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Menti55 Opinione inserita da Menti55    09 Aprile, 2024
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Un libro di formazione (secondo P. Roth).

Considerato da P. Roth tra i 5 romanzi (gli altri quattro sono: “Le confessioni di Nat Turner” di Styron, “Il nudo e il morto” di N. Mailer, “Tutti gli uomini del re” di Penn Warren e “Furore” di Steinbeck) di formazione per i giovani ma anche come introduzione e comprensione della moderna narrativa americana, Sister Carrie è forse il primo romanzo di realismo esplicito o, quantomeno, è il primo romanzo che rompe con la genteel tradition di cui Henry James è stato il massimo e più noto esponente ponendosi al limite ultimo tra questa e la corrente letteraria susseguente del reticent realism. In verità, come scrive Riccardo Reim nella sua introduzione al romanzo, prima di Dreiser vanno ricordati John William De Forest con The Ravenel’s Conversion from Secession to Loyalty, e soprattutto, William Dean Howells con “la sua scoperta dell’uomo della strada, delle ferrovie sopraelevate, dei ristoranti italiani, degli ambulanti e degli scioperi dei tranvieri”.
Ma lo stile di Howells, pur mantenendosi fedele al suo credo di non “propinare menzogne sulla vita”, non riesce ad uscire da una narrazione che oggi definiremmo polically correct, cioè semplice, vera ma garbata, senza elementi di reale rottura rispetto alla genteel tradition tanto “che i propri romanzi si possono leggere nella cerchia familiare senza che gli adolescenti abbiano ad arrossire” (Izzo, La letteratura nordamericana); appunto la corrente letteraria definita reticent realism.
Varcando in maniera decisa il confine tra i due generi Dreiser racconta la storia e l’ascesa sociale di Caroline Meeber, Carrie, senza veli, senza inutili orpelli o abbellimenti, nella sua cruda realtà. Carrie è una ragazza di provincia, di una bellezza che la povertà da cui sta scappando non riesce a far emergere in tutte le sue potenzialità. In fuga dalla famiglia e dalla miseria la giovanissima Carrie si reca a Chicago alla ricerca di un lavoro che la renda autonoma e le consenta di realizzare tutti i suoi sogni. Ma la sua ingenuità si infrange contro la realtà della grande città che poco ha a che vedere con le sue aspettative. Frustrata nei suoi sogni da lavori faticosi e mal pagati, mal sopportata dalla famiglia della sorella presso cui si è sistemata, Carrie finisce per cedere alle lusinghe di un commesso viaggiatore di successo, Drouet, andando a vivere con lui. Ma la “foto” con cui Dreiser ritrae Drouet ce lo mostra come un personaggio anaffettivo, un donnaiolo che ama la vita, cui piace ostentare il proprio successo, frequentare i luoghi dei ricchi, apparire. Ben presto anche la bella Carrie diventa poco più che un trofeo da mostrare agli amici. È così che Drouet la presenta a George Hurstwood, affascinante direttore di un lussuoso caffè di Chicago. Hurstwood conduce una vita brillante godendo della stima degli amici, dei ricchi avventori e, soprattutto, dei due proprietari del locale. Ma l’attrazione per Carrie fa emergere, in Hurstwood, tutta la stanchezza di una noiosa routine familiare. Così, pur di ottenere i favori di Carrie, non immune dal fascino di Hurstwood, questi si impossessa dell’intero incasso di una serata e, con un sotterfugio, costringe Carrie a seguirlo. Rifugiatisi dapprima in Canada e poi a New York le strade dei due amanti si divaricano fino a dividersi. Mentre Hurstwood, costretto a restituire gran parte dei soldi rubati per non essere denunciato, si avvita in una spirale di autodistruzione, Carrie intraprende con sempre maggior decisione la strada del successo diventando una attrice famosa e osannata. Il realismo di Dreiser si evidenzia dalla totale assenza di critica, di giudizio o condanna morale nei confronti della protagonista che, al perbenismo dell’epoca, sarebbe potuta apparire come una semplice arrivista capace di costruire la sua ascesa sociale servendosi dei suoi due uomini, pronta ad abbandonarli al loro destino una volta raggiunti i suoi scopi. Né, tantomeno, vi sono giudizi sul furto compiuto da Husterwood; Dreiser si limita a descriverne i fatti. In queste descrizioni asettiche, algide si riflette la formazione dell’autore che era arrivato povero e giovanissimo – a soli 16 anni – a Chicago con la sola forte determinazione di avere successo. Dopo aver svolto tanti mestieri umili il futuro scrittore approda al Chicago Globe e, successivamente, al ST. Louis Globe-Democrat iniziando la sua attività di giornalista. L’esperienza decennale accumulata e la incessante lettura dei grandi scrittori europei (Zolà, Balzac, Hugo, Dickens, ecc.) rivela le origini della prosa di Dreiser. Leggendo Sister Carrie, infatti, si ha spesso la sensazione di trovarsi di fronte a scatti fotografici, cioè di fronte a vere e proprie istantanee. Non solo. Ma a far da sfondo al romanzo c’è anche la crisi sociale che attraversa il paese in quegli anni: povertà, scioperi (e qui è evidente l’influenza di Howells), il contrasto tra società benestante e miseria, la nascita delle prime organizzazioni assistenziali verso diseredati. Ed è da queste esperienze, da questa presa di coscienza, attraverso una catarsi della sua vita trasmutate nelle vicende di Carrie, senza pietismo, senza giudizi morali, senza lieto fine che nasce, potente, il realistico romanzo di “Sister Carrie”.

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A chi ama la letteratura americana fin de siecle (fine '800);
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68 Opinione inserita da 68    09 Aprile, 2024
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Pensieri di assenza

…”Nulla si avvicina davvero e nulla se ne va per sempre”….

Sei anni condivisi attendendo il futuro, un distacco improvviso, imprevedibile, inaspettato, traumatizzante, Amos e Anna, una coppia spezzata da un’ assenza che vive di memoria sospesa, di una trama vissuta, inventata, dolorosa, trattenendo l’ altro dentro una parte di se’.
Amos un giorno è uscito per non fare ritorno, accompagnato dalla propria smemoratezza, forse per dimenticare il presente, di lui si sono perse le tracce, il dolore di Anna rimane per sempre.
Una vita indebitamente sottratta, domande, sospetti, percorsi noti, l’ amore di madre, l’ impossibilità di abbandonare il cammino intrapreso per non cedere all’ oblio della dimenticanza.
In lei uno stato indefinito, specchiandosi nella assenza dell’ altro, afferrando tutto quello che di lui resta, carte, pagine, versi, poesie, aggrappata a una memoria che cambia e corrode uno stato di attesa

…” ora so che niente è più silenzioso della memoria”…

Tra le pagine un dolore vivido che stenta a prendere forma, una vita ritratta, giorni smarriti, una donna che mai avrebbe pensato di sostare in una memoria sospesa e cancellata, sola e priva di appigli.
Come ridefinirsi in un quotidiano condiviso con l’ altro e svalutato improvvisamente, in abitudini estranee a se stessi, Anna e le figlie si proteggeranno a vicenda da un dolore mutante, gli altri hanno perso le parole, in lei un unico giorno, quello della scomparsa, attendendo il passato, il ritorno di Amos, una possibilità che le impedisce di vivere perché

…” la terra degli assenti è un luogo inaccessibile”….

Il dolore ridefinisce durata e consistenza in una percezione tinta di reale circostanziato, dimensione propria di una vita diversa.
La scomparsa è morte annunciata sperando in un ritorno, la gerarchia della sofferenza esprime gradazioni diverse, domande che reinterpretano un passato condiviso, come e’ entrato Amos nella propria vita, che cosa era prima di quell’ evento. E allora riemergono un padre inesistente e una madre scomparsa prematuramente, un vuoto riempito di libri e di idee per non precipitare

…”Vivo dentro una fine lunga e lenta che si è mangiata anche i miei inizi, perché mi ha costretto a rivederli, a ripensarli, con quel poco di speranza che mi è rimasta “….

Anna staziona all’ interno dei propri ricordi in una dimensione di sguardi, la sua attesa è paralizzante, desiderio inevaso, reale immaginato in cui sopportare una malinconica assenza-presenza, solitudine sempre più profonda, un destino collettivo che non ha alleviato il proprio dolore, un lutto vissuto personalmente.
Sei anni condivisi in cui vivere una vita intera, un’ assenza definitiva che l’ ha condotta in giusta compagnia, ascoltando un dolore inascoltabile, ostinandosi a ricordare, abbandonata da Amos, dal destino o da entrambi. Un dolore speculare in un’attesa che mantiene vivo il ricordo, l’ incapacità di raccontare il proprio padre alle figlie, un uomo che ha sottratto una parte di se’, imbevuto di una nostalgia profonda.
Il tempo non concede sconti, vecchiaia e morte condurranno a una fine immediata e definitiva, e allora si parla di viaggio e di nostalgia, di un’ immersione nei pensieri dell’ assenza, di inizio e di fine vita, di un’ immagine lontana che era promessa di futuro, di una strada percorsa e interrotta, di un vento che accompagna i pensieri di tutti e li raccoglie, di tracce che nascondono la propria origine, di onde che si spezzano al largo e non giungono a riva,
Un romanzo dai toni essenziali, lirico, intimo, struggente, scritto durante un arco temporale di sedici anni, un giusto addio alla moglie Federica scomparsa il 14 agosto 2022, un viaggio fluido nella forza sfuggente e atemporale dell’ amore.

…”:ho scritto questo romanzo per dire cosa ho perso: pezzi di memoria, frammenti di vita, ricordi non miei che andranno smarriti, perché vanno perduti i ricordi di tutti”…

Scrittura e vita si fondono e si confondono, Amos è scomparso ma potrebbe non esserlo, chi è realmente e cosa rappresenta, che la sua assenza corrisponda alla presenza dell’ autore, un destino comune sospeso, due dolori condivisi, personaggi autonomi, cangianti, imperfetti, in cui riconoscersi, distanti, tutti e nessuno potrebbero identificarsi nelll’ autore e a lui appartenere, una trama in fieri, mondi che solo in apparenza non esistono

…” perché io sono Amos, e sono anche Anna, e sono tutti loro. Li guardo e li proteggo . E più li ho guardati e raccontati e’ stata la mia vita a finire dentro un disordine da cui non so come uscire”…

Di certo la vita è un viaggio sentimentale in evoluzione continua, indefinito e indecifrabile, privo di certezze, se non che

…” nel passato, quelli che ami non muoiono”…



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Romanzi autobiografici
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    09 Aprile, 2024
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Verità è finzione

“Come avevamo fatto ad arrivare al punto in cui ciò che volevamo dirci fluttuava nelle pause che dominavano la conversazione?”

Valeva la pena aspettare 13 anni per avere un nuovo romanzo da Bret Easton Ellis dopo il suo capolavoro, American Psycho! Anticipo subito che a me questo “Le schegge” è piaciuto moltissimo.
Il romanzo, di mole consistente (oltre 700 pagine) è un thriller psicologico che si potrebbe definire di autofiction. Difficile dire dove una sconfini nell’altra. Siamo in uno dei più rinomati licei di LA, la Buckley School, nell’autunno del 1981. Protagonista Bret e un gruppo diciassettenni studenti che tra una festa, un film, tanti alcolici, droga a fiumi e amori promiscui ma nascosti inizia a scoprire e a riconoscere impulsi omosessuali e a farci i conti nella vita dell’epoca. L’ambiente è molto ricco, impregnato da un forte senso di noia, i passatempi costosi, le case sono ville con piscina e servitù, i soldi e le auto di lusso sono la normalità. L’inutilità del vivere sempre in sottofondo insieme ad una narrazione diversa da parte di ciascuno. Ognuno fa la sua, non ci sono rapporti veri. Lo stesso Bret ad un certo punto impone a se stesso una diversa narrazione, comunque falsa. Tutto è vero e tutto è falso. La storia e i rapporti tra i ragazzi sono un gigantesco castello di carte pronto a crollare non appena il sottile filo di finzione che li tiene insieme cederà.

“La giornata diventava semplice una volta che fingevi, anzi, diventava più vera grazie al fatto che avevi cambiato atteggiamento; la recitazione diventava la realtà e influenzava ogni cosa in un modo che sembrava positivo. In effetti, era preferibile alla realtà.”

I protagonisti sono molto amici e vivono insieme la vita scolastica ed il tempo libero con molto in comune, sinceri solo all’apparenza. Falso è infatti il racconto che ciascuno fa all’altro e forse anche a se stesso. Questa sovranarrazione è molto bella e rende speciale l’atmosfera del romanzo. Tutto è narrato con estrema chiarezza, le scene di sesso non lasciano nulla all’immaginazione (proprio nulla), eppure è realmente la verità quella che scorre nelle pagine?
La storia procede, i fatti avvengono, ma non spostano di uno spillo l’immobilità del tutto. E la descrizione dello sfondo, che sfondo che tale non è, passa in primo piano, con la stessa importanza dei fatti. Ed è fatta benissimo.
La notizia all’inizio è che sta per arrivare in classe un nuovo compagno, Robert Mallory. La cosa passa sottotono, non desta interesse particolare nel piccolo gruppo di amici del quale Bret fa parte (due coppie, Bret e Debbie, Susan e Tom e alcuni altri compagni che gli girano intorno). Si pensa addirittura di organizzargli una festa di benvenuto.
Inizia poi a sparire una ragazza, non fa però parte del gruppo e non ci si fa troppo caso. I dettagli, macabri e terribili, vengono tenuti riservati dalla polizia che sta indagando. L’assassino viene soprannominato “il pescatore a strascico”.
Nel frattempo il protagonista, Bret, inizia a sentirsi a disagio e disturbato dal nuovo compagno che pare inseguirlo e controllarlo fino a crearsene una vera paranoia. E mentre Bret vive in modo nascosto la propria omosessualità, dissimulandola grazie al suo presentarsi al mondo con Debbie, Robert Mallory sembra volerlo ostacolare anche in questo percorso con gli amici. Bret inizia a supporre che quanto racconta Robert in merito al suo passato non sia vero e che anzi nasconda molto che non racconta, anche del presente, al punto da averne quasi paura.
Poi scompare un compagno, Matt, con il quale Bret aveva avuto una storia sentimentale e sessuale. Viene ritrovato cadavere in condizioni orrende. Bret ritrova dettagli, indizi, e tutti e tutto porta a Robert Mallory. Nulla però inchioda definitivamente Robert, e il mondo legge supposizioni di Bret come un’ossessione. Robert infatti per il resto del mondo è un bravo ragazzo di bell’aspetto, gentile ed educato.
Bret inizia ad avere seriamente paura e al contempo impone a sé stesso di ritornare felice, entusiasta, senza alcun sospetto.
La storia è una continua raccolta di indizi: tutto porta a Robert e Bret ne è sempre più convinto anche se i suoi amici considerano follia la sua ipotesi e temono per la sua sanità mentale.
Come sempre però in questo genere di romanzi, nulla è vero di ciò che sembra. Ma quale è alla fine davvero la verità?
In alcune scene l’autore riesce a creare una tensione narrativa notevole e anche quando si rientra nella “normalità” la tensione che pervade il romanzo non cede. Il lettore si immedesima in Bret, si sente Bret, si convince con lui, legge gli indizi allo stesso modo.
Alcuni lettori hanno criticato l’eccessiva lunghezza del romanzo. Poteva “Le schegge” essere più breve senza perdere forza narrativa? Forse sì, forse una sforbiciata di 200 pagine non avrebbe penalizzato il romanzo lasciandone intatte le caratteristiche. Però la storia non pesa mai, anzi scorre e affascina esattamente così com’è, in perfetto equilibrio e tensione narrativa. Il lettore si immerge in un mondo tanto normale quando distopico, tanto tranquillo quanto pauroso, tanto vero quanto falso, dove si perdono i riferimenti tra normalità e ciò che non lo è.
Bello questo “Le schegge”, davvero molto bello e consigliato.

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Fantascienza
 
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WottaCambija Opinione inserita da WottaCambija    08 Aprile, 2024
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La negazione dell'Uomo

Contiene spoiler (segnalato). Un vero e proprio capolavoro per struttura e contenuti che spazia dalla filosofia alla politica in un contesto distopico e visionario. 1984 è un monito a quelli che sono i rischi dell'ideologia totalitaria ed estremista. L'estremismo politico certamente, dove si gusta quel sapore di comunismo e nazismo portato alla massima potenza, ma ancor più di ogni altra cosa l'estremismo dell'ideologia nichilista che drasticamente annulla il senso dell'essere umano. Sembrano non esserci speranze nelle oltre 300 pagine di questo romanzo se non in un breve spiraglio in cui ci si illude che forse quel gigantesco colosso insormontabile chiamato Partito possa effettivamente essere combattuto. Speranze disintegrate pagina dopo pagina come dentro una morta che non conosce una stretta massima. Se inizialmente si percepisce l'occhio attento e onnipresente del Partito che tutto vede e tutto punisce, mano a mano che si entra nelle logiche/illogiche dello stesso si avverte solo un estremo senso d'impotenza. Nulla conta se non il Partito, che è l'unica verità, l'unica certezza, l'unica cosa che più semplicemente è. Esiste solo il Partito, sempre e per sempre, spaventoso nel suo elaborare concetti come il bipensiero o una lingua come la neolingua (o parlanuovo) che ha come unisco scopo quello di eliminare progressivamente il linguaggio. Non esiste un limite al nichilismo e al controllo che spazia dallo spazio al tempo, come non esiste limite alle torture di chi non vuole arrendersi e sottomettersi al Partito. Non si pensi di scampare con la morte, è il Partito che decide come e quando devi morire e in ogni caso non ti farà morire da "eretico".
Sembra un libro senza speranze, eppure una gigantesca e schiacciante speranza c'è.

SPOILER

Nell'appendice finale dove si descrivono i principi della neolingua (o parlanuovo), tutti i verbi utilizzati sono al passato dando l'impressione che si parli come di una cosa superata che ha fallito nel suo intento ed è crollata.

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Consigliata a tutti ma in particolare agli amanti della storia del '900 e del distopico.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Aprile, 2024
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Daddy Long Legs

Pubblicato oltre un secolo fa, "Papà Gambalunga" è un classico per ragazzi che non dispiace leggere (o eventualmente rileggere) anche da adulti.
Queste pagine offrono una storia semplice, ma molto coinvolgente, firmata dalla scrittrice statunitense A. Jean Webster (1876-1916) che affronta temi legati alla realtà sociale del suo tempo: orfanotrofi, istruzione ed emancipazione femminile. Si tratta di un romanzo epistolare la cui protagonista è appunto un’orfana, Judy Abbott, che intorno ai diciassette anni può lasciare l’asilo “John Grier” per frequentare l’università grazie all’interessamento di un assai ricco e misterioso benefattore; la ragazza gli scrive regolarmente per aggiornarlo sui suoi studi, ribattezzandolo fin da subito “Papà Gambalunga”, senza però mai ricevere risposta alcuna. Il mistero si svelerà soltanto alla fine del libro, con un epilogo davvero a sorpresa!
Nonostante il tempo passato, la prosa della Webster conserva una singolare piacevolezza, mentre quello della protagonista / voce narrante del romanzo appare un personaggio molto carino e ben riuscito.
Com'è noto, la vicenda di Judy Abbott è stata oggetto di fortunate trasposizioni teatrali e cinematografiche, persino di animazione. Un classico certamente da riscoprire!

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    07 Aprile, 2024
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La magia del ricordo

Piccolo libro che lascia un grande senso di nostalgia e che ti avvolge nella magica atmosfera dei ricordi. Siamo in una locanda giapponese dove gli avventori hanno la possibilità di commissionari piatti che hanno avuto un piccolo ruolo nella loro vita accompagnando momenti per loro importanti, chiedendo di poterli rigustare, anche se magari non come copia fedeli ma come rivisitazioni. L’idea di fondo è senza dubbio originale e si colloca nel contesto di una cultura del ricordo, della tradizione, che trasmette un senso di calore e di famiglia. I dettagli, pur non essendo io un’esperta di Giappone né tanto meno della loro cucina, ti avvolgono in un universo di sensazioni gustative, olfattive e tattili. La scrittura è elegante, poetica e coinvolgente. Perché non so cosa pagherei per poter riassaggiare ancora una volta questi quattro piatti a rotazione così speciali che mi cucinava mia nonna la domenica sera, oppure quella torta al cioccolato con la glassa così speciale che mi preparò un giorno mia mamma. E’ un libro intimista, fatto di boccioli di magia.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    06 Aprile, 2024
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Saga multi-familiare

Smetterò mai di acquistare libri che poi lascio stagionare per secoli sugli scaffali? Forse un giorno sì, ma intanto conservo questo mio vizio che ha portato una copia usata de "Il peso dei segreti" ad attendere per più di quattro anni prima di essere scelta dalla sottoscritta come nuova lettura. Per mia fortuna, l'opera d'esordio di Shimazaki è un tipo di narrazione che trascende il tempo, quindi risulta apprezzabile oggi come all'epoca della sua prima pubblicazione in Italia.

Il volume si compone di cinque parti, inizialmente pubblicate separatamente, che formano una sorta di epopea familiare nella quale le vicende personali si intrecciano alla Storia -del Giappone in particolare e dell'Asia orientale in generale- durante la prima metà del Novecento. Tutto parte nel presente, con la morte di Yukiko Kamishima che lascia alla figlia Namiko una missione: trovare lo zio del quale non ha mai saputo nulla per consegnargli una misteriosa lettera; questo lascito porta a delle rivelazioni stupefacenti, che vanno ad inglobare un numero sempre più ampio di personaggi ed alzano il velo su delle esistenze solo all'apparenza ordinarie.

L'esordio della cara Aki è una lettura da assaporare, andando oltre una prosa molto diversa da quelle occidentali, che in un primo momento potrebbe risultare straniante. In effetti l'utilizzo di periodi molto brevi la fa sembrare scarna, eppure è capace di trasmettere un senso di grande delicatezza; non nuoce che renda anche la lettura molto rapida ed avvincente. Un altro piccolo scoglio è rappresentato dall'edizione -molto curata e con un utile glossario, ma che crea confusione nei dialoghi per la scarsità di segni grafici- e dal tono un po' troppo soapoperistico dei colpi di scena: personalmente li ho però trovati brillanti e ben contestualizzati ai temi ricorrenti dell'abuso psicologico e del dramma generazionale.

Passando a difetti più solidi, ritengo giusto segnalare due elementi. Il primo riguarda la mancanza di descrizioni dei personaggi; una scelta narrativa che rende ovviamente difficile distinguerli, anche perché adottano termini e strutture linguistiche troppo simili le une alle altre. Anche la seconda problematica è legata ai dialoghi, in particolare alle battute poco naturali che hanno la sola funzione di fornire determinate informazioni al lettore. Avranno la loro utilità, ma sono abbastanza frequenti e palesi da infrangere la sospensione dell'incredulità.

