei luoghi immaginari che diventano le città invisibili. "...Dunque è davvero un viaggio nella memoria, il tuo! – Il Gran Kan, sempre a orecchie tese, sobbalzava sull’amaca ogni volta che coglieva nel discorso di Marco un’inflessione sospirosa. – È per smaltire un carico di nostalgia che sei andato tanto lontano! – esclamava, oppure: – Con la stiva piena di rimpianti fai ritorno dalle tue spedizioni! – e soggiungeva, con sarcasmo: – Magri acquisti, a dire il vero, per un mercante della Serenissima! Era questo il punto cui tendevano tutte le domande di Kublai sul passato e sul futuro, era da un’ora che ci giocava come il gatto col topo, e finalmente metteva Marco alle strette, piombandogli addosso, piantandogli un ginocchio sul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie! Frasi e atti forse soltanto pensati, mentre i due, silenziosi e immobili, guardavano salire lentamente il fumo delle loro pipe. La nuvola ora si dissolveva su un filo di vento, ora restava sospesa a mezz’aria; e la risposta era in quella nuvola. Al soffio che portava via il fumo Marco pensava ai vapori che annebbiano la distesa del mare e le catene delle montagne e al diradarsi lasciano l’aria secca e diafana svelando città lontane."

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    24 Febbraio, 2024
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En attendant Godot

Titolo celeberrimo del teatro europeo del Novecento, “Aspettando Godot” suscitava in me da tempo molta curiosità. L’autore, Samuel Beckett (1906-1989), era irlandese di Dublino, ma la prima pubblicazione e rappresentazione dell’opera, rispettivamente nel 1952 e nel 1953, si ebbe in lingua francese con il titolo “En attendant Godot”; a Parigi Beckett si era trasferito già sul finire degli anni Trenta, partecipando poi attivamente alla Resistenza francese contro l’occupazione tedesca.
Malgrado le prime reazioni non troppo esaltanti ottenute sia a Parigi che un paio d’anni più tardi a Londra, si tratta del lavoro che ha dato forse maggior fama allo scrittore premio Nobel per la Letteratura nel ’69, al quale si aprì così la carriera teatrale. La trama prende avvio su “una strada di campagna, con albero”, come si legge all’inizio del primo dei soli due atti di cui l’opera si compone. Tale ambientazione interamente sullo sfondo di una strada di campagna alquanto desolata non muta sino al termine della vicenda, rimarcando una staticità (non solo di luogo) che finisce con l’avviluppare i personaggi principali, Estragone e Vladimiro, due vagabondi che aspettano un certo Godot, che non conoscono, al fine di ottenere da lui una qualche sistemazione. Sulla scena compariranno in seguito altri tre personaggi, di cui due in particolar modo bizzarri, ma non il tanto atteso e misterioso Godot che non si presenterà né alla fine del primo giorno né a quella del secondo.
Dramma? Commedia? Molto probabilmente entrambe. Senza dubbio, un’opera di estrema complessità interpretativa, nonché di forte innovazione a livello di struttura. “Sul piano del divertimento” scrive Carlo Fruttero, curatore e traduttore del testo nel 1956 per l’edizione Einaudi “si tratta di un vero gioiello, magistralmente congegnato […]. Ma ci vuol poco ad avvedersi che questa non è una commedia spensierata […]”. Innumerevoli possono essere le interpretazioni: da quella in chiave mistico-religiosa a quella dal sapore di guerra fredda, da quella esistenzialistica a quella sociale. Inutile arrovellarsi il cervello in tal senso, poiché tutto può essere.
Per quanto mi riguarda, la lettura non è stata particolarmente coinvolgente come speravo; nel complesso, ho trovato il testo appunto molto difficile da decifrare e, in verità, in alcuni punti abbastanza noioso da seguire, per non parlare del caos di qualche scena, con il sopraggiungere di Pozzo e Lucky, che più che sorridere induce a triste riflessione. Un libro, per me, su cui ritornare negli anni a venire.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    23 Febbraio, 2024
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A me non pare tutto OK

Rimandare per tanto tempo la lettura di un libro può portare a diverse conseguenze negative: non provare più interesse per la sinossi, ritrovarsi con una storia invecchiata malino, rendersi conto che forse non è più la lettura adatta a noi. Per me "Cattive compagnie" ricade in quest'ultima categoria perché, da quando ho acquistato la mia copia al momento in cui mi sono finalmente decisa a leggerla, ho sviluppato una certa avversione verso le autrici britanniche di suspence, il sottogenere del thriller domestico e gli scrittori stranieri che decidono di ambientare (parte del)le loro narrazioni in Italia per trattare la tematica della criminalità organizzata. E indovinate un po' quale titolo rientra in tutte e tre queste casistiche?

In realtà lo spunto di partenza sembra interessante: una donna inglese, Kate Grey, fatica a superare la morte del marito Charles "Charlie" Benson, avvenuta in circostanze tragiche ma anche poco chiare. Una foto che ritrae casualmente un uomo identico al suo adorato Charlie spinge Kate ad intraprendere un viaggio verso la città di Miami, nell'insensata speranza che il marito possa essere ancora vivo; viaggio nel quale sarà accompagnata da Luke Broussard, da sempre amico di Charlie. Nel primo terzo del volume, la narrazione al presente viene inoltre interrotta da dei flashback che mostrano com'è nata e si è evoluta la relazione tra Kate ed il marito.

