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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    06 Mag, 2024
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Il Sacro femminile

“Donne sacre”, interessante saggio di Franco Cardini e Marina Montesano, ci accompagna in un dotto percorso storico e, direi, in parte anche antropologico, di approfondimento riguardo al tema del sacro declinato al femminile. Benché il sottotitolo sia “Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici”, questo studio non è propriamente, a almeno, non esclusivamente, una storia di personaggi femminili straordinari, una biografia di donne eccezionali. È piuttosto un approfondimento del concetto di sacro coniugato alla sfera del femminile.

Innanzi tutto occorre definire bene il concetto di “Sacro”. Sarebbe fuorviante pensare al Sacro come a un concetto che porta con sé necessariamente delle qualità che si attribuiscono al Divino come la Bontà, la Verità, la Giustizia, considerate assolute e perfette: qualità che finiscono comunque per essere antropizzate. Il Sacro invece è “ciò che per sua natura è tutt’altro da noi”.

«Al pari della corrente elettrica, il Sacro non è per sua natura né “positivo” né “negativo”, né buono né cattivo.»

«Il Sacro è una forza silenziosa e sottile ma sconvolgente: qualcosa di totalmente diverso, di “altro”, rispetto all’uomo; una forza divina e mostruosa al tempo stesso. Può essere anche Santo, quindi prossimo al Divino e al suo modello; al contrario, però, accade che si presenti come terribile e feroce.»

Nella storia sono esistite, sia nei sistemi religiosi che in quelli mitico-religiosi, delle donne che hanno avuto un contatto privilegiato con il Sacro. Non sempre questo le ha rese migliori o sante, anzi, a volte il diverso presente nella loro natura sacrale può averle rese anche terribili e mostruose.

In questo testo quindi vengono presentate alcune figure femminili che hanno avuto una relazione privilegiata con il Sacro, così come lo abbiamo definito. Infatti, anche se le donne, in alcuni contesti storici, sono state escluse dai ruoli istituzionali del sacerdozio, le figure di sacro femminile certo non mancano nel mito, nella realtà, nella letteratura e nell’immaginario comune. Il Sacro femminile è stato un elemento essenziale di molte culture, un ponte verso il divino, l’altrove, l’aldilà.

Procedendo in questa stimolante lettura possiamo conoscere diverse tipologie di sacralità femminile dell’età antica, tardo antica e medievale, fino ad arrivare alle soglie dell’età moderna e facendo un rapido excursus anche nella contemporaneità.

I primi capitoli esaminano il Sacro femmineo presente nel sistema delle religioni a struttura mitico-immanente, i culti metroaci, le divinità femminili e le sacerdotesse delle religioni politeiste antiche. Lentamente si arriva alla figura di Maria, la Vergine e Madre di Dio secondo i cristiani, alle sante medievali per poi giungere all’approfondimento riguardante le donne che riescono a comunicare con i morti e con l’aldilà, alle donne fatate, magiche e alle streghe. Infine, arriviamo all’ultima parte del testo in cui si approfondiscono alcune figure di donne particolarmente carismatiche, come Eva Perón.

Siamo di fronte ad un saggio molto stimolante, soprattutto per gli appassionati di storia, etnologia e antropologia, che ci permette di approfondire il tema del Sacro femmineo attraversando principalmente le epoche storiche di antichità e medioevo ma con accenni anche a momenti più contemporanei.

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68 Opinione inserita da 68    06 Mag, 2024
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Quale colpevolezza?

….” La brezza che scende lungo i fianchi della collina mormora tra i fili d’ erba alta e la fucsia color del sangue. Non mormora parole di perdono”…

Jim Winter, uno scrittore impantanato nei giorni asfissianti del lockdown, organizza un workshop online per cinque aspiranti scrittori che manterranno il completo anonimato. Uno dei testi, scritto da una certa Deirdre, è locato a Rally, piccolo e sonnolente villaggio irlandese dove negli anni ‘70 si è consumato l’ assassinio di un orfano diciassettenne, Mattie Lantry, un mistero allora irrisolto.
Il noir di William Wall, romanziere, poeta e traduttore irlandese, inscena un dubbio atroce, almeno nella testa del protagonista, la ricerca di un colpevole che completi le tessere mancanti.
In fondo omettere, mentire, nascondere, tralasciare, tradire, lasciare soli, sottomettersi al volere altrui è già una ammissione di colpa, un peso insostenibile per una coscienza sporca che riaffiora e non conosce possibilità di fuga, in primis da se stessa.
Il racconto, via via arricchito di capitoli e di particolari, che Jim Winter da subito riconosce appartenere alla propria infanzia, nella storia e nei protagonisti, lo induce a riflettere sulla reale identità della presunta scrittrice e su che cosa ella voglia ottenere, dimostrare, rivelare, scoprire.
Di certo Deirdre conosce bene la materia e i fatti di cui parla, per Jim quale il senso di rivivere una trama che ha già respirato, rivedendo i volti di amici, parenti, rivali, un testo che potrebbe avere scritto direttamente, immaginando un finale a sorpresa, qualcosa di certo che lo metterebbe in pericolo?
Non è dato saperlo in una storia a metà tra reale e finzione letteraria, ridiscutendo i termini di quello che fu, quel nastro della memoria riesumato dalle parole di un estraneo, una memoria che non è altro che

….” il modo in cui noi raccontiamo una storia a noi stessi, un modo di razionalizzare gli eventi casuali che costituiscono effettivamente la nostra vita”….

Ci si confronta con significati non sempre evidenti, mutanti nel tempo, nelle circostanze e nelle persone.
La propria vita cambia, soverchiata da ansia, preoccupazione, paura, ridiscutendo il presente in funzione del passato, una versione di se’ sconosciuta anche a se stesso, dubbi, ferite, ricordi sfumati, il proprio matrimonio rivisto in funzione di quello che è stato.
Jim si specchia e non si riconosce, legge, rilegge, suggerisce, cancella, partecipa alla costruzione del testo, ma di quale testo si tratta, proprio, altrui, quello che avrebbe voluto scrivere, e chi è Deirdre o semplicemente diventa,

…” un mio alter ego, un me stesso diverso, innocente, che stava scrivendo la storia della mia vita, una parte di me nella quale non avevo mai osato inoltrarmi, uno scrittore molto più bravo di quanto io non fossi mai stato, una parte di me non soggetta ad alcuna autocensura”…

Il mistero si infittisce e permea una prosa dal ritmo sempre più incalzante in un’ Irlanda attraversata dal virus, imbevuta di cattolicesimo, politicamente scorretta, infarcita di paesaggi mozzafiato, una miscela di maschere e di tracce tra passato e trapassato in un presente ansiogeno e in completo disfacimento verso un futuro imbevuto di niente.


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Lonely Opinione inserita da Lonely    06 Mag, 2024
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La Femme Fatale

Charles Antoine Frédéric Dard nasce nel 1921 in Francia e muore in Svizzera nel 2000. E stato uno tra i più famosi e prolifici romanzieri francesi del genere noir della seconda metà del XX secolo. Ha scritto più di 300 romanzi in tutta la sua carriera e ha venduto più di 290 milioni di libri e nel 1957 è stato insignito del Grand prix de littérature policière, il più importante riconoscimento francese per il genere del giallo. Diventa famoso con la serie di polizieschi che ha per protagonista il commissario Sanantonio, serie che prosegue anche dopo la sua morte con il figlio Patrice Dard come autore.
Per chi volesse seguire la sua produzione in ordine cronologico si addentra in un bel ginepraio, perché oltre alla mole di opere da lui scritte, quelle tradotte in italiano non sono purtroppo tantissime.
Io ho scovato in libreria due riedizioni, e Prato all’inglese è una delle due.
In una ridente ed estiva Juan le Pins in Costa Azzurra, Jean Marie Valaise conosce fortuitamente Marjorie Faulks, la donna sale per errore sulla sua macchina, accampando la scusa che anche lei ha un'automobile uguale posteggiata proprio lì accanto e che si è confusa. La donna sparisce ma inavvertitamente lascia la sua borsa nella macchina del nostro protagonista. I due si incontrano di nuovo per caso la sera al casinò e poi ancora il giorno dopo quando lei si presenta in albergo da lui per riprendersi la borsa. Marjorie è infelicemente sposata e Jean Marie è temporaneamente in pausa da un fidanzamento in crisi. Lei deve tornare in Inghilterra la sera stessa e gli lascia un indirizzo dove lui può scriverle. Ma in realtà, tempo poche ore e per Jean Marie, la bella Marjorie è già quasi dimenticata, almeno fino a quando non riceve una lunga lettera di lei, la quale lo invita a passare con lei una settimana a Edimburgo, perché sarà sola, dato che il marito sarà in viaggio per lavoro.
Jean Marie non ci pensa due volte, coglie l’occasione al volo e parte per Edimburgo, ma arrivato in hotel non trova Marjorie, e la cerca disperatamente per tutta Edimburgo finchè non la trova in un alberghetto di periferia, dove trova però anche una bella sorpresa, il marito.
Da questo triangolo indesiderato nasce il delitto, quasi rocambolesco e inverosimile, nel quale Jean Marie rimarrà coinvolto in prima persona in quanto accusato di omicidio premeditato.
Devo dire un libro di una inaspettata piacevolezza. Oltre a una vera suspence che ti tiene incollato alle pagine, il tutto è condito da una sottilissima vena ironica e da un’arguta dovizia di dettagli che fanno riflettere e stupire al tempo stesso.
E’ un classico noir, edito in lingua originale nel 1962, e c’è la classica femme fatale, da cui il nostro “eroe” viene inevitabilmente irretito, in un gioco di passione e morte apparente e non.
Il ritmo di lettura è quello francese, cadenzato da un susseguirsi di eventi, uno dopo l’altro che catturano l’attenzione del lettore fino alla fine.
Un libro che consiglio a chi cerca qualche ora di svago.

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andrea70 Opinione inserita da andrea70    06 Mag, 2024
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Anime nere

Colle San Martino è un paesino arroccato nel centro Italia, senza particolari attrazioni e senza aspirazioni.
I suoi abitanti sono l'emblema della piccolissima provincia sperduta: tutti sanno quasi tutto di tutti, pochi sono utili davvero a qualcuno. Samantha ha 17 anni e un problema molto serio : teme di essere incinta e a preoccuparla non è tanto la possibilità in se quanto la consapevolezza del nulla che è il rapporto col fidanzatino.
Le uniche ad esserle vicine e di conforto sono l'amica Nadia e la vicina di casa Ida, i genitori hanno troppi problemi a mettere insieme il pranzo con la cena dopo che papà ha perso il lavoro.
Su tutto il paese dominano due figure agli antipodi ma ugualmente tormentate Cicci Bellè facoltoso proprietario di parecchie case in paese dove è parimenti temuto ed odiato, il quale tratta come una serva la moglie e si angoscia per il figlio Mario un ragazzone di 32 anni con il cervello di un bambino e Don Graziano, ruvido sacerdote che si occupa del nipote rimasto orfano.
La vita in paese prosegue tra i sussulti delle miserie di ogni individuo , il papà di Samantha non riesce a trovare lavoro ed è disperato e sommerso dai debiti, Samantha scopre che il fidanzatino è anche peggio di come lo aveva giudicato, lei cerca conforto e aiuto in un altro ragazzo che è a suo modo vile e immaturo.
Cicci Bellè ha continui scontri con Don Graziano e una serie di problemi nella riscossione dei debiti che la povera gente ha contratto con lui per l'affitto o per altre necessità, tra i più inguaiati c'è proprio il padre di Samantha e Cicci Bellè arriva a fargli una proposta allucinante per estinguere il debito.
In un simile contesto i social, la Tv e tutte le modernità non riescono a fare breccia nelle mura di ignoranza e consuetudini retrograde che sembrano circondare e soffocare il paesino, siamo ai giorni nostri ma pare di essere rimasti indietro nel tempo di cinquant'anni.
Samantha dovrà tirare fuori le unghie per difendersi dalle angherie delle persone e del destino fino ad un finale drammatico da fiaba nera con una resa dei conti disperata che scompiglia le carte in tavola e i "buoni" che finiscono per non essere più così buoni, la mala erba si è estesa a tutti ed è diventata l'unico modo di essere per sopravvivere .
Noir freddo e spietato, crudo nelle vicende e nei termini , Manzini non fa prigionieri nel descrivere la solitudine dell'anima delle persone nelle piccole realtà di provincia, la miseria morale più che economica non solo degli adulti Bellè e Don Graziano ma anche dei giovani tra cui si elevano la lealtà di Nadia e il coraggio di Samantha che impersona la figura del poster in cameretta : la donna lupo.
Da leggere per riflettere.