Finora ho parlato quasi esclusivamente di aspetti negativi, e vi potreste giustamente chiedere perché ho assegnato il massimo della valutazione ad un libro tanto manchevole. Come ho già accennato, si tratta di una storia alla quale va dato tempo, perché combinando quanto raccontato nelle cinque parti si crea un intreccio doloroso ed emozionante: il primo racconto può risultare soltanto carino, ma ripensandoci alla fine del volume acquista tutta un'altra potenza narrativa. Nel testo spiccano poi delle tematiche molto importanti e (immagino, sulla base della brevissima biografia) care all'autrice. Si parla infatti della guerra e delle sue conseguenze, delle convenzioni sociali e del modo in cui influiscono sui legami interpersonali, del rapporto verso un'autorità dispotica, delle migrazioni e della colonizzazione.

La storia dei personaggi fittizi è inoltre intrecciata in modo superbo con reali eventi storici, come il grande terremoto del Kant? del 1923 e lo sgancio della bomba Fat Man su Nagasaki, creando una mescolanza credibile tra gli elementi storici e le vite dei protagonisti. Personalmente ho poi apprezzato molto come l'autrice si focalizzi sui caratteri femminili: pur seguendo anche i punti di vista di personaggi maschili, le donne sono il cuore di questa narrazione in cui si da finalmente voce a sofferenze per troppo tempo taciute.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    06 Aprile, 2024
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Le ultime emozioni dei morti

Giallista italiano capace di creare personaggi che sono gemme. Capace di circondarli di personaggi minori che sono forse ancora più speciali. Come in questa serie che vede come protagonista il commissario Ricciardi, dalla ciocca di capelli ribelle, ma nei cui casi ritroviamo sempre un brigadiere, Maione, ed un personaggio locale, Bambinella, a cui ci affezioniamo ogni volta di più. Il commissario ha la capacità di percepire il dolore sospeso nell’aria dopo una morte violenta e questo dono per lui è una condanna ad una solitudine e ad un senso di angoscia da cui non riesce ad uscire. La sofferenza fa da perenne sfondo alla sua vita e lui non riesce a sganciarsi da questa sensazione di fondo che lo tormenta e che lo affligge. L’ottuso ripetersi dell’ultima emozione dei morti è la sua ossessione, fino alla soluzione del caso, che gli dà un senso di liberazione. Il baratro in cui precipitano i sopravvissuti è la ciò che dà un senso al suo lavoro. Il suo intuito è la chiave per comprendere il movente e trovare il colpevole, perché sono sempre le passioni a generare le morti violente. Le sue storie hanno sempre un colore grigio, un velo di tristezza e malinconia che è difficile scostare. Ma se è vero che un uomo muore quando non significa più niente per nessuno, i morti che il commissario incontra sulla sua strada non muoiono mai.

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Romanzi storici
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    04 Aprile, 2024
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Lorenzo Falcò in missione a Parigi.

"Sabotaggio" è il terzo noir della serie dedicata da Pérez-Reverte al protagonista Lorenzo Falcò, un ex trafficante di armi, spia dei franchisti spagnoli: un avventuriero senza scrupoli, bello, elegante, donnaiolo, schierato per soldi più che per convinzione ideologica. Siamo negli anni della guerra civile spagnola, il governo repubblicano di ispirazione marxista vacilla travolto dall'insurrezione militare di destra, guidata dal generalissimo Franco. Un influente capo dei servizi segreti, noto come l'Ammiraglio, affida a Falcò un'importante missione, questa volta in Francia: il compito è duplice, eliminare un importante scrittore, Leo Bayard, fervente comunista, aviatore provetto ed autore di incursioni aeree sul territorio spagnolo, e, contemporaneamente, fare in modo che una grandiosa opera di Picasso ("Guernica") non venga esposta all'Esposizione Universale di Parigi. Falcò parte e, già in vagone letto del treno per Parigi, passa una notte a luci rosse con due americane conosciute poco prima: le incontrerà di nuovo a Parigi, ed avrà modo di esercitare le sue impareggiabili doti di seduttore. Ma il compito affidatogli è ben altro: riuscirà, spacciandosi per collezionista d'arte, a incontrare sia Leo Bayard ed una sua amica, la fotografa Eddy Mayo, sia Picasso, che arriverà a fargli un ritratto. Parigi non è un posto tranquillo. Il governo guarda con simpatia i repubblicani spagnoli, mentre in città proliferano spie russe, naziste e fasciste, in un susseguirsi pericoloso di azioni di spionaggio e controspionaggio. Falcò è un esperto del mestiere, si finge simpatizzante di sinistra, guadagnandosi le simpatie di Bayard, e, nel frattempo, riesce, con un'azione delittuosa e con lettere e documenti falsi, a convincere chi di dovere che Bayard è una spia al servizio dei franchisti, condannandolo quindi ad una sicura eliminazione. Falcò deve anche sfuggire ad un attentato, gettandosi nella Senna, ma trova il tempo ed il modo di corteggiare e conquistare un'affascinante cantante nera. La trama è molto complessa, ricca, soprattutto nel finale, di colpi di scena, che confermano il doppiogiochismo di certi personaggi, ritenuti integri e ben schierati. Il nostro riesce anche a danneggiare l'opera di Picasso, che l'artista riuscirà in extremis a riparare e ad esporre, sia pure con ritardo, all'Esposizione Universale.
Il racconto è intrigante e tiene con il fiato sospeso, ambientato in un contesto drammatico, dove i principali personaggi si guardano costantemente le spalle e temono amici e nemici, sempre all'erta e con la pistola in tasca. Nel finale, un accenno a quell'Eva Neretva, la leggendaria spia sovietica del precedente romanzo della trilogia ("L'ultima carta è la Morte"), scomparsa nel nulla, l'unica donna per la quale Falcò abbia provato e provi ancora inusitati sentimenti di tenerezza.
Numerose le celebrità che appaiono nella narrazione: su tutte Picasso in persona, nel suo studio, e Marlène Dietrich, in tutto il fascino e l' enigmatica bellezza di donna irraggiungibile. Una vera perla il suo fuggevole incontro con Falcò, in un night, ed un sorprendente bacio rubato. La critica ha voluto riconoscere nomi famosi in altri personaggi, ad esempio in Eddy Mayo la fotografa Lee Miller, allieva di Man Ray, in Bayard lo scrittore comunista André Malraux e in un manesco amico di Bayard, l'americano Gatewood, addirittura Ernest Hemingway.
Pérez-Reverte è un maestro nella letteratura di spionaggio, il ritmo è sempre incalzante, la descrizione della Parigi del 1937 è ben documentata e precisa: una città in pieno fermento intellettuale alla vigilia di una guerra devastante, ove può succedere tutto ed il contrario di tutto, in un crescendo di tensioni, azioni delittuose e colpi a sorpresa.
Per gli appassionati del genere, un romanzo da non perdere.


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I precedenti romanzi della trilogia di Lorenzo Falcò, "Il codice dello scorpione" e "L'ultima carta è la morte" dello stesso autore.
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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Aprile, 2024
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Rocco e l'ELP

Un marito violento ucciso con un colpo di pistola in fronte e l’omicidio di un imprenditore di una fabbrica di pellami e sullo sfondo lo scenario degli ambientalisti dell’ELP, l’Esercito di Liberazione del Pianeta.
Questi sono i due nuovi casi cui il vicequestore Rocco Schiavone deve far fronte in quest’ultimo libro di Antonio Manzini.
Avevo lasciato un po’ indietro, i gialli di Manzini con Rocco Schiavone, perché devo dire la verità, ma è un mio difetto, quando poi dai libri ne fanno delle serie tv, perdo un po’ l’entusiasmo a leggere, perché non fantastico più, mi ritrovo già tutto fatto, personaggi, luoghi, dialoghi e m’impigrisco un po’.
E’ il motivo per cui non ho più letto De Giovanni o Camilleri, perché ormai per me Montalbano è Zingaretti e Gassmann il commissario Lojacono e non mi diverte più, si perché per me leggere è anche e soprattutto un “divertissement”, e non c’è svago senza l’uso della fantasia.
Ma con Antonio Manzini, non è così. Anche se devo ammettere che Rocco Schiavone è Marco Giallini, e non potrebbe essere nessun altro, tornare a leggere lo Schiavone di Manzini è un po’ come tornare a casa sedersi sul divano e perdersi dentro l’ennesima storia calda e avvolgente, nonostante, o forse proprio per quello, i personaggi e i luoghi siano gli stessi. Ma la trama è ciò che li contraddistingue, che è sempre originale e imprevedibile, e non solo nella risoluzione dei gialli, perché questo sono, più o meno complicati, ma anche e soprattutto nelle relazioni tra i protagonisti di questi romanzi che ruotano si intorno a Rocco, ma che hanno però una parte e un posto altrettanto importante quanto lui. Antonio, Deruta, D’intino, Casella, il questore, Baldi, la giornalista, Brizio, Furio, Sebastiano sono pezzi integranti , ma non aggiunti a Schiavone, unica star: tutti brillano di luce propria, e non esisterebbe Schiavone senza di loro.
Un romanzo di Manzini non è solo un giallo, ma una macchina complessa di rapporti e relazioni tra i vari personaggi, che non potrebbe funzionare altrimenti.
E poi le riflessioni sulla vita, sul suo valore, sulla morte, sull’amore e l’amicizia, nel loro senso più profondo, riempiono l’anima di chi legge.
Insomma un giallo di Manzini non è solo un caso da risolvere ma un’esperienza da vivere o meglio da leggere!

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Aprile, 2024
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Il commissario piemontese

Bartolomeo Rebaudengo, dal nome originale e altisonante, è il commissario di Alassio, amena cittadina della riviera Ligure.
Il commissario però è piemontese e non ama il mare e tutto ciò che gli appartiene, lui ama la sua terra, le montagne, i boschi e la cucina dei luoghi natii.
Questa è la prima prova per Rebaudengo di mostrare il suo intuito e il suo metodo di investigazione.
Nella narrazione viene infatti denunciata, dalla moglie, la scomparsa di un professore di filosofia e pochi giorni dopo viene rinvenuto il corpo di una ragazza, nuda in un cerchio di candele scure, palesemente strangolata.
La soluzione del caso ruota tutta intorno al commissario, ed anche se si avvale di validi collaboratori sarà solo grazie alla sua tenacia e ostinazione che si arriverà a svelare l’assassino.
Il giallo non è molto originale, anche se ben scritto, con dettagliate descrizioni dei panorami, degli usi e costumi liguri e piemontesi, con sprazzi qua è la anche dell’uso dei dialetti locali.
Il commissario è una bella figura, imponente, quanto il suo nome, belloccio e piacente senza alcun vanto.
E già da questo romanzo nasce infatti una liason tra lui e il medico legale, la dottoressa Ardelia, anche lei con un nome molto impegnativo! E non si può dire che l’autrice non si sia sforzata nel cercare un po’ di originalità se non altro in questo. Perché il resto risulta un po’ banale.
Il finale è abbastanza scontato, e, secondo me, anche questo, un po’ forzato, proprio per dare un tocco di peculiarità e di modernità, scostandolo volutamente, un po’ dai ruoli classici. Ma mi è sembrato poco convincente e soprattutto poco coinvolgente.

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AndCor Opinione inserita da AndCor    04 Aprile, 2024
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Così (non) è, se vi pare

Bristol, 2009.
Jenny Malcom è una dottoressa in carriera, moglie di Ted, neurochirurgo, e madre di Theo, Ed e Naomi. È proprio la misteriosa sparizione di quest'ultima a rompere gli equilibri e le consuetudini di una famiglia britannica apparentemente normale.
Le forze dell'ordine indagano su più fronti, incluso quello relativo al pedofilo che si aggira in città nell'ultimo periodo, mentre la donna si rende conto con colpevole ritardo di aver trascurato tanti, troppi dettagli mutati di recente nella vita dei propri cari: è con queste premesse che inizia un romanzo dai contorni più noir che thriller fatto di disattenzioni, tradimenti, sospetti e di un concetto di empatia abbastanza distorto e rivedibile.

Maternità, senso di colpa, autocoscienza, solitudine e frustrazione sono solo alcune delle tematiche di un testo capace di leggere e di farsi leggere attraverso una narrazione schietta, asciutta e strutturata su due piani temporali, che racconta di come spesso la realtà e l'apparenza viaggino in perpetuo su due rette parallele.

Sebbene la trama difetti un po' di fluidità nella prima parte, il punto di forza riguarda certamente il complesso delle personalità e dei profili psicologici dei personaggi, in particolare della protagonista - lucida nell'autoanalisi e consapevole di trovarsi in un loop mentale non semplice da gestire -, che si incastra bene in un climax ascendente di consapevolezza, angoscia e orrore: il nucleo familiare viene sminuzzato ed esaminato nei suoi punti più oscuri, con il lettore che non potrà distaccarsi da questa sorta di "sgretolamento affettivo" capace di abbattere tutte le barriere tra ciò che è vero e ciò che è falso.

Da un lato, le impressioni vostre e di Jenny nel prendere forma pagina dopo pagina.
Dall'altro, un mistero dalla risoluzione inaspettata che include un nome femminile di origine gallese dal significato meraviglioso.

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Romanzi
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    03 Aprile, 2024
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"Basta Pre Occupazione"

Questa storia, vera, sembra incentrarsi sull’amicizia impossibile tra il palestinese Bassam e l’israeliano Rami che vivono a Gerusalemme su fronti geograficamente opposti e sulle loro bambine Abir e Smadar. C’è qualcosa che li unisce nel profondo, e questo qualcosa non fa differenza di nazionalità, cultura, ideologia, religione…hanno entrambi visto morire le proprie figlie innocenti in situazioni violente.

Smadar ha tredici anni, quando il 13 settembre 1997 dei terroristi si fanno esplodere in strada e lei viene travolta dall’esplosione. Ascoltava musica in cuffia e camminava in compagnia di altre amiche. McCann non ci risparmia dettagli sui corpi dilaniati.

Abir Aramin viene colpita dal proiettile sparato da un ufficiale israeliano che si era sentito in pericolo, in pericolo da una bambina di dieci anni, tanti ne ha Abir nel 2007. Indossava la divisa scolastica ed era appena uscita da un negozio dove aveva comprato le caramelle, un bracciale di caramelle che suo padre porterà con sé alle riunioni. Le caramelle più costose del mondo dirà sempre.
“Il proiettile di gomma scagliò Abir al suolo a faccia avanti.”

Bassam ripercorre la tentata corsa verso l’ospedale, venti minuti al di là del Muro, l’ambulanza col divieto di muoversi, ferma al checkpoint e la sua litania…ti prego, ti prego, ti prego... La descrizione è talmente angosciante che un film non riuscirebbe a rendere più nitidamente lo strazio di questo padre impotente che implora l’ambulanza di partire. Mi ritrovo a farlo anche io parti, parti, parti…anche se già so come evolverà.
“Continuo a sedermi in quell’ambulanza, ogni giorno. In attesa che si muova.”
“Svegliati, Abir, svegliati.””

Questo lunghissimo racconto di eventi nasce dai numerosi incontri dell’autore con i due genitori, che hanno fatto una scelta diversa dall’odio che pure provano, ma che sarebbe stato solo autodistruttivo e che invece diventa un punto di ripartenza per instaurare un dialogo, un comune sentire il dolore, una consolazione, non ho paura di dire un’amicizia che diventa fratellanza, oltre il credibile, oltre il possibile, oltre i contrasti e le divergenze. La loro calma, compostezza, dignità.
L’autore ce lo racconta in tanti piccoli commoventi suggestivi passaggi.
Rami e Bassam, il loro capirsi al volo, il loro salutarsi come fossero fratelli da sempre, alzando semplicemente la mano in segno di saluto. Sono dettagli di straordinaria commozione, poche parole che bastano ad aprire un mondo, un apeirogon.

L’autore parlando di Rami e Bassam dice, “guarda l’amico infilare il casco”.
“Hai un faro spento.
Il tuo faro è rotto, fratello.”
Non si chiamano per nome ma dicono l’amico, il fratello.
“Tre brevi pulsazioni della luce di stop, il loro personale codice morse.”
“Basta PreOccupazione.”
“Sono a casa fratello, il pollice su come risposta.”

Il dolore abbatte le barriere, abbatte i muri, abbatte i preconcetti, rende tutti uguali, tutti ugualmente straziati.

E’ una cosa enorme. E nel libro si percepisce tutta questa magia.

Bassam, è così empatico, così attrattivo. Il suo zoppicare così familiare. Distolgo lo sguardo dalla carta perché non so come reagire. Ma poi riprendo la lettura perché è talmente magnetico, voglio sapere di più, voglio conoscerlo meglio.

Mi soffermo a pensare che le loro figlie sono uguali alle nostre, con i piercing, i Dr. Martens, le cuffie e la musica che è quella che conosco benissimo perché l’ascolto anche io, i capelli cortissimi, i balli sfrenati e improvvisati.
Il dolore e le lacrime sono le stesse di quelle che sto’ piangendo io.
Allora mi chiedo…pensavo che il dolore in quelle zone fosse un’abitudine? Che fosse un rischio calcolato? Mi vergogno di questa riflessione.
“Era strano pensare che fuori da lì ci fosse anche un altro mondo, un mondo normale e funzionante.”
Quella che io genericamente e con ignoranza definisco banalmente guerra, Medio Oriente, è la vita di donne, uomini, bambini che non possono distrarsi.

Il racconto degli eventi tragici che hanno visto morire Smadar e Abir raccontati più e più volte, continuamente, affinché il dolore ci investa davvero nella sua grandezza.

I capitoli sono brevissimi, anche di una sola frase. La prosa è fluente ma a volte devo tornare indietro per fare ordine e rileggere.

Dopo le rispettive tragedie trovano un nuovo motivo di vita nell’organizzazione di cui Bassam è tra i fondatori, “Combattenti per la Pace”, composta da israeliani e palestinesi uniti per fermare le violenze e promuovere il dialogo e la reciproca accettazione dell’altro.
Iniziano i loro incontri sempre allo stesso modo, sempre come fosse la prima volta, perché in questo modo Abir e Smadar rinascono a nuova vita ogni volta.
“Sono Bassam Aramin, il padre di Abir.”
“Sono Rami Elhanan, il padre di Smadar.”
“Abir. Dall’arabo antico. Il profumo. La fragranza del fiore.”
“Smadar. Dal Cantico dei Cantici. Il grappolo della vigna. Il fiore che si schiude.”
“Erano così uniti e vicini che, dopo un po’, Rami sentì che avrebbero potuto concludere l’uno la storia dell’altro.”

“Non finirà finché non ci parliamo.”

Il titolo del libro diventa sempre più chiaro man mano che si avanza nella lettura, il poligono dall’infinito numero di lati rimanda a tantissimi pensieri che via via prendono forma. Mai un titolo è stato più centrato.
Infiniti sono i punti di vista che mi appaiono durante la lettura. Non uno. Non due. Infiniti. Si è possibile.
Sembra strano come una lettura possa avere un effetto così “illuminante”, ma tanto è successo. Non sono israeliani, non sono palestinesi…sono persone non violente, che non hanno chiesto di vivere ciò che hanno vissuto, ma più di tutto nessuno di loro ha più ragioni o più torti dell’altro…suo fratello.
Non ci avevo mai riflettuto abbastanza, così concentrata a sentire solo il rumore assordante delle esplosioni e dei bombardamenti che ci sono, non ho colto nella confusione generale l’urlo disperato dell’innocente ambulanza ferma al checkpoint. Non ho colto l’infinità delle molteplici possibilità.
Non ho visto questi due uomini che si tengono per mano.
Non avevo.

Buone prossime letture.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    02 Aprile, 2024
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Nonostante tutto, ho voglia di cioccolata calda

Dopo aver ottenuto una buona visibilità a livello nazionale ed internazionale, "Perché hai paura?" è approdato anche sulle coste nostrane e -per merito di una sinossi accattivante e di alcuni consigli da parte di altri lettori- è finito nei miei radar. La promozione sui volumi editi da SEM mi sembrava un'ottima occasione per acquistalo, anche se a conti fatti mi sarebbe convenuto aspettare l'uscita dell'edizione Universale Economica… pazienza! Ciò che conta è aver recuperato un titolo decisamente valido, anche se non per tutti: attenzione ai trigger warning!

La narrazione si apre con una premessa ambientata all'Università di Tours, dove il docente François Villemin sta tenendo una lezione particolare; l'uomo spiega infatti ai suoi studenti che non troveranno alcun riscontro documentato degli eventi di cui parlerà. A questo punto comincia la prima parte nella quale le vicende si spostano in Normandia; qui vediamo l'alternarsi di due linee temporali: una nel 1949 -anno in cui la governante Suzanne "Suzie" Hurteau viene assunta per prendersi cura di un gruppo di bambini durante una sorta di vacanza estiva su un'isola misteriosa- ed una nel 1986 con protagonista Sandrine Vaudrier, giornalista nonché nipote di Suzanne che approda a sua volta sull'isola dopo la morte della nonna.

Questo spunto iniziale purtroppo non rende minimamente l'idea della complessità del romanzo, che a più riprese è riuscito a stupirmi con dei colpi di scena capaci di ribaltare tutte le certezze di chi legge. Non si tratta di un'indagine in cui bisogna accompagnare l'investigatore di turno per far luce su un crimine, anzi le informazioni vengono elargite in abbondanza e con pochissime riserve da parte dei personaggi; eppure si costruisce pian piano un intreccio complesso, che poggia su una struttura per nulla prevedibile. In realtà qualcosa si può anche intuire, ma soltanto quando ormai si è ad un passo dalla rivelazione di turno, e questo per me ha reso i colpi di scena ancora più intriganti.

Ad eccezione di alcune sbavature, mi sento di promuovere anche lo stile di Loubry, che indubbiamente è molto abile nel creare delle ambientazioni cupe e claustrofobiche, perfette per trasmettere un senso di inquietudine ed ambiguità. Mi piace poi come l'autore descriva alcune azioni dei personaggi dando voce ad elementi naturali o ad oggetti inanimati, donandogli una sorta di personalità. È inoltre molto abile nel caratterizzare i suoi personaggi, in particolare i protagonisti che si discostano parecchio dagli stereotipi dei generi thriller e horror, risultando così decisamente credibili nelle loro azioni.