Pur non avendo disprezzato del tutto questa lettura, mi trovo davvero in difficoltà nel trovarci dei pregi; e questo perché suddetti pregi sono compensati da difetti paralleli, oppure risultano così blandi da passare quasi inosservati. Diciamo che ho trovato carina la scelta di raccontare una protagonista un po' anticonformista, nonché decisamente spietata nella sua determinazione. Mi è piaciuto anche che Newman abbia investito tempo ed attenzione nella descrizione delle diverse ambientazioni, rendendo la prosa abbastanza curata in queste parti del testo.

Un altro punto a favore (con riserva) è rappresentato dai colpi di scena: alcuni sono resi davvero prevedibili dalla piega che prendono i dialoghi stessi, ma altri riescono in effetti a stupire, rendendo la lettura anche divertente in alcuni punti. Peccato che per stupire i lettori la cara Ruth sia stata costretta a provocare ai suoi personaggi degli attacchi di stupidità fulminante. È il caso dell'immotivata decisione della protagonista di togliersi i guanti in una determinata scena, ma in questa osservazione rientrano tranquillamente anche tutte le azioni compiute dagli antagonisti, nel finale e non solo: davvero non si capisce perché Kate non si faccia due domande sulle incongruenze in ciò che le viene raccontato!

Descrizioni a parte, la prosa ha secondo me ampi margini di miglioramento. A cominciare dall'eccessiva informalità nella narrazione, specie se accostata a delle linee di dialogo a volte fin troppo artificiose e ricercate. Boccio poi in toto la scelta di rendere la protagonista la voce narrante, perché se è vero che seguiamo sempre e solo lei durante la storia, non penso sia sensato da parte sua nascondere di proposito delle informazioni vitali; specie considerato che questo testo dovrebbe essere una sorta di racconto interiore. Un'ulteriore pecca nello stile di Newman è data dall'umorismo, ridondante e poco efficace: non penso sia necessario dedicare una pagina intera ad un'infelice battuta sul russare, neanche fossimo in un cinepanettone.

E concludiamo con qualche lamentela personale, come la discutibile edizione italiana nella quale parecchie frasi vengono tradotte in modo letterale, senza quindi tenere in considerazione giochi di parole o modi di dire inglesi. Mi ha fatto storcere il naso il modo superficiale con cui l'autrice ha parlato delle malattie mentali, delle persone di colore (con un simpatico sillogismo che li associa alla violenza di default) e della criminalità organizzata. Non farete fatica ad immaginare anche quale sia la mia opinione su una protagonista che si dimostra incapace di fare alcunché senza un uomo alto e muscoloso al suo fianco, per poi disdegnare senza possibilità di riscatto tutte le personagge femminili nelle quali incappa.

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68 Opinione inserita da 68    22 Febbraio, 2024
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Quale amore?

C’è un modus amandi in cui sostano ricordi, desideri, sogni, emozioni e sentimenti che non lasciamo per paura di perderli, ignorando il dolore che ci riguarda, affascinati dall’ idea che tutto sarà come avevamo creduto e desiderato.
C’è un sentimento di appartenenza che tralasceremo, ancorati al giardino d’ infanzia, a un amore idealizzato, soggiogati dalle circostanze, da una socialità deviante, da egoismo, paura degli altri, scarsa conoscenza di se’.
E allora la vita deraglia, legandosi all’ ignoto, all’ impossibile, all’ improbabile, soffocati da domande e risposte inevase in uno stillicidio di desideri perduti con un’ identità abbandonata in un vicolo buio.
Inizi del nuovo millennio, questa è la storia di Christopher Woods, detto Kid, e della sua impareggiabile devozione per Thaddeus, caro amico d’ infanzia, che oggi gli chiede sostegno economico, un amore non corrisposto che lo imprigionera’ nei ricordi, limpidi e lancinanti, tra New York e il poco tempo che gli rimane prima della reale incarcerazione.
Thaddeus è uno scrittore di racconti triti e ritriti, sull’ orlo del fallimento, la cui ambizione supera il talento, una carriera hollywoodiana infranta, un lungo matrimonio con Grace, pittrice inesplorata, una figlia forse non sua, un uomo carnale che insegue l’ ammirazione, incoerente, contraddittorio, persuasivo, affascinante, una vita cercando di accontentare persone che non potevano essere accontentate, i suoi genitori, due librai da cui è stato tollerato, non amato, l’ alfa e l’ omega della sua ansia di compiacere.
Kid, ai suoi occhi, è l’ amico ricco, colui che può salvarlo dalla rovina permettendogli di tenersi la residenza di Okney, un’ oasi di successo che rischia di perdere, sommerso dai debiti, senza guadagni, un amico gay che ha negato di esserlo, che lo ama disperatamente, soggiogato al bisogno di essere amato, fragilmente esposto alle sue dissertazioni e a un giogo da cui è difficile sottrarsi.
Okney e’ un castello di carta da mantenere a tutti i costi, i soldi la discriminante, il fine supremo, l’ unico parametro di riferimento, ti comandano, ti parlano, ti definiscono.
La stretta relazione tra Kid e Thaddeus ha origini lontane, si nutre di sogni irrealizzabili e di sostanziale materialismo, reale e immaginario hanno costruito due versioni diverse.
Chi è Thaddeus e cosa nasconde, lealtà, recita, quanto tiene a Kid, cosa prova per lui, da cosa e da chi vuole essere salvato, dal matrimonio, dall’ amico, dal disastro economico?
Di certo conosciamo i sentimenti di Kid, ciascuno conserva una verità che non vuole ascoltare ma che inevitabilmente ritorna. E allora la tensione cresce, recita invadente e avvilente, la vicinanza menzogna e sofferenza, la lontananza alimenta il pensiero dell’ altro, interrogandosi sul senso del proprio amore, dubitando di se’ e della bugia che ci si è raccontati in un viaggio di non ritorno per chi ha deciso di nascondersi.
Amore non corrisposto, ossessione, farsa, pura recita a soggetto?
La passione non corrisposta insegue la vanità, le debolezze, il respiro, l’ ombra dell’ altro, il suono della sua voce, l’ odore della sua testa, in fuga dal proprio mondo per entrare in un luogo oscuro pieno di fantasie, di ricordi archiviati, di simboli e insensatezze.
Si arriva a un punto in cui l’ illusione e la speranza di un probabile amore non corrisposto vanno rimosse, in cui è doveroso confessare o uccidere i sentimenti destinando il proprio amore a qualcun altro o qualcosa d’ altro, per contro non resta che convivere con il proprio dolore.
Amicizia e gratitudine, parole ovvie e sincere, terribili e inascoltabili possono portare a una svolta, una fine lacerante per un nuovo inizio, evasi da un’ ossessione che libera quella parte di se’ a lungo inesplorata e sottratta.
Scott Spencer, conosciuto e apprezzato in “ Un’ amore senza fine “, suo romanzo d’ esordio, si conferma autore di spessore e talento in grado di costruire con poche tracce, un amore non corrisposto, una trama corposa e ricca di suspance.
Un inizio contrapposto, la distruzione di un amore e la speranza di un amore, una fine sovrapponibile e necessaria per liberarsi di un’ ossessione protratta, una prosa matura e riccamente vestita, dettagliata e finemente esposta, anche se la struggente veridicità dell’ esordio si lascia preferire nella propria implacabile semplicità, quel turbamento interiore che qui odora del colore dei soldi e di una socialita’ troppo invadente, sottraendo intimità, identità, profondità e intensità allo spessore dei protagonisti.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    21 Febbraio, 2024
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Fuoco amico