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Romanzi
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    05 Mag, 2024
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Agghiacciante

“Non ho ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra quasi di avervi dato una mano a morire.”

La voce narrante è Jack, quattordici anni.
Con lui la sorella maggiore Julie diciotto anni, Sue dodici, Tom sei.

Tutto comincia con quindici sacchi di cemento che servono a costruire un alto muro intorno al loro mondo per circondare la casa, davanti e dietro, con una spianata liscia di cemento.

“Mio padre steso per terra a faccia in giù, con la testa appoggiata al cemento appena steso. Mi avvicinai lentamente, sapendo che dovevo correre a chiedere aiuto. Per parecchi secondi non riuscì ad allontanarmi… quando l’ambulanza se ne fu andata, uscì a guardare il nostro vialetto. Nessun pensiero mi attraversava la mente mentre raccoglievo la tavola e con ogni cura cancellavo l’impronta di mio padre dal cemento fresco, soffice. ”

Questi accadimenti non sono un segreto, che tutto ciò succederà lo sappiamo a priori. Dalla quarta di copertina.

Quattro fratelli, una madre debole e malata. Un padre assente, ora per sempre. Una casa.

La narrazione è fredda, spigolosa, spietata, nessun aggettivo che ci faccia pensare all’affetto familiare. Sono tutti come fantasmi nei sentimenti.

E poi Jack, diabolico, ne starei certamente alla larga.

Quattro ragazzi che resteranno soli.

Le risa di fronte al corpo inerme della madre. I ragazzi che discutono sul da farsi. Come se la situazione fosse estranea da loro. Per un attimo mi viene in mente la stupidità, ma solo per un attimo.
Il racconto è talmente una narrazione lontana che quasi non mi impressiona. Ciò che destabilizza è l’inutilità di questi figli che tali non sono, la loro vuotezza d’animo, il loro pensare a soddisfare gli istinti animaleschi beandosi delle situazioni più dolorose.
La loro ignoranza di sentimenti ci viene spiattellata dall’autore subito.
I loro gesti fastidiosi che avrei volentieri evitato di leggere.

La sensazione di una prosa praticamente perfetta per ciò che racconta mal si sposa con i pensieri che suscita in me che leggo. McEwan non si smentisce mai, ti fa ruzzolare giù con lui a velocità vorticosa, nonostante la narrazione sia frenata, lenta, affinché il dolore emerga piano e coinvolga chi legge. Io non vorrei farmi trascinare ma l’unico modo per resistere e interrompere la lettura. Questo è McEwan. Non te le manda a dire.
Sarò una voce fuori dal coro ma questo romanzo non mi è piaciuto, non mi sento di consigliarlo e tornando indietro non lo leggerei. Ma se non lo avessi letto non potrei esprimere questo parere. Sembra contraddittorio ma è proprio questo che provo.
L’autore mi piace tanto, ho letto diversi suoi scritti tutti più o meno gradevoli e molto interessanti.
Chissà se con questo romanzo non volesse ottenere proprio questo risultato.

Forse la risposta è tutta nel titolo.

Buone prossime letture.

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McEwan
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    05 Mag, 2024
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Un romanzo double face

Londra 1881, il giovane medico Simeon Lee è ossessionato dalla volontà di sconfiggere il colera, ma non riesce a ottenere dal suo istituto ospedaliero i necessari fondi per la ricerca. Allora accetta l’incarico che suo padre gli ha trovato: assistere un lontano parente, il reverendo Oliver Hawes che da alcuni giorni denuncia un progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Simeon, perciò, si reca a Colchester, Contea dell’Essex, e da lì nell’isola di Ray un affioramento fangoso collegato alla terraferma solo da una strada che l’alta marea spesso sommerge rendendo pericoloso il percorrerla. Sull’isoletta, non di rado avvolta dalla gelida bruma del Mare del Nord, sorge solo la residenza del sacerdote, Turnglass House, un bizzarro edificio a due piani, sormontato da una banderuola fatta a clessidra di cristallo. Qui vivono solo padre Oliver e sua cognata Florence che il tribunale ha condannato alla reclusione domiciliare, come alternativa all’internamento in manicomio, per la brutale aggressione ai danni del marito a seguito della quale l’uomo era morto dopo una breve agonia.
Il sacerdote sospetta di essere stato avvelenato proprio da lei, anche se non sa in qual modo, visto che non si ciba che delle pietanze preparate dai due domestici anche per loro (ed essi godono di ottima salute) e la cognata da oltre due anni vive confinata in un’ala dell’edifico, una sorta di gabbia di vetro, senza poter aver alcun contatto con l’esterno.
Per il dottor Lee, inizia così una gara contro il tempo per scoprire le cause dell’infermità dello zio, ma anche per portare alla luce la storia passata della famiglia, misteriosa e inquietante; storia che potrebbe nascondere la motivazione, se non la causa, del male che sta uccidendo il sacerdote.

Los Angeles 1939, Ken Kourian è un giovane laureato a Boston che s’è trasferito in California nella speranza di sfondare nel cinema sonoro che sta avendo un enorme successo ovunque. Il caso gli farà conoscere Oliver Tooke, figlio del governatore dello Stato e scrittore di successo. Ne diviene amico e, con lui, passerà momenti piacevoli nella villa sull’oceano della famiglia; un bizzarro edificio a due piani interamente in vetro, sormontato da un segnavento a forma di clessidra di cristallo che è fronteggiato, in mezzo al mare, da una strana costruzione che l’amico chiama “torre dell’ispirazione”, ove si rifugia per lavorare ai suoi libri.
Questi momenti felici verranno brutalmente interrotti dalla morte violenta di Oliver. Ken, una notte in cui si trovava ospite a casa sua, lo ritroverà, ormai cadavere, nella torre dell’ispirazione, ucciso da un colpo di pistola alla testa.
Possibile che Oliver si sia davvero suicidato, come asserisce la polizia, proprio il giorno dopo l’uscita del suo ultimo, atteso romanzo, “Turnglass House”? Ken, lo ha visto sulla barca che si dirigeva alla torre assieme a un’altra persona; ma il secondo uomo non si trova da nessuna parte e non c’è nessuno a confermare la sua versione.
Assillato dai dubbi, inizierà a indagare assieme alla sorella del morto, Coraline, andando in Inghilterra, sull’isola di Ray, dove sorge l’antica casa di famiglia dei Tooke per indagare, ma pure studiando attentamente l’ultimo romanzo di Oliver, che narra della storia del giovane medico Simeon Lee il quale, nel 1881, cercò di salvare la vita al reverendo Oliver Hawes. Proprio nel libro scoprirà inquietanti corrispondenze tra il passato della famiglia Tooke e i personaggi del romanzo. Che dette somiglianze siano qualcosa di più che semplici casualità, espedienti narrativi o mere ispirazioni letterarie? Che in esso Oliver abbia tentato di fare rivelazioni scottanti relative alla sua famiglia e queste abbiano fornito il movente per il suo omicidio?

Due romanzi in un unico volume? O un unico romanzo suddiviso in due storie convergenti? Questo è ciò che ci offre Gareth Rubin in questo sorprendente libro double-face.
La tecnica tipografica del tête-bêche era molto utilizzata dagli stampatori del XIX secolo e consisteva nel disporre una parte del testo al diritto e l’altra al rovescio. L’A. in questo caso ci offre due romanzi, uno, con copertina blu da leggere al dritto e uno, con frontespizio rosso, da leggere capovolgendo il volume.
La scelta non è solo un artificio grafico per rendere più accattivante e curioso il libro, ma proprio un metodo narrativo. Non per nulla anche le due storie sono racconti matrioske con libri entro libri che interagiscono con la realtà raccontata cercando di svelarcela o anticiparcela. Inoltre in entrambe sono presenti libri tête-bêche: nella storia del XIX secolo c’è un libricino con una vicenda ambientata nel suo futuro (1939 in California!) che, sul retro, riporta il diario segreto del reverendo; nella seconda, quella del 1939, il romanzo di Oliver Tooke sul retro riporta un diverso racconto.
Ma il gioco di specchi continua per tutta la narrazione, intrigando e incuriosendo il lettore: entrambe le vicende sono misteriose e piene di enigmi; i riferimenti e i collegamenti tra le due vicende, lontane mezzo secolo, divengono, pagina dopo pagina, più evidenti e inquietanti.
L’A., in pratica, oltre a offrirci due racconti intrinsecamente connessi l’uno all’altro, ci presenta un gioco di incastri ed enigmi per sfidarci a scoprire le arcane relazioni che esistono tra le due vicende distanti nel tempo.
Molto abilmente anche lo stile narrativo si adatta alle epoche: quello usato per raccontare la storia del 1881 è più retrò e ricercato, mentre quello della seconda vicenda è decisamente più veloce e diretto, quasi chandleriano.
La prima vicenda ha un sapore vagamente gotico, con atmosfere cupe e tenebrose, che si snodano in un ambiente chiuso e astioso, fatto di gente dedita a traffici illeciti, ostile verso gli estranei; evidenti i richiami a temi cari a Poe, Bierce e Stoker, con accenni a vaghe ingerenze soprannaturali.
La seconda, invece, ci porta in una California rutilante al colmo del suo splendore, tra feste alla Grande Gatsby (con gente sfavillante fuori e vuota dentro) e infatuazioni cinematografiche, ma con situazioni hard boiled e immancabili strizzate d’occhi, come accennavo, alle ambientazioni tipiche in Chandler e Hammett.
Gradevoli le due vicende, ben congegnate ed entrambe cariche di suspense e colpi di scena, narrate con ritmo serrato e scorrevole, anche se non sono particolarmente astrusi gli enigmi proposti e intricate le avventure che affrontano i protagonisti. La fine di entrambe, però, ci lascia parzialmente insoddisfatti, come se i due cammini, che dovrebbero condurci alla soluzione finale del doppio mistero steso tra i due secoli, fossero interrotti da un baratro, un burrone che impedisce di percorrerli sino all’auspicata meta. Le quattro pagine bianche che dividono la fine del dramma ottocentesco da quella del giallo moderno sembrano quasi poste allo scopo di consentire al lettore di continuare, lui, la narrazione per giungere a una conclusione comune e soddisfacente, cercando di dare un senso a indizi e segnali disseminati nelle due storie che, a fatica, si debbono individuare, interpretare e connettere.

In definitiva, si tratta di un romanzo gradevole e divertente, di buon intrattenimento, ma parzialmente incompiuto, irrisolto; un libro che pur svelando le trame occulte che vi sono intessute e identificando formalmente i colpevoli e i mandanti dei delitti compiuti, ci priva del momento catartico atteso nel finale. In pratica ci lascia insoddisfatti e in attesa di un ulteriore capitolo risolutivo, con la delusione di chi, intrigato e affascinato dall’idea e dalla sua realizzazione tipografica, si aspettava ancor di più di quanto realizzato e si trova, invece, abbandonato sull’orlo del disvelamento risolutivo.
Un’ultima curiosità: come Dante si dilettò di chiudere le cantiche della sua Commedia con la parola “stelle”, ripetuta nei suoi ultimi tre endecasillabi, così Rubin termina i due racconti con la stessa, identica parola: “tempo”. Forse, proprio il tempo è la chiave di lettura di questo libro, la soluzione cercata: con il suo scorrere può sciogliere, prima o poi, i nodi e gli intrecci che gli uomini ordiscono.
____________
Un’avvertenza ai futuri lettori. Per quanto, in teoria, è previsto che si possa iniziare sia dal racconto ottocentesco che da quello più moderno, consiglio di cominciare da quello cronologicamente precedente, cioè da quello con la copertina blu. Infatti, per quanto esistano richiami incrociati alle due vicende, nella storia del 1881 si incontrano meno anticipazione dell’altra e, quindi, non c’è rischio di privarsi delle sorprese che ci riserva la seconda.