Ma quali sarebbero le sbavature di cui accennavo? si tratta principalmente dell'eccessiva artificiosità dei dialoghi, sia nella scelta del lessico che nella formalità fuori luogo; in alcune parti del testo questo elemento sarebbe stato anche calzante, ma adottarlo sempre lo rende poco funzionale e fastidioso. Non posso dire di aver apprezzato neanche i repentini cambi di prospettiva, a volte nel corso di una singola scena, che confondono inutilmente le idee al lettore su chi sia il personaggio sul quale deve focalizzare la sua attenzione.

In più di un caso poi non ho in tutta onestà capito quale fosse la logica dietro la divisione dei capitoli in paragrafi, perché tra l'uno e l'altro non cambiavano il momento o l'ambientazione, e neppure il POV di riferimento. In quanto inguaribile ottimista -nonché lettrice che ha veramente apprezzato questo romanzo- voglio dargli il beneficio del dubbio ed immaginare che l'intenzione fosse quella di dividere anche graficamente le riflessioni interne dei personaggi.

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68 Opinione inserita da 68    01 Aprile, 2024
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Infinito mostrarsi


Leggerezza e pesantezza, forza e debolezza, fedeltà e tradimento, anima e corpo, luce e buio, felicità e tristezza, forma e contenuto, flussi antitetici e complementari in una trama dai contenuti variegati e complessi. Un costrutto che attraversa il tempo, due coppie, unioni, intrecci , separazioni e una certezza:

..”l’ opposizione pesante-leggero e’ la più pesante e la più ambigua tra tutte”….

Praga, Tomas ama Teresa, Teresa ama Tomas, Franz ama Sabina, Sabina ha amato Franz, anni trascorsi nel cuore di digressioni socio-filosofico-esistenziali e dell’ invasione russa del 1968.
Che cosa concerne un certo modo di essere, che cosa induce a considerare l’ esistenza tinta di eterno ritorno, la pesantezza insostenibile e la leggerezza meravigliosa?
La vita è unica e come tale va vissuta, senza confronti ne’ rimpianti, ma vivere una volta soltanto è come non vivere affatto, il passato un’ essenza appiccicata addosso, un percorso non circolare che attraversa una linea retta.
Tomas è uno stimato chirurgo che sarà un lavavetri, un donnaiolo pervaso da un’ incompletezza sentimentale che ricerca la peculiarità femminile nella sessualità, il suo amore per Teresa è nato per caso, da una serie di coincidenze, un sentimento bello ma faticoso nel quale fingere, consolare, subirne le accuse, i sogni, sentirsi colpevole, giustificarsi, scusarsi, con la necessità di disamorarsi di una compassione che non ha e di cui lei lo ha riempito.
Tereza vive i tormenti di un amore sofferto, negato, assoluto, con la continua paura di perderlo, uno stato di debolezza e di rassegnata consapevolezza di essere una delle tante donne di Tomas, ricercando la propria anima in uno specchio che le riflette il corpo materno, il destino di
figlia in una colpa che non potrà mai espiare.
Franz è un professore universitario sposato e sicuro di se’, l’ amore per Sabina lo ha reso debole, vulnerabile, sottraendolo alla sua forza, rendendolo un seduttore impenitente che ha smarrito la voglia di lottare per riconquistare l’ amore.
Sabina è una pittrice innamorata dell’ intelligenza, della bellezza, della bontà di Franz, lui è tutto ciò che desidera e proprio per questo vuole distruggerlo, i due più si avvicinano e più desiderano essere lontani.
Quale comparazione tra leggerezza e pesantezza, Sabina sospinta dalla insostenibile leggerezza dell’ essere, Tereza da una pesantezza che vorrebbe scacciare per rifugiarsi con la propria anima in compagnia di Tomas.
Quante parole rincorse e ricoperte di significati, equivoche, divisive, definenti, diverse, figlie del proprio passato, ciascuno a suo modo ricerca l’ amore, la comprensione dell’ altro, la propria soddisfazione, un amore che

…” non è che il desiderio della parte perduta di noi”….


e che

…” non si manifesta con il desiderio di fare l’ amore ( desiderio che si applica a una quantità infinita di donne ) ma col desiderio di dormire insieme ( desiderio che si applica a un’ unica donna )”….


Kundera colloca i propri personaggi in un’ area di neutralità per svelarne i contenuti più intimi, li inquadra, li scruta, li analizza, elevandoli a simbolo di sentimenti incompleti e complessi che concernono un reale e un immaginario collocati in una prospettiva più grande.
Franz rientra nei sognatori, in coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti, Tomas e Tereza hanno un continuo bisogno di stare sotto gli occhi della persona amata.
Il romanzo non è una semplice confessione dell’ autore ma un’ esplorazione lieve e profonda di ciò che la vita umana è e della trappola che il mondo è diventato, di certo l’ esperienza dolorosa dei protagonisti e di cio’ che rappresentano genera contrapposizioni, fusioni, incertezze, evasioni, fughe, ritorni, rimpianti, analisi e autoanalisi non definente ne’ definitiva in una Praga assediata.

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Classici
 
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    01 Aprile, 2024
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Capolavoro a metà

Non avevo conoscenza di questo romanzo, fin quando ho letto recensioni un po ovunque che ne esaltavano il contenuto e la forza espressiva.
A mio parere la prima metà del libro è effettivamente di una grande potenza ed espressività narrativa.
Si procede a strappi, con momenti di profonda scrittura ad altri astratti e non facilmente comprensibili. Come se lo scrittore volesse portare il lettore nella sua disperazione e poi all'improvviso abbia il desiderio di rendergli difficoltoso saper leggere nel suo pensiero.
La parte relativa alla guerra è cupa e disperata, cinica e tremendamente veritiera.
Non ci sono eroi, ma esseri disperati immersi nel frullatore umano creato dalla sete di potere di potenti e alti in grado.
Il racconto quando si trasferisce in Africa, assomiglia molto al "Cuore di Tenebra" di Conrad, con una terra ostile, spietata e un sole implacabile che porta alla follia.
A NY si evince la denuncia sociale di Celine nei confronti dell'uomo merce umana, fantasma nella immensa città, dove il destino delle persone è completamente insignificante per il prossimo.
Dove si fa un passo sul marciapiedi e si viene travolti dalla moltitudine che cancella le individualità e spietatamente crea un flusso ininterrotto di uomo-merce, buono solo per consumare, produrre e poi crepare (possibilmente con qualche denaro in tasca, poichè sennò il destino sarà atroce).

Nella seconda parte, il nostro eroe, torna in una Parigi completamente indifferente ai suoi eroi che hanno dato vita e ragione nel confitto.
Le classi sociali alte vivono la propria esistenza nel centro scintillante della ville lumiere, mentre una sterminata, puzzolente, pezzente, ignorante, incattivata popolazione trascorre vite torbide, meschine, disperate e sull'orlo della follia in zone periferiche, dove il protagonista, ora medico cerca di tirare avanti sopportando la tirannia di chi sfrutta le sue conoscenze e non vuol pagarlo.
Ecco in questa parte finale che si palesa la debolezza del racconto. Come se l'autore cercasse di allungare un po il brodo, aumentare il volume del romanzo, introducendo personaggi piatti, apatici, che danno la sensazione classica di chi non sappia come portare a termine la propria opera e inserisca pagine su pagine in cerca dell'ispirazione finale.

Comunque è un libro che crea disagio, che toglie speranza, vivo, vero, che contiene verità assolute, che palesa la vita con tutte le sue bassezze, illusioni, meschinità e che non da speranza riguardo un progresso morale, bensì esalta la bruttura umana, farcita dalla miseria, la disperazione e la voglia di primeggiare sul prossimo giusto per appagare la propria meschinità e cattiveria.
Un viaggio alla fine della notte, che sembra non avere termine se no, nella morte.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    01 Aprile, 2024
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La mano

Ogni suo libro è un crescendo di tensione ed anche questo thriller non si smentisce. Mentre lo leggi ti pervade un senso di angoscia, profondo e crescente. Sarà perché ti immedesimi nel protagonista. Sarà il buio. Sarà la corsa senza meta. Sarà il senso della paranoia. Il fatto è che Giosciua sente uno sciame di paure che lo pungono a turno e, pagina dopo pagina, ti senti punto anche tu da queste stesse paure. A volte ti viene da pensarle prima, quasi per metterlo in guardia. A volte hai la sensazione di essere sul ciglio della strada, insieme a lui. A volte vorresti chiudere gli occhi, quasi sperando che sia stato un brutto sogno. E’ un libro che emoziona, perché ti entra nel sangue.

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Romanzi autobiografici
 
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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    01 Aprile, 2024
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Il ventaglio della geometria familiare

Il titolo del libro di Dacia Maraini indica un luogo ben preciso: il secondo comune più popoloso della città metropolitana di Palermo. È un luogo molto connotato per l’autrice: è il primo in cui ha vissuto una volta tornata dal campo di concentramento in Giappone insieme alla sua famiglia. Era ancora una bambina e ci ritorna a distanza di anni, quando tutto o quasi è cambiato a Bagheria e nel suo animo. Penso che questo scritto di Maraini sia propedeutico alla lettura del suo romanzo più famoso: La lunga vita di Marianna Ucria. È proprio un grande ritratto di Marianna Ucria nella villa della famiglia materna della celebre scrittrice a chiudere lo scritto. Marianna è stata una sua ava del Settecento e scrive che era come se aspettasse da anni di trovarsi «faccia a faccia con questa donna morta da secoli, che tiene fra le dita un foglietto in cui è scritta una parte sconosciuta e persa del mio passato bagariota». Per poi immergersi nelle dense e fitte pagine del romanzo è utile questo primo incontro all’interno di un libro che è un insieme disordinato di memorie in cui i personaggi si susseguono, ognuno con le sue peculiarità, tra sogni, rimpianti, fughe, rapporti irrisolti.
Non mancano le denunce sociali. Le donne sono le “sacrificate” alla legge dell’onore in una società baronale che tutto sa ma finge di non vedere. Le memorie della scrittrice riguardano soprattutto la famiglia materna, nobile casata della Bagheria dei secoli d’oro così radicata in quel paesaggio fatto di palazzi baronali. Un paio di annotazioni interessanti riguardo al possesso maschile sulle figure femminili. «La figlia non poteva negarsi – scrive Maraini –. Neanche quando il padre carnale si sostituiva al marito. L’abuso veniva criticato ma nessuno avrebbe osato intervenire nel rapporto di autorità fra un padre e una figlia che è antichissimo e che, fra tutti gli usi, è uno dei più duri a morire». L’autrice riporta alcuni episodi che possono essere catalogati come “molestie sessuali”. Sono episodi che la riguardano in prima persona e vengono rianalizzati a distanza di decenni. «Era un amico di famiglia che ha approfittato di un momento in cui eravamo rimasti soli, per aprirsi i pantaloni e mettermi in mano il suo sesso. Io l’ho guardato con curiosità, per niente spaventata. Eravamo a Bagheria, e io avevo una decina d’anni... Chissà che scegliendo di dire pene non si volesse insinuare che il portatore di pene è anche un portatore di pena. Ma questo è un azzardo linguistico». «Un prete, un giorno, mi ha stretto forte a sé e mi ha dato un bacio frettoloso sulla bocca. Ho fatto fatica a sbrogliare la matassa della fede e della moralità, dopo quella volta».
Prima di risalire fino a Marianna Ucria si parla di nonna Sonia, di nonno Enrico, di zia Orietta e di zio Gianni e ancora ci sono zia Saretta e zia Felicita. Una grande epopea familiare che si è sviluppata in una Bagheria che è stata usurpata, rovinata, sventrata. È questa l’altra denuncia sociale che rende il libro memoria di Maraini interessante. Ci si chiede perché un posto incantato, in grado di ammagliare fenici e greci, sia stato deturpato a tal punto da renderlo irriconoscibile. Le straordinarie ville settecentesche di Bagheria, quelle di Marianna Ucria, che sono tra le più preziose dell’intera Sicilia, sono state private dei loro contorni, rimanendo lì, in mezzo alle case, «come testimoni intirizziti e malmenati di un passato che si ha fretta di distruggere». E chi ha contribuito alla distruzione? La politica. Si fa il nome dell’ingegner Giammanco, uno che «ha volutamente ignorato gli strumenti di legge che erano predisposti nel tempo, ha favorito la speculazione privata, ha dato un eclatante esempio di malcostume politico e di corruzione»; però, nel 1973 è stato prosciolto dalle accuse di interessi privati in atti di ufficio e di falsità ideologica per amnistia e per insufficienza di prove. A collaborare insieme alla politica, sempre latente ma così potente in quegli anni di costruzioni di massa, era presente la mafia di cui Maraini dice che non se ne parlava mai, «tutti sapevano che esisteva una forza maligna capace di imporre la sua volontà col coltello e il fucile. Ma chi stringesse quel coltello e chi imbracciasse quel fucile era difficile dirlo. D’altronde, per chi lo sapeva, era meglio fare finta di non averlo mai saputo».
Nonostante le denunce sociali, Bagheria di Maraini è innanzitutto il racconto infantilmente intenso di chi vive la scoperta delle proprie origini e di chi scopre nonni, zii, bisnonni e bisnonne tutte persone miti e pacifiche che avevano la tendenza a maritarsi con donne e uomini dal temperamento autoritario che finivano per metterli sotto i piedi e loro erano costretti a fuggire nei sogni. Ecco perché la conclusione di questo scritto non può che essere dedicata a una considerazione sulla strana geometria familiare che contraddistingue le nostre esistenze. Ha ragione Maraini: la geometria familiare si apre tutta verso il passato come un ventaglio, «due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via» e alle volte è priva di futuro, come nel caso della stessa autrice che ha perso il suo unico figlio appena prima di darlo alla luce. E proprio per questo ha deciso che «a portare nel futuro qualcosa di me saranno i miei personaggi figli e figlie dai piedi robusti, adatti, a lunghe camminate».

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    01 Aprile, 2024
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Amore e morte nella Ungargasse

Una città, Vienna, che si porta ancora dietro le scorie della Seconda Guerra Mondiale; una strada, la Ungargasse, che non si può certo definire bella, ma che con il suo magnetismo rappresenta, da sola, una sorta di paese a se stante; una donna, l'io narrante, di cui non conosciamo il nome, ma soltanto la città di nascita, Klagenfurt, il colore dei capelli, biondi, quello degli occhi, scuri; un triangolo amoroso che sa di tragedia già dalle prime pagine. Malina è l'uomo che vive con la protagonista, la loro relazione "è consistita per anni in incontri imbarazzanti, in grossissimi malintesi e in alcune sciocche fantasticherie – cioè, voglio dire, in malintesi molto più grandi che con altre persone. D’altra parte fin da principio stavo al di sotto di lui, e devo essermi resa conto presto che lui doveva diventarmi fatale, che il posto di Malina era già occupato da Malina prima che lui entrasse nella mia vita. Mi è stato risparmiato soltanto, o io me lo sono risparmiato, di incontrarmi con lui troppo presto." Ivan è l'uomo di cui la donna è innamorata, quello per il quale "tutto ciò che è per me accessibile, il telefono, il ricevitore e il filo, il pane e il burro e le aringhe affumicate, che conservo per lunedì sera, perché piacciono tanto a Ivan, o l’Extrawurst, che piace tanto a me, tutto è della marca Ivan, della casa Ivan. Anche la macchina da scrivere e l’aspirapolvere, che prima facevano un rumore insopportabile, devono essere state comperate e mitigate da questa ditta buona e potente, gli sportelli delle macchine non sbattono più con fragore sotto le mie finestre, e anche la natura deve essere finita tutt’a un tratto sotto la sorveglianza di Ivan, perché al mattino gli uccelli cantano più piano e permettono un secondo sonnellino." Il tempo è il presente, o meglio l'oggi, quell'oggi che "è una parola che solo i suicidi dovrebbero usare, per tutti gli altri non ha assolutamente alcun senso, ‘oggi’ è soltanto la designazione di un giorno qualsiasi per loro, di oggi precisamente, per loro è evidente che debbono lavorare ancora una volta otto ore, oppure sono liberi, faranno commissioni, compreranno qualcosa, leggeranno un giornale del mattino e uno della sera, prenderanno un caffè, avranno dimenticato qualcosa, hanno un appuntamento, devono telefonare a qualcuno, un giorno quindi in cui deve succedere qualcosa oppure, meglio ancora, non succede gran che." Tre protagonisti, come tre sono le parti in cui è diviso il romanzo e, potremmo semplificare, ogni parte sembra dedicata ad uno di loro. La prima, la più leggera ad un primo sguardo, è incentrata sulla storia d'amore con l'ungherese Ivan, una vera ossessione in cui la narratrice sembra annullarsi, incapace di potersi dedicare ad altro. Eppure appare una relazione vuota, inconsistente, priva di dialogo, fatta di telefonate sterili, incontri senza pathos, dialoghi inconsistenti. La seconda consiste in una lunga e vertiginosa serie di incubi consecutivi, una sorta di febbrile delirio in cui precipita la donna, che svelano un passato di violenze domestiche e abusi da parte del padre, intervallati da brevi risvegli, attimi di lucidità (ma sarà così) in cui intervenire in suo soccorso Malina. La terza, la più potente, è la parte in cui Ivan si defila, la passione scema fino a dissolversi, Malina prende in mano la situazione imponendosi sugli altri protagonisti, fino a portare la storia verso un tragico e simbolico epilogo. È qui che la storia si svela e tira fuori il suo significato. Se appare chiaro si dalle prime battute che si ha a che fare con una mente disturbata, l'insania si fa sempre più lampante e pericolosa, rivelando uno sdoppiamento della personalità che rimette tutto in discussione e costringe il lettore a chiedersi se i personaggi siano tutti reali o meno, e se no, quale di loro sia vero e quale frutto della malattia. Per raccontare tutto ciò, Ingeborg Bachmann si avvale di una prosa che spazia dall'essenziale al ricercato, dal concreto all'onirico, avvalendosi di metafore e simbolismi che riguardano principalmente la condizione della donna, schiacciata da un mondo dominato dall'uomo, e dell'Austria, ancora intontita dalle scorie della recente guerra e della dittatura nazista, lasciando intendere la possibilità di leggere su più piani narrativi quest'opera che, partita come una classica storia d'amore, finirà per rivelarsi, invece, una storia di morte. "Malina beve ancora il suo caffè. Si sente qualcuno che chiama dall’altra finestra sul cortile. Sono andata vicino alla parete, entro nella parete, trattengo il respiro. Avrei dovuto scrivere su un foglio: Non è stato Malina. Ma la parete si apre, sono nella parete, e Malina può solo vedere la crepa che abbiamo già visto da un pezzo. Penserà che sono uscita dalla stanza."

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ombraluce Opinione inserita da ombraluce    31 Marzo, 2024
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UN INTRIGO DI TANGO E VITA

Questo è un romanzo che si divora fin dalle prime pagine. Come in altri libri di Perez-Reverte troviamo il protagonista, sfrontato ma elegante, deciso ad abbandonare moralismi e correttezze pur di avere vantaggi personali, ma, allo stesso tempo, capace di suscitare nel lettore un senso di tenerezza e solidarietà dal momento in cui capisce che tutto ciò che poi Max Costa chiede è la possibilità di uscire dalle misere condizioni della sua infanzia, di evitare il ripercorrersi di tante storie di vita che ha visto e che non vuole assolutamente replicare. Da qui i tanti sotterfugi, l'arruolamento come legionario e, infine, l'ingaggio come ballerino mondano a bordo della Cap Polonio, lussuosa nave da crociera in cui ha modo di conoscere la bella e giovane Mecha Inzunza accompagnata dal marito Armando de Troeye, un famoso compositore musicale. Dal primo invito a ballare il tango nella splendida sala da ballo, Perez- Reverte non risparmia nella descrizione la perfetta alchimia che viene a formarsi tra i due giovani. Ne descrive il portamento, i passi, gli sguardi, in un modo cos' accurato e coinvolgente che pare proprio di vederli, così giovani e belli, e di intuire che la cosa non può e non deve finire lì. E infatti, con la perversa complicità del marito di lei, la loro conoscenza avrà un seguito. Un seguito avvincente, pericoloso ma anche essenziale per il legame che poi li unirà nel corso della vita; un legame che si rivelerà impetuoso e improvviso proprio come un passo di tango. La bellezza di questo romanzo consiste nel ritmo incalzante della storia, nell'alternanza della narrazione tra presente e passato e nella grande abilità dello scrittore di farci capire le cose attraverso i loro dialoghi, un po' per volta, dando al lettore il tempo di assimilare le emozioni insieme agli eventi, quasi come se si entrasse nel sentire dei personaggi, che appaiono man mano più maturi e più comprensibili. Nella seconda parte del libro, quando loro saranno più in età e avranno seguito i loro percorsi, la vicenda si snoderà invece intorno al gioco degli scacchi e anche qui spiegazioni di strategie, colpi di scena e complicità non mancheranno di stupire il lettore. E anche tanta, tanta malinconia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.... però senza cadere assolutamente nel melenso, anzi, in modo molto concreto e naturale..... anche se alla fine mi sono ritrovata con le lacrime agli occhi, e il cuore gonfio di compassione e nostalgia. Un libro eccezionale, un narratore straordinario, una storia indimenticabile.

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    31 Marzo, 2024
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Non hai mai avuto voglia di cambiare pelle, tu?

Il protagonista che dà il titolo a questo romanzo tipicamente Simenoniano è un medico di provincia, sposato con figli, che suo malgrado, con la complicità di un altro collega proprietario di una clinica privata, si ritroverà coinvolto (colpevolmente) nella morte di una donna partoriente e del neo nascituro. Da questo presupposto si snoderà tutta la vicenda: il desiderio di vendetta del marito vedovo che troverà sfogo in un’incessante comportamento da stolker accompagnato dall'inquietante promessa di vendicarsi uccidendo il povero dottore.

Ma quella che potrebbe sembrare una storia dall'esito prevedibile si trasforma in una narrazione densa di contenuti, come se si trattasse di un “romanzo on the road”. Il dottore protagonista infatti, spostandosi dalla provincia francese apparentemente per sfuggire alla vendetta del marito, non farà altro invece che fuggire da se stesso, dalle sue inquietudini borghesi e da una moglie che non sopporta più, ritrovando quello spirito giovanile che si accorge di non avere dimenticato e rappresentato dalla ricerca di facili piaceri, dal senso di libertà che lo porterà a prendere un treno e dirigersi verso la città di Anversa, in Belgio, semplicemente per voglia di farlo.

“Qual è il momento esatto in cui ci si accorge che un vestito è diventato troppo stretto?”
“Non hai mai avuto voglia di cambiare pelle, tu?”.