A volte si è sorelle di sangue. A volte non si è sorelle di sangue, ma il legame che si crea è forse ancora più stretto e speciale, perché ci si è scelte. Nel nuovo libro della serie di Sara ad essere in difficoltà è l’amica di sempre, la Bionda, nata e cresciuta guardandosi alle spalle, ma che viene ora rapita durante una sessione di jogging mattutino e viene tenuta sotto sequestro, in quanto in possesso di informazioni speciali che potrebbero scombussolare gli equilibri politici e di potere della società. La Bionda è vittima di un fuoco amico, le possibilità di salvarla sono al minimo, ma il gruppo di investigatori speciali, un po' improvvisati, un po' accrocchiati, trova indizi e trova la chiave per aiutarla. Sara si dimostra, ancora una volta, una donna speciale, attenta, perspicace, intelligente, invisibile ma allo stesso tempo luminosa. Capace di slanci dell’anima come poche altre persone al mondo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Febbraio, 2024
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Un giallo degli anni Sessanta

Pubblicato nel 1965, il romanzo "Senza pietà" della scrittrice statunitense Patricia Highsmith (1921-1995) non mi è parso un capolavoro né uno di quelli destinati a restare tra gli indimenticabili del genere in questione; diciamo pure senza infamia e senza lode, dal momento che si lascia sì leggere bene, ma come giallo, alla fin fine, non si rivela eccezionale, almeno secondo me.
Lettura, dunque, abbastanza scorrevole dopo aver superato le lente descrizioni della parte iniziale, propedeutica a mettere a fuoco la situazione, non delle migliori, tra i due giovani coniugi (lui scrittore, lei pittrice) protagonisti di questa storia di ambientazione britannica. A poco a poco, infatti, il ritmo della narrazione si velocizza e se in un primo tempo il personaggio di Sydney appare piuttosto indisponente e forse addirittura inquietante per via del suo atteggiamento nei confronti della moglie Alicia, da un certo punto in avanti tutto si ribalta e quello che avrebbe dovuto essere soltanto un sorta di gioco senza alcuna importanza diviene invece una trappola senza via di fuga per il povero marito. Povero perché nemmeno lui, così assorbito dalla scrittura e dalle storie diciamo movimentate a cui la sua fantasia dà vita nella speranza di sbarcare il lunario, avrebbe pensato di cacciarsi in un guaio del genere.

"La finzione con la quale si era divertito fino a quel momento era improvvisamente diventata realtà".

A privare la narrazione di fascino e maggior coinvolgimento è questo giocare a carte totalmente scoperte da parte dell'autrice con il lettore, il quale è persona costantemente informata dei fatti, almeno sino al capitolo 27. Certo, l'epilogo di lì a poco è alquanto spiazzante e l'effetto sorpresa stavolta c'è, ma le battute finali, a mio avviso, non sono sufficienti a rendere eccezionale l'intero romanzo che, qua e là, mostra qualche ingenuità, come lo sperare di Sydney che le impronte digitali lasciate nell'appartamento di Tilbury - in definitiva, un altro beffato come lui - non vengano rilevate (è presumibile che a inizio/metà anni Sessanta le tecniche della scientifica non fossero progredite come quelle attuali, ma la polizia qualcosa avrebbe pur trovato anche allora). Quanto alla protagonista femminile, Alicia è un personaggio poco convincente, nonché la vera responsabile, con il proprio comportamento vigliacco, della morte dell'amante e del fatto che il marito diventi un assassino. Tra i personaggi secondari, fa invece una pessima figura quello di Alex, il socio per così dire di Sydney, a cui poco importa né dell'uno né dell'altra dei signori Bartleby e che, pronto a trarre vantaggio personale dalla situazione, mostra soltanto tutta la sua avidità. Carino, e neanche mal riuscito, quello dell'anziana signora Lilybanks; peccato muoia d'infarto nel momento meno opportuno, senza suscitare inoltre grande commozione.
Nel complesso, il voto non supera le tre stelle.