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68 Opinione inserita da 68    05 Mag, 2024
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Destino infausto

…” Ambos mundos, i due mondi, ossia quello vecchio e quello nuovo, dritto e rovescio, sostando dall’ altra parte”… ,

I personaggi dei sette racconti di Natzuo Kirino, uomini, donne, bambini, amanti, figli, mogli, senzatetto, trascinano le proprie solitudini e fragilità verso una deriva esistenziale personale e condivisa, il mondo un luogo dove non riconoscersi, sovente antitetico al proprio sentire.
Una scrittura , scorrevole, sussurrata, essenziale, un’ alternanza di grazia e crudita’, dolcezza e violenza, amore e morte all’ interno di un microcosmo relazionale e sentimentale deflagrato in indifferenza e noncuranza, anime che si sfiorano senza toccarsi, corpi vicini che non si guardano, sogni tramutati in incubi, digressioni di reale sfumate in una solitudine esistenziale tristemente indotta.
Protagoniste al femminile, bullizzate sin dall’ infanzia, sopravvissute a un’esistenza di stenti, non amate abbastanza, respinte dal proprio padre naturale, soverchiate dai sensi di colpa per essersi perdute in un ideale romantico, donne che ricordano buffe avventure erotico-sentimentali, che ripercorrono un passato famigliare dissolto, giovani che vivono un futuro già scritto, ricordando i tempi felici.
Il presente, figlio di giorni alienati e alienanti, sfugge a una possibile definizione, imbrattato di cupe parole e tristi presagi, solitudine, disperazione, rabbia, alienazione, tristezza, ansia, senso di vuoto, debolezza, stati d’ animo malinconici e iracondi, un presente inspiegabile oltre le avversità che hanno indirizzato il proprio destino.
Una vita sovente non voluta, inaccettabile, paralizzante, quando scelta sovente specchio artefatto di un viaggio violato dalla noncuranza di chi dovrebbe prendersi cura di noi, amarci, soccorrerci, proteggerci, indirizzarci. Laddove un briciolo di felicità sembrerebbe prendere forma, tutto pare dissolversi in sfaccettature declinanti senza la forza di affrancarsi da una condizione siffatta, sovrastati da debolezza e fragilità, da un male di vivere con radici profonde, destinato a una rassegnazione definitiva.
Un senso del vivere compagno di egoistiche presenze riflettendo su un’ imperscrutabile incomunicabilità di fondo, vite perdute, rimpiante, consumate, affrante, nessuno esente da colpe, nella forma e nella sostanza, un po’ vittime e un po’ carnefici, di se stessi e degli altri, abbandonati a una riflessione amara sulla propria condizione necessaria.
Tra le pagine la superficialità di chi è costantemente impegnato altrove, innamorato di se’, sospinto da stereotipi gaudenti che ignorano emozioni e sentimenti dell’ altro, riducendoli a strumenti del proprio apparire, una società costruita su tradizioni obsolete, deragliamenti famigliari, infelicita’ di coppia, solitudine affettiva.
Una condizione siffatta, che accompagna retaggi dell’ infanzia, esercitando un cammino di violenza e di indifferenza, ha sottratto e spogliato il delicato universo femminile dei propri sogni più intimi, ha abbandonato la sensibilità individuale in un’ arida terra di nessuno, elevando a quotidianità invivibile l’ idea infausta di contare assai poco agli occhi di chi si ama.

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Salute e Benessere
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    04 Mag, 2024
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Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?

Ero in libreria alla ricerca di un nuovo compagno quando lo sguardo si è posato su questa copertina e su questo titolo. Conosco l’autrice e mi piace molto come giornalista.
Una veloce lettura della quarta di copertina mi ha quasi bloccata dall’acquistarlo temendo un risveglio delle mie paure più ancestrali. Poi mi sono detta che le paure comunque restano. E questo libro non avrebbe cambiato un dato di fatto.

Ciò che mi colpisce di lei nel suo lavoro è la sensazione che possa sentirsi a casa ovunque, nei territori più lontani, feroci e poco ospitali.

Il racconto è molto diretto, sembra di leggere un diario di ricordi e di confessioni a cui non si sottrae. Famiglia e malattia si alternano nella narrazione. Ma anche le difficoltà di trovarsi al cospetto di ospedali, medici, infermieri…file interminabili e liste di attesa che non hai il tempo di attendere. Le scelte da prendere e le persone di cui fidarsi. Scontrarsi improvvisamente con quell’immenso mostro burocratico che è la Sanità. Sapere di non poterne fare a meno.

“Mentre uscivo dal parco di Santa Maria della Pietà ho chiuso gli occhi e l’ho sentita, finalmente. Era la sua voce. Mi ha detto: attenta a te.”

E’ impossibile non provare empatia, ma questo non è l’unico sentimento che la lettura suscita.
Cerco di immaginare cosa possa significare non sentire più un lato del corpo, gamba, piede, ascella, collo, testa, spalla, gomito, avambraccio, mano, anulare, mignolo, vederli, ma sentirli estranei, assenti.

Mi impressiona il racconto della sua prima risonanza, rivivo la mia, la maschera intorno alla testa a bloccarla, le cuffie per attutire i rumori, la pompetta stretta in mano da schiacciare al primo accenno di claustrofobia. Quando il lettino è scivolato nel tubo e la luce ha cominciato a sparire ho realizzato lo spazio che avevo. E non ho avuto il tempo di premere la pompetta. Ho urlato di tirarmi fuori. Solo dopo tanto tempo ho riprovato, e come lei ho tenuto gli occhi chiusi per circa un’ora.
Ammiro il suo coraggio. Perché così appare ai miei occhi. Il suo prima e il suo dopo.
E io avrei avuto lo stesso coraggio?

La sua diagnosi mi gela. Ignoravo questo aspetto della sua vita.
Francesca Mannocchi ha trentasei anni e un figlio di sei mesi quando scopre di essere affetta da una malattia neurologica cronica, la sclerosi multipla, una malattia potenzialmente disabilitante del cervello e del midollo spinale. E’ definita ingravescente, cioè la situazione patologica può peggiorare progressivamente.
Quando ciò possa accadere resta un punto oscuro.

“Chiedimi se ho paura.”

Quando sarà cominciata la malattia, dove, perché. Ha senso porsi queste domande?
Le foto con un prima e un dopo. Essere nel contempo ignari.

“Non posso spostare l’asse del tempo e riportarlo indietro, ma posso provare a non essere schiacciata dal passato e dal futuro.”

Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?

Macchie nel cervello, quel grigio che invece di essere uniforme ha delle placche bianche. Il danno.

“Mi posso fidare ancora del mio corpo?”

Le sue domande sono le mie. Lo erano anche prima di leggere la sua storia.
Perché in fondo il pensiero di come sono ora e di come sarò domani non mi abbandona mai.
Rifiuto, collera, ingiustizia, depressione, vergogna, malattia.
La rabbia che le fa pensare “Perché a me?”

È un raccontarsi in modo molto pulito, asciutto ed essenziale, senza travestimenti da supereroe, senza descrizioni di una famiglia perfetta e di una gravidanza idilliaca. Forse perché quando qualcosa ti tocca da vicino mentire sarebbe un inutile sforzo. Chissà che il suo lavoro, di inviata in zone di guerra che con tanta cura riesce a raccontare, non abbia condizionato e reso veri, reali, anche i racconti su se stessa e su ciò che le sta’ intorno, sul voler chiamare le cose con il loro nome.
Che è sempre un punto di partenza fondamentale, aggiungo io.
La prosa asciutta e schietta mi fa pensare ad una rassegnazione e ad una reazione. E questo mi suscita grande ammirazione.
Se potessi farlo le direi semplicemente grazie.

Buone prossime letture.

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68 Opinione inserita da 68    04 Mag, 2024
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Invisibilità manifesta

Il signor Cui è un uomo invisibile che costruisce e smercia altoparlanti, preda di se’ e di un vago sentimento nostalgico, un’ ombra che sa di malinconia in attimi rarefatti di serenità, attraversato da una consapevolezza effimera, impossibilitato a scavare nel profondo preferendo sostare in superficie, intriso di ricordi rarefatti di chi non c’è più, percorso da esili presenze-assenze in una Cina rivolta al capitalismo con retaggi di un passato recente.
Vive una condizione di solitudine acuita dal tentativo della sorella di cacciarlo di casa, si sottrarre all’ appellativo di audiofilo preferendo il termine “artigiano” che nella contemporaneità è un po’ come essere un mendicante.
Tuttora sconta l’ asfissiante presenza di un matrimonio finito tristemente conducendo un’ esistenza piatta in un angolo di mondo, ignorando e ignorato dalla società, un peso doloroso appresso, impaurito dalla propria ombra, immagini di una tristezza che vorrebbe dimenticare.
Intellettuali e imprenditori costituiscono i suoi abituali clienti, ama il proprio lavoro meticoloso, ossimorica presenza in un presente dominato dal caso e dal caos, poche tracce scoperchiano preziosi reperti della vita passata agitando la sua memoria sopita, eco di suoni da tempo dimenticati.
Per lui il reale si fa insostenibile, rassegnato al non protagonismo, nutrendo un desiderio di indipendenza e di solitudine da incastrarsi in un affare che potrebbe sistemarlo per sempre ma anche invischiarlo in una vicenda di mistero vestita.
Nel frattempo sopravvivono e riemergono echi di un luogo chiamato casa, il pensiero ai genitori scomparsi, il senso di esclusione e di appartenenza, la sorella vorrebbe vederlo maritato per liberarsi della sua presenza, il cognato cinico e violento, un vecchio amico macchiatosi di un’ imperdonabile colpa, un enigmatico imprenditore che vorrebbe possedere l’ impianto Hi Fi più bello del mondo, una donna avvolta nella propria menomazione.
Tutto scorre lentamente tra realtà e sogno, desiderio e rassegnazione, un vuoto evidente alternato a dolci note interiori, il mistero di chi realmente ci si trova di fronte, fantasma riemerso da una vita che potrebbe cambiare forma. Attorno a Cui il mondo percuote poche certezze rilasciando un tono di voce improvviso estraneo anche a se stesso…

…” Posso esprimere il mio modesto parere sulla questione? Se lei non fosse particolarmente intento a cercare il pelo nell’ uovo e ad andare alla radice di ogni questione, se imparasse a chiudere un occhio e la piantasse di lamentarsi sempre degli altri per i soliti problemi, potrebbe scoprire d’ un tratto che , in realtà, la vita è fottutamente bella. Non è forse così?”….

“ Il mantello dell’ invisibilità “ è un breve e intenso romanzo di sottrazione con un respiro di rassegnato umorismo nel cuore di una socialità violenta, nebulosa, indifferente. Una nebbia stratificata ricopre pagine di reale e digressioni di immaginario, una cupa presenza aleggia e sovrasta il protagonista, colonna sonora di un mondo sommerso e tristemente certo che disperde significati per acquisire una neo consapevolezza, consegnando il substrato emozionale a una riflessione profonda, quel senso apparentemente insensato che riguarda il proprio vivere.