Attorno a queste due domande si snoda il cuore pulsante del romanzo in quanto il dottor Bergelon si interroga chiedendosi cosa sarebbe successo "Se non ci fosse stata quella notte, l'infame notte del parto...Avrebbe provato lo stesso lancinante bisogno di cambiamento?"
Simenon è un maestro nel tratteggiare traiettorie imprevedibili, che sfociano ad es. in un rapporto di complicità tra l’aguzzino (il marito vedovo in cerca di vendetta) e la vittima (il dottore) che si manifesta attraverso una serie di scambi epistolari, come se alla fine entrambi, a seguito di quel tragico evento avessero scoperto lati nascosti della loro personalità. Si evidenzia così il pressante bisogno di confessarsi reciprocamente, riconoscendo che le loro tranquille e precedenti vite erano solo il frutto di quel perbenismo tipicamente borghese di facciata, mentre covava in loro l’ardente desiderio di cambiare pelle disegnando nuove esistenze.
Il dottor Bergelon è l'ennesima prova dell'abilitá dell’autore belga nell'analisi introspettiva dei suoi personaggi, scavandone nell’io più profondo. Forse rispetto ad altre storie qui lo stile è meno incisivo, manca forse di una certa organicità espositiva, ma l'intensità della narrazione rende questo romanzo un autentico gioiellino.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    31 Marzo, 2024
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Due mondi a confronto.


Il romanzo fa parte di una trilogia dello scrittore spagnolo dedicata a Lorenzo Falcò (è il secondo episodio), un avventuriero con un passato di trafficante d'armi, al soldo di chi paga bene inviandolo in imprese spericolate, una vita "trascorsa tra cantine sudamericane, taverne centroeuropee, suk e bazar del Nordafrica e del Levante mediterraneo". Siamo in piena guerra civile spagnola, nel 1937, quando il governo repubblicano filomarxista vacilla sotto i colpi dei rivoluzionari falangisti, guidati dal generalissimo Franco. Falcò, 37 anni, riveste i panni di spia franchista, e viene incaricato di recarsi in Marocco, a Tangeri, dove è momentaneamente ancorato un mercantile repubblicano, il Mount Castle, carico di lingotti d'oro e gioielli trafugati alla Banca Spagnola, in attesa di ripartire per la Russia . L'incarico è impedirne la partenza e recuperare l'oro, impresa difficilissima e irta di pericoli: a Tangeri ci sono uomini di fiducia che daranno una mano a Falcò, tra i quali un giovane telegrafista , un sicario pronto a qualsiasi nefandezza ed una donna, amica di vecchia data, che lo ospita e fa da tramite con altri personaggi. Personaggi svariati, in un ambiente da frequentare sempre con un colpo di pistola in canna, un ambiente di spie, opportunisti, doppiogiochisti, dove è sempre bene guardarsi le spalle e non fidarsi mai di nessuno. Falcò, poi, è un gran donnaiolo, bello, aitante, sempre elegante, spregiudicato: una sua vecchia fiamma, da lui messa in salvo nel passato, Eva Neretva, una comunista incorruttibile, è imbarcata sulla Mount Castle, e rende l'impresa ancora più complicata da condurre a termine. Nel porto è ancorato anche un cacciatorpediniere franchista, che ha l'ordine di bloccare la partenza della nave nemica e di affondarla in caso di forzatura del blocco. E' , quella civile spagnola, una guerra tra fazioni opposte, confida Falcò alla vecchia amica di Tangeri, quelle repubblicane , "milizie fuori controllo, demagoghe, opportuniste" e quelle franchiste che " assassinano con metodo, seminando un terrore più freddo, pratico, intelligente": ne verrà fuori comunque, vincano gli uni o gli altri, " una dittatura, rossa o azzurra, sarà la stessa cosa". Eva e Falcò avranno modo di incontrarsi e di sostenere le proprie idee politiche, Eva con ragionamenti freddi e lucidi per riaffermare senza tentennamenti la propria fede incrollabile in un radioso futuro, Falcò, più pratico e consapevole, per tentare di dissuadere l'amica-rivale da utopie irrealizzabili.
La vicenda si complica, con scontri tra le fazioni opposte, tranelli, incontri tra i capitani delle due navi, uomini di mare integri e costretti, quasi contro voglia, a farsi la guerra: la conclusione coinvolgerà emotivamente il lettore, la bella Eva e Falcò tenteranno di ammazzarsi a vicenda, in un finale incalzante e sorprendente.
Un romanzo denso, intrigante, pieno di Storia e di storie, a suo modo affascinante e che, fino all'ultimo, lascia il lettore con il fiato sospeso: la guerra civile spagnola del secolo scorso, che fa da sfondo, crea uno scenario, nel contempo ideologico e storico, che tiene sempre desta l'attenzione, con i suoi intrighi, voltafaccia repentini, ripercussioni ed azioni delittuose. Il personaggio di Lorenzo Falcò spicca, magistralmente ideato e caratterizzato dall'autore: una figura emblematica tipica del periodo storico, un avventuriero schierato per soldi e convenienza, contrapposto all'amica-nemica Eva, che fa di una utopica ideologia la ragione stessa della sua vita e di un'incrollabile fede. Una contrapposizione ben costruita, che lascia spazio anche a momenti di inattesa tenerezza e di sentimenti che sembravano sopiti nel continuo susseguirsi di azioni dove l'eliminazione fisica dell'avversario appare il solo motivo per sopravvivere.
Emerge dal romanzo la lunga militanza dello scrittore come giornalista e reporter di guerra , caratterizzata dalla caparbia volontà di capire la realtà ed il mondo in cui viviamo: un mondo malato, ipocrita, condizionato da giochi sporchi e personaggi corrotti.
Ne consiglio senza dubbio la lettura.






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La trilogia dell'autore con protagonista Lorenzo Falcò.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    31 Marzo, 2024
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Vivere nell'attesa

«[…] Dopo tutti questi anni vorrei scoprire se in un altro mondo lui mi sta aspettando. Dopo tanto parlare, dopo tanto interrogare e ricordare, ora so che niente è più silenzioso della memoria.»

È il 1976, Amos e Anna vivono in una cittadina di provincia. Hanno due storie diverse alle spalle, vengono da mondi opposti ma insieme, dopo essersi innamorati, decidono di aprire una libreria. Lei, in precedenza, era docente. Sono sposati, hanno due figlie nate a distanza di pochi anni ma caratterialmente sono opposte. Emma e Cecilia, nate entrambe sotto il segno del Toro, Emma il 30 aprile del 1972, pesando 4 chili e con un vagito che già ne preannunciava il carattere deciso e Cecilia il 2 maggio con un carattere già da quel momento ben più mite. Una domenica mattina come tante Amos recita una poesia a memoria eppure, dopo un attimo si smarrisce e tutto dimentica. Cosa è successo? Questo episodio preoccupa la moglie che chiama il medico che a sua volta prescrive degli esami e che ancora li invita a recarsi a Roma per una visita specialistica. Ed è qui che tutto accade ma niente è accaduto: Amos esce per una passeggiata da solo a Trinità dei Monti, insiste per andare da solo, e da questo momento scompare. Anna vuole accompagnarlo, quasi come se sentisse il presagio ma lui non vuole. Ed è da qui che nasce l’attesa. Un’attesa che diventa spina dorsale per Anna, che la blocca, che non può staccarsi da questo suo vivere aspettando.

«Se smetto di aspettarlo lui davvero morirà, se non penso ogni giorno che lui c’è, lui non tornerà»

Ma lui se ne è andato davvero quel giorno o in realtà se ne è andato molto prima? E se l’abbandono non fosse un atto ma un divenire? E se fosse un percorso che si trasforma nella cerimonia dell’addio quando tutto il tempo si ritira e non resta che il dato di fatto?
È Anna, tra queste pagine, il fulcro centrale della narrazione. È lei che definisce i temi di quella che è una metanarrazione che ruota attorno al segreto, al dolore, alla sofferenza, alla solitudine, al rimpianto, al dover ricostruire in un tempo di attesa che non lo consente. Altra grande caratteristica di questo scritto è che tutti noi potremmo viverla una situazione come questa. Chiunque potrebbe vivere una storia di questa portata sperimentando un lutto dalle mentite spoglie.
Un romanzo intimistico, fragile, che prende per mano e conduce in un viaggio non semplice. E badate bene, non è semplice per davvero avvicinarsi a un romanzo come “La cerimonia dell’addio”. Tante sono le premesse, molteplici le chiavi di lettura. Un romanzo, ancora, fortemente sentito già dall’autore che lo dedica a sua moglie Federica, morta il 14 agosto 2022 senza poter davvero apprendere di quella che ne è stata la compiutezza.
“La cerimonia dell’addio” è un romanzo adatto a chi cerca risposte, a chi si pone delle domande, a chi ha vissuto una perdita, a chi sa cosa significa “attesa”.
Di seguito le parole dello scrittore relativamente alla perdita di Federica.

«Ho scritto questo romanzo per dire cosa ho perso: pezzi di memoria, frammenti di vita, ricordi non miei che andranno smarriti, perché vanno perduti i ricordi di tutti». Forse, però, qualcosa del passato resta sempre, il passato dove «quelli che ami non muoiono».

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    29 Marzo, 2024
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Le lodi non possono mancare

Preceduto dalla copertina (forse) meno inguardabile tra i quattro orrori sfornati da E/O, sono approdata al capitolo più valido della celeberrima tetralogia di Ferrante. Almeno per ora, perché il mio inguaribile ottimismo mi spinge ovviamente a sperare che l'ultimo volume sappia non solo concludere la serie in modo magistrale, ma anche superare in bellezza "Storia di chi fugge e di chi resta". Un terzo libro che mi ha quindi soddisfatta appieno -dal contenuto alla forma-, riuscendo perfino a rendermi gradevole il punto di vista di Lenù. Non sempre, ma lo considero già un bel passo in avanti.

Dopo un prologo ambientato nel presente, la narrazione ci riporta nella Napoli a cavallo tra la fine degli anni Sessanta ed una metà abbondante degli anni Settanta. Dopo il successo ottenuto con la pubblicazione del suo esordio narrativo, Lenù è in procinto di sposarsi con Pietro Airota, pur continuando ad essere segretamente infatuata della sua cotta adolescenziale Nino; poco prima del matrimonio, una visita imprevista la porta però a riavvicinarsi a Lila, scoprendo com'è cambiata nel frattempo la sua vita. Sullo sfondo, assistiamo alle piccole beghe tra le famiglie del rione, ma anche ai macro contrasti socio-politici in atto in Italia ed in Europa in quel periodo.

I difetti in questo testo sono a dir poco marginali, nonché ampiamente compensati dai suoi pregi. Ho trovato un po' di confusione negli spostamenti fatti dai personaggi, perché in alcuni casi li reputo mal motivati, specie considerando le difficoltà di muoversi da una regione all'altra ai tempi; anche l'utilizzo ridondante di certi termini e strutture (ad esempio, ho perso il conto di quante volte venga usato un verbo poco comune come lodare) poteva essere in parte limitato in fase di editing. In generale ci sono poi diverse coincidenze fin troppo fortuite -e penso in particolare al fatto che tutti finiscano per realizzare di conoscersi tra loro-, ma possono essere giustificate in parte con la sospensione dell'incredulità ed in parte con una sorta di metafora che porta il rione napoletano ad ingigantirsi, accorpando nelle proprie dinamiche interne l'intera Nazione.

Ma passiamo senza indugio ai punti di forza, primo tra tutti la caratterizzazione dei personaggi; non parlo solo delle due protagoniste (sempre raccontate in modo magistrale nelle loro motivazioni, nelle loro paure, nella loro rabbia), ma del cast nel suo insieme perché nessun comprimario per quanto poco presente viene descritto in modo approssimativo o sciatto. E se il mio apprezzamento per Lila è ormai cosa nota, in questo terzo capitolo anche Lenù ha saputo stupirmi, infatti è migliorata come personaggia in generale e come voce narrante in particolare: risulta più autocritica verso di sé e consapevole degli altri con il passare del tempo, e nonostante una sua certa ottusità rallenti l'arrivo di determinate rivelazioni, ho trovato il suo POV sicuramente più piacevole in questo volume rispetto ai precedenti.

L'altro grande pregio sono chiaramente le tematiche, che mai come in questo volume si concentrano sulla femminilità e sui ruoli di genere, raccontando la frustrazione di tante donne imprigionate in relazioni infelici. Ferrante riesce inoltre ad inglobare questo tema all'interno del contesto storico e sociale -mostrando un carosello di situazioni in cui ci si può rivedere oppure scoprire una prospettiva inedita-, senza però accantonare il fattore emotivo che rende tanto verosimili i suoi caratteri. E nonostante questa non sia palesemente una tetralogia da leggere per la sua trama, reputo molto interessante come la premessa del volume permetta di contestualizzare in modo più solido la serie intera, seppure l'intreccio non diventi mai la priorità.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    29 Marzo, 2024
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Il pifferaio magico

Ci troviamo a Philadelphia, nel quartiere di Kensigton, popolato di tossicodipendenti e prostitute. Arriva una segnalazione al centralino della polizia, è stato trovato il cadavere di una donna, probabilmente morta per overdose, e Michaela, agente di polizia della stradale, si appresta a raggiungere il luogo del ritrovamento.

La voce narrante che ci accompagna per tutto il romanzo è proprio quella di Michaela, una donna che fin dalla più tenera infanzia ha dovuto confrontarsi con il terribile morbo della tossicodipendenza, anche se mai in maniera diretta. Le persone a lei più vicine, prima i genitori, poi l’amata sorella Kacey le sono stati portati via dall’inesorabile pifferaio magico dell’eroina.

« Sono debole? Forse, in un certo senso: testarda, magari, cocciuta, riluttante a farmi aiutare anche quando ne avrei bisogno. Ho anche paura del dolore fisico: sicuramente non sono una che si prende una pallottola per un amico e nemmeno una che si butta nel traffico all’inseguimento di un criminale in fuga. Povera, sì. Debole, anche. Stupida, no. Non sono stupida.»

La vita di Mickey è stata ed è tuttora molto difficile, dura. Lei è sempre stata una ragazza seria, studiosa, ha scelto di non lasciarsi andare alle facili illusioni, ha un lavoro rispettabile e un figlio di quattro anni che deve crescere da sola.
La sorella, Kacey, è un po’ il suo alter ego: estroversa e ribelle, perfettamente inserita nel suo contesto sociale di riferimento che ha finito, purtroppo, per risucchiarla nel vortice della tossicodipendenza.
Mickey racconta la sua storia in una semplice alternanza di piani temporali: “Allora”- “Adesso” e ricostruisce la sua infanzia segnata dalla morte della madre, il complicato percorso di crescita dell’adolescenza, un percorso che ha dovuto compiere completamente in solitudine, dovendo anche cercare di salvare la sorella. Pagina dopo pagina ripercorriamo gli anni da lei vissuti e siamo sempre più coinvolti nel suo racconto di adesso: Kacey è scomparsa, sono alcuni mesi che non si fa vedere su Kensigton Avenue. Sarà in pericolo? Chi è il misterioso killer che si aggira nel quartiere e uccide le giovani donne che si prostituiscono per pagarsi la droga?

“I cieli di Philadelphia” è solo apparentemente un thriller. Certo la narrazione si snoda con abilità da parte dell’autrice, ci sono colpi di scena e momenti ricchi di suspense. Lo scopo del romanzo però non è certo capire chi è il colpevole o scoprire che fine ha fatto Kacey. Il cuore pulsante del libro si trova nel racconto delle esperienze di vita a Kensington, nella durezza, nella tristezza, nella disperazione e nell’abbondono delle esistenze di queste persone, raccontate con partecipazione quasi poetica dall’autrice. Il cuore pulsante di questo romanzo è nell’emozione che incredibilmente si prova leggendo un lungo elenco di nomi di persone morte a causa della droga.

Liz Moore ha la rara capacità di rendere i suoi personaggi veri; di saperli far uscire dalla carta della pagina e di umanizzarli. La protagonista, Mickey, è infatti descritta in maniera magistrale e molto riuscita dal punto di vista letterario.

Nei ringraziamenti l’autrice cita le fotografie di Jeffrey Stockbridge, che ha raccontato nel 2009 attraverso le immagini il quartiere di Kensington: l’empatia dolorosa che percepiamo vedendo queste foto è la stessa che proviamo leggendo questo intenso romanzo.

«Continuiamo a camminare in silenzio. Poi lei prosegue il racconto. “Connor può fare cose cattive” dice “ma non è del tutto cattivo. Quasi nessuno lo è”. »

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Racconti
 
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    28 Marzo, 2024
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Le aberrazioni dell'amore

La Oates, in questi quattro racconti, indaga da par suo la mente umana evidenziando le aberrazioni che un malinteso senso dell’amore può generare. Il filo conduttore che lega i racconti, attraverso una narrazione di crudo realismo, ? l’assenza di qualsiasi limite ai comportamenti che un essere umano può raggiungere in nome dell’amore. Non ci sono classi sociali, età, situazioni esenti dalle sopraffazioni che la Oates mette in scena. Comportamenti malsani che si ritrovano nelle situazioni più disparate; nello stereotipato rapporto di coppia tra persone adulte o nelle infatuazioni giovanili; all’interno di una classica famiglia con figlio unico della piccola o media borghesia così come all’interno di una dinastia nota, affermata, di successo.
Il primo racconto, “Malocchio”, è un vero e proprio “dipinto” dell’animo umano in cui è descritta la trasformazione che avviene nell’uomo dopo la “conquista”. Un noto intellettuale, molto più anziano della protagonista, grazie ad un’acuta sensibilità conquista una sua discente, Mariana, salvandola da una grave depressione causata dalla perdita di entrambi i genitori. Ma, come purtroppo spesso accade nella quotidianità, immediatamente dopo il matrimonio con Mariana, la quarta moglie, l’uomo, pavoneggiandosi di un passato di cui appare fiero, mostra la sua vera natura di persona irascibile, misogina, egocentrica.
La inattesa visita della disinibita prima moglie, Ines, insieme alla nipote Hortensa, farà emergere la reale natura del docente costituita da una volontà di sopraffazione psicologica non disgiunta neanche da episodi di violenza.
In “Così vicino. In ogni momento. Sempre”, la giovane ma “bruttina” Lizbeth, sedicenne un po’ disperata per l’assenza di interesse da parte dei suoi coetanei, mentre studia in biblioteca tocca il cielo con un dito nel rendersi conto di essere il centro della attenzione di un ragazzo. Ma la realtà mostra ben presto tutta la forza distruttrice del giovane uomo. “L’esecuzione”, invece, investiga all’interno di una normale famiglia piccolo borghese costituita da un padre più o meno rigoroso, e da una madre accecata dall’amore per il suo unico figlio. È il racconto più cruento dei quattro in cui l’amore di una madre per il figlio psicopatico la rende orba, non solo metaforicamente, negando e, anzi, ribaltando la realtà. L’ultimo racconto scandaglia invece la negazione del dolore e come la sua apparente rimozione possa trasformarsi nell’incapacità di lasciarsi andare, nell’impossibilità di amare. Le violenze domestiche subite da bambina all’interno della sua altolocata famiglia, una vera e propria dinastia di alto lignaggio, hanno creato una frustrante inibizione in Ceille. Sarà solo grazie alla comprensione e alla complicità del suo compagno se ella tornerà a vivere. Ma a quale prezzo? Questo “sarà il nostro segreto”. Nelle diverse situazioni raccontate, accomunate dal perpetuarsi di atti di violenza sulle donne, la Oates è pienamente calata nella realtà contemporanea.
Con una suspense degna del miglior Edgar Allan Poe i racconti si susseguono ad un ritmo incalzante, senza respiro, tenendo inchiodato il lettore fino all’ultima pagina.

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Ama la narrativa americana, ama il genere introspettivo della mente umana.
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violetta89 Opinione inserita da violetta89    28 Marzo, 2024
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Non tanto meraviglia

Forse l'errore è stato mio, avendo molto amato gli altri libri della Ardone, mi ero caricata di grosse aspettative anche per questo. Purtroppo, a mio gusto, è risultato ben inferiore.
Il tema, quello dei manicomi e della legge Basaglia, è molto complesso sotto molti punti di vista, e sicuramente meriterebbe di essere approfondito. La scelta di raccontarcelo attraverso gli occhi di una ragazza nata e cresciuta in un manicomio e poi del dottore che l'ha presa in cura, è sicuramente originale ma anche azzardato. La scrittura a tratti è un po' lenta, non mi ha convinto totalmente.

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Romanzi
 
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    28 Marzo, 2024
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'La mascherata'

"Le ambizioni sbagliate" (1935) venne all'epoca sostanzialmente ignorato dai potenziali lettori, avendo le autorità ministeriali proibito ai giornali di scriverne.
Stupisce però che sia tuttora uno dei libri di Moravia meno conosciuti pur essendo un testo assai scorrevole, ben leggibile.

Questa vicenda di 'vizi privati e pubbliche virtù' rispecchia una certa atmosfera del periodo, anche attraverso un lessico ora desueto come "amante", "mantenuta".
Le 'ambizioni sbagliate' in cui si dibattono i personaggi sono però di forte attualità. Quella borghesia, che amava approssimarsi a qualche titolo nobiliare, aveva storicamente accolto l'ambizione tra i suoi 'valori' in modo acritico.
Moravia ce ne offre una rappresentazione in cui tale propensione viene sviscerata acutamente e in profondità. Ne fa emergere un quadro desolante di relazioni ambigue prive di autenticità, con "risate senza gioia" e donne nei cui volti 'dipinti' si mescolano malizia e infelicità.

Una perplessità però : il personaggio di Andreina, "mantenuta" che nel suo piccolo ricorda Nana di Zola, come anche quest'ultima non m'è mai parsa molto verosimile quale ammaliatrice : donne così possono fare invaghire di sé uomini affetti da radicato masochismo, ma penso non sia una condizione così comune e diffusa.

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Romanzi
 
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Gesko Opinione inserita da Gesko    27 Marzo, 2024
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UN’ISOLA CHE E’ DENTRO DI NOI

Un racconto dove si possono trovare tutti i colori e i sentimenti, entrambi così forti e tipici di Marquez.

E’ l’evasione di una donna che non ha vissuto, quando forse era il momento, le situazioni e le esperienze che fanno parte di un processo di crescita, anche sessuale.
Un’evasione che rimane comunque controllata e circoscritta alla visita annuale “sull’isola” per recarsi sulla tomba della madre.

E’ proprio il suo vivere quest’esperienza da sola, senza suo marito, che le fa ritrovare una parte di sé che restava dormiente in fondo alla sua anima.

Anche la madre le insegnerà qualcosa svelando un segreto che infondo le accomuna.