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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Febbraio, 2024
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Per bambini di ogni età

Un bel volume illustrato per bambini di OGNI età, "Fiocco di neve", pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 2020 e apparso in Italia due anni fa grazie al marchio Giralangolo della casa editrice EDT di Torino.
Sia il testo che i bellissimi disegni sono stati firmati da Benji Davies, autore e illustratore londinese (classe 1980, così si legge in rete), i cui libri per bambini sono stati tradotti in oltre 40 lingue con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Vincitore di importanti riconoscimenti a livello internazionale, Davies è anche regista di animazione e di video di diverso tipo.
Quella narrata (e illustrata) in queste pagine è una piccola storia senza tempo sullo sfondo del periodo delle feste natalizie; il protagonista è un fiocco di neve che, volteggiando tra le nuvole, non vuole cadere giù. Il suo, in balìa del vento, sarà un lungo viaggio che lo condurrà sulla punta di un alberello improvvisato, là dove qualcuno, pur senza saperlo, già lo attende.
Si dovrebbe sempre trovare un modo per smettere di cadere, ed esiste per tutti un luogo in cui infine fermarsi nonostante le tempeste della vita.
Da leggere in prossimità del Natale o durante le feste di fine anno, ma non necessariamente.

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Romanzi storici
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    21 Febbraio, 2024
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Quando il postino era uno di famiglia

C'era un tempo in cui i portalettere giravano in paese a bordo di una biciletta. Un tempo in cui si aspettavano le lettere con ansia. C'era la gioia di toccare la busta, sentirne l'odore, aprirla lentamente e poi leggere con calma notizie dei cari lontani. E per chi era analfabeta c'era qualcuno, magari lo stesso postino ,che si sedeva al tavolo della cucina e la leggeva ad alta voce, diventando depositario dei segreti di tutto il paese. In quel tempo viveva Anna, che nel 1934 arriva in paesino in provincia di Salerno. Con sé porta un bambino piccolo e la ricetta del pesto, che spera possa aiutarla a sentire meno la mancanza della sua Liguria. Anna capisce subito che nonostante sia sposata con un uomo in vista lei sarà sempre una straniera. Ma non fa nulla per non essere diversa dagli altri. Contro il parere dei più fa il concorso per diventare portalettere, indossa i pantaloni, costruisce una casa per donne maltrattate. Insomma fa tante piccole rivoluzioni con garbo, ma con una tenacia ammirevole. Questo libro, opera prima di
Francesca Giannone è molto gradevole, scritto con una prosa curata, ma semplice, con una storia che dosa in modo ben equilibrato una storia d'amore con temi sociali che sono attuali ancora oggi. Non condivido tutto il clamore che ha suscitato questo libro, ma merita comunque di essere letto.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    21 Febbraio, 2024
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Chi si rivede!

Lo avevamo lasciato parecchi anni fa in fuga da una gang di mafiosi, e ancora peggio da un intero studio di avvocati furiosi. Eccolo ricomparire quindici anni dopo, ripulito, molto più ricco ma ancora con quella sua capacità di infilarsi in guai più grossi di lui. Ha inoltre il merito di aver dato il via alla carriera di John Grisham grazie al successo internazionale de "il socio". Si tratta di Mitch McDeere, che dopo quindici anni dal momento in cui è stato contattato dall'FBI è diventato socio di un importante studio di Manhattan che ha sedi in tutto il mondo. Proprio gli interessi di un cliente turco lo portano dapprima in Libia e poi in giro per il mondo in quello che, partito come un legal thriller, diventa un libro di azione con tanto di complotti internazionali. Per una persona come me abbastanza abitudinaria, questo libro è stato una mezza delusione. Lo scrittore non si discute, la sue descrizioni sono sempre chiare, credibili e coerenti. la trama è ricca, i personaggi sono convincenti . Però io da Grisham mi aspetto tribunali del profondo sud degli Stati Uniti, battaglie legali, giurie e prove dell'ultimo minuto. Questo intrigo internazionale, poi mi è sembrato un po' forzato, lontano da quelli immaginati da altri scrittori che si sono specializzati in quel settore. Insomma, non è il suo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    21 Febbraio, 2024
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L'ISTINTO HA SEMPRE RAGIONE