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68 Opinione inserita da 68    04 Mag, 2024
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Rinascita

…” L’ amore, l’ amore vero, arriva solo una volta nella vita. Ma se tenti o meno di trattenerlo, di stringerlo a se’, ci sfugge sempre”…

Note suadenti nel romanticismo di un amore sottratto alla noia e indirizzato all’ eterno, dolci cadenze nel cuore di un ménage famigliare limitato alla bellezza di un angolo di paradiso, al lago, al giardino, alla grande casa bianca con le persiane verdi.
La sponda del lago è un luogo segreto dove Luna viene a rigenerarsi dopo una giornata di faccende domestiche, impegnata a gestire il bad and breakfast di famiglia, una vita ordinaria, tre figli, un marito impegnato altrove per buona parte della giornata, il desiderio abbandonato alla noia, lo stupore alla ripetitività, il sogno a una rassegnata malinconia.
Ore di solitudine poco gratificante in un luogo dell’ anima che sa di trascuratezza, a quarantacinque anni ci si può accontentare, essere madre e moglie fedele è un modus vivendi, tralasciando domande e risposte inevase.
Un giorno, d’ improvviso, il gelido inverno sentimentale lascerà il posto a una leggera brezza primaverile, un incontro unico, bello, suadente, il suo nome è Raphael, fascino, discrezione, intelligenza, modestia, altruismo, sensibilità, un amore sconfinato per l’ arte, un lavoro intrigante come restauratore, il bisogno di un posto dove alloggiare.
Sarà un’ attrazione fatalmente esposta, un viaggio sensoriale, volo pindarico che profuma di giovinezza, soffio gaudente, la riscoperta di se’ e dei propri sogni.
I giorni si coloreranno di un’ intimità sempre più manifesta, un’ inarrestabile aura erotico-sentimentale, nuovi significati, una parte ignara di se’, brezza poetica, ipnotica, spensierata, totalizzante, dispersa nella grandezza di un sentimento profondo e inafferrabile.
Chi è l’ altro, un ideale estremizzato, la parte più oscura di se’, un’ unicità che rende la propria anima più bella? Incontri segretamente rubati, spazi condivisi, intimità, la promessa di un amore per sempre, reale e immaginario si fondono e si confondono, miscela di sogno e desiderio, il senso di colpa rivisita il peso di una vita a lungo annullata e sottratta.
Luna si lascia travolgere da riflessioni protratte immerse nel quotidiano, gesti sublimi che sfiorano l’ eterno, ipotesi di un futuro mai nato, per contro l’ onta gravosa del tradimento, assenze prolungate, la convivenza forzata, il senso di libertà avallato dai propri figli, una prolungata lotta contro apatia, solitudine, noia. Che cosa resta di lei, come rinascere, costruirsi una vita altrove, abbandonarsi ai propri desideri più intimi?
C’è chi si nutre di indifferenza per rivelarsi più fragile dell’ evidenza, legandola a scelte egoistiche, impossibilitato a rinunciare alla sua presenza.
E allora la propria idea di futuro rivede se stessa sostando nell’ intensità del ricordo, in pensieri ricorrenti, nel profumo di una presenza, nella luce di un sorriso, nel rimpianto di un’ assenza definitiva, riabbracciando i momenti condivisi, l’ intensità degli sguardi, parole sussurrate, mani sfiorate, fotogrammi impressi in un cuore toccato per sempre.
“ Se solo tu mi toccassi il cuore” è un romanzo breve dalle sfumature difformi, soffio di romanticismo esposto a un desiderio inespresso, rivisitazione poetica di una vita smarrita nel sapore dei giorni, viaggio nel cuore di una donna sottratta a se stessa, sogno a occhi aperti, lunga lettera d’ amore, diario dei sensi sopiti, monologo condito di dolcezza e speranza, un’estate infinitamente ( nella percezione personale ) breve ( nel tempo trascorso) destinata a cambiare una vita per sempre.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Mag, 2024
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La pantera addomesticata

Due coppie sposate incrociano le loro vite con un’apparente amicizia, fatta in realtà di invidie e gelosie. Tutto ruota attorno al denaro, e all’ostentazione di una ricchezza fittizia, subdola, ottenuta con gli inganni e l’illegalità.
Tutto il plot del romanzo gira intorno al progetto di una rapina a una gioielleria compiuta da due personaggi insospettabili.
In realtà di insospettabile hanno ben poco, non c’è alcun mistero, e tutto si svela velocemente perché la trama è banale e scontata.
Gli stessi personaggi sono inconsistenti, e non hanno alcun riscontro nella realtà. Una Sophie bellissima e ricchissima che però compie rapine insieme a un tizio poco raccomandabile solo per provare una scossa adrenalica. Il marito, Arpad, un vile che vive in funzione di questa donna e fa di tutto pur di non deludere il loro tenore di vita. Fauve , il cosiddetto delinquente, che spunta dal nulla, anch’egli innamorato di Sophie, che ha capito la sua vera natura e compie qualsiasi azione pur di soddisfarla. Greg e Karine che forse potrebbero essere una coppia verosimile, sprecano gran parte del loro tempo tirando fuori i loro lati peggiori, ossessionati entrambi da quella coppia perfetta e soprattutto da questa donna, Sophie, ai loro occhi seducente e affascinante.
Il tutto condito, poco, da un passato che torna a galla, tramite una serie di feedback a ritroso nel tempo.
Personalmente rispetto agli altri romanzi di Dicker, complessi e misteriosi, questo è stato davvero una delusione, ed è stata una vera fatica portarlo a termine, decisamente lento e senza un minimo di suspence.
Mi aspettavo molto di più.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    03 Mag, 2024
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Petra: delitti e matrimonio in crisi.


Un'indagine molto complicata quella che attende Petra Delicado, la brava ispettrice della polizia spagnola, protagonista della lunga e fortunata serie di romanzi di Alicia Giménez-Bartlett. Questa volta, sempre coadiuvata dal fedele vice Fermin Garzon, la troviamo nella famosa plaza del Nord di Barcellona deve si sta svolgendo, con la presenza di numerosi camion ristoranti, una rinomata e frequentatissima settimana gastronomica. In uno di questi viene rinvenuto, colpito a morte da due coltellate al cuore, un ambiguo personaggio, Christophe Dufour, un francese trentottenne, cuoco con precedenti di spaccio e con passaporto (si saprà poi) falso. Con lui c'è, come aiutante, uno strano individuo, Eduardo Castlllo, un quarantenne magro, emotivo, logorroico: piange e si dispera durante l'interrogatorio, confermando di non aver visto nè intuito nulla. Petra e Garzon iniziano ad indagare, scoprono che la vittima aveva rapporti con una donna francese affascinante, Martine, nota come figura di spicco nel traffico di droga, anche lei con passaporto falso: più volte arrestata in passato e sospettata del delitto, viene notata aggirarsi nei dintorni dei furgoni scomparendo poi senza lasciare tracce. Petra e socio indagano su alcuni locali indiziati di spaccio, un bar, un centro sociale ed una drogheria: risposte evasive, omertà, nulla che possa chiarire l'identità dell'assassino. Accadono intanto fatti strani: vetri in frantumi in un bar, devastazione di un locale, distruzione del furgone del cuoco ucciso, lasciando il compagno Eduardo senza mezzi di sussistenza, tanto da indurlo al suicidio. Per non parlare del comportamento sfuggente di due ristoratori vegetariani del camion parcheggiato vicino a quello del morto: due giovani strani, lui chimico, lei una biondina evanescente, qualcosa sanno sicuramente ma rispondono in modo vago e ambiguo, scomparendo poi a bordo del loro furgone. L'indagine brancola nel buio, ostacolata anche da interventi inopportuni e troppo invasivi di un giovane tenente di polizia: si sospetta un traffico di cocaina dal Marocco alla Spagna e qui, prima della spedizione in Francia, un taglio della droga che provoca un intervento punitivo. Complicheranno ancor più le indagini, ma saranno utili per chiarire le idee, altri due omicidi, sempre a coltellate, ed una confessione finale da chi proprio non te l'aspetti, esauriente e risolutiva, un vero magistrale colpo di scena.
Petra e Garzon, finalmente soddisfatti, saranno complimentati dal commissario Coronas. La vicenda, un complicato intreccio tra traffico di droga e insospettabili rapporti sentimentali coinvolgenti vari personaggi, ha messo a dura prova l'abilità investigativa dei due poliziotti, caratterizzati in modo convincente ed accurato dall'autrice. I due, amanti della buona tavola, devono anche affrontare una vita familiare non facile: Garzon non ha rapporti idilliaci con Beatriz, e Petra, con tre matrimoni alle spalle, deve vedersela con tre figli non suoi e con il marito Marcos, un tipo sfuggente, invaghitosi di un'altra e con il sogno represso di una casetta in campagna. Alla fine, un evento traumatico convincerà Petra che solo il suo collega Garzon sarebbe stato " l'unico conforto che avrebbe avuto per anni, forse l'unico,in realtà".
Un poliziesco scritto con stile preciso, accurato, che concede grande spazio allo studio introspettivo dei principali personaggi, soprattutto di Petra e Garzon, un duo inscindibile, tenace e caparbio nelle indagini, ironico e piacevole nei momenti di tregua.
Vorrei segnalare alla fine una riflessione dell'autrice che mi ha colpito. "Mi era già capitato di pensare che gli uomini deboli fossero intelligenti. Erano molte le domande che mi suscitava questa constatazione. La debolezza induce ad affinare l'intelligenza per compensare la mancanza di carattere? La debolezza può arrivare ad essere un'arma potente in mano a chi sa usarla?". Una riflessione che fa pensare e incrina molte certezze.

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Altri gialli della stessa serie di Alicia Gimenez-Bartlett.
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    03 Mag, 2024
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UNA VERA SORPRESA

Questo romanzo l'ho visto ovunque e ne ho sempre sentito parlare bene da pseudo influencer di libri di cui non mi fido, che sponsorizzerebbero anche le pop corn pur di ricevere qualcosa gratis.

Me lo ha consigliato un'amica e mi ha detto:" proviamo a leggerlo e vediamo se ne vale la pena" e deve dire che è stata una sorpresa e come libro d'esordio è stata una vera scoperta.

Non vi racconterò la trama, la potete trovare dove volete ma preciso subito che il femminismo qui non centra nulla, in questo periodo se ne parla anche troppo, in questo testo si punta l'attenzione sul pregiudizio che da secoli si ha nei confronti delle donne; perché per un motivo o per un altro se una donna non seguiva quello che la società le diceva di fare o non si comportava come ci si aspettava, o era pazza o era una strega.

La storia è interessante, scorrevole, appassiona il lettore per tutta la durata della narrazione, le tre protagoniste sono descritte in maniera credibile e convincente e ogni capitolo è alternato con le storie di queste tre donne. Non ne ho preferita una all'altra, mi sono affezionata a tutte e tre, alle loro sofferenze, paure, emozioni e leggendo questa storia ho capito molte cose.

Il pregiudizio è difficile da cambiare nella mente delle persone, nella società in cui viviamo, alcune volte gli altri sanno di più sulla nostra storia e sul nostro passato di quello che sappiamo noi stessi, bè forse credono di saperlo.

L'autrice Emilia Hart sa scrivere, sa narrare una storia, sa coinvolgere il lettore, sa attirare l'attenzione sui temi di cui vuole parlare, ha un vero e proprio talento.

Ho sempre pensato che i romanzi più venduti siano frutti di due fattori, il primo il marketing, la fortuna o il destino come lo vogliamo chiamare e il secondo il vero e puro dono della scrittura, se vediamo le classifiche quando di questi autori hanno davvero il talento? Per me pochi ma questa autrice ce l'ha, l'x factor della scrittura, quel quid in più per farsi notare in questa marea di falsi scrittori.

Sappiamo tutti come funziona l'editoria oggi, si promuove non ciò che vale ma quello che vogliamo che valga e così siamo attratti da quel libro pubblicizzato che alla fine ci deluderà. Sì così la casa editrice ha vinto, ti ha fatto acquistare un libro mediocre spacciandolo per un capolavoro e ha raggiunto il suo obiettivo quello di vendere e di arrivare al budget fissato e questo succede spesso, forse anche troppo.