Insomma, un colpo di pennello a tinte forti dove tutto è calore e colore.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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PaparattoC Opinione inserita da PaparattoC    26 Marzo, 2024
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Il giustiziere


Apprezzo molto Manzini e il suo genere, interessante è risultato il suo ultimo scritto.
Tutti i particolari in cronaca, ruota attorno alle vicende di Carlo Cappai e del giornalista Walter Andretti. Il primo, magistrato mancato, ex poliziotto, ora impiegato presso l’archivio del Tribunale, di cui conosce molti dei casi contenuti in quei faldoni, soprattutto quelli conclusi con un’assoluzione, poiché gli imputati non sono stati ritenuti responsabili. Il secondo è il giornalista di una testata di second’ordine, trasferito dalla sezione sport alla cronaca, in cui non ha alcuna esperienza e dovrà imparare a familiarizzare con quel “nuovo mondo” inesplorato. In città si verificano degli omicidi, che in qualche modo interesseranno i protagonisti sino a far intrecciare le loro storie.
L’autore affronta, attraverso una semplificazione romanzata, una delle questioni più spinose per gli addetti ai lavori, ossia, il rapporto tra giustizia e legalità. Questi due concetti, è risaputo, non sono perfettamente coincidenti e la legalità molto spesso non collima affatto con la giustizia. Cappai spiega che esiste una giustizia con la G maiuscola e una con la G minuscola. L’applicazione delle procedure previste dalla legge, non sempre sono orientate a fare giustizia, garantiscono la legalità ma non la giustizia. L’archivista, infatti, persona sola, che non ha mai dimenticato il suo primo e unico amore, Giada, rimasta uccisa diversi anni prima, conosce bene quei processi conclusisi con l’assoluzione “per non aver commesso il fatto”. Quegli imputati non erano innocenti, ma per la legge risultano tali. Se per la legge, quindi, molti di questi imputati sono innocenti, lo stesso non può dirsi per Carlo Cappai che ha trascorso la propria vita a studiare questi casi sino a creare un sistema di giustizia parallelo.
Uno scollamento, ci dice il protagonista, esiste tra l’innocenza e la colpevolezza, essere ritenuti non colpevoli non significa essere innocenti, anche solo l’intenzione di commettere un crimine, la ferma volontà, non ci rende innocenti. Semmai ci rende non colpevoli, così come ci rende tali il ragionevole dubbio instillato in un’aula di tribunale, a prescindere dalla commissione di un fatto criminoso. Innocenza allora è altra cosa: è totale purezza d’animo ed è lì verosimilmente che regna la giustizia.
In breve, quali le considerazioni e sensazioni suscitate in chi scrive: ho trovato di notevole interesse la tematica e anche la modalità con cui è affrontata, intrecciata nel racconto criminoso che coinvolge i protagonisti.
Emerge anche l’importanza dei sentimenti, quelli veri, che non sbiadiscono al trascorrere del tempo e che posso condizionarne l’esistenza, anche negativamente. La tematica è certamente complessa, la giustizia è qualcosa di importante e forse di trascendentale. La legge cerca in qualche modo di collocarsi nel solco della giustizia, ma soltanto in parte ci riesce, facendo coincidere le due cose.
Probabilmente essa, non appartiene del tutto agli uomini che cercano di controllarla, ma che spesso si rivelano incapaci e rispondono alle ingiustizie con altre ingiustizie. La vendetta potremmo domandarci, è uno strumento riparatore, che rende giustizia?
Sul finale il protagonista si accorge probabilmente della contraddizione, si rende conto di essersi considerato al di sopra degli altri, di aver cercato di impartire la propria di giustizia. Commettere un efferato delitto è giusto? Certamente no, risponderemmo. Ma è giusto rispondere a quel delitto con altro delitto? Possiamo considerarla giustizia? La risposta è altrettanto negativa e ciò prescindendo dal dato legale, da quella verità processuale, che spesso non coincide con la realtà.

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Romanzi storici
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    26 Marzo, 2024
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Resistenza sempre

Questo è un libro celebrato da sempre come uno dei più emblematici e significativi sulla Resistenza, ed in effetti lo è a pieno titolo. Per più di un motivo, ma essenzialmente perché è in primo luogo una precisa testimonianza diretta di quei fatti, quasi una cronaca in presa reale, anziché una storia romanzata. La prima edizione compare subito, nell’immediato dopoguerra, quando ancora erano vivi nei contemporanei i ricordi di quei tempi tragici ed eroici ad un tempo; perciò, era facile per tanti riconoscersi nei tipi, nelle vicende, nelle paure, nelle speranze e nelle difficoltà comuni e diffuse.
La stessa autrice Renata Viganò, anche se non vive di persona la specifica epopea di questa sua protagonista, non è quindi un racconto strettamente autobiografico, ne è però di sicuro attrice coinvolta ed interessata, seppure per interposta persona, la scrittrice sa perfettamente di cosa parla, partecipò attivamente alla Resistenza con il nome di battaglia “Contessa”.
Tutto quanto sa la scrittrice è brava a renderlo al meglio, con uno stile autentico ed effettivo, talora agile, tal altra scivolosa, spazia con noncuranza dalle aie indiscrete e linguacciute di poderi e fattorie all’umidore e acquosità di paludi, acquitrini ed argini dove si snoda l’intera vicenda.
La scrittrice racconta bene, ma il suo più che altro è un attento riportare, mettendo in ordine un racconto franco, schietto, spontaneo, anche timido e discreto; i fatti che narra sono il risultato di un fortuito incontro con l’Agnese del titolo, che in un certo qual modo le presenta un rapporto di quanto fatto militando nella lotta clandestina. In particolare, nella zona del Ravennate e delle valli di Comacchio, sotto il crudele controllo dei nazifascisti. L’Agnese cosiddetta è una comune donna del popolo, una contadina semplice più che rozza, dotata di buon senso pratico e di una sana e corretta etica elementare, basata su semplici regole di rispetto e solidarietà tra pari, molto più che su cultura ed intelligenza. Non è un’eroina, non ha militato nelle file dei partigiani come attiva forza di fuoco della lotta armata, ha per lo più ricoperto incarichi logistici, non meno rischiosi e passabili di fucilazione, di fiancheggiatrice, di vivandiera, di staffetta, di portaordini segreti, facendo sempre al meglio e più delle sue possibilità. Ed è, oltretutto, una donna anziana, una rarità di operativi in questo tipo di racconti bellici, che nemmeno si rende conto di quanto ha fatto, dell’importanza che rivestono le sue azioni. Non si tratta di un “Uomini e no” alla Elio Vittorini, nemmeno di donne retrograde, ignare, pie e caritatevoli o all’inverso emancipate, una rarità per l’epoca, informate politicamente e dotate di una ben precisa coscienza civica. Qui ad agire non è una giovane emblema della nuova Italia in cerca di riscatto e che sfata luoghi comuni di azioni compiute brutali inadatte al sesso debole, è una donna avanti con gli anni, per nulla ingenua per quanto invisibile, ignara di politica e questioni sociali, sa solo che giocoforza, lo si voglia o meno, non può più stare ai margini di quanto accade.
Non lo può fare più nessuno, sono i tempi ad esigerlo, serve schierarsi, e farlo in fondo e fino in fondo. Nutre più di un dubbio sulla sua effettiva utilità d’agire, se abbia eseguito per bene quanto a lei richiesto dai capi partigiani, come dimostra il suo intercalare allorché la incaricano di svolgere certe azioni rischiose, risponde inevitabilmente con un “…se sono buona”.
Vale a dire se ho ben capito, se ne sono in grado, se non combino pasticci, non si tira mai indietro e però dubita sempre di essere all’altezza di quanto le richiedono, malgrado l’evidente stima e soddisfazione dei suoi compagni di lotta. Per loro è una mamma, più che una compagna: in verità, anche il loro è ancora un retaggio di un antico stereotipo, Agnese neanche ha figli suoi.
È stata dapprima una moglie, a cui i nazisti hanno deportato ed ucciso il marito, lui sì vecchio militante comunista nella guerra partigiana dagli inizi, ma non è entrata in clandestinità per spirito di vendetta. L’adesione, la spinta ad operare fattivamente in quello che solo la sua coscienza, spontaneamente e non per riflessione politica, le suggerisce, è avvenuta dopo qualche tempo quando, ferita, amareggiata ed oltraggiata dalla disumana violenza e cattiveria gratuita dei nazisti, ne fa fuori uno, dovendo poi sfuggire all’inevitabile rappresaglia.
Restando al fianco dei suoi ragazzi fino all’estremo sacrificio, di lei resterà solo un mucchio di stracci nella neve sporca: e però verrà pure il disgelo, e quei cenci avranno contribuito anche loro a tessere lo stendardo delle persone libere. Senza, sarebbe un vessillo lacerato in qualche punto.
L’originalità del racconto sta in questo, la protagonista non è una classica eroina romanzata, una ragazza bella brava e buona, abile e audace, che arrischia la vita in tribolanti avventure per un’idea di uomini liberi da ogni dittatura, è invece una persona comune, banale, anche paziente, fin troppo, che infine ha detto basta, senza se e senza ma. Non è né un’abile combattente, e nemmeno una decisa e determinata resiliente, è invece un qualunque esponente di una certa umanità.
Il cardine, il fulcro, la vivandiera di quel movimento che spontaneamente, formatosi almeno all’inizio motu proprio, da tanti, di ogni ordine e censo, età, genere, oltre qualsiasi differenza, inizia a muoversi, ad agire. E fa quel che può perché sente da sé quello che deve fare, senza che glielo dica nessuno se non il proprio cuore, mette a disposizione volontariamente le proprie abilità, quello che sa fare meglio, non è una madre ma partecipa, non ha ragazzi propri ma accudisce i giovani, non gli appartengono quei giovanotti imberbi o con le barbe scure, ma per loro si sacrifica, senza esitare.
Perciò resiste, perché non la sua non è insistenza, ma convinzione di essere nel giusto.
Ed è quanto rese vincente la Resistenza, riscattando l’onore svilito del Paese.
Renato Viganò ha reso racconto delle cronache normali dell’epoca, dell’agire eccezionale di quei tempi da parte di tanti, i più, che eccezionali non erano ma furono straordinari, più di tanti saggi fa capire le nostre origini, la nostra storia recente, chi siamo stati, da dove e da chi veniamo.
Certo, è un racconto di neorealismo un po' ingenuo, se vogliamo, molto di parte, distingue nettamente buoni e cattivi, cosa che altri testi dell’epoca, compreso quello citato di Vittorini, evitano, perché la realtà non è mai a colori netti, ma sempre sfumata, rarissimi i bianchi o i neri, molto di più i grigi.
E però, ” L’Agnese va a morire” è un testo importante, è un simbolo, è memoria, è monito, è grazie a lei e quelli come lei se oggi stiamo qui a scrivere, nessuno bussa furiosamente alla nostra porta con i calci dei fucili, costringendoci per sfuggirgli ad andare malvolentieri tra la neve, con le scarpe rotte, eppure bisogna andare. Si deve. Lo capiva Agnese, lo capivano i suoi compagni. E noi.

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"Uomini e no" di Elio Vittorini
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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    26 Marzo, 2024
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Bachman l'aveva presa meglio

Pur apprezzandone gli spunti inusitati, i libri pubblicati da King con il nome Richard Bachman non rientrano tra i miei preferiti dell'autore; allo pseudonimo va però dato del credito, perché ha chiaramente ispirato la trama de "La metà oscura", una storia talmente autoreferenziale da far impallidire perfino la self-insert presente in The Dark Tower. Per quanto mi riguarda trovo brillante il modo in cui il caro Stephen ha saputo mettere a frutto perfino lo smascheramento del suo alter ego, ricavandone una narrazione che ben bilancia horror paranormale e mystery thriller.

Dopo le tragiche vicende di "Cujo", torniamo per la prima volta con un romanzo completo nei pressi della cittadina di Castle Rock, dove il protagonista Thaddeus "Thad" Beaumont e la moglie Elizabeth "Liz" hanno la loro residenza estiva. Come molti altri personaggi kinghiani, l'uomo è uno scrittore di talento che ha raggiunto la fama pubblicando diversi libri sotto lo pseudonimo di George Stark; quando il collegamento tra lui e la sua controparte fittizia sta per essere svelato da un fan eccessivamente zelante (e con non troppo vaghe tendenze ricattatorie), Thad decide di seppellire metaforicamente e non solo Stark nel cimitero di Castle Rock, per poi riprendere a scrivere con il suo vero nome. Da subito diventa chiaro che l'alter ego -ben più di un nome di fantasia stampato sulla copertina dei suoi romanzi!- non ha alcuna intenzione di farsi da parte, e vuole anzi rivalesti contro chi ha contribuito alla sua eliminazione.

La narrazione acquisisce quindi una piega spaventosa abbastanza in fretta, e devo dire che questo elemento è stato gestito decisamente bene: anche per merito di alcuni espedienti fantastici, si vengono a creare dei validi momenti di tensione legati alle scoperte a cui approdano i protagonisti oppure alla vendetta di Stark. Ho apprezzato anche la scelta di includere alcuni capitoli dal punto di vista di quest'ultimo, perché così si riesce sia a capire meglio la sua prospettiva sugli eventi che a leggere una stessa scena da due angolazioni contrapposte.

Tra i pregi non potevano che ricadere poi i personaggi, tra i quali la mia preferenza va ad Alan J. Pangborn -nuovo sceriffo di Castle Rock, che sicuramente avrò occasione di incontrare in altre storie- ed a Rawlie DeLesseps, collega di Thad dalla personalità più interessante di quanto non appaia ad una prima occhiata ed al quale viene affidato un ruolo a dir poco vitale per l'economia della narrazione. Inoltre, i nomi di protagonisti e comprimari porteranno i lettori kinghiani a delle simpatiche associazioni d'idee con altre sue opere; sempre in tema di citazioni, a parte gli ovvi riferimenti alla località fittizia nel Maine, è poi presente una generosa strizzata d'occhio che ho molto apprezzato, ad un personaggio decisamente importante nella serie The Dark Tower.

Quello che ho apprezzato un po' meno è invece la gestione delle tempistiche narrative: in più punti ho avuto l'impressione ci fossero delle scene fuori posto, o meglio che inserite in un altro punto del volume avrebbero dato un risultato migliore. Un esempio su tutti è rappresentato dal prologo stesso, in cui non solo si spiega nel dettaglio tutto quello che Pangborn scoprirà soltanto verso il finale, ma viene anche posto in evidenza il collegamento tra la carriera di Thad come scrittore e lo sviluppo dell'identità di George Stark. L'indagine di Alan risulta quindi infruttuosa per il lettore, ma anche poco utile per i personaggi stessi, i quali ottengono solo una conferma tardiva delle loro supposizioni; questo rappresenta un altro dei difetti del romanzo, ossia la scarsa utilità di buona parte del cast alla risoluzione dell'intreccio. Capisco che il focus dovesse essere sull'antagonismo tra Thad e George, ma così si sviliscono terribilmente gli altri caratteri, specie quello di Liz che più volte tenta di rendesi utile senza ottenere nessun risultato concreto.

Personalmente ho individuato poi un deciso rallentamento del ritmo nella parte centrale, causato in parte dalle già citate scene in "disordine", perché al lettore sono già state fornite le informazioni necessarie per capire bene dove si andrà a parare, e diventa quindi noioso dover aspettare che anche i personaggi ci arrivino a loro volta. Pur non essendo affatto schizzinosa, credo poi che alcuni degli elementi horror presenti qui rasentino il gore tipico della prosa di Bachman: aka, un filino troppi dettagli disgustosi fini a se stessi. Non si tratta propriamente di un difetto, ma trovo infine necessario tenere conto che questa è una delle storie ambientate a Castle Rock -che non formano propriamente una serie, ma sono collegate tra loro-, e se da un lato questo è un punto a favore perché permette al lettore di scoprire un microcosmo formato da personaggi e luoghi ricorrenti, dall'altro nasconde una piccola insidia: si rischia di incappare in spoiler indesiderati leggendo i volumi senza seguire l'ordine di pubblicazione.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Marzo, 2024
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Il nostro grande tutto?

«[…] Sarebbe bello poter piegare il tempo in due, come se fosse un foglio di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato. Io potrei essere ancora vivo, nel passato e attraverso quel buco potrei allungare la mano e stringere la tua, nel presente.»

Lui e lei. Un uomo e una donna, due amici. Poi un giorno come un altro quell’essere semplicemente amici diventa altro. Si sviluppa un’attrazione che porta al maturare di un sentimento che diventa sempre più specifico e che si trasforma in un amore specifico per una persona specifica. E poi, come in un brutto sogno, il niente. Stanno per sposarsi quando lui, a causa di un incidente, muore. Cosa resta di lei? Cosa resta di lui? Cosa resta di loro? È possibile andare avanti? Come vivere e come affrontare il dolore della perdita tanto per chi resta tanto per chi se ne va? E se tutto ciò che stato venisse dimenticato? Sarebbe più facile accettare il pensiero della morte se vi fosse la consapevolezza che una volta morti il tempo per gli altri si fermerebbe?

«[…] Non perché ci abbia trovato un senso, ma perché quando ci stringiamo forte prima di dormire, nella nostra tipica posizione, è come se le stringhe che compongono il tuo corpo si aprissero per unirsi a quelle del mio. E le mie a quelle del tuo. Non siamo più solo due post-scimmie unite in una relazione sentimentale-copulativa, ma qualcosa di più: tu vivi un po’ attraverso di me e io vivo un po’ attraverso di te.»

Ed è proprio sulla continuità dopo la morte che si sviluppa e basa “Il nostro grande niente”. Il nostro eroe è morto in queste pagine a firma di Emanuele Aldovrandi, ma continua a sentire e vedere. Osserva la fidanzata, osserva il suo dolore, osserva la sua rinascita. Sente le sue lacrime, sente le sue parole, sente i suoi bisogni. Perché un evento traumatico può cambiarti lasciandoti delle cicatrici indelebili e anche quella che può essere una storia sulla perdita di un amore e sulle sue conseguenze, può rivelarsi ben altro.
Se nella prima parte dell’opera il lettore tende ad empatizzare con l’amore perduto, la malinconia, la realtà che avanza, nella seconda sono le domande a cui dare risposta le vere sceneggiatrici e le vere attrici della pièce teatrale. Esistono verità assolute? Che valore ha davvero il “per sempre”? Che valore ha l’attimo, il godere dell’istante, il sentirsi vivi in quel momento ora e adesso? E non è forse l’amore l’unica vera chiave con cui poter dire di aver concretamente vissuto?

«[…] Noi esseri umani abbiamo sempre combattuto contro quello che la natura aveva previsto per noi. Pensaci. Verrete mangiati dagli animali più grandi di voi – e noi abbiamo inventato le armi. Verrete schiacciati dagli agenti atmosferici – e noi abbiamo costruito le case. Verrete uccisi dalle malattie – e noi abbiamo inventato la medicina. Le nostre tappe evolutive si sono fondate su questo, sul rifiuto del nostro destino naturale, cioè la morte. E anche adesso gli uomini più ricchi della Terra non si accontentano di vivere fino a novant’anni, ma investono miliardi per studiare.»

Dal ritmo rapido e le sequenze velocissime il titolo ci prende per mano e ci conduce in una riflessione sulla nostra vita, su quelle che sono state le occasioni e le possibilità perse, su quelle che sono state da sempre le nostre certezze. O almeno così credevamo. Ci invita, ancora, a riflettere sulla morte. Perché quello che più dovrebbe farci male non è tanto lasciare la vita quanto abbandonare tutto ciò che per noi le ha dato un senso. E non è forse proprio la morte, alla fine, a dare un senso alla vita?
Al tutto si aggiunge uno stile fresco, dinamico, ironico e intelligente che sulla falsa riga della leggerezza narrativa porta il lettore a interrogarsi sulla profondità del vivere, dell’esistere e del sopravvivere. Questo per mezzo non dei nostri occhi ma per mezzo di una prospettiva esterna e più oggettiva.