Serena è una broker finanziaria, "lo squalo biondo", viene chiamata, ha fatto arricchire tanti investitori grazie al suo fiuto per gli affari.
Ha pochi amici, rapporti occasionali con uomini diversi, abita in un appartamento al 19° piano di un palazzo a Milano, "è abituata a vivere la vita dall'alto, ciò che accade per terra non le interessa", ama fare shopping nelle boutiques del centro e passare qualche serata al teatro La Scala. Nella sua vita tutto è minuziosamente calcolato e scandito; non c'è spazio per gli imprevisti, eppure, dopo una vacanza a Bali, scopre di essere incinta. Non sa mininamente chi sia il padre e non potendo più interrompere la gravidanza, decide di dare in adozione il bebè, ma il destino si interpone ed è costretta a tenere Aurora, che viene cresciuta da tate, autisti senza che le manchi nulla, tranne l'amore materno. Una mattina, a colazione, Serena chiede alla figlia se vuole imparare a sciare; le dice che è stata iscritta ad un prestigioso Campus di una settimana a Vion, in Svizzera e sarà in compagnia di altre 11 bambine...si divertirà! Durante la notte precedente il rientro a casa, Serena riceve una telefonata da Berta, una delle tre tutors addette alla custodia delle bambine: è scoppiato un incendio e una bambina risulta dispersa,,ma Aurora sta bene...
Serena intuisce che non è la verità e decide di partire subito per Vion. Aurora è la bambina dispersa e in Serena si risveglia un istinto materno ma provato prima. Dov'è Aurora? Quali segreti nasconde Vion?
.
Fin dal colore della copertina sono rimasta sorpresa, infatti si discosta molto dai colori delle precedenti. Ed anche sulla trama posso dire la stessa cosa: l'inserimento nella storia del valore del sentimento materno, dell'empatia che sviluppano i personaggi tra loro è davvero ben riuscito e speciale . Il suo stile di scrittura è sempre brillante, accattivante, sa tenerti incollato alla lettura come pochi sanno fare.
Serena, il personaggio principale, è molto ben riuscito la sua evoluzione di donna in carriera senza scrupoli a madre dolcissima che si auto riscopre tale è bellissima, unica.
Per me assolutamente uno dei migliori romanzi di Donato Carrisi, ne consiglio la lettura oltre che per la trama avvincente, per questo nuovo assetto che ha voluto dare, l'effetto empatico coinvolge e appassiona maggiornamente.

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Consigliato a chi ha letto...
I romanzi di Donato Carrisi perchè tutti dei garndi thriller e per capirne meglio la diversità di questo
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Fantascienza
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    21 Febbraio, 2024
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Qualcuno liberi Max!

Prima di iniziare a leggere "Archenemies" (arrivato in Italia con il sottotitolo "Nemici giurati"), secondo volume nella trilogia Renegades di Marissa Meyer, mi ero lamentata perché non ne capivo la trama. Adesso ho compreso il motivo: non c'è alcuna trama! semplicemente si continua a seguire le storyline già avviate, con Nova che tenta di recuperare l'elmetto di Ace senza farsi sgamare dai Renegades e Adrian impegnato ancora nella ricerca di informazioni sulla morte della madre, nonché nel dimostrare le buone intenzioni di Sentinel.

Per tutto il libro si aspetta inutilmente le prevedibili rivelazioni sulle identità segrete dei due protagonisti, mentre l'autrice si prendere queste quattrocento e passa pagine per deliziarci con scene e personaggi filler: qualcuno mi deve spiegare il ruolo di Callum in tutto ciò! a tratti quasi speravo si rivelasse un villain. Non mancano inoltre degli sviluppi MOLTO fortuiti nella trama (ehm... Vitality Charm... ehm... cianografie) e delle contraddizioni con quanto successo nel primo capitolo.

E pensavate di poter leggere un libro o una serie YA senza l'imprescindibile scena del ballo? Stolti!
Devo ammettere però che questo romanzo ha anche degli aspetti positivi, primo tra tutti quello di saper intrattenere al pari di una serie TV trasmessa su CW. Anche se non credo si possa considerarlo proprio un complimento...

Il libro porta delle ottime riflessioni, già accennate in "Renegades", come la necessità di avere una propria indipendenza dagli eroi ed il valore di un giudizio ufficiale in contrapposizione alla giustizia sommaria delle squadre di Renegades; tematiche che, con qualche accortezza, si possono ben adattare alla nostra quotidianità. Anche lo sviluppo della romance tra Nova e Adrian ottiene parecchio spazio, e si riconferma uno dei punti di forza della serie; non si arriva mai a svelare le carte, ma la tensione si mantiene viva senza tediare troppo.

Inoltre, ho apprezzato che Meyer abbia spiegato più nel dettaglio i poteri dei personaggi principali, assegnando anche dei limiti che in un primo momento non erano troppo chiari.


NB: Libro letto in lingua originale

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Romanzi storici
 
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68 Opinione inserita da 68    21 Febbraio, 2024
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Nuovi giorni….