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i libri che affrontano un tema simile, le donne sono state ritenute in passato delle streghe o di avere un legame con la stregoneria
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Letteratura rosa
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    03 Mag, 2024
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CAMBIARE LAVORO CAMBIARE VITA

Leggendo questo romanzo mi sono chiesta quante volte nel lavoro mi sono sentita così, senza speranza, in un labirinto senza uscita. Molti potrebbero dire se il lavoro non fa più per te o non ti trovi più bene la soluzione è semplice, basta cambiare. Ma anche farlo è difficile, cercare un altro impiego è complicato tanto quanto rimanere in un posto in cui non ci si sente più bene. Al colloquio ti devi "vendere" per quella che non sei, devi essere spigliata, dinamica, autonoma, intraprendente, conoscere le lingue, anche se il lavoro per il quale sei candidata, non lo richiede. Devi sembrare una persona piena di interessi, che simpatizza facilmente, che si adatta alle sfide e che le vince. Anche se il lavoro che devi svolgere è quello di portare dei caffè e organizzare l'agenda del tuo responsabile. Magari la vera te stessa vorrebbe solo alla sera fare un bagno rilassante, indossare una tuta e sdraiarsi sul divano con un plaid e una buona tazza di tè a leggere un libro o a vedere una serie tv. Invece devi sembrare una persona che preferisce fare vita sociale, partecipare a feste, avere mille interessi diversi tra di loro, arrampicata, cucito, cinema altrimenti passi per quella che non deve essere scelta. Perché se non fai le stesse cose che fanno gli altri sei da escludere. Anche se il tuo lavoro è un semplice data entry, anche se fai un part time e non hai nessuna prospettiva di carriera possibile. Sono esagerata? No, è la verità.

E non esiste l'inclusione. Qui non centra essere donna o uomo, non parliamo di differenze di genere. L'importante è "sembrare" felici, partecipare alle iniziative aziendali, aperitivi, team building, essere presenti agli eventi sociali anche se sei invisibile.

Così si sente Sasha, la sua vita ruota attorno a un lavoro che non le piace più, ha attacchi di panico, si sente vuota ed è terribilmente stanca, non ha nemmeno il tempo di praticare sport o di dedicarsi a qualche hobby, così un giorno decide di lasciare tutto e andarsene. Sceglie di andare in un villaggio del Devon, che le ricorda i bei momenti trascorsi nella sua infanzia e di dedicarsi alla riscoperta di se stessa.

Per la protagonista sarà la scelta giusta o l'ennesimo fallimento? Sophie Kinsella con la sua solita ironia punta l'attenzione sul mental breakdown, un tema molto attuale e ci riguarda da vicino. Un argomento da non sottovalutare, difficile da riconoscere e da combattere ma che non possiamo evitare, succede a tutti in un momento della vita e ci sono solo due strade da percorrere: sopravvivere oppure cambiare, reinventarsi ma non a tutti va bene, la maggior parte di noi fallirà.

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gli altri romanzi di Sophie Kinsella
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    03 Mag, 2024
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Quando c'era Lvi sui treni non si veniva derubati!

Pur essendo rimasta non poco delusa da "Poirot e I Quattro", la mia fiducia nei confronti del immodesto detective belga non si è incrinata neanche un po': le spy stories non fanno proprio per me, ma adoro vederlo nel suo elemento del mystery puro. Un affetto confermato dalla lettura de "Il mistero del Treno Azzurro", che per più aspetti mi ha fatto pensare al meraviglioso "Assassinio sull'Orient-Express", del quale potremmo vederlo come una versione di prova.

Come diversi altri romanzi della cara Agatha, la vicenda si svolge in un periodo contemporaneo alla sua pubblicazione, e si ambienta tra Inghilterra e Francia; questa volta però il capitano Arthur Hastings brilla per la sua assenza come voce narrante della storia, ruolo che viene invece suddiviso tra una quantità di punti di vista differenti. La trama parte dall'acquisto di un collier di rubini -tra i quali il famoso "Cuore di Fuoco"- da parte del miliardario statunitense Rufus Van Aldin, come regalo per la figlia Ruth "Ruthie" Kettering; poco tempo dopo, la donna parte alla volta della Costa Azzurra sul lussuoso Treno Azzurro, e proprio durante il viaggio viene assassinata e derubata dell'inestimabile gioiello. La fortuita presenza di Poirot sullo stesso mezzo permetterà di far pian piano chiarezza sul delitto.

Questa lentezza è uno degli aspetti meno riusciti del volume perché, se è vero che come le altre narrazioni di Christie tende ad essere abbastanza breve, nella seconda metà si ha l'impressione di vedere i personaggi girare quasi in tondo, e lo stesso Poirot impiega parecchio per raccogliere tutte le informazioni necessarie a smascherare il colpevole. Un altro piccolo neo è rappresentato dai personaggi, che risultano parecchio sciapi e per nulla memorabili; il detective belga è ovviamente l'eccezione a questa regola, ma soprattutto per merito della conoscenza pregressa del suo personaggio, e perché ormai lui ed i suoi modi bizzarri sono entrati nell'immaginario collettivo.

Mi ha in parte deluso anche la mancanza di una qualche tematica, che rendesse più significativa la lettura; nel finale ci si accontenta di ricostruire il giallo e qualsiasi altra riflessione (magari collegata al mondo dell'arte, visto che più di un personaggio ci orbita attorno) viene messa da parte. La mia ultima lamentela è come sempre soggettiva ed anacronistica: la traduzione della mia vecchia copia non è delle migliori, non tanto per la scelta di termini desueti o scorretti, quando per l'utilizzo quasi sempre sbagliato degli avverbi.

Ma passiamo agli elementi positivi, a partire dai tanti accenni metanarrativi presenti nel testo, primo tra tutti il piccolo gioco tra Poirot e Katherine Grey che si considerano protagonisti di un romanzo giallo. Nonostante manchi la figura di Hastings, l'umorismo e le sottotrame romantiche poi non ci disertano; e specialmente queste ultime mi hanno convinto per il modo in cui sono state amalgamate al mistero principale. Mistero che porta ad una risoluzione intelligente e complessa, nella migliore tradizione dei classici christiani.

Una lettura che ho trovato quindi molto piacevole, in cui vengono forniti all'audience tutti gli strumenti necessari per decriptare l'intreccio, senza per questo farsi mancare una manciata di individui loschi ed ambigui per confondere le acque. Come libro d'evasione, magari tra volumi più impegnativi e corposi, è ottimo: fa ridere (abbastanza), fa ragionare (ma non troppo) e fa sbuffare la sottoscritta perché non azzecco mai le pronunce in francese. Nelle note di traduzione a fondo pagina ormai ho perso la speranza.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    02 Mag, 2024
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La vita dopo la colpa

“Ci sono buchi che non puoi riempire. Che resteranno lì per sempre, neri e profondi. Però, se vorrai, potrai costruirci una vita intorno.”

“Il male che subisci è molto meglio di quello che fai. Dal male che fai non c’è via d’uscita.”

Due solitudini, due desideri di annullarsi e scappare dal mondo anche se per motivi diversi, si incontrano, si trovano e vivono in modo disperato uno scampolo d’amore che sentono loro concesso. Il resto della trama è facilmente prevedibile, lo schema è semplicissimo e già molto visto.
Emilia e Bruno, l’una scappata dalla vita “normale” per un delitto commesso in gioventù dopo aver pagato i conti con la giustizia e una lunga permanenza nel carcere minorile, l’altro sopravvissuto ad un passato che lo fa sentire in colpa pur nell’innocenza, si trovano in un microscopico borgo piemontese, Sassaia, del quale sono gli unici abitanti insieme all’anziano Basilio.
Il loro desiderio è sparire, pur mantenendo un piccolo desiderio di rinascita che li aiuta a trovarsi su questo minimo comun denominatore.
Emilia ha il padre che le è sempre rimasto vicino nel dolore e che vorrebbe una vita nuova per la figlia: la sprona, la aiuta, la supporta e la comprende.
Bruno è il maestro del paese vicino. E’ completamente solo ed è dirimpettaio di Emilia a Sassaia.
Emilia e Bruno vivono una intensissima storia d’amore che fugge dalle spiegazioni che sono vietate tra i due, come se il loro passato non esistesse, soprattutto per Emilia. Alla fine Bruno cede e si racconta. Ma chi è davvero Emilia?
Lei non è pronta, troppo forte la paura di perderlo di fronte ad una verità terribile per la quale non si è probabilmente mai perdonata e che sente la segnerà per sempre. Eppure il padre, Riccardo, cerca di convincerla che la verità non va nascosta, e che occorre onestà per costruire un rapporto solido. Il debito è stato pagato, e occorre saper guardare avanti. Ma Emilia non riesce, troppo forti i fantasmi del passato.
Quello dei protagonisti però, di Emilia in particolare, è uno scappare dal passato che non ha lo scopo di ricostruirsi, ma ha l’obiettivo di nascondersi per negare se stessi. Serve davvero, ha un senso?
Ini questa avventura Emilia è aiutata da Marta, amica conosciuta in carcere, che la accoglierà quando Bruno, una volta scoperta la sua storia, la caccerà in malo modo. Le insegnerà che non bisogna vergognarsi del proprio passato.
Il romanzo alterna la prima persona di Emilia a quella di Bruno, parti della vicenda a lunghi stralci della vita in carcere di Emilia e del suo rapporto con la direttrice e con l’educatrice.
Il libro è sicuramente avvincente in alcune parti, seppure non in modo omogeneo, in particolare le parti nelle quelli racconta in passato ristagnano un po’. Ma la trama è scontata, piena di stereotipi e di luoghi comuni. Ne sono due esempi lampanti la storia (felicità, rottura, ritorno) e il personaggio di Emilia che risulta davvero molto, ma molto stereotipato, ed è un peccato. Ma davvero una ragazza che ha un delitto sul suo passato deve essere raffigurata come una macchietta? Davvero non era possibile un personaggio diverso? E poi perché mai Emilia, solo per il suo passato, deve parlare in quel modo, quasi da ritardata? Non esiste davvero una diversa possibilità di rappresentazione di un personaggio che potrebbe invece essere molto sfaccettato e ricco?
E poi il vecchio Basilio, il saggio ovviamente, Bruno con la lunga barba che, ovviamente, si taglierà quando si sentirà meglio. E’ davvero tutto in questi particolari il negare se stessi?
E ancora Marta, la migliore amica di Emilia, e la direttrice del carcere, che si spende tanto per far studiare le ragazze e, ovviamente, si commuoverà al rivederle libere. Tutto è scontato, ovvio, senza un guizzo di originalità.
E’ ben triste che si pensi al mondo del carcere solo in questo modo, soprattutto in un romanzo.
Il tema è importante e poteva essere trattato con una ben diversa profondità anziché scadere nei più vetusti cliché. Non c’è un personaggio che non risulti banale macchietta di se stesso, che non aiuti il lettore a fare un passo in più.
Possibile infine che non si pensi a nessuna diversa alternativa di redenzione se non quella delle solitudini che sole riescono ad unirsi?
Un vero peccato, un messaggio, quello che si fa passare, che davvero non pensavamo, oggi, di dover più sentire.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    01 Mag, 2024
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La guerra partigiana

Erano già alcuni anni che volevo leggere questo romanzo ma, per un motivo o per un altro, continuavo a rimandare. Adesso, a lettura ultimata, posso dire: finalmente! Finalmente l’ho letto.
Sì, perché è sicuramente il romanzo sulla Resistenza che mi è piaciuto di più fra quelli letti finora.

Agnese è una donna semplice, ha lavorato sempre nella sua vita, si è presa cura del marito Palita, che da giovane era stato malato di tubercolosi. La guerra, le violenze, i soprusi, la morte irrompono improvvisamente nello scorrere consueto delle sue giornate. Le portano via gli affetti più cari. Allo stesso tempo le rendono chiaro il concetto che non si può continuare a subire in silenzio, che è sbagliato accettare le prevaricazioni e le violenze in modo passivo, che è necessario reagire. Così Agnese diventa una partigiana e partecipa alla guerra di liberazione.

«Lei allungò una mano e toccò l’arma fredda, con l’altra afferrò il caricatore. Ma non era pratica e non ci vedeva. Lo mise a rovescio, non fu buona a infilarlo nell’incavo. Allora prese fortemente il mitra per la canna, lo sollevò, lo calò di colpo sulla testa di Kurt, come quando sbatteva sull’asse del lavatoio i pesanti lenzuoli matrimoniali, carichi d’acqua.»