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Romanzi
 
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    24 Marzo, 2024
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protagonisti indimenticabili

***spoiler***
Inizio a dire che dopo aver finito il libro, ho avuto una forte sensazione di nostalgia dei personaggi e delle loro vicende, nostalgia che dura ancora, dopo oltre una settimana.
Il racconto quindi a mio parere è bellissimo, denso, emozionante, profondo, che dona un messaggio di speranza: può esistere davvero un'altra possibilità per tutti, anche se è faticosissimo ricostruirsi, ritrovare un equilibrio, ridare un senso alla propria esistenza, accettare la pesante gravità di fatti commessi o accaduti. L'Autrice fa tutto ciò senza scadere nella banalità o nell'ovvietà, ma addentrandosi nelle dinamiche psicologiche degli splendidi protagonisti, Emilia e Bruno.
L'assillo del passato sempre pronto a divorare, la difficoltà di non saper gestire la libertà dopo anni di carcere, la fiducia nell'amore, il ruolo della cultura e dello studio quale possibilità di riscatto, i legami familiari interrotti, il rispetto dei tempi dell'altro, l'importanza delle persone che si incontrano durante il proprio cammino, le responsabilità di "un qualcosa d'altro", quando a commettere reati sono minori privati e violati in tutto, sin dalla prima infanzia. Questi sono solo alcuni dei temi trattati per voce di Emilia e Bruno, che ci accompagnano nelle loro sofferte storie facendoci riflettere sull'importanza di conoscere, di non giudicare, di provare a "incontrare" l'altro nelle sua dimensione più profonda. Loro ci parlano della fatica di lasciarsi alle spalle il passato, dell'impossibilità di cancellare l'orrore indicibile che ormai si è commesso o che è capitato. Ci raccontano dell'angoscia di non poter riparare, di non poter tornare indietro. Per fortuna l'essere umano cambia, è in perenne cammino, matura, cresce, ma il passato resta come un macigno, un marchio a fuoco che condiziona pesantemente. Al contempo però emerge l'incredibile forza dell'essere umano, che se trova accoglimento emotivo e comprensione può risollevarsi e ricominciare una nuova vita, trovando sollievo nel prendere atto del passato e - seppur a fatica - lasciarselo alle spalle.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Marzo, 2024
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Un sogno nel cuore

L’ultimo romanzo di Andrej Longo segna un ritorno: a differenza di tutti gli altri suoi lavori, in verità davvero pregevoli, che potremmo definire “individuali”, con personaggi a sé stanti, unici e irripetibili, questa volta lo scrittore ischitano-napoletano ripropone attori che abbiamo già avuto modo di conoscere in un suo precedente libro, originale e fortunato, “Chi ha ucciso Sarah”.
Trattasi nello specifico dell’agente di polizia Antonio Acanfora, voce narrante che riporta, in forma discorsiva e familiare, così coinvolgendo subito e confidenzialmente il lettore, i fatti, i dialoghi e le personali riflessioni e considerazioni su tutto quanto accade durante il suo servizio, militando in un distretto di polizia di uno dei quartieri più popolari e popolosi di Napoli.
Il suo contrappunto è il diretto superiore, l’alter ego altrettanto semplice ed umile ma più colto e gentilizio, il commissario Santagata, che alle osservazioni semplici, schiette e pragmatiche del suo sottoposto, affianca la profonda conoscenza non solo del mestiere, ma in particolare di usi, costumi, consuetudini, idee e filosofia di luoghi e persone, come dire anima e corpo, di Napoli, storia, cronaca, racconto ed indole della città e dei suoi abitanti.
Insieme ad Acanfora e Santagata operano con vario grado e mansioni gli agenti Scarano, Lo Masto, Cipriani, Cerasella: ognuno a sé stante e tutti insieme a formare una ben affiatata squadra, come quella di una compagine calcistica. Ciascun membro giostra nel suo ruolo naturale, che gli è più congeniale, chi difende, chi attacca, chi coordina, chi para e chi fa gol, chi si fa male e chi subentra, e tutti insieme si schierano al meglio, con un modulo di base o adattandolo alle circostanze ed agli avversari, all’occorrenza ciascuno lascia la sua posizione e corre in aiuto partecipe e sodale con le attività altrui.
Non a caso abbiamo usato lessico e fraseologia calcistica: perché se è vero che qui si racconta di insolite vicende criminose, di cui la squadra viene informata ancora prima che gli stessi accadano, al racconto del quotidiano professionale si affianca quello del personale, come spesso succede nella realtà. L’agente Acanfora, del tutto digiuno di calcio, pallone, partite, e normalmente immune da tifo e scomposte passioni calcistiche, e via dicendo, è costretto, per pressanti ragioni morali, dettati da antica e stretta amicizia, a seguire costantemente, con attenzione, e prendendo pure accurati appunti, il campionato della squadra azzurra. Tutta la città si sta infatti accalorando, si vanno entusiasmando tutti indistintamente, vecchi, giovani, donne e bambini come non avveniva dai tempi di Maradona, Dio in terra erbosa. Non c’è alcuno che, mai come questa volta, in silenzio e trepidando, non stia seguendo appassionatamente le gesta, la trionfale e vittoriosa cavalcata del Napoli in lotta per vincere lo scudetto. In sintesi, questo romanzo non è nulla di diverso, è esattamente come tutti gli altri a firma del suo autore: sempre, nei libri di Andrej Longo, i fatti sono pretesti per descrivere altro, per dichiarare il suo amore, direi di più, la sua essenza di vita, l’origine prima della sua scrittura. L’autore è come uno stilista, fa sfilare nelle sue pagine una ed una sola modella, bellissima ed intrigante, eclettica ed intelligente, che sfoggia di volta in volta tutti i capi del suo guardaroba, da quelli di alta sartoria ai panni più umili e consunti dall’uso. La sola, vera e unica protagonista di tutti i romanzi di Andrej Longo è Napoli, la sua città, e con lei la sua gente che fa da sé per fare per tre, e talora esagera, ma si sa, nessuno si salva da solo, da soli non si può porre rimedio alle mancanze di secoli, nessuno descrive meglio città ed abitanti di quanto sappia fare in poche parole Andrej Longo, e per lui il commissario Santagata:
“…Guarda la nostra città, per dire. È una città piena di persone in gamba, scetate, intelligenti, con mille idee, mille progetti. Persone che spesso fanno sacrifici impensabili, per mettere ogni giorno il piatto a tavola per la famiglia. Però, a mio avviso, ognuna di queste persone lavora solo per sé stessa, chiusa dentro al proprio orizzonte, senza occuparsi troppo di chi le sta vicino. Cosa dicono di solito di noi napoletani: che siamo bravi nell’arte di arrangiarci. Però, chi si arrangia, lavora solo per sé stesso. E questo crea dei limiti che non si riescono a superare. Delle mancanze a cui da soli non si può porre rimedio.”
Con la sua scrittura agile, aggraziata, snella ed immediata, Andrej Longo scrive con eleganza di un sogno, lo fa vivere con pagine vaporose, con parole mai velleitarie, sempre pratiche e snodate, che arrivano a segno. Abbiamo tutti un sogno nel cuore, un desiderio inespresso per timore di vederlo svanire sul più bello, Longo di questo ha scritto, e poiché è un sogno del cuore, ha narrato di un amore. Molti amori sono spesso inconfessabili, a pena di vederli svanire nelle prime luci del mattino, ma non è affatto detto che riescano sempre impossibili a realizzarsi, quasi che sogno fosse sinonimo di chimera. Tutt’altro: però, non devi mollare
L’ultimo romanzo di Andrej Longo forse è un giallo, o solo un racconto di amore e di amori, forse è tanto altro ancora riversato su carta, ma in particolare questa è la storia di un sogno che si realizza.
Di più: una meta che sembra realizzarsi pian piano, quasi in punta di piedi, senza parere e senza neanche citarlo per esteso, un crescendo rossiniano che non riesce a contenere tutta la trepidazione dell’attesa e l’eventuale, auspicabile tripudio finale, servirà un sequel, probabilmente.
Per dare forma compiuta al sogno nel cuore e segnare il gol vincente.

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Andrej Longo
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    23 Marzo, 2024
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Sesso, droga e... Los Angeles!

«[…] Molti anni fa mi resi conto che un libro, un romanzo è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s’innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c’è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso – in cui qualcuno probabilmente si farà male.»

Bret Easton Ellis non lascia mai indifferenti. Chi già lo conosce sa che le sue opere non sono mai banali quanto provocanti e pungenti ma anche sconcertanti, per certi versi, chi non lo conosce vi si avvicina con quella giusta dose di curiosità e attrazione perché, si sa, come per lo scrittore scrivere è un po’ come innamorarsi, per il lettore il libro è un viaggio introspettivo che viene chiamato dal testo stesso perché spesso e volentieri non siamo noi a scegliere cosa leggere ma è il da leggere che sceglie noi.
Anche questa volta il suo è un ritorno in grande stile seppur a distanza di parecchi anni. Ci prende per mano Ellis e ci riporta negli anni ’80, anni in cui il narratore era adolescente e viveva in una metropoli californiana che diventa coprotagonista in quella che è una perfetta fiction narrativa mixata con tanti componenti di autobiografia. Non stupisce nemmeno la scelta di chiamare il protagonista con il suo nome e di munirlo di quel sogno di diventare scrittore. Tutto è costruito in perfetto stile Ellis.
In questo contesto conosciamo una serie di ragazzi appartenenti all’élite cittadina e iscritti alla Buckley, una delle scuole private più prestigiose. Sono persone abituate al lusso, a party alcolici a bordo piscina, a ville e sfarzi, all’uso di droghe e psicofarmaci, ad anestetizzare il dolore della quotidianità in ogni modo possibile, sono persone che vivono nel benessere più totale, in apparenza, ma sono anche persone sole. Abbandonate a se stesse, con famiglie assenti, incapaci di vivere nei silenzi che l’anima provoca e che la consapevolezza del vivere dona.

«E malgrado fossimo consapevoli del presunto razzismo del club semplicemente non davamo peso alla cosa, perché nel 1981 non ci era richiesto. Affermare che qualcuno di noi fosse politicamente impegnato avrebbe significato entrare nel territorio delle favole: eravamo adolescenti distratti dal sesso e dalla musica pop, dai film e dalle celebrità, dal piacere e dall'effimero e dalla nostra innocente neutralità.»

Da un lato conosciamo la Los Angeles del benessere e della perfezione, dall’altra quella che va oltre la facciata e che mostra le crepe di un sistema. Ma la vita non attende, passa. Oggi si è adolescenti, domani si è uomini e questo è forse uno dei passaggi, in generale, più difficili del nostro vivere. Sono anni in cui ci scopriamo davvero, in cui conosciamo della nostra identità sessuale, ivi compresi una omosessualità latente che ci porta a non esporci, in cui instauriamo rapporti e legami e altrettanti ne perdiamo.
Sarà l’arrivo di un nuovo affascinante compagno a rompere gli equilibri e a introdurre un profondo elemento di disturbo. “Il Pescatore a strascico” ha tutte le fattezze di un perfetto serial killer e il nuovo arrivato sembra esservi collegato.

«[…] E certe volte, quando mi sveglio da uno dei miei sogni su Robert o Matt o Ryan Vaughn o Thom o Susan, mi viene da ricordare che l'autunno del 1981 non è stato il sogno che nei decenni successivi mi è capitato di fingere che fosse. Ma mi sono sempre eclissato ogni volta che ho sentito il richiamo di quelle voci lontane, per andare a cercare il disco con la ragazza biondo platino in copertina, e alzare il volume, e suonarlo forte, chiudendo gli occhi e sdraiandomi ad ascoltare una canzone che parla di sogni.»

“Le schegge”, ultima fatica di Bret Easton Ellis, è un romanzo corposo, complesso e stratificato, a tratti un po’ ridondante ma che sa offrire al lettore molti spunti di riflessione. Non manca di una componente nostalgica per gli anni passati ma non manca nemmeno di critiche pungenti a una società che fa dell’apparenza e dell’opulenza il suo marchio di fabbrica per eccellenza. Un meccanismo elitario che cela un profondo disagio del vivere.

«[…] E me ne rimasi lì nella luce del pomeriggio che sbiadiva, rendendomi conto, a diciassette anni, che stavo già guardando nel mio passato - e che il passato aveva un significato capace di definirti per sempre. Ricordo quel momento come uno dei primi in cui mi avvicinai all’età adulta, in cui compresi quanto fosse potente la memoria - o comunque fu la prima volta in cui mi fece così male. E non c’era niente che potessi fare riguardo al dolore del passato - si posò semplicemente su di me. La dépendance e Matt erano una parte della mia vita che c’era stata e adesso non c’era più. Ecco tutto. Nessun altro lo sapeva. A nessun altro importava.»

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    22 Marzo, 2024
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Chissà perché non ha fatto carriera...

Se errare è umano e perseverare è diabolico, allora chiamatemi Diavolina! non perché io abbia delle capacità pirocinetiche, ma per la frequenza con cui riesco ad incappare in libri pieni di elementi che so da principio finirò col detestare. È il caso de "La donna della cabina numero 10", il titolo più celebre di Ware, un'autrice britannica di suspense (il mio primo campanello d'allarme!); gli altri trigger per la sottoscritta sono la protagonista giornalista non troppo professionale (come nel terribile "Le sorelle" di Douglas), vittima di un recente shock (come nel discutibile "La ragazza di prima" di Delaney) e per questo considerata inaffidabile (come nel narcolettico "La moglie imperfetta" di Paris). A dispetto di questi e molti altri precedenti, la cara Ruth sarà riuscita a convincermi?

Per capirlo partiamo dall'intreccio, che ha a sua volta un celebre precedente -anche se positivo, in questo caso- con "Istantanea di un delitto" di Christie perché, come la svampita Mrs Elspeth McGillicuddy, la trentaduenne Laura "Lo" Blacklock è la sola testimone di un omicidio del quale non ha nessuna prova tangibile, motivo per cui non viene presa sul serio dagli altri personaggi. A differenza della personaggia creata dalla cara Agatha, Lo non ha per amica la formidabile Miss Jane Marple, quindi deve impegnarsi personalmente in quello che è anche un ambiente ostile a suo modo: la donna si trova infatti a bordo della lussuosa Aurora Borealis -una nave da crociera in scala ridotta per ricconi- dove, anziché scrivere articoli sul viaggio inaugurale come dovrebbe, cerca di capire se nella cabina vicina alla sua sia stato commesso un delitto.

Al termine di ognuna delle sette parti in cui il volume è suddiviso sono inoltre presenti dei documenti di diversa natura (si spazia dai commenti sui social alle e-mail, fino ad arrivare agli articoli dei quotidiani locali) che servono a fornire una sorta di prolessi; il lettore viene così informato che, dopo essersi imbarcata sulla Aurora Borealis, Lo non ha dato più notizie di sé a familiari ed amici, e per questo viene ritenuta scomparsa. Più del mistero sul delitto avvenuto a bordo della nave, questi brevi scorci nel futuro hanno giovato a tenere viva la mia curiosità verso la storia, e sono senza dubbio un escamotage narrativo valido.

Tra i punti di forza del romanzo annovero inoltre la prosa, che riesce a mantenere un buon equilibrio tra divertimento e tensione, e la costruzione del cast. Pur non andando ad approfondire troppo nessun personaggio, Ware riesce a rendere tutti un po' sospetti ed ambigui; ecco perché il lettore non arriva subito ad individuare il colpevole, anche se impiega sicuramente meno tempo di quanto ne serva alla protagonista. Promuovo inoltre il tentativo (non riuscitissimo, ma sorvoliamo) di includere delle tematiche meno superficiali e la scelta dell'ambientazione: trovo che un mistero risulti molto più interessante quando vengono limitati gli spostamenti degli indiziati, e per ottenere questo risultato la nave da crociera funziona ottimamente.

Purtroppo per me il volume non supera però il minimo sindacale, e mi sembra di essere stata perfino generosa se penso a quanto risulta anticlimatico e stucchevole l'epilogo, considerando che si tratta di una vicenda abbastanza cruda fino a quel punto. Ancor prima di arrivare al finale, avevo poi individuato dei difetti nel modo caotico in cui viene portata avanti l'indagine (forse per distrarre l'attenzione del lettore sugli indizi giusti?) e nella leggerezza con cui si sorvola su una scena di tentata violenza sessuale.

Come in molti altri titoli di questo genere, il vero scoglio insuperabile è stato però la caratterizzazione della protagonista. Penso che l'intenzione fosse quella di rendere Lo una personaggia un po' spiacevole -come capita spesso di leggere nei thriller psicologici degli ultimi anni- ma personalmente l'ho trovata solo estremamente miope (in tutti i sensi!) nonché molto svogliata ed inadatta al suo lavoro: qualunque giornalista avrebbe subito cominciato a buttar giù delle bozze per una dozzina di articoli da quanto le succede in questo libro! c'è davvero da meravigliarsi che Lo non abbia ottenuto alcuna promozione in dieci anni di "duro lavoro"?

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    21 Marzo, 2024
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DIRE L'INDICIBILE

“Allora, sulla soglia della dannazione, ecco che io ho mangiato la vita e io sono stata mangiata dalla vita. Capivo che il mio regno è di questo mondo. E lo capivo per quanto di infernale c’è in me. Poiché in me stessa io ho visto com’è l’inferno.”

All’inizio de “La passione secondo G.H.” Clarice Lispector piazza una significativa premessa: “Questo libro è un libro come un altro ma avrei piacere fosse letto solo da persone dall’anima già formata. Quelle persone sanno come l’avvicinamento a ogni cosa avvenga per gradi e con sofferenza – e passando talvolta attraverso l’opposto di ciò che è la meta. Quelle persone e solo loro capiranno [….]”. La scrittrice brasiliana mette subito le mani avanti e pone il lettore sull’avviso. E’ come se dicesse: “Attenzione, questo libro potrebbe urtare seriamente la vostra sensibilità!”, e declinasse per mezzo di questa puntigliosa raccomandazione ogni responsabilità per le conseguenze derivanti da un incauto utilizzo dell’opera. In effetti, l’avvertenza dell’autrice è tutto fuorché esagerata, giacché “La passione secondo G.H.” è un libro a dir poco disturbante, a tratti addirittura scioccante, oltre che impervio e faticoso al di là di ogni umana immaginazione. Non si può neppure dire che esso sia un vero e proprio romanzo: se davvero volessi trovargli a tutti i costi una definizione, forse potrei parlarne come di una cronaca oggettiva, fedele, minuziosa fino ai particolari più vergognosi e più ripugnanti, di uno sconvolgimento, di una catastrofe. Una catastrofe però, tengo a precisare, senza pathos e senza emozione, o meglio, con le parole stesse dell’autrice, “senza fragore e senza tragedia”. La Lispector nega al lettore ogni manifestazione di empatia nei confronti della protagonista, di cui infatti ci vengono rivelate solo le iniziali, G.H., e pochissime altre informazioni: che è una donna senza marito né figli, che è attraente e finanziariamente indipendente, che vive in un elegante attico di un lussuoso condominio. Quando una mattina decide di dedicarsi alla pulizia dell’appartamento ed entra nella stanza della domestica che ha da poco lasciato il servizio, la sua vita cambia radicalmente. La vista di una blatta in quell’ambiente nudo e spoglio come un minareto o come la camera di un ospedale psichiatrico destabilizza una psiche presumibilmente fragile e sovreccitata e fa crollare inesorabilmente, come un precario castello di carte, la sua apparentemente inattaccabile esistenza, fatta di “ricamo, amore e anima già formata”. La Lispector descrive l’allontanamento progressivo e inarrestabile di G.H. dalla realtà come un “tranquillissimo delirio”, con la blatta che, rimasta prigioniera, col corpo schiacciato a metà nell’anta dell’armadio, fa da muta testimone al lucido farneticare della donna. La blatta fa venire subito in mente, come un riflesso condizionato, Franz Kafka, ma la similitudine tra i due scrittori, al di là del loro essere entrambi ebrei, è solo apparente. In Kafka lo scarafaggio è infatti la metafora di una condizione di esclusione sociale o di alienazione esistenziale, mentre al contrario ne “La passione secondo G.H.” c’è una sorta di sovrapposizione, di immedesimazione tra la protagonista e la blatta (“La verità è che io avevo guardato la blatta viva e in lei scoprivo l’identità della mia vita più profonda”). Se di metamorfosi si può ancora parlare è la “metamorfosi di me in me stessa”. G.H. scende nelle caverne sotterranee, ctonie, del proprio io, e vi ritrova la materia viva, primitiva ed ancestrale, di cui è fatto il mondo. Davanti alla blatta scopre tutto l’orrore, ma anche l’ambiguo fascino, dell’inumano. Allontanatasi definitivamente dalle sovrastrutture artificiali della vita precedente, con il suo ordine, le sue regole e le sue leggi, la donna si ritrova in un non-luogo, in una sorta di deserto psichico, dove non esiste più il passato né il futuro, ma soltanto l’adesso (“Quello che io voglio è l’immediato e senza abbellirlo di un futuro che lo redima, senza abbellirlo neppure della speranza”). Se la trascendenza è un retaggio del passato, ecco allora che non rimane se non una totale immanenza (“Voglio il tempo presente che non ha promessa, che è, che sta essendo”) e l’abbandono all’inumano, al demoniaco. In uno dei pochi momenti lirici del testo, G.H. immagina di aver rubato il cavallo da caccia del re del sabba e di aver galoppato tutta la notte, con incosciente bramosia, nell’inferno della gioia, risvegliandosi la mattina dopo al bordo di un ruscello, senza ricordare assolutamente nulla. G.H. sa di essere stata catturata dal demoniaco e sa che il satanico trotto del cavallo è ormai dentro di lei per sempre. “So che di notte, quando lui mi chiamerà, io andrò. Voglio che sia ancora una volta il cavallo a condurre il mio pensiero. […] Quando, di notte, lui mi chiama verso l’inferno, io vado. Scendo giù come un gatto per i tetti. Nessuno sa, nessuno vede. Mi presento nell’oscurità, zitta e sfolgorante. […] All’alba vedrò noi due esausti presso il ruscello, senza sapere quali sono stati i nostri crimini fino al sopraggiungere dell’alba. Sulla mia bocca e sulle sue zampe la traccia del sangue. Cosa abbiamo immolato?” La sofisticata donna borghese di prima si è ormai trasformata, si è messa a quattro zampe e, strisciando, si è presentata alle porte dell’inferno, scoprendo l’attrazione dell’abominevole, dell’immondo, dell’amorale: “Io ero giunta al nulla, e il nulla era vivo e umido”.
A dire il vero, la protagonista si aggrappa ancora, di quando in quando, a una fantomatica mano da stringere, a un non meglio precisato amore, forse nell’estremo tentativo di impedire la definitiva disumanizzazione, la caduta nel mondo infernalmente libero della blatta, ossia della materia nuda e cruda, privo di orpelli, di regole e di valori. Ma è tutto inutile: per chi ha tagliato definitivamente i ponti con il passato, non c’è più la possibilità di tornare indietro, alla vita precedente, ma solo la discesa, graduale e inesorabile, verso il nucleo più profondo dell’esistenza, e la scoperta, con orrore e allo stesso tempo con incanto, che questo nucleo è neutro, opaco e indifferente (“la vita ha il purissimo sapore del nulla”), proprio come gli occhi della blatta morente che, davanti a G.H., guardano senza più sentimenti, al di là perfino del dolore. La protagonista scopre che “essere vivo è una compatta indifferenza che irradia. Essere vivo è inaccessibile alla più acuta sensibilità. Essere vivo è inumano”. La verità cui è faticosamente giunta G.H. è una verità in negativo, in quanto si riduce a qualcosa che non avrà mai la possibilità di comprendere: “Ciò che sembra mancanza di senso – è il senso. Ogni momento di mancanza di senso è l’esatta spaventosa certezza che lì c’è il senso”. La verità è un enigma, ma la sua spiegazione è solo, nella maniera più sconfortante, la ripetizione dell’enigma stesso. Cessare di capire è allora l’unico modo per capire, cessare di essere è l’unico modo per essere: “quanto meno sono, più vivo, quanto più perdo il mio nome, più mi chiamano, […], quanto più ignoro la parola d’ordine, più compio il segreto”. L’estremo gesto di questa spersonalizzazione, il definitivo suggello alla conquista dell’inumano, è il momento più conosciuto del libro, sicuramente il più intollerabile e disgustoso: in bilico tra follia e realtà, G.H. si ciba della blatta come atto di suprema catarsi nella materia, di superamento di ogni tabù, quasi fosse una blasfema eucarestia. Assistiamo qui al definitivo superamento della morale, anzi alla creazione di una nuova morale, una morale “talmente estranea da non poterla neppure capire e da esserne sconcertata”. In questa morale non c’è spazio per la bellezza, per l’empatia o per la bontà, ma solo per la materialità delle cose, per l’inumano appunto (“L’umanità è fradicia di umanizzazione. […] Esiste una cosa che è più ampia, più sorda, più profonda, meno buona, meno cattiva, meno bella. Sebbene pure quella cosa corra il pericolo di trasformarsi, nelle nostre mani grossolane, in purezza”). Il superamento, il rinnegamento dell’io avviene nel segno di una libertà incondizionata (“infine si era davvero spezzato il mio involucro e io ero senza limite”), anche se questa infinitezza non può che sussistere in un’accezione giocoforza negativa: “Non essendo, io ero. Sino alla fine di ciò che non ero, io ero. Ciò che non sono, io sono. Tutto sarà in me, se io non sarò; perché “io” è appena uno degli spasmi istantanei del mondo”. Al termine di questo agghiacciante deliquio, rimane una negatività talmente profonda, talmente assoluta, da assomigliare a una rivelazione, ma anche alla follia.
Con “La passione secondo G.H.”, Clarice Lispector ha tentato di dare voce all’inesprimibile, di “dire l’indicibile”. Non è solo la protagonista, ma anche la scrittrice, e noi lettori con lei, ad addentrarsi in territori vergini, inesplorati, mai percorsi prima da essere umano. “Dovrò forzarmi di tradurre l’ignoto in una lingua che ignoro. […] Parlerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio”. Il risultato di questo sforzo è un exploit letterario formidabile, in cui la scrittrice brasiliana fa tabula rasa di tutta la cultura occidentale per descrivere l’afasia, l’alienazione, la crisi dei valori dell’uomo moderno. La Lispector bordeggia i territori della psicosi, ma, paradossalmente, il suo linguaggio non è quello sconnesso, squilibrato della pazzia, non è neppure quello survoltato dell’allucinazione, bensì quello da una parte lucido, preciso e meticoloso (ogni capitolo inizia ad esempio con la frase che aveva chiuso il capitolo precedente, quasi a rafforzare, raddoppiandolo, il suo significato), dall’altra incantato e sublime di chi guarda da altezze vertiginose la lontananza del mondo. Il romanzo è inoltre pieno di riferimenti religiosi: c’è il deserto dell’Antico Testamento, c’è la passione del titolo che richiama quella di Gesù, c’è (lo abbiamo visto) l’eucarestia e ci sono perfino le preghiere (“Benedetto il frutto del ventre tuo”, declama G.H. guardando la materia biancastra che fuoriesce dal corpo della blatta, “benedetta tu sia fra le blatte, adesso e nell’ora di questa tua mia morte”). Dio è citato spessissimo, ma a ben vedere è un dio incomprensibile, un dio che si confonde col nulla o col demoniaco, o forse è lo specchio in cui si riflette l’immagine deformata dell’io (“Che cosa Sei? e la risposta è: Sei. Che cosa esisti? e la risposta è: ciò che esisti”). La Lispector lancia al lettore domande gigantesche, ultraterrene, ma gli nega ogni possibilità di udire una qualche risposta. Tutto il libro è anzi pieno di cortocircuiti logici (“Tutta quella realtà io la vivevo con un sentimento di irrealtà della realtà”; “l’inferno è il dolore come godimento della materia”), che destabilizzano e non ci fanno mai stare in una posizione comoda e sicura. Quello che leggiamo, così astratto e insieme così concreto, non è un’esperienza onirica (anche se, analogamente a un sogno, anche qui si scopre che la logica non ha senso), tanto è vero che tutto si svolge alla luce di una giornata assolata e caldissima. Ciononostante la Lispector, con un coraggio sovrumano, riesce a scandagliare l’inconscio più segreto, remoto e inaccessibile dell’uomo come nessun onirista sarebbe in grado di fare. Il lettore che avrà la forza di resistere a un libro che supera di slancio, con spregiudicata temerarietà, le colonne d’Ercole della letteratura “normale”, per affrontare un ignoto dalle conseguenze pericolose e imprevedibili, godrà alfine, dopo aver rischiato di finire soffocato da una prosa che non lascia un solo attimo di respiro o annientato da una storia quanto mai sgradevole e scabrosa, godrà alfine di un piacere raffinato e ineffabile, in qualche modo simile a quello provato dalla protagonista quando dice: “stavo nell’inferno trapassata dal piacere”.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    21 Marzo, 2024
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La sindrome di Shehrazade