Dopo quarantuno anni di onesto servizio presso una compagnia assicurativa londinese per il signor Baldwin è arrivato l’ agognato giorno del meritato pensionamento. Quante possibilità ad attenderlo, giardinaggio, libri da leggere, hobbies, tanto tempo a disposizione, una libertà del tutto giustificata.
Una breve cerimonia di commiato, il regalo di dimissione da parte dei colleghi di lavoro, una nuova era, un ultimo viaggio verso la cara e vecchia abitazione da sempre riparo sicuro in compagnia della devota moglie Edith.
Non è un giorno qualunque e in Baldwin, da subito, un’ inquietudine prende forma, la paura di rimanere solo, dimenticato, invischiato in un senso di vuoto e di inutilità, di non sapere gestire tante ore di libertà, lui che è da sempre un uomo metodico. A cinquantotto anni si sente ancora giovane, impreparato alla noia, e allora non gli resta che valutare un ventaglio di possibilità e scegliere quella più adatta alle proprie inclinazioni.
Cosa farebbe, cosa lo appassiona, in passato avrebbe voluto essere uno storico, e allora non c’è tempo da perdere, tomi voluminosi lo attendono insieme alle ricerche sul campo.
Ma come ci si può improvvisare in qualcosa che non si riesce pienamente a comprendere, quando mancano le basi, le spiegazioni di un esperto, di certo Baldwin non può contare su Edith, da tutta la vita dedita ad altro.
Anche per lei Il suo pensionamento è cambiamento, adeguamento ai tempi altrui, a nuove abitudini ed esigenze, la sottrazione di quegli spazi che, in assenza del marito, si è concessa. Il loro è stato un matrimonio senza contrattempi, un quotidiano esercizio di reciproca lontananza, una relazione priva di un pozzo profondo di interessi condivisi a cui attingere, limitata al racconto serale di semplici aneddoti in una quiete consolidata, perché cambiarlo improvvisamente?
Dopo solo ventiquattr’ore il clima famigliare è stravolto, insostenibile, esplosioni d’ ira, litigi, una insoddisfazione manifesta, una situazione destinata a durare per sempre, il senso di una fine.
E allora una svolta è necessaria, qualcosa per cui vivere, sperare, costruire, l’abbandono del passato per un nuovo equilibrio famigliare, un se’ che restituisca la voglia di appartenere al mondo e alle sue convenzioni, nuovi amici, piaceri, luoghi, interessi, ma di nuovo una voce interiore incombe, l’ incubo di sentirsi stranieri in patria azzardando un futuro che farebbe rimpiangere il recente passato sepolto.
Sherriff, già conosciuto in “ Due settimane al mare “, grazie a una prosa semplice, lineare, di stampo cronachistico, si conferma cantore di una quotidianità fatta di piccole cose, note, vissute, reiterate, descrivendo una borghesia cinica, egocentrica, ansiogena, che auspica e rifugge il cambiamento, con l’ incognita di un futuro già’ scritto ( in teoria ) e piuttosto fragile ( in pratica ), che ricerca al di fuori di se’ soluzioni a un senso di smarrimento o creduto tale.
La solidità delle mura domestiche, della famiglia, di gesti ritenuti propri, una routine che sembra dimenticare e scongiurare la dimensione intima per aspirare a un reale artificioso da costruire, consegnano il protagonista a un senso di inquietudine rivolto al nuovo per scacciare il vecchio, un equilibrio che dia certezze immediatamente delegittimate dal desiderio di essere dove si era. ( il proprio integerrimo se’), un orgoglio ferito colmo di superficie per sfuggire alla propria ombra e a sconosciute profondità.
E allora l’oggi, a dieci anni dal pensionamento del signor Baldwin, lascia una scia di indifferenza a chi osserva con oggettiva imperturbabilità la sopraggiunta modernità ovattata di quieto vivere nel semplice e inalterabile scorrere degli avvenimenti …

… “ mi accompagnarono fino al cancello, mi salutarono con la mano mentre svoltavo l’ angolo che mi avrebbe allontanato da Western Close. Attraversai adagio il vecchio paesino, accelerai lungo la nuova strada, costeggiai la stazione mentre una folla di uomini e di ragazze di ritorno dalla City usciva in fretta, poi la rombante circonvallazione si impadronì di me e mi trascinò via, verso nord”…

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    20 Febbraio, 2024
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Cattivi ragazzi

Dimenticatevi il burbero bonario Maigret, questo è un romanzo di Georges Simenon un po' insolito, durissimo, spietato, brutale quanto il protagonista, l'autore ci appare più coinvolto direttamente in quanto scrive, e perciò più cupo, forse, e non solo perché l’epoca è quella buia dell’occupazione nazista. Direi invece che trapela chiaro come sia un romanzo letteralmente redatto da un autore sofferente interiormente per motivi suoi, come in effetti è, depresso e dolorante. Intendiamoci, la mano è sempre la sua, però la penna per quanto valente è intinta in un inchiostro nerissimo, accecante, cinico nella sua oscurità. Simenon è normalmente un attento osservatore di fatti e persone del suo tempo, ma in particolare sa leggere benissimo nel cuore dei suoi simili. Il più delle volte quello che legge non è luce, non tutto almeno, ma stavolta sembra soffermarsi particolarmente solo sulle linee più marcate a carbone brunito. Protagonista è Frank, un ragazzotto triste e sprezzante, all’apparenza uno come tanti, che però è quello che definiremmo un giovanotto parecchio problematico. Privo di padre e di una qualsivoglia guida morale, poiché la madre è coinvolta nei biechi affari del meretricio, è di conseguenza pessimo esempio educativo da seguire, il giovane Frank cresce come un vizioso sfaccendato, non studia, non lavora, batte la fiacca oziando con gli amici. Neanche ha bisogno di mostrare il meglio di sè, comportarsi da bravo ragazzo simpatico ed attraente per rimorchiare qualche ragazza, infatti nell’impresa di famiglia ha modo di sfogare i suoi ormoni in subbuglio, senza sforzo, gratis et amor dei, per cui persiste a militare tra i cattivi ragazzi. Il tutto lo rende un individuo affatto solare, con un cipiglio duro e cattivo. L’ozio è il padre dei vizi, e in un giovane immaturo e presuntuoso, con le carenze affettive del nostro, insieme ad una sorta di innata cattiveria e scarsa empatia per i suoi simili, inevitabilmente lo spinge sempre più in basso nell’abisso dell’abiezione, fino all’assassinio. Né vale ad arrestarlo l’intervento amorevole della crocerossina di turno, questa non è purtroppo una storia tipo la bella e la bestia. Di quella favola c’è sola la neve, ma non è candida, fresca, immacolata, è neve sporca, perciò grigia, scura, rispecchia l’anima del protagonista: una persona odiosa e pericolosa, da mandare a processo per il suo delitto perché gli venga comminato il giusto castigo, quasi come se “La neve sporca” fosse a suo modo un connubio tra “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij e “Il processo” di Franz Kafka.
Solo che, e questo Simenon lo dice tra i denti, più che le righe, la neve prima di sporcarsi è bianca, disarmata, virginea. Lo era anche Frank: che aveva il vizio, forse più che pavoneggiarsi che per altro, di stringere gli occhi a fessura. La luce sarebbe passata anche da quella crepa, illuminandogli l’anima nera che si ritrovava certamente non per sua sola colpa. Però è rimasto indietro, nessuno si salva da solo, chiunque chiede salvezza, Frank è ragazzo buio perché conosce solo il buio: aspirava anche lui ad amore, affetto, empatia. Ma aveva stretto gli occhi troppo forte perché le emozioni solari filtrassero; magari trapela un lieve barlume, diciamolo tra i denti, è un cattivo ragazzo, ma più vittima che carnefice. In sintesi, un Simenon diverso, sempre grande, però a denti stretti.
.