Il romanzo mi è piaciuto così tanto perché ci permette di entrare, con l’Agnese, nelle formazioni di combattenti partigiani nelle valli di Comacchio. Ci fa rivivere, nel magico tempo della lettura, le loro azioni, ci fa capire come si svolgeva la loro vita, chi erano quelle persone, di diversa classe sociale, genere, formazione e anche nazionalità che decisero di armarsi e partecipare a una guerra odiata ma ritenuta, a un certo punto, inevitabile, da dover assolutamente combattere.
Si tratta di un testo realistico, meno filtrato dalla lente letteraria rispetto a altre opere e quindi forse meno artistico ma più vero e autentico. Più storico. Avventuroso. Emozionante. Commovente.

Il personaggio di Agnese poi è indimenticabile, grandissimo nella sua umiltà, determinato, forte, coraggioso, rimarrà per sempre impresso nell’immaginario letterario di chiunque abbia letto questo romanzo.

Renata Viganò partecipò alla Resistenza e conobbe una donna a cui si ispirò per dare vita all’Agnese letteraria. Scrisse questo romanzo per ricordare quei mesi terribili ma necessari. Per ricordare tutti i compagni morti, come l’Agnese, mentre combattevano nella guerra partigiana di liberazione.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Mag, 2024
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Cosa resterà di noi

«[…] Il coraggio non conta, il coraggio arriva nel momento stesso in cui tutto accade.»

Per Napoleon motivare le persone, spronarle a farcela, è un qualcosa di naturale. Quante ne ha “salvate”, quante ne ha incitate. Tuttavia, per lui è diventato impossibile andare avanti, eh sì, perché proprio lui che motiva e sprona gli altri, vive senza stimoli e ha deciso di farla finita. La sua vita non ha più ragion d’essere. Ecco allora che dopo quella che considera essere la sua ultima serata, decide di buttarsi. Le acque sotto di lui sono nere e austere, New York sprofonda nelle sue luci. È in questo frangente che sopraggiunge un uomo a bordo della sua station wagon. Sa benissimo quali sono le intenzioni di Napoleon e gli propone un patto: sette giorni per decidere se tornare indietro o meno, sette giorni per decidere se rendere definitivo quel salto o se tornare alla vita ma con nuovi occhi.
Napoleon è titubante ma alla fine accetta. Come lui accettano anche Emily, ex ginnasta olimpica, lesa da un incidente che l’ha costretta alla carrozzina e Aretha, poliziotta dal carattere forte che però ha perso quel qualcuno che nella sua vita faceva la differenza. Adesso che ha ricominciato a dormire sa che il dolore sta venendo meno diventando mera consuetudine, non può accettarlo. Quel dolore era l’unica cosa che la teneva ancora ancorata a quella perdita. Una volta riuniti i tre scoprono che la squadra è composta anche da un altro membro, Daniel, piccolo divo della pubblicità di un brand di aranciate in sovrappeso e con diabete al seguito. Quattro anime raggruppate da un uomo sconosciuto e in apparenza privo di nome e identità ciascuna delle quali con un motivo specifico e ben delineato per decidere di farla finita, per essere disperati. Ma cosa lasciano davvero? Cosa accadrà quando non ci saranno più? Cosa si perdono e quale sarà la reazione di amici e parenti alla loro scomparsa?

«Le persone. Penso sia questa la cosa più importante che vi perderete, – sentenzia l’uomo. – Sono le persone a rendere il futuro imprevedibile e affascinante, e lungo la vostra strada ce ne sono un sacco che vi aspettano.»

“Il primo giorno della mia vita” di Paolo Genovese, opera dalla quale è stato tratto anche l’omonimo film con l’interpretazione magistrale di Toni Servillo, è un titolo con cui lo scrittore torna ad affrontare le tematiche metafisiche già conosciute in “The place”. Ancora una volta i protagonisti tornano a viaggiare tra tempo e luoghi e a riflettere sul senso della vita e sul malessere di questa.
Quel che ne emerge è uno scritto dallo stile fluido e magnetico che in tutta la sua forma sa di sceneggiatura, non ne stupisce, dunque il naturale adattamento. I personaggi sono tutti ben costruiti, le vicende si susseguono rapide, il lettore è costantemente incuriosito. Cerca quel finale che possa spronare a trovare quei perché che spesso attanagliano nel quieto vivere.
“Il primo giorno della mia vita” non sarà certo per qualcuno il romanzo più originale di questi anni soprattutto se si considera il proliferare di scritti in questo senso, ma non difetta di quei presupposti capaci di donare al lettore ore liete e di riflessione. Basta semplicemente dargli una possibilità. Forse non arriverà subito ma a distanza di giorni dalla lettura sarà naturale tornare a pensarvi e riflettervi.

«È come quando arrivi al termine di un viaggio: hai sempre l’impressione che avresti potuto fare di più, utilizzare meglio il tempo. E ora che il tempo è quasi finito, quel poco che rimane Aretha non vuole perderlo, e tenta il tutto per tutto.»

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68 Opinione inserita da 68    01 Mag, 2024
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Tormento irrisolto

”Sono Tollak di Ingeborg. Appartengo al passato. Lungi da me l’ idea di trovare il mio posto da qualsiasi altra parte”…

Un grande amore posseduto dall’ eros e imbrattato di una solitudine che rasenta la follia, vissuto con un impeto tracimato nella solitudine più nera.
Che cosa rimane dopo la sua dissolvenza, prevista e prevedibile, un se’ braccato dalle forze demoniache che glielo hanno sottratto, immobilizzandolo nel passato, pervaso da una rabbia atavica, un tardivo e inutile pentimento, stentando a riconoscersi, vita e monologhi condivisi con un’eco lontana.
Tollak è un uomo burbero, funestato da una rabbia cieca, giorni insopportabili nel profumo dell’ alcool, l’ esigenza di stare solo, figlio di una famiglia vissuta di dissidi e di sangue amaro. Da anni l’ amata moglie Ingeborg, donna dolce, dai bei lineamenti, con una voce profonda, leggera, forbita, e’ scomparsa, uscita di casa per non farvi ritorno, mistero irrisolto, tormento irrisolvibile, la propria ombra inseguita dai cani neri.
Due figli lontani, rapporti tesi, lacerati, dissolti, il cortile, la stalla, la segheria, i boschi del Vestmarka, le alture del Sorfjellet, sono questi i paesaggi e l’ ambiente che accompagnano Tollak da sempre.
In lui una dicotomia manifesta, figlia della propria storia, addolcita e ammansita solo in parte da Ingeborg che sa come prendersi cura dell’ altro, che riconosce il senso di un amore vissuto con pienezza e la necessità di preservare spazi incondivisibili, aderendo a se stessa, all’ idea di una vita che non sia una prigione di sopravvivenza.
Tollak al contrario sosta in un concetto di amore egoistico, in una gelosia prevaricatrice e totalizzante, in un isolamento sociale ed emotivo, inviso ai figli, ai vicini, ai parenti, persino a se stesso.
C’è un prima e un dopo la scomparsa di Ingeborg, un modo diverso di guardarsi e di leggersi dentro, la sofferenza della solitudine, l’ isolamento autoimposto, sguardi perplessi, indagatori, accusatori, un ragazzo che si è fatto uomo ma che non è come gli altri, ( Oddo ), pallido, dagli occhi impauriti, che sta nella stalla tutto il giorno, che ha ribaltato tutto ciò che si era, di cui prendersi cura e a cui volere bene.
Che cosa significa fraternizzare con se stessi, quanto tempo per conoscersi, tollerarsi, conviverci, quante volte Tollak ha letto e visto dentro di se’ un uomo diverso, furente, attraversato da una rabbia cieca

…Alla fine avevamo trovato il nostro modo tranquillo e silenzioso di vivere, il mio”…

Gli anni a venire amplificano solitudine, isolamento, rimpianti, oggi il suo comportamento sarebbe stato diverso, in lui il desiderio di un riavvicinamento alla progenie, scoprendo il proprio volto.
Alla fine permane l’ intollerabilità di un gesto, nessuna richiesta di assoluzione, quanti comportamenti scorretti e deliranti nei confronti di chi ci stava accanto, ci amava, era la nostra famiglia.
“La mia Ingeborg “ è un testo crudo, reale, torbido, Tore Renberg costruisce un thriller psicologico e affettivo imbevuto della solitudine più vera. La rabbia di Tollak lo ha accompagnato da sempre, siede al suo tavolo, giorni violenti, assenze protratte, notti insonni, attimi imbevuti di paura, per anni disinnescata dagli occhi dolci e dalle parole suadenti di un amore che credeva eterno, una rabbia pronta ad esplodere, preservando se stessi, un affetto negato, il passato irrisolto.
E allora non c’è più niente in cui sperare e per cui vivere all’ interno di una prigione autoimposta, anni trascorsi nel buio e nella trasandatezza di una lenta agonia, convivendo con un se’ ritrovato e rinnovato, una vocina che alimenta coscienza e verità imprescindibili.
Perdono imperdonabile, amore dissolto, il fuoco della disperazione e della follia, una certezza tardiva:

…” Ti amo, e sarò per sempre: Tollak di Ingeborg”…

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68 Opinione inserita da 68    01 Mag, 2024
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Desiderio di essere

…” L’ unica cosa che volevamo era essere amate. Amate così come eravamo, tutto qui. Senza doverci censurare, ne’ adattare ne’ sottomettere. Ne’ coperte ne’ fameliche, solo con i nostri corpi, che siamo noi, con i nostri caratteri, i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre ferite, quelle cicatrizzare e quelle ancora aperte. Nient’altro”…

Amare ed essere in giorni ricoperti di niente, due giovani arabe emigrate a Barcellona, nuclei famigliari vicini e contrapposti, da una parte la censura genitoriale e la religione quale rigida appartenenza, dall’ altra la libertà espressiva in un contesto chiacchierato dove essere se stessi. Anime e corpi uniti da ciò che non li accomuna, specchio inverso, la voglia di fuggire dal proprio mondo per stare nel mondo, ogni lunedì il ritorno a ciò che non appartiene.
Un lunga lettera ricordando la forza di un amore, forse l’ unico, un altro se’ per salvarsi dalla disperazione assoluta e dalla pazzia.
La giovane protagonista del romanzo è in fuga dal reale per proiettarsi in un mondo di desideri, libri, amore, sesso, libertà, la lettura fedele compagna per imparare a vivere e per paura di vivere, vogliosa di guidare il proprio destino.
In lei la contraddizione di un se’ punito per i propri desideri, solo, schiavo di una tradizione che tutto prende, la voglia di essere altro, l’ asfissia del presente contrapposta alla sfrenata libertà individuale, fotogrammi del passato che ritornano, la difficoltà di immaginare altre vite oltre la propria, la scrittura come dolce riparo.
Una vita indirizzata altrove, tentativo di fuga denominato amore, un ‘ amicizia che e’ salvezza, diversità, libertà espressiva.
Quando la solitudine si accompagna alla sofferenza, pronti a morire nel sonno, stanchi di indossare una maschera, si auspica un riscatto per ritrovarsi sposati a diciotto anni, una giovane donna araba, immigrata, povera, sola, mentre gli anni accompagnano il dolore della rinuncia interrogandosi su un senso di normalità estraneo a una madre ventenne che ha lasciato a metà i propri studi universitari.
Quella libertà così a lungo inseguita, duramente conquistata, sfocia in una neo dimensione cosciente, ma che cosa significa essere liberi, amare, essere amati, e

…” si può amare se non si è mai stati amati come si deve?”…

In realtà la libertà non pone fine alla sofferenza nel ricordo e nell’ immagine di

…” quel letto a castello di metallo rosso a due palmi dal soffitto”…

La ferita personale, invisibile, ancestrale che ci si porta dentro riguarda molte donne, una verità svelata ai propri occhi e che

…” nulla ha a che vedere con lo scontro tra due culture o con l’ integrazione, ne’ con il fatto di essere a cavallo tra due mondi e nemmeno con tutto ciò che ci preoccupava tanto”….