Paul Sheldon riemerge da uno stato di incoscienza: si trova in una camera che non ha mai visto, accudito da una donna che non conosce, ha un intenso dolore alle gambe. Piano piano comincia a ricordare: era andato a finire di scrivere il suo nuovo libro in Colorado e, arrivato alla conclusione del romanzo, aveva deciso d’impulso di prendere la macchina e viaggiare verso ovest, invece di salire sul solito aereo per New York. Ma si era messo alla guida dopo aver bevuto troppi bicchieri di champagne e, per giunta, era incappato in una bufera di neve. Aveva avuto un brutto incidente stradale: era ridotto davvero male. E adesso perché non era in ospedale? E quella donna che l’aveva tirato fuori dall’auto, alimentato con flebo e imbottito di antidolorifici a base di codeina, chi era? E cosa voleva da lui?

Nel corso di un racconto intenso, che vi porterà nel climax di angoscia, paura e disperazione provate da Paul, potrete avere la risposta ad ognuno di questi interrogativi.

“Misery”, capolavoro dell’horror pubblicato nel 1987, è un romanzo che riesce a tenere il lettore incollato alla pagina dall’inizio alla fine della narrazione. In un primo momento vogliamo capire cosa è successo, vogliamo conoscere Annie, vogliamo sapere fin dove si può spingere il suo essere psicopatica. In seguito ci schieriamo con Paul, personaggio estremamente convincente: coraggioso e anche vigliacco, vizioso e capace di resistere, vittima che però riesce a reagire, scrittore popolare che sa padroneggiare perfettamente la sua arte. Come non rimanere affascinati dall’uomo che, chiuso in una micidiale spirale di terrore, cerca di ricavarsi un passaggio verso la salvezza scrivendo una storia che sia in grado di piacere alla sua aguzzina? Ci troviamo catapultati lì vicino e ci immaginiamo di sussurrargli: “Paul, Puoi! Non lasciarti distruggere dall’orrore, non smettere di provarci, non arrenderti anche se è quasi impossibile!”

“Misery” è un romanzo veramente avvincente, scritto in modo magistrale da Stephen King. Contiene anche interessanti riflessioni sulla scrittura, sulla letteratura e più in generale sull’arte popolare. Non lasciamoci allontanare da quest’ultima a causa di un atteggiamento troppo snob. Non sottovalutiamo il suo potere sulla vita delle persone.
Buona lettura!

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Lonely Opinione inserita da Lonely    19 Marzo, 2024
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Robin in pericolo

Ultimo romanzo della Rowling/ Galbraith, con la settima indagine del suo protagonista Cormoran Strike.
Per chi non ha mai letto nulla di questa serie, consiglio di iniziare in ordine cronologico, perchè la storia si evolve cosi come i protagonisti.
L'agenzia investigativa Strike & Ellacott questa volta, tra gli altri casi, deve provare a fare uscire da una comunità il figlio di Colin Endsor, Will Endsor, che crede sia trattenuto contro la sua volontà.
Sulla comunità si hanno poche notizie e coloro che ne sono fuori sono reticenti a parlarne e anche coloro che inavvertitamente ne parlano...muoiono inspiegabilmente.
Così Strike pensa che sia necessario un agente sotto copertura che si riesca ad infiltrare cercando di avere più notizie possibili sui membri e sui leader della comunità e Robin si offre volontaria.
Ma dopo pochi giorni Robin si rende conto di essere entrata in una vera e propria setta dove assiste ad atti coercitivi su tutti gli adepti.
La UHC , la setta in questione, tiene volontariamente i membri lontani da parenti e amici, costringe gli stessi a laute donazioni e li influenza psicologicamente, con atti punitivi e digiuni forzati , indebolendoli sensibilmente nel fisico e nella mente.
Per la stessa Robin sarà molto rischioso indagare il lato oscuro della UHC, e il lettore sarà coinvolto in un climax di suspense e tensione, davvero ad alto livello, sperando che per lei tutto vada per il meglio e riesca nella sua missione.
La Rowling, come al solito, non delude mai, il libro, come anche i precedenti è oltre le mille pagine, ma si legge d'un fiato, soprattutto, mi ripeto, per la suspense creata ad arte.
Lo stile è notevole e il contenuto a dir poco affascinante, così ricco di dettagli significativi, anche a livello solo informativo.
La storia tra Robin e Cormoran prosegue tra il detto e non detto e una volta si fa avanti lui e indietro lei e viceversa, e non si incontrano mai, e che sia fatto il volere dell'autrice!
Quello che sempre sorprende è che il lettore rimane incantato a "guardare"

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a che ama la Rowling
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    19 Marzo, 2024
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T-R-A-M-E! (nel caso vi fosse sfuggito)

Tra innumerevoli alzate di occhi al cielo, continua la mia esplorazione del continente fantastico di Erilea con il secondo volume della saga Throne of Glass. Devo dire che pur impegnandosi ben poco per mettere una pezza alle mancanze della serie, "La corona di mezzanotte" risulta a mio avviso una lettura d'intrattenimento più valida del precedente capitolo; un po' perché avevo già grossomodo un'idea del tono non troppo impegnativo dato alla storia, un po' perché l'intreccio si dimostra un filino meno prevedibile.

Intreccio che ci ricongiunge ai protagonisti due mesi dopo il duello grazie al quale Celaena è stata nominata ufficialmente paladina del re di Adarlan, ruolo nel quale viene incaricata di eliminare figure scomode ed invise al sovrano; la ragazza attua però una ribellione silenziosa, aiutando a scappare le sue presunte vittime, come una versione al femminile del cacciatore di Biancaneve. Superata questa premessa, nel corso del volume vediamo svilupparsi tre sottotrame parallele: la nascita di una nuova romance per la protagonista, il continuo delle sue indagini magiche (e non solo, dal momento che si accenna anche a vari complotti politici) e la scoperta di presunti poteri magici da parte del principe Dorian.

Proprio questa storyline è diventata il primo tra i pregi del volume, in modo alquanto inaspettato -visto che la caratterizzazione del personaggio di Dorian non mi fa propriamente impazzire-, ora posso almeno sperare migliori in futuro; speranza alla quale si aggiunge quella che Roland si dimostri più di un carattere ancor più frivolo e cascamorto del cugino, introdotto solo per mettere quest'ultimo in una luce migliore. Rimanendo nell'ambito dei personaggi, ho apprezzato che Maas cercasse un po' meno di farci piacere a tutti i costi la sua protagonista self-insert, nonché l'introduzione di nuovi caratteri grazie ai quali la narrazione si sposta in parte fuori dai confini stantii del castello. Pur essendo (per ora) un personaggio del tutto inutile al proseguo della trama, promuovo magnanimamente anche Mort: non dirò chi sia per evitare spoiler, ma l'ho trovato davvero brillante sia nella sua ideazione che nelle linee di dialogo.

Un altro punto a favore è dato dalla presenza di alcuni momenti più seri e riflessivi, come i confronti tra Celaena e Chaol; forse non saranno riuscitissimi se consideriamo il tono leggero dato alla serie, però contribuiscono a dare più equilibro al ritmo. Mi piace molto anche come si sta espandendo pian piano il world building, aggiungendo nuovi luoghi, creature ed oggetti incantati: nulla di troppo originale o coerente (specie a livello di sistema magico), ma sto trovando davvero divertente calarmi in questo mondo fantastico. È approvata in parte anche la sottotrama romance: per me rimane inspiegabile il modo in cui è stata risolta, però di base è un rapporto strutturato in modo credibile ed equilibrato; peccato che poi Celaena venga colpita da un attacco di visione tubulare dal quale non rinsavisce neppure davanti alle prove provate.

Le altre debolezze del volume riguardano principalmente l'intreccio, che nel primo capitolo era solo terribilmente scontato mentre qui manca proprio di solidità, oltre ad essere farcito da momenti in cui i personaggi sembrano regredire allo stato infantile, perché altrimenti si arriverebbe subito alla risoluzione. In particolare, si ricorre a forzature che poi devono pure essere giustificate: è il caso della capatina notturna di Celaena in biblioteca -dopo aver passato tutta la giornata a fare acquisti di libri nuovi!-, solo per farle incontrare un certo personaggio. Abbiamo poi scene come il confronto tra il re e la cantante che dimostrano come lo stesso ruolo di paladina ricoperto dalla protagonista (sul quale poggia l'intera serie!) sia alla fin fine inutile, ed altre in cui i personaggi ottengono informazioni in modo troppo fortuito o senza prove tangibili.

In ambito stilistico abbiamo poi un sostanzioso punto a sfavore, sia perché la cara Sarah si dilunga in descrizione di luoghi che definire inverosimili -e quindi impossibili da immaginare- è un garbato eufemismo, sia per l'utilizzo eccessivo del corsivo per enfatizzare determinate parole; come non bastasse, questo espediente porta spesso a puntare l'attenzione sul termine sbagliato all'interno della frase. In realtà quest'ultima osservazione potrebbe riguardare solo l'edizione italiana, la cui cura grafica e contenutistica non è affatto aumentata; abbondano infatti refusi grammaticali ed errori di digitazione, e non solo: perfino un appunto della traduttrice è finito nella stampa definitiva!

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barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    19 Marzo, 2024
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LA MERAVIGLIA NELLA PAZZIA


Nel Mezzomondo vive Elba, una ragazzina nata e cresciuta lì pur non avendo alcuna patologia mentale. Insieme a lei, la sua Mutti ed altre donne internate perché definite "di facoli costumi, disobbedienti, colleriche, inadatte a fare le madri...
Ma la legge sta cambiando (Legge Basaglia del 1982) e arriva un nuovo "dottorino", Fausto Meraviglia che è intenzionato a chiudere il manicomio, cancellare tutte le vecchie regole e scansare il vecchio psichiatra, il Dott. Colavolpe dai metodi discutibili.
L'incontro tra i due segna una svolta inaspettata per entrambi: Elba scopre progressivamente che esiste una vita al di fuori del Mezzomondo e per Meraviglia scatta il progetto di salvezza per questa non-paziente. E non da ultimo, scopre la figura genitoriale mai svolta nella sua vita privata.
.
Questo romanzo di Viola Ardone è davvero una Grande Meraviglia, uno di quei romanzi da cui impari tanto e la cui lettura ti fa stare bene, ne esci con gratitudine.
Attraverso le parole di Elba, i suoi ragionamenti, le sue rime e le parole inventate, si percepisce un manicomio diverso, quasi divertente,; un mondo parallelo rispetto a quello in cui si perpetrano maltrattamenti verso le donne internate ad opera di Colavolpe e Lampadina.

Ho provato sentimenti contrastanti verso Fausto Meraviglia, il dottorino che, al di fuori del manicomio non fa il padre con i propri figli, ma diventa la figura paterna per qualcun altro, un marito "brillante" fuori e di poca presenza in casa, perché la famiglia è "sopravvalutata"...
.
Ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione direttamente dall'autrice, persona molto preparata sull'argomento e dai modi gentili che ringrazio davvero per aver scritto questa grande meraviglia!!

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68 Opinione inserita da 68    18 Marzo, 2024
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Declinazioni difformi

Che cosa ci rende unici, diversi, apolidi, aggrappati ad un’ isola, lontani dalla terraferma, in dolce compagnia, in attesa, inesorabilmente soli, che cosa ci appartiene, a chi apparteniamo, come esprimere il proprio io più profondo? Quanto religione, genere, tradizione, identità famigliare, genia, storie, credenze popolari, invenzioni fiabesche hanno ci appartengono e ci rappresentano? Perché evadere da se stessi, allontanarsi dal luogo natio, da un’ illusione condita di falsità in uno stato assediato da odio e caos imminente? Come rendersi visibili nell’ invisibilità, indugiare nel travestimento?
“ Transizioni “ e’ una prolungata e asfissiante apnea del profondo, un giro del mondo vedendosi altrove, una fluida rappresentazione della cruda realtà circostante, un senso indefinito di perdita dell’ amore più grande, la propria identità.
Burjan e’ un giovane uomo che può essere donna, cambiare sesso, nome, nazionalità, luogo di nascita, spetta a lui decidere, gli basta aprire bocca, travestirsi, inventare una storia, un’ origine lontana, un posto dove stare sperando di essere.
Nessuno è obbligato a rimanere se stesso, di volta in volta può scegliere, coprire le menzogne con altre menzogne, è terribile non rappresentare niente per gli altri, essere nessuno, l’ invisibilità come morte prematura.
Di certo Burjan ha rinnegato la propria patria, l’ Albania, una terra di bugiardi, di nessuno, prigione retta da psicopatici, un popolo asfissiato, un luogo surreale, senza direzione, senza senso, abbandonato da tutti, lasciato a se stesso.
Una famiglia distrutta dalla morte del padre, nessuna certezza, presente e futuro, uno stato di abbandono e di solitudine sconfinato nell’ accattonaggio, il desiderio di evadere in un moto perpetuo di non cittadinanza, attraversando realtà divergenti, auspicate, che faticano a riconoscere e ad accettare il diverso.
Berlino, Madrid, New York, Finlandia, Italia, molteplici storie, la medesima storia, incontri, solitudini esposte, condivise, drammi personali, maschere di dissolvenza, sentimenti opachi e passioni travolgenti, uno specchio maledetto che sfugge al dolore dell’ altro, che ha interiorizzato le percosse subite in un mimetismo camaleontico.
Come essere senza riconoscersi, rinnegare origine, passato, nazionalità, iniziare una relazione non parlando mai di se’, riconoscere l’ unicità ignorando il genere di appartenenza?
Che cosa cosa ci rende individui, come guardare alla vita, non temere la morte, identità sottratte, il brusco e doloroso ritorno al senso di solitudine primario?
Un passato tuttora sospeso, non metabolizzato, un amore unico, diverso, atemporale, disperso in un mare in tempesta, un racconto che prende forma

…” nella biglia del suo occhio vedo il suo passato, i terreni muschiosi su cui ha galoppato, le strade tortuose che hanno divorato i soldati caduti dalla sua groppa e bevuto il sangue colato dai suoi zoccoli, e capisco perché non parla mai dei suoi ricordi più orrendi, perché li scaccia sempre dalla mente, lasciando che cadano dalla finestra come bambini da una casa in fiamme ”….

mentre un pensiero ritorna

…”. Non importa dove saremmo finiti perché tutti i luoghi dove ero stato con lui erano stati una casa”…

“ Transizioni “ è un viaggio fluido nell’essenza di un giovane all’ inseguimento di una definizione personale da lui stesso negata. La prosa di Statovci restituisce un elaborato complesso che sfugge a ogni definizione, solido nel calarsi in un reale crudo e molesto, intimo nella sofferta ricerca identitaria, fluido nella transizione corporale, nel travestimento e nell’ indefinitezza di genere, ipnotico e seducente nella rielaborazione di un mondo, tra storia, sogno, fiaba, leggenda.
Che lo scopo ultimo della ricerca non sia la propria origine?
Uno scrittore di grande talento che sa muoversi magistralmente in mondi ugualmente diversi, paralleli e discordanti, restituendo significati profondi ed emozioni vivide a una vita da definire e in gran parte già definita….

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    18 Marzo, 2024
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Perla fragile

Lui è un uomo burbero, che è facile purtroppo giudicare dall’esterno, per i modi un po' bruschi, per la bottiglia di vino che è diventata caricaturale, per come i clichés ti portano ad etichettarlo. E’ però anche un’anima gentile, una perla fragile, che, a partire dai primi anni, ha profondamente sofferto per una situazione familiare fredda e distaccata. Questo libro, autobiografico, è venato di una malinconia diffusa, perché l’autore si abbandona al ricordo, che a volte è sofferto, a volte è dolce e morbido, a volta è sferzante. Ne nasce un fluire ininterrotto di pensieri, con profonde riflessioni sul rapporto con il dolore, così come con i genitori, con i figli, con la malattia di una figlia, e al centro, sempre, il dramma più grande che la sua terra ha vissuto, il disastro del Vajont. Vivere è come scolpire un tronco. Ognuno il suo. Con tutti gli imprevisti della materia prima che lo scultore può incontrare intanto che lo incide e cerca di dare la forma desiderata. Libro poetico, struggente, vero, con cui l’autore ci restituisce tutte le emozioni del suo cammino verso il tramonto.