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Georges Simenon
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Romanzi
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    20 Febbraio, 2024
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Non aprite quella scatola

Nikki Erlick immagina che così, di punto in bianco tutta l'umanità inizi a ricevere a casa un innocuo pacco. Dentro c'è solo un pezzo di spago, tanto innocuo all'apparenza, tanto potente nella realtà. La lunghezza di quel pezzo di filo infatti corrisponde agli anni che ancora restano da vivere al suo destinatario. Dopo l'iniziale sconcerto, il mondo continua a girare come sempre. E come sempre ognuno reagisce a questa novità a modo suo. C'è chi vuole conoscere il contenuto della scatole per godersi al meglio il tempo che gli rimane, che preferisce vivere nell'ignoranza, c'è chi decide di farne un business, chi invece architetta truffe. La Erlich sceglie alcune persone che hanno ricevuto il pacco e ci accompagna nelle loro menti e ci fa conoscere le loro scelte. Il romanzo si legge con agilità. anche se i comprimari che si alternano tra le pagine sono parecchi. Nonostante il tema non sia poi così lieve, il libro ha una sua leggerezza, che probabilmente sarebbe maggiormente apprezzabile se non avessimo ancora fresco il ricordo dell'epidemia di covid, di cui immagino questo racconto sia un po' figlio. Nel complesso un libro non eccezionale, ma comunque gradevole e con molti spunti di riflessione.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    20 Febbraio, 2024
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Sembrava un posto tanto carico

Direi ottimo esordio per questo scrittore italiano, che si nasconde dietro uno pseudonimo. Bella l'ambientazione nordica, con i paesaggi tanto belli quanto inquietanti, con gli abitanti dell'isola cesellati dal vento e dal mare che con la complicità del clima chiudono fuori dal loro piccolo mondo tutto il resto dell'umanità. Questo è un giallo con tanto di polizia locale impreparata di fronte a una serie di omicidi che riguardano ragazze che vivono sull'isola. A dare una mano viene inviato Henning Olsson, un ispettore della scientifica che lì proprio non ci vuole andare. Ha frequentato quel posto come turista e non intende più tornarci. l'ostilità è reciproca e i residenti non fanno nulla per nasconderlo. Quindi non un eroe che arriva in sella al suo bianco destriero per salvare un isola in difficoltà, ma uno straniero saccente che non si vede l'ora di rimandare da dove è venuto. Veniamo ai delitti: agghiaccianti, incredibili per le modalità con cui sono stati eseguiti e apparentemente senza un colpevole. Ma un colpevole c'è, e basta sgomberare la mente dai preconcetti, da tutto quello che viene spiegato nei corsi all'accademia ed ecco la spiegazione, chiara logica anche se inquietante. L'autore con questo romanzo oltre che a mettere in scena un bel giallo, facile da seguire, ma comunque complesso ed articolato tocca anche temi importanti, in particolare quello di quanto sia difficile essere giovani, soprattutto per chi vive in un'isola e si sente ignorato quanto il puntino che sulle carte geografiche segnala il loro paese di origine. Non posso dire che lo scrittore abbia sfiorato questo tema con delicatezza e empatia. perché c'è andato giù piuttosto pesante, ma con dispiacere devo dire che considerando alcuni fatti di cronaca probabilmente questo romanzo è più realistico di quanto sembri all'apparenza.

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Kvothe Opinione inserita da Kvothe    20 Febbraio, 2024
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TELA BIANCA

In cerca di una nuova saga fantasy da leggere mi sono imbattuto in Abercrombie e non potevo finire in mani migliori, questo è un libro scritto molto bene, con una prosa scorrevole, e nonostante ci siano più personaggi principali la lettura non ne risente. Questa saga è cruda e con personaggi che normalmente sarebbero: secondari, nascosti, depotenziati e ripuliti, in questo libro sono protagonisti senza censure; qua non c'è spazio per sentieri lastricati senza letame, qua si entra nel torbido e lo si fa in maniera netta. Abercrombie utilizza una ridondanza introduttiva ogni qualvolta uno dei personaggi principali entra in scena come narratore, questo può creare fastidio, oppure può creare una sorta di fidelizzazione con il personaggio; questa ridondanza di "intro" continua potrebbe risultare tediosa ad un certo tipo di lettore ma io l’ho amata. Torturatori, assassini, ingannatori, arrivisti ed esploratori, questi sono i protagonisti.