Il romanzo di Najat El Hachmi è un viaggio formativo in un reale indigesto che una giovane donna araba immigrata vive sulla propria pelle. Voce femminile, di tutte le donne, recluse in una vita negata, indesiderata, costrette all’ accettazione di una anormale a normalità, a una segregazione coatta eletta a legge, a lottare per la propria dignità, indirizzando una vita che sia esente da violenza e ignoranza, per

…”essere, essere essere”...

Una ricerca quotidiana, di tutte e per tutte le donne, ma anche individuale. E allora il proprio se’, investito dagli eventi, invischiato in un ideale giustamente esposto, in una lotta indistinta, rischia di perdere spezzoni di storia, quella dimensione interiore e intima che non ha saputo riconoscere e soccorrere i reali bisogni altrui, ritrovandosi soli a rimpiangere quello che non è stato, che non si è detto e non si è fatto, relazioni intime offuscate da un desiderio di libertà acciecante.

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Romanzi autobiografici
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    30 Aprile, 2024
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Una storia di famiglia

Ho iniziato questo romanzo attratta dalla valutazione quasi a cinque stelle dei lettori che ho trovato online. La vicenda è autobiografica, non c’è nulla da svelare perché è tutto già detto dall’inizio, e racconta la storia del padre dell’autrice e del loro rapporto da lei ricostruita poco alla volta con il racconto. In una storia del genere il senso sta proprio nel come racconti il rapporto e i sentimenti. Ma partiamo dalla vicenda.
Il legame padre figlia in famiglia è sempre stato molto forte, talvolta quasi al punto da escludere la madre, donna concreta e pragmatica.
Arianna adora il padre già da bambina e continua ad adorarlo anche da adolescente pur non capendo tutto di lui e non riuscendo a dare un nome a ciò che sembra divorarlo un po’ alla volta, al suo strano disinteresse sempre più marcato per il mondo, inteso come lavoro, famiglia, affetti e all’alcol che diviene sempre più presente nella vita del padre. Arianna non si rende conto, al contrario della madre, che che la quantità di alcol è decisamente troppa al punto da fare di lui un vero alcolizzato. Ma nessuna delle due ha le armi per fermarlo.
La storia inframmezza il racconto dell’infanzia di Arianna, soffermandosi anche sulle figure dei nonni materni e paterni, spiega al lettore come i genitori si sono conosciuti, amati e infine sposati. La madre manterrà sempre il suo carattere semplice ma pratico, e la parabola tra i due è inversa: tanto più la madre dimostrerà il suo attaccamento alla vita tanto il padre renderà sempre più presente in famiglia la sua perenne insoddisfazione per tutto e il suo allontanamento.
Il racconto passa poi a raccontare l’adolescenza della protagonista, che all’epoca si vedeva grassoccia, e il suo conseguente sforzo per dimagrire che l’ha portata ai limiti dell’anoressia.
Nel frattempo il rapporto tra i genitori si deteriora fino a giungere ad una separazione che tuttavia rientrerà ben presto.
Il fisico del padre di Arianna, forte fumatore oltre che bevitore, inizia però a risentire dello stile di vita portandolo a diversi ricoveri in ospedale fino a che si manifesterà il tumore ai polmoni. Non è possibile naturalmente opporsi a certe malattie, di sicuro però una diminuzione di alcol e fumo avrebbe potuto minare meno il fisico. Pare però che al padre di Arianna nulla interessi, neanche rimanere in vita. Sembra invece cercare a tutti i costi la morte.
Arianna all’inizio nega anche con se stessa la malattia del padre, quasi che a non nominarla non esista nel tentativo di non rovinare la sua giovinezza che vuole vivere a tutti i costi in modo sereno fino a che la finzione non sarà più possibile.
Non ho apprezzato particolarmente questo romanzo che non centra lo scopo che si prefigge. La parabola affettiva non è ben delineata e rimane in superficie, affidata alle poche parole che la descrivono senza riuscire a passare sotto lo strato esterno, senza far entrare il lettore dove i sentimenti abitano.
I rapporti umani tra le persone sono freddi e impersonali: lo sono stati davvero o c’è un deficit descrittivo?
La figura del padre, che sarebbe potuta essere più sfaccettata e cardine della storia, rimane anch’essa un po’ sullo sfondo. Cosa c’è in primo piano? Non sono in grado di dirlo. Forse nulla.
E’ una vicenda di famiglia questo “Parole nascoste”, che forse nasce da una comprensibile necessità umana della scrittrice che però lì si arresta non riuscendo a coinvolgere il lettore in una vicenda che, alla fine, non sente.
La struttura narrativa, fra l’altro, ha qualche illogicità, come l’investire sulla descrizione di nonni che non ha alcun impatto sulla storia nè, vorrei dire, particolare interesse.
Il linguaggio è semplice, senza fronzoli e non trasmette altro che non sia il racconto puro e semplice e nulla lascia al lettore salvo la comprensione della storia. Per la quale rimane il mio profondo rispetto ma che non mi sembra diversa da tante altre simili che probabilmente in molti sono costretti a vivere e che mai arriveranno sulla carta.
Mi dispiace sempre dover dire che mi sono pentita dei soldi spesi per l’acquisto, questo è però sicuramente uno dei casi.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    29 Aprile, 2024
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Pillole di horror kinghiano

Nel mio percorso di recupero cronologico delle antologie kinghiane, un paio di anni fa avevo affrontato "Stagioni diverse", diventato istantaneamente uno dei miei titoli preferiti del caro Stephen, con mio grande stupore dal momento che non mi ritengo un'estimatrice di racconti e novelle. Ancora con i ricordi di quella stupenda lettura in mente sono approdata adesso alla quarta raccolta dell'autore, che propone nuovamente la formula di quattro, corpose novelle associate tra loro da un tema ricorrente, in questo caso quello del tempo e della percezione che abbiamo di esso.
Come per le altre antologie, andrò ad analizzare e valutare in modo individuale ogni storia, ma in linea di massima posso dire di aver trovato qualcosa di apprezzabile in ognuna delle narrazioni, seppure nessuna mi abbia colpita come altri racconti nati dalla penna di King. In generale ho trovato anche altalenanti l'elemento horror ed il collegamento alla tematica del tempo: quand'è ben evidente è perché i personaggi stessi lo sottolineano, ma in molti altri frangenti risulta quasi impercettibile.


"I langolieri" - tre stelline e mezza
Narrazione che trasmetterà sicuramente un senso di déjà vu ai fan della serie TV Lost, infatti la scena si apre su un volo aereo, in particolare il volo 29 della compagnia fittizia American Pride, in partenza da Los Angeles e diretto a Boston. Durante la traversata undici passeggeri del Boeing 767 si addormentano e, al loro risveglio, scoprono che tutte le altre persone a bordo sono scomparse nel nulla; fortunatamente tra loro c'è il pilota Brian Engle, ma una volta atterrati in sicurezza le cose diventano ancora più inquietanti.
Per diversi aspetti mi ha fatto pensare a "La nebbia" ma in una versione migliorata, anche per ragioni di spazio credo. Con la novella del 1980 ha infatti in comune il valido fattore horror ed il crescendo nella tensione narrativa, direttamente proporzionale con le rivelazioni angoscianti alle quali giungono i personaggi; purtroppo ad accomunarle ci sono anche aspetti negativi, come l'eccessivo spazio dato alle sottotrame romance, che a mio avviso sono del tutto fuori luogo in una storia dal ritmo tanto incalzante.
Non mi hanno convinto troppo neppure la rapidità con cui i protagonisti superano eventi sulla carta traumatici (ad esempio, tutta la parentesi relativa alla moglie di Brian, un po' pretestuosa a conti fatti) per avviarsi beati verso un epilogo eccessivamente positivo, o com'è stato mal sfruttato il personaggio di Craig Toomy: visto il modo interessante con cui era stata descritta la sua psicologia in un primo momento, mi aspettavo qualcosa di più. Sono invece promosse l'ottima presentazione del cast -caratterizzato in modo solido a dispetto dello spazio limitato a disposizione in una novella- e le spiegazioni relative al lato sci-fi, tutt'altro che banali.

"Finestra segreta, giardino segreto" - quattro stelline
Ennesima storia kinghiana con protagonista uno scrittore, e di conseguenza ennesima storia kinghiana con riferimenti autobiografici a vagonate. L'autore in questione, tale Morton "Mort" Rainey, viene contattato dal collega John Shooter, il quale lo accusa di plagio; a quanto pare il racconto di Mort "Stagione di semina" ha moltissimo in comune con quello di Shooter "Finestra segreta, giardino segreto". Non è chiaro chi abbia copiato da chi, ma di certo nella vita dello scrittore iniziano ad accadere episodi sempre più insoliti ed inquietanti, al punto da convincerlo che il suo accusatore abbia piani ben più violenti che una banale causa per rivalersi sui diritti d'autore.
In un primo momento potrebbe non sembrare, ma questa novella poggia su un'idea a dir poco geniale; inoltre, rispetto alla precedente, può vantare anche un finale adeguato nel tono e nelle tempistiche, che fornisce delle spiegazioni chiare pur lasciando un velo di mistero su un potenziale elemento paranormale.
Tra i pregi della storia posso includere sicuramente la psicologia del protagonista, contorta al punto giusto: sfruttando il suo POV, King riesce a creare un intreccio solido ed angosciante. Peccato per le tempistiche scelte, che rovinano buona parte della suspense a metà racconto! a mio avviso, il twist principale poteva essere sfruttato molto meglio e risultare meno palese. La novella perde qualche punto anche per la caratterizzazione dei comprimari, che non sono neanche lontanamente all'altezza di Mort.

"Il poliziotto della biblioteca" - quattro stelline e mezza
Per ammissione dello stesso King, questa narrazione parte da un'idea parecchio balzana, nonché poco in linea con il taglio horror che intendeva dare alla raccolta, ossia quella di una sezione della polizia dedita a perseguire coloro che non restituiscono per tempo i libri nelle biblioteche. Fatico ancora a credere che sia riuscito a dare una svolta decisamente spaventosa ad una storia incentrata su una figura quasi comica nel suo infantilismo come la polizia bibliotecaria, eppure...
La premessa non lascia affatto intuire il terrore che seguirà: l'imprenditore Sam Peebles viene incaricato di tenere un discorso presso la sede locale del Rotary Club e, per rendere più brioso il testo che ha preparato, si reca nella biblioteca di Junction City, cittadina immaginaria dell'Iowa in cui vive, per cercare dei libri di oratoria. Ad accoglierlo è la pittoresca bibliotecaria Ardelia Lortz, che da un lato si dimostra estremamente utile nella sua ricerca ma dall'altro lo terrorizza con lo spauracchio del poliziotto della biblioteca, pronto a dargli la caccia nel caso i libri non vengano riconsegnati entro una settimana.
Come spunto non sembrerà granché, ma vi garantisco che una volta preso il via la novella rivela un intreccio niente male, costellato da personaggi decisamente carismatici tra i quali spiccano il bislacco Dave "Raccatta" Duncan e la stessa Ardelia. Ho apprezzato molto come la passione per i libri costelli un po' tutta la storia; in modo inaspettato mi ha convinto anche la svolta romance, probabilmente perché poggia su basi concrete e non su un insensato instalove.
In questa raccolta è forse la lettura che meglio riesce a rendere sia la sensazione di paura sia l'influenza del tempo sulle esperienze dei personaggi. Peccato che le due metà (quella sulla backstory di Ardelia e quella sulla polizia bibliotecaria) fittino male: ho avuto l'impressione ci fosse una forzatura nel legare a tutti i costi le varie parti della narrazione; inoltre, l'identità dell'antagonista è fin troppo simile ad altre creature già descritte da King in libri precedenti e decisamente più popolari come lo stesso "It", risultando così meno originale del previsto.