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Romanzi storici
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    18 Marzo, 2024
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Splendido e doloroso

Non possiamo definirlo un vero e proprio romanzo, non possiamo considerarlo una biografia a tutti gli effetti, non è certamente ciò che si può chiamare saggio. Che cos'è allora questo libro di Paolo Nori? Forse la vera domanda da porre, però, è questa: dobbiamo necessariamente trovare una definizione per questa bellissima opera? Perché racchiudere in un unico sostantivo pagine che parlano di amore per la poesia, per la letteratura, per la cultura in generale? Pagine che parlano di storia e di attualità, che alternano il racconto della vita straordinaria di una donna e artista altrettanto straordinaria al racconto della vita e delle esperienze dello stesso autore. Pagine che trasudano un'infatuazione viscerale per una terra, una cultura, una lingua meravigliosa come quella russa, e che spiegano come questa passione si scontri con tutto ciò che, nell'opinione pubblica, nella politica, nella vita di tutti i giorni, essa comporta da quando è scoppiata la guerra tutt'ora in corso tra Russia e Ucraina. La protagonista è una figura affascinante come quella di Anna Achmatova.
"Prima di primavera c’è dei giorni
Che alita già sotto la neve il prato,
Che sussurrano i rami disadorni,
E c’è un vento tenero ed alato.
Il tuo corpo si muove senza pena,
La tua casa non ti par più quella,
Tu ricanti una vecchia cantilena,
E ti sembra ancora tanto bella."
Anna non era bellissima, era meglio, anche in mezzo a donne stupende la sua figura spiccava tra le altre per espressività, spiritualità, magnetismo. Anna non era una semplice poetessa (o poeta come preferiva essere definita), era uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. La vita di Anna merita di essere raccontata non soltanto per la sua grandezza come artista, ma perché sarebbe stata una vita memorabile anche, come dice Nori, "se avesse fatto l'ingegnere navale". La giovane fa capire subito di che pasta è fatta quando decide di cambiare cognome (è nata Gorenko) sfidando il padre che le aveva proibito di mischiare il proprio con attività dubbie e discutibili come la poesia, definendole "faccende disonorevoli". Uno spirito battagliero, indipendente, orgoglioso, che si porterà dietro per tutta la vita e che la aiuterà ad affrontare un'esistenza da artista invisa al regime nell'Unione Sovietica guidata da Stalin. L'espulsione dell'Unione degli scrittori, l'isolamento, la privazione della tessera alimentare, le critiche dei colleghi, la riabilitazione, la ricaduta, la censura. Per poter continuare la sua arte, racconta l'amica Lidija ?ukovskaja "quando veniva a trovarmi, mi recitava versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: “Volete del tè?”, oppure: “Come siete abbronzata!”, scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. “L’autunno è venuto così presto” diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere – un rito splendido e doloroso". Anche la sua vita privata è stata movimentata e ricca di tormenti, tra relazioni travagliate, separazioni, tradimenti, un marito (il poeta Nikolaj Gumilëv) prima arrestato, poi fucilato, un figlio, Lev, con cui non è mai stata in grado di entrare in empatia, per il quale ha dovuto soffrire le pene della detenzione e le paure della guerra. E poi amicizie importanti e prestigiose, come quella con Modigliani (in realtà ben più di un'amicizia) o con l'immenso Bulgakov, per la cui morte ha scritto questi struggenti versi:
"Ecco, invece di rose sulla tomba,
Invece di turiboli d’incenso, io do questo, a te
Che hai vissuto in un modo così serio,
E che hai guardato il mondo, fino in fondo,
con un
Magnifico disprezzo.
Bevevi, sapevi scherzare solo tu,come
scherzavi tu,
E soffocavi, tra pareti soffocanti,
E hai lasciato entrare l’ospite terribile,
E sei rimasto lì, con lei, a guardarla in faccia.
E non ci sei più,
E nessuno intorno dice niente,
Di questa vita orribile e meravigliosa.
Che la mia voce, almeno, come un flauto,
Suoni al tuo muto banchetto funebre."
C'è tutto ciò in questo libro, ma c'è anche molto di più. C'è un autore che, parlando di Anna Achmatova, parla anche di se stesso, della scintilla che ha acceso la sua passione per la letteratura, degli studi, dei viaggi, della famiglia, della passione per il calcio, dell'infatuazione per un paese terribile e straordinario come la Russia, delle soddisfazioni che questa gli ha dato ma anche di tutti i problemi che, a causa sua, è costretto ad affrontare da quando è iniziato il conflitto "tra fratelli e sorelle". In più citazioni, riferimenti, consigli letterari, una forte dose di confidenziale simpatia, uniti ad una sapiente scrittura, rendono piacevole, interessante, vivo un volume di difficile catalogazione ma di ottimo impatto per il lettore, che non potrà fare a meno di procurarsi le opere di questa grande figura del novecento che, con le sue poesie, ci voleva avvertire che avrebbe vissuto per l'ultima volta.
"«In America» dice «mi hanno detto che lei è molto conosciuta, ho letto alcune delle sue cose e ho capito che lei è l’unica che mi può rispondere: cos’è l’anima russa?» L’Achmatova, con gentilezza ma con decisione, cambia argomento. Il professore fa un’altra volta la sua domanda. Lei cambia ancora argomento. Lui rifà la domanda. Lei cambia argomento. Lui si arrabbia e lo chiede a Najman, se sa cos’è l’anima russa. «Non lo sappiamo, cos’è l’anima russa!» dice l’Achmatova, che si è arrabbiata anche lei. «Dostoevskij lo sapeva!» grida il professore americano. «Dostoevskij sapeva molte cose» dice l’Achmatova, «ma non tutto. Per esempio pensava che, se uccidi una persona, diventi Raskol’nikov. Ma noi adesso sappiamo che puoi ucciderne cinquanta, cento, e la sera andare a teatro beato e tranquillo.»"

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Romanzi autobiografici
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    17 Marzo, 2024
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Anima sensibile

Libro autobiografico che ci svela una lunga storia di fragilità, raccontandoci la splendida, pura e disinteressata amicizia fra una donna e un uomo. L’autrice rivela il punto zero della sua vita in cui ha perso l’orientamento, ci mostra come l’assenza di radici profonde, l’assenza di legami e la mancanza di progetti l’abbia resa pronta ad accogliere tutto il dolore del mondo, ci spiega come il dolore del mondo l’ha assalita, lasciandola inerme, facendola richiudere su se stessa, senza però farle perdere la capacità di ascolto e di osservazione della bellezza del mondo. Dono che si è rivelato prezioso, perché le ha permesso di difendere la sua sensibilità, le ha permesso di trovare la via attraverso cui esprimere se stessa, la scrittura. Perché scrivere è la valvola di sfogo che permette alle anime sensibili di sopravvivere, alle querce diventate salici di ritrovare in modo morbido e non prepotente la propria forza, alle anime belle di donare la propria ricchezza interiore agli altri, anche a quel mondo che le aveva messe nel mirino.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Marzo, 2024
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Anita in trasferta

Ottobre 1935, il matrimonio di Anita Bo, maldestra dattilografa della Casa editrice Monné (ma acuta investigatrice sotto traccia) si sta avvicinando a grandi passi e Mariele, sua madre, non perde occasione di precettarla e coinvolgerla nei preparativi della cerimonia. Proprio per questa ragione, la ragazza, sempre meno convinta di voler sposare il bel Corrado Leone, coglie al balzo l’occasione per stare lontano una settimana da Torino. Il federale Sauro Bonatti, futuro suocero del suo capo, Sebastiano Satta Ascona, di cui lei è segretamente innamorata, ha invitato il genero a passare una settimana nelle Langhe dal di lui fratello, in occasione della vendemmia. Ma la rivista di gialli Saturnalia, curata da Sebastiano, non può perdere un'intera settimana di lavoro, così lui, per continuare nelle traduzioni di racconti americani, si dovrà tirar dietro la dattilografa Anita con gran gioia di quest’ultima.
La campagna piemontese cattura col suo fascino autunnale la ragazza, abituata allo smog torinese. Poi, scoprire che alcuni ragazzi del luogo hanno voluto tener in vita lo scoutismo (bandito dal regime) riunendosi segretamente nei boschi, la riempie di gioia.
Purtroppo anche tra le vigne l’orrore è in agguato. Nicola Noero, uno dei giovani scout appena conosciuti, figlio del notaio del paese e cugino dei Bonatti “campagnoli”, viene trovato morto accoltellato, una mattina all’alba, al limitare del noccioleto ove si riuniva con gli altri.
Il primo sospettato è Orlando Bonatti, perché, in tal modo, il ragazzo erediterà il ricco studio notarile dello zio. Però i Bonatti sono potenti e ricchissimi: è improbabile che, seppure colpevole, il ragazzo verrebbe mai condannato.
Questa è l’occasione ideale perché la coppia di investigatori part-time (segretamente antifascisti) formata da Sebastiano e Anita si metta nuovamente in azione per scoprire ciò che è realmente accaduto e, se del caso, scrivere un racconto giallo sotto lo pseudonimo di John Dorcas Smith, il 'nom de plume' con cui hanno già denunciato vari delitti, insabbiati dal regime, camuffandoli da fantasiose gangster story in una immaginaria Rivertown americana.
Ben presto, però, indizi e sospetti punteranno a indicare come colpevole per l’omicidio di Nicola ben altri, in luogo del viscido cascamorto Orlando, e, forse, a rivelare una verità molto dolorosa per gli stessi due intraprendenti investigatori per hobby, i quali, nel frattempo, si scopriranno molto più affini l’uno all’altra, di quanto sarebbe conveniente, per la morale dell’epoca e viste le loro relazioni sentimentali ufficiali.

Quarto romanzo giallo-rosa con protagonista la bellissima, ma altrettanto sbarazzina e intraprendente Anita Bo, in una Torino del ventennio, tra rievocazioni del tempo che fu e semplici intrighi polizieschi.
In questa occasione la dattilografa che si diletta di investigare con il suo capo si reca nelle Langhe e ciò dà l’occasione all’A. di dilettarci con la descrizione delle belle colline piemontesi ammantate dai rossi e dall’oro delle vigne autunnali e di raccontarci la semplice vita di campagna nei tempi che furono. Inoltre, grazie alla forzosa, continuata vicinanza tra Sebastiano e Anita, riesce pure a far evolvere la loro relazione, ormai ben più che professionale.
Lo stile della Bosco è quello consueto: leggero, leggero, forse anche troppo, pur se meno disinvolto e colloquiale che in passato. In ogni caso la prosa continua a fluire in modo brioso e gioviale. Ci vengono risparmiati molti dei tormentoni che infarcivano (e alla lunga appesantivano) i racconti precedenti, quali l’insistita italianizzazione dei termini inglesi o le pleonastiche specificazioni di certe espressioni già di per sé ovvie. L’agilità nella lettura ne trae giovamento e, tutto sommato, non si sente eccessivamente la mancanza dell’effetto comico legato a quegli escamotage.
L’intreccio giallo non è particolarmente complesso e il lettore attento ben preso si trova indirizzato verso la soluzione finale. La storia non è scevra di alcune ingenuità nella ricostruzione storica e nelle modalità in cui operano Anita e Sebastiano: un critico attento, forse, potrebbe ritenere poco credibili molte situazioni narrate. In realtà tutta la descrizione dell’Italia fascista del ventennio pecca di eccessive generalizzazioni e appiattimenti su luoghi comuni e stereotipi. Ma se lo si considera solo come l’inevitabile fondale scenico in cui ambientare le avventure di Anita, allora la cosa non disturba troppo e la si può accettare come una convenzione indispensabile per giustificare l'azione.
Ho apprezzato che il romanzo approfitti della trama poliziesca per omaggiare le “Aquile randagie” (nome-schermo sotto il quale i gruppi scoutistici continuarono a operare dopo lo scioglimento delle organizzazioni ufficiali), ma forse anche qui siamo andati un po’ oltre il confine della credibilità in certi frangenti.
Comunque, anche questo romanzo, se inteso come pausa rilassante e di mero svago, continua ad essere gradevole e divertente. Come lettore resto incuriosito dall’evoluzione dei personaggi principali e continuo a chiedermi come l’A. riuscirà a trarsi dall’impaccio (un vero imbuto senza uscita) che essa stessa si è creata e che rischia di porre fine alla prosecuzione della storia tra non troppi episodi. Ma, è probabile, lo scopriremo nei prossimi romanzi che certamente non mancheranno.
Quindi chi s’è già affezionato alla saga non potrà omettere la lettura anche di questo libro.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Marzo, 2024
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Reperti dalle necropoli

Con il suo ultimo romanzo Giampaolo Simi letteralmente chiude un quadro, termina con uno svolazzo e rifinisce gli ultimi particolari di una tela iniziata volumi prima.
Non a caso l’intera vicenda qui narrata, un di tutto e di più che pare affastellato alla rinfusa, ed è invece un ordito metodico ed intrigante, è un racconto che ritrae un lungo, tortuoso e travolgente tourbillon di indagini, di azione poliziesca e malavitosa, di misteri e doppi giochi, soprattutto di tormenti umani e sentimentali, che ruota quasi interamente intorno ad un dipinto misteriosamente scomparso, tanto unico quanto prezioso. Il quadro ritrae una giovane donna vista di spalle, effigiata in tela dal proprio padre, artista famosissimo, e chiacchierato, nel mondo dell’arte contemporanea.
Pur essendo un’opera pregevole, di elevata fattura artistica nella sua semplicità, gode oltretutto del privilegio che il suo valore economico lievita in virtù del suo essere esemplare in unica copia. Stranamente però, la tela non è ricercata e ambita da tanti per questo motivo, in primis dalla figliola qui ritratta, la sola che ne avrebbe il diritto di detenerla, Nora; la giovane, con un trascorso tragico e doloroso alle spalle, la desidera intensamente per un valore meramente affettivo. Per un estremo tentativo di recuperare, in qualche modo, il sofferto rapporto con il genitore, con il quale non sussisteva affatto un rapporto idilliaco padre figlia.
Invece, da altri personaggi, in verità ambigui e controversi, la tela è elemento espressamente cercato per effettuare una strana permuta, serve come mezzo di scambio per ottenere altro, un manufatto di valore molto inferiore. Una modesta scultura in pietra, un semplice, anche banale, reperto archeologico, rozzo e rudimentale, per di più rovinato, perché diviso in due tronconi. A tale oggetto in duplice ricerca si dedicano parossisticamente personaggi al di dentro ed al di fuori della legge. Trattasi di una piccola sfinge, e delle sue ali staccate dal corpo, a cui andrebbero successivamente riunite in un’unità, che risulterebbe comunque riparata, saldata, quindi difettosa. Ma tant’è, questo misero bottino di un tombarolo, poco più di comuni suppellettili d'interesse solo archeologico, ottenuto violando antiche tombe, e destinate alla vendita a collezionisti privati privi di scrupoli etici per pura vanteria, è oggetto della ricerca ossessiva di tanti, di troppi, perché è un modo di esaudire una richiesta a cui non si può dire di no, serve per accattivarsi la simpatia e i favori di un cliente facoltoso ed importante, per quanto capriccioso e intestarditosi per quel possesso.
Insomma, non si esita a barattare in perdita, si è disposti a cedere una tela pregiata sul mercato pur di avere in cambio, nella sua interezza, un pezzo assai meno pregiato rinvenuto in una antica necropoli, trafugato su commissione per il prestigio che ne deriva al cessionario di accontentare il misterioso ed eccentrico committente, un cliente di riguardo da cui ottenere vantaggi più futuri che immediati.
“Il cliente di riguardo” di Giampaolo Simi termina in qualche modo, almeno per il momento, la recente tetralogia dello scrittore, è l’uscita che gli serve per chiudere la mano di poker del raccontare soprattutto la vicenda e le tribolazioni umane del suo personaggio più noto e forse quello meglio riuscito, l’ex cronista di nera Dario Corbo.
Corbo, infiltrato in certi ambienti mafiosi come collaboratore del Nucleo recupero patrimonio artistico dei carabinieri, è un ex giornalista ora addetto stampa della Fondazione artistica diretta dalla donna che ama, ha un passato tragico per la morte della moglie Giulia, assassinata dalla malavita probabilmente proprio a causa delle sue attività di doppiogiochista, è macerato per questo dai sensi di colpa e di rivalsa, e dalla preoccupazione per il figlio Luca, giovane trainer di una improbabile compagine calcistica di persone con disabilità.
C’è di tutto in questo libro, c’è la Mafia, i vertici di Cosa Nostra, la piccola malavita spicciola e di stupida manovalanza; ci sono i buoni, i magistrati, i Carabinieri; ci sono immensi capitali occulti, connivenze, complicità, corruzione, protezioni altolocate; in sintesi una trama complicata, personaggi numerosi, che quantunque ben delineati, danno adito a più di un dubbio e diverse domande.
Giampaolo Simi scrive molto, racconta tanto, è certamente chiaro e lineare, ma corre volutamente il rischio di non piacere. Più di uno è certamente tentato di mollare la lettura a metà strada, forse è incoscienza o un rischio calcolato il suo. Fatto sta che la scrittura difficile, faticosa da seguire, talora ingarbugliata, che spinge a chiedersi dove si va a parare, infine piace. Simi può non piacere, ma aggrada; può risultare pesante e contorto, ma si accetta; si predilige un ritmo più veloce, ma lo si accoglie tra le proprie letture. Perché tutto si ricompone, tutto si riconduce a logica, tutto rimanda alla realtà, al vissuto reale del Paese e delle persone. Nessuna meraviglia, nessun colpo di teatro, niente finali ad effetto, Giampaolo Simi riporta le cronache del reale, lo fa con l’abilità narrativa dello scrittore sperimentato, con acume, intelligenza, capacità di costruire trame articolate e personaggi credibili, narra i fatti e le azioni ed intanto scorre le pagine interiori dei suoi protagonisti, riporta alla luce i reperti delle necropoli, e li espone nelle teche.
I musei magari annoiano, ma in fondo affascinano.

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Giampaolo Simi
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Marzo, 2024
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Etica e moralismo vs corruzioni e disumanità

«[…] Non lasciarla là fuori – qualcosa se la mangerà. Questo è un paese affamato.»

Cormac McCarthy è uno di quegli scrittori che ti prendono per mano e ti accompagnano in viaggi mai uguali ma sempre diversi, tanto per intensità quanto per profondità. McCarthy ha da sempre trattato anche temi in particolar modo più cari, temi che vanno dalla violenza, alla metafisica, alla religione, a dio, all’uomo e alla morte. “Meridiano di sangue” non è da meno ed è senza dubbi una delle produzioni dell’autore più intense e crude non solo per la struttura ma anche per i personaggi che abitano queste pagine.
Ed ecco allora che conosciamo lui, un quattordicenne che nell’America di metà Ottocento, nel Tennessee rurale, deve sopravvivere. Orfano di madre dalla nascita, con un padre che si sbronza dalla nascita da mattina a sera, e nessuna prospettiva per il futuro, ecco che decide di spostarsi verso l’Ovest per cercare un qualcosa, un futuro migliore. Quel che si trova ad affrontare lo porta a vivere situazioni estreme, fatte di violenza, fatte di odio e crudeltà, situazioni in cui la sua sicurezza è sempre a rischio così come la sua vita. Per sopravvivere dopo un cruento pestaggio decide di affiliarsi a una banda in caccia di apache. Ben presto si rende conto, però, la sua situazione non va a migliorare bensì a peggiorare. La banda è capitanata da un uomo che si fa chiamare Giudice, emblema di ogni sentimento negativo radicabile nell’animo umano. La banda vaga nei deserti texano-messicani con la scusante di combattere e cercare un messicano rinnegato a capo di un gruppo di apache ma in realtà uccide chiunque trova sul cammino. Che siano uomini, donne o bambini, non fa differenza; chiunque osa trovarsi sulla loro strada avrà una sorte tragica.

«Un uomo non riesce a conoscere la propria mente perché la mente è tutto quello che ha per conoscerla. Può conoscere il proprio cuore, ma non vuole. E fa bene. Meglio non guardarci dentro. Non è il cuore la creatura che sta percorrendo la via che Dio le ha preparato. La cattiveria la puoi trovare anche nell’ultima delle creature, ma quando Dio ha fatto l’uomo doveva avere il diavolo accanto. Una creatura che sa fare tutto. Sa fare una macchina. E una macchina per fare la macchina. E tanto male che può andare avanti da solo per mille anni, senza manutenzione. Ci credi?»

Una volta tornati in Messico con gli scalpi apache, verrà indetto in loro onore un banchetto che porterà alla luce la follia e a nuovi scatti di violenza gratuita e non preventivata. Ed anche quando saranno costretti a ripiegare sui deserti di confine, non si esimeranno da atti di violenza estremi. Perché questo è ciò che accade a chi si è abbruttito, a chi ormai non vede altro che il male. Altri scontri avverranno proprio all’interno della banda e sarà quando la resa dei conti sarà tra Giudice e ragazzo che lo scontro etico avrà luogo in perfetto stile McCarthy. Perché se da un lato il Giudice ha raggiunto il disprezzo totale per tutto, vita umana compresa, il ragazzo, invece, nonostante abbia visto il male ovunque e si sia abbruttito a sua volta moralmente, rappresenta la speranza di un riscatto etico. Ne è dimostrazione il fatto che, nonostante l’occasione propizia, non colpirà alle spalle il Giudice.
Ma il tempo passa. Passa e passa ancora. Il ragazzo è adesso un adulto, un uomo, che segue il proprio rigore etico, che non ha smesso di vagare per i territori dell’Ovest. Un giorno rincontrerà il Giudice che, al contrario, non è minimamente cambiato. Anzi.
Si sa, c’è un momento per tutto, compreso quello della resa dei conti. Uno stesso atto di clemenza può avere una ambivalenza e un significato diverso. Se per l’uomo moralmente etico è un atto di bontà e benevolenza, per l’uomo eticamente e moralmente corrotto è un mero atto di debolezza e in guerra non c’è spazio per la debolezza, non c’è spazio per l’umanità, non c’è spazio per il sentimento diverso dall’odio.
Cormac McCarthy dona ai suoi lettori un testo forte, ragionato, pensato, un testo che torna a interrogarsi sull’etica e sull’esistenza umana, sui grandi temi che da sempre e per sempre l’hanno ossessionato ed ancora una volta ci fa destinatari di uno scritto affatto banale quanto carnale e viscerale.

«Luccicavano tutte leggermente nell’aria torrida, queste forme di vita, come minuscole apparizioni. Rozze sembianze elevate a dicerie, dopo che le cose stesse erano svanite nella mente degli uomini.»

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Jaeger Opinione inserita da Jaeger    15 Marzo, 2024
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Indagare all'interno di una setta

Nuovo libro della saga dei detective Cormoran Strike e Robin Ellacott in cui tutto ruota attorno ad una setta.
Le indagini si svolgono parallelamente all'esterno e all'interno, tramite un infiltrato (Robin). L'obiettivo inizialmente è sottrarre uno degli adepti a questa setta, ma man mano che si procede si inizierà ad indagare su diversi fronti: omicidi, incidenti sospetti, tentati suicidi e sparizioni.

Romanzo scritto divinamente come i precedenti, su questo non c'è il minimo dubbio. L'autrice è una garanzia. Molto lungo, ma a differenza del precedente la lunghezza non si avverte granché. Anzi, nonostante tutto alcune sottotrame non sono particolarmente approfondite.

L'unico difetto che ho percepito, da persona non preparata su psicologia e tecniche di manipolazione, è la velocità con cui avviene l'indottrinamento degli adepti nel libro.
Davvero in una sola settimana si può convincere qualcuno a rinunciare per sempre a libertà, amici, parenti, comodità, qualsiasi tipo di tecnologia o bene di lusso, mettergli una tuta e farlo lavorare nei campi o nelle stalle dall'alba al tramonto? O fargli raccogliere offerte per strada con una lattina appesa al collo? Il tutto dormendo in camerate comuni e pressoché digiunando?
Probabilmente non ci si poteva dilungare troppo su questo aspetto, non so... Sicuramente una ricerca sarà stata fatta, e con fonti autorevoli.
Senza dubbio i capitoli in cui si legge della quotidianità di Robin all'interno della setta sono molto angoscianti, quindi su quello nulla da dire. Il rischio di cadere nel ridicolo per l'assurdità di certe situazioni poteva esserci, se non scritte abilmente. Invece si percepisce il suo terrore pienamente.

La parte più intrigante del libro è senza dubbio l'indagine sulla sparizione della figlia dei capi della setta, annegata misteriosamente in mare da bambina ed il cui corpo non è mai stato ritrovato, trasformata poi in un mito al centro del culto; ricca di colpi di scena e indizi seminati abilmente che personalmente non avevo colto. Tanti interrogatori che aggiungono piccoli pezzi al puzzle generale. Finale totalmente inaspettato, almeno per me, ed è una cosa che mi fa sempre piacere.

Per quanto riguarda l'evoluzione della relazione tra i due protagonisti Cormoran e Robin ormai ho smesso di aspettarmi sviluppi. Il punto debole della Rowling sono proprio le romance a mio parere. 7 libri di "a me piace lui/lei ma non so se lui/lei ricambia e non voglio rovinare amicizia e rapporto lavorativo, quindi trovo un altro uomo/donna per non pensarci" sono troppi.

Nel complesso libro eccellente, consigliatissimo e godibile anche come romanzo a sé, ma meglio leggere la saga in ordine cronologico.

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