Il libro non è esente da difetti ma per chi cerca un libro che si legga tutto d'un fiato (700 pagine) non potrà trovare libro migliore di questo. All’inizio, il romanzo è scevro di informazioni sul mondo che lo riguarda, e salvo qualche accenno qua e là, non c’è nessuna mappa che ci faccia capire il mondo che andremmo a scoprire; diciamo che il libro si concentra più sui personaggi che a darci un’enciclopedia dell’universo della saga. Mi sono piaciute molto le descrizioni delle torture e quelle degli scontri, ma è giusto avvisare che sono molto realistiche e cruente, quindi non lo consiglio a chi è impressionabile o chi cerca un libro leggero.

La vera forza del romanzo sono I personaggi: con le loro particolarità, un loro passato e con una forte potenza narrativa. Per concludere, secondo me è una saga veramente piacevole e appassionante, non senza difetti, ma con grandi punti forza sfruttati in maniera intelligente. Il mio personaggio preferito è Sand Dan Glotka, personaggio molto stratificato con una vita insolita e piena di soprese ma non posso non citare Logen novedita e Ferro Maljinn tra i personaggi che mi hanno impressionato di più, ma in generale quasi tutti i personaggi sono scritti in maniera magistrale e sono loro la vera colonna portante della saga.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    20 Febbraio, 2024
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I misteri di una reliquia scomparsa.


Marcello Simoni guida il lettore ancora una volta nei secoli oscuri del Medioevo, quando le accuse di eresia potevano condurre a processi e condanne e la condizione delle donne era di sottomissione, considerate "creature inferiori, irrazionali, facili alla suggestione". Ma non sempre era così: nel romanzo "Morte nel chiostro" emergono due protagoniste, la badessa del convento di San Lazzaro, situato fuori le mura di Ferrara, Engilberta di Villers, e suor Beatrice, una novizia qui rifugiatasi dopo la presunta morte del marito alle Crociate.
Siamo nel 1187, Ferrara ha appena assistito alle solenni esequie di papa Urbano III, confinato al nord da Federico Barbarossa e deceduto dopo anni travagliati e l'angoscia per la riconquista di Gerusalemme da parte dei musulmani.
La vita nel monastero femminile procede monotona, segnata dai rintocchi delle campane, da canti e preghiere liturgiche, quando un evento inatteso irrompe e dà inizio ad un vero e proprio giallo: una giovane suora, Agata di Corteregia, viene trovata impiccata nel pozzo del convento. Si saprà, nel prosieguo della narrazione, che Agata era coinvolta nel furto di una reliquia di San Giovanni: il cadavere del ladro, trovato sgozzato nei pressi del monastero, sarà nascosto con la complicità della badessa e di Beatrice, ma attirerà vari personaggi alla ricerca della refurtiva, consistente in una preziosa pergamena che metteva in guardia i veri credenti dagli eretici catari, sostenitori della dottrina dualistica secondo la quale il Bene e il Male rivaleggiavano con pari dignità per la conquista delle anime. Il monastero diventa così teatro di agguati, colpi di scena, scontri che oppongono Engilberta e Beatrice a cacciatori a vario titolo della reliquia. Engilberta, accusata di esserne in possesso, sarà portata via da padre Vespertilio, sacerdote e confessore delle monache, ma tornerà al convento, liberata da Volcmano, un vecchio e saggio canonico che rivelerà chi era stata la vittima del furto, addirittura papa Urbano III, custode della pergamena , derubato e deceduto, si sussurrava nel corteo funerario, per sospetto avvelenamento.
Altre monache agiscono da comprimari: da Ambrosia, "infirmaria", una specie di infermiera che si occupa di vivi e morti, conservati nel "putridarium" dove i cadaveri conservati si decompongono lentamente in apposite celle, a Nicodema, un'originale solitaria monaca che vive nella torre campanaria, dalla portinaia Prospera, un donnone da guardia ad Ursiana, la priora, vittima delle focose attenzioni di don Vespertilio ed alla disperata ricerca di tisane abortive.
Un monastero femminile dove, accanto al candore di un gruppo di giovani monache salmodianti, la ricerca di una reliquia, in nome dell'ortodossia e della lotta all'eresia, induce a malefatte d'ogni genere, delitti compresi. Marcello Simoni è un maestro del genere, riuscendo ad accostare a fatti storici reali (i funerali di papa Urbano III, l'esistenza del rarissimo codice di Giovanni evangelista) invenzioni di fantasia come il monastero di San Lazzaro, la badessa Engilberta e suor Beatrice. Storicamente vera invece è Ildegarda di Bingen, più volte citata come maestra della badessa: una grande donna dei suoi tempi, monaca talentuosa, scrittrice, teologa, dichiarata dottore della Chiesa da Benedetto XVI nel 2012, una di quelle donne "che hanno costruito la storia, quella vera, quella che raramente si racconta".
Lo stile narrativo di Marcello Simoni è preciso e raffinato nella ricerca di termini desueti per adeguarsi ai tempi ed all'ambiente particolare in cui si svolgono i fatti. Non mancano termini e citazioni latine, originali i disegni dell'autore all'inizio di ogni capitolo.
Per gli amanti del genere, un romanzo da non perdere.

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