"Il fotocane" - due stelline e mezza
Parte centrale in quella che dovrebbe essere una sorta di trilogia -composta anche da "La metà oscura" e "Cose preziose"-, in questa avventura King riporta i suoi Fedeli Lettori ancora una volta nella città immaginaria di Castle Rock. Qui vive il quindicenne Kevin "Kev" Delevan che, come regalo per il compleanno, riceve la tanto desiderata macchina fotografica, in particolare una Polaroid Sun 660 con la quale inizia subito a scattare. La fotocamera in questione ha però uno strano difetto: produce delle foto sempre uguali, nelle quali si vede un grosso cane nero per nulla amichevole. Cercando di far luce su questa disturbante anomalia, il ragazzo entra in contatto con Reginald Marion "Pop" Merrill, proprietario dell'Emporium Galorium ed usuraio locale.
Proprio questo insolito personaggio è la luce (del flash!) che illumina una storia per il resto lenta ad ingranare; nella sua distaccata crudeltà, Pop è un individuo carismatico e brillante, e per questo motivo ho apprezzato molto le parti narrate dal suo punto di vista, come anche il suo piano machiavellico. Altri aspetti a favore sono l'elemento paranormale della possessione, la presenza di moltissime citazioni ad altre opere del caro Stephen e la caratterizzazione dei cosiddetti Cappellai Matti, dei personaggi tanto folcloristici quanto strapalati.
Con i complimenti mi devo purtroppo fermare qui perché Kevin come protagonista non mi ha fatto impazzire, un po' perché di suo è troppo perfetto un po' per gli aiuti eccessivi che riceve, tanto da privare il racconto di una buona fetta di tensione. Inoltre, per quanto i personaggi possano ribadire e sottolineare il terrore che ispira, il villain non è neppure paragonabile a Cujo... la macchina fotografica in sé risulta quasi più spaventosa! Boccio anche l'epilogo: più ridicolo che terrificante.

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barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    29 Aprile, 2024
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DUE ANIME, UN CUORE NERO

Emilia arriva a Sassaia il giorno dei morti. Ha trent'anni ma veste come un'adolescente: jeans strappati, scarponcini viola e giaccone verde fluo. Quando entra nel minuscolo borgo insieme al padre Riccardo, Bruno, uno dei due abitanti, traballa e il suo cuore sussulta. Lui lavora come maestro di scuola elementare, vive da solo dall'età di diciotto anni nella casa appartenuta alla sua famiglia e sembra evitare ogni contatto umano con il mondo esterno.
Quando si conoscono, Bruno riconosce negli occhi di Emilia un abisso simile al suo, ma di segno opposto. Entrambi hanno conosciuto il male : Bruno lo ha subito e si è chiuso nel suo guscio a Sassaia, Emilia lo ha commesso e ha pagato con quindici anni di carcere, ora vuole ricominciare proprio da qui.
Emilia cerca di tenere Bruno lontano dal suo passato, ma la verità è inevitabile e quando verrà a galla, lui dovrà fare i conti con la realtà dei fatti, dovrà capire e decidere di che parte stare: quella del dolore o quella dell'amore.
.
Ho conosciuto Silvia Avallone qualche anno fa. Durante il firma copie dopo la presentazione di "Da dove la vita è perfetta" mi aveva stupita la sua profonda empatia con ogni lettore: con ognuno di loro sorrideva, instaurava un dialogo, chiedeva riscontri ; così ha fatto anche con me.
A distanza di sei anni da quell'incontro, la ritrovo per la presentazione di Cuore Nero; stesso sorriso, stessa empatia, stessa voglia di presentare il suo romanzo. Un Romanzo che mi è entrato dentro, a cui ripenso tantissimo anche a distanza di giorni dalla lettura dell'ultima pagina.
La precisione dei dettagli riguardanti la permanenza di Emilia in carcere, deriva da incontri avvenuti con i ragazzi detenuti nell'istituto penale minorile di Bologna, un''esperienza, definita da lei stessa come "una delle più potenti della sua vita" .
Ciò le ha permesso di dare vita ai personaggi di Emilia e Marta, due donne che alla fine riescono, pur con percorsi molto diversi, a redimersi dai propri errori.
Cuore Nero, infatti, ci ricorda che tutti, perfino chi si è macchiato delle colpe più gravi può riscattarsi e avere una seconda possibilità.
Uno dei romanzi più potenti e significativi letti negli ultimi anni!
Consigliato col cuore!
Grazie Silvia Avallone!

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Romanzi
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Aprile, 2024
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Novità dalla letteratura moldava

“Io, senza dubbio, stavo dalla parte delle cose, e non delle persone di quel mercatino. Anche io, come loro, ero sempre stato di troppo, mai necessario, il triste risultato di una trattativa momentanea e la brutta copia ingiallita di quel che, un giorno, sarebbe stato il Figlio. Quello normale, capace, degno, bianco e rubicondo come un uovo di Pasqua. […] Né amato, né desiderato né da buttare: una specie di lampada a forma di tulipano in una casa di ciechi”.

“Gli occhi di mia madre piangevano da dentro. “

“Gli occhi di mia madre erano le storie che non mi aveva mai raccontato. “

“Gli occhi di mia madre erano cicatrici sulla faccia dell’estate. “


Aleksy è giovane ed un vissuto familiare difficile. La sorella Mika, adorata da tutti in famiglia, è morta ancora bambina lasciando lui nel dolore e portando il padre a lasciare la moglie per un’altra donna. La madre, completamente annichilita dal dolore si è chiusa in sé stessa per diversi mesi nei quali ha completamente ignorato l’altro figlio ridotto a mendicare brandelli di affetto che non sono arrivati. I disturbi psichiatrici che Aleksy ha poi manifestato con fortissime crisi di rabbia distruttiva lo hanno portato in un istituto per malati di mente.
Una volta uscito, odia la madre dal più profondo di sé stesso: non riesce a trovare nulla di positivo o di bello nella donna che lo ha partorito.
Fino a che la madre, facendo leva sulla promessa di regalargli un’auto, riesce a portare il figlio con sé in una vacanza di tre mesi in un villaggio nelle campagne francesi durante i quali gli chiederà perdono e gli confesserà di avere un cancro e ancora poco tempo da vivere.
Aleksy all’inizio odia quella vacanza che lo ha costretto a rinunciare all’altra che aveva in programma con gli amici, ma il regalo promesso lo tiene ancorato al villaggio.
A seguito della confessione della madre inizia però a guardarla con occhi progressivamente nuovi, finalmente positivi, a partire dai suoi splendidi occhi verdi. Osserva il suo continuare a pensare al futuro, nonostante la consapevolezza che quel futuro per lei non ci sarà. Il dialogo che per così tanto tempo è mancato finalmente si apre mano a mano, la vita lentamente inizia a fluire e Aleksy si sente responsabile di sua madre, i ruoli in qualche modo si invertono.
Quanto tempo hanno perso madre e figlio prima di ritrovarsi, quanta vita mancata per volontà di entrambi.
Ma gli ultimi mesi costituiscono uno spiraglio di luce in un rapporto che troverà la sua pienezza nel poco tempo rimasto per viverlo.
Lo stile del romanzo segue gli avvenimenti. All’inizio durissimo e senza scampo per il lettore, dominato dall’odio di Aleksy per la madre, diviene pagina dopo pagina più riflessivo, delicato e introspettivo. Il passaggio è estremamente graduale e va di pari passo con il desiderio di Aleksy di curarsi per poter essere di aiuto e di supporto alla madre.
Quell’estate rimarrà poi come un segno indelebile sulla vita di Aleksy.
Il romanzo della scrittrice moldava è gradevole, fatico però a capire l’entusiasmo con il quale da alcuni è stato accolto. La storia è molto esile, lo stile non indimenticabile.

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Romanzi autobiografici
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Aprile, 2024
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Una donna che odia il mondo

«la volontà di porsi sempre in maniera contraria a quella di qualsiasi interlocutore reale o immaginario, e se proprio non c’è nessuno che si oppone è lei a contraddirsi da sola, per non essere d’accordo neanche con se stessa»
«il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…»

Il romanzo è autobiografico, l’autore ci parla di sua madre, donna che odia il mondo e che non sopporta gli altri, che ha un carattere davvero impossibile e da lui detestata al punto da trasferirsi da Napoli a Milano già a 19 anni pur di allontanarsene: cambiare città voleva dire stabilire anche una distanza fisica oltre che emotiva da colei che l’ha generato.
Ma da dove nasce l’odio che questa donna si porta dentro? Quali radici ancestrali ha? Forse in una malintesa cultura meridionale? L’autore cerca di scavare nella vita sua e della madre per andarle a cercare queste radici.

“Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”

Già questa frase è spiazzante considerando che normalmente la madre è sempre adorata dai figli.
Dopo un’infanzia difficile Angela, originaria di Benevento e che pure in età giovanile era riuscita a coltivare qualche amicizia come qualsiasi ragazza, si sposa ed è come se con questo passaggio chiudesse irrimediabilmente con un passato più o meno normale dal punto di vista affettivo per passare ad un’età adulta che non prevede rapporti di amicizia o di stima con nessuno. O, per meglio dire, non prevede proprio rapporti.
Sposa un uomo più anziano di lei e che è il suo opposto: riservato ed educato, scorrerà silenziosamente per tutta la sua vita accanto alla moglie e, forse, la amerà davvero.
Il pessimismo è lo stile di vita di Angela e si accompagna ad un profondo disprezzo per qualsiasi altro essere umano, anche il più normale. Insulta tutti, seguendo in questo l’insegnamento di sua madre con la quale infatti ha vissuto una vita di scontri.
Nulla piace ad Angela, di nessuno ha stima, neanche dei figli. Non sopporta i vicini di casa, non apprezza nulla, maltratta chiunque. Urla, strepita, offende.
Tra i figli due rifiuteranno le sue intromissioni, la terza, più timida e riservata, la lascerà fare ed Angela si approprierà della sua vita decidendo tutto per lei. Diventata grande alla fine questa figlia avrà un rigetto per la madre con la quale taglierà i ponti lasciando anche il lavoro che la madre le aveva creato.
L’autore si trasferisce a Milano dove creerà la sua carriera professionale ma sarà costretto ad accogliere la madre ormai anziana nell’appartamento accanto al suo accudendola insieme alla sorella.
L’età non ha addolcito Angela, che è rimasta tale e quale. L’autore e la famiglia saranno costretti ad uscire di casa passando dalle cantine per evitare di essere visti e colpiti dai suoi strali. Prigionieri in casa propria.
Molti sono i personaggi del libro, ma al centro c’è sempre lei Angela, che svetta su tutti e si prende il centro della scena.
Il romanzo è stata una gradevole sorpresa, ben scritto e ben costruito, il personaggio di Angela sicuramente notevole. Non vuole raccontare vicende mirabolanti ma la cruda storia di una donna qualunque che ha odiato il mondo rovinando la vita a se stessa e agli altri. Metterlo su carta non era semplice: l’autore c’è riuscito regalandoci un romanzo che si legge senza rimpianti. Non indimenticabile, non un capolavoro ma sicuramente piacevole.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    28 Aprile, 2024
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Una favola nera

Astore ama la tranquillità, le cose semplici ed il silenzio. E’ un restauratore di mobili che si è trovato la sua nicchia di silenzio, che è la sua oasi di protezione contro il mondo e dedicarsi al suo lavoro è il modo che ha sempre trovato come migliore per calmarsi e per proteggersi dalle cattiverie del mondo e della vita. Il riallacciarsi alla sua quotidianità ordinata, fatta di lavoro e poco altro, è la sua ricetta salvifica. Una sua vicina di casa è un’anziana signora che, a modo suo, gli dimostra affetto e, per ringraziarla di un calore sincero ed inaspettato che lei ha portato nella sua vita, lui decide di dare seguito ad un’inspiegabile richiesta di rimediare ad un male passato. Si trova, suo malgrado, avvolto in una favola nera dai contorni torbidi, agghiaccianti, sanguinolenti e folli. Vittima di occhi di ghiaccio e di ineguagliabili follie si ritrova invischiato in dinamiche familiari inaspettate ed inimmaginabili, da cui a fatica riuscirà ad uscire indenne. Ritmo altalenante. A tratti noir, a tratti addirittura gotico. Buona suspence. Buona ambientazione.

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Romanzi autobiografici
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    28 Aprile, 2024
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Una bianca farfalla magica

Libro autobiografico che ti spacca il cuore e ti scalda l’anima. Racconta la storia di un amore grande, immenso, di tutte le prove che attraversa e di tutte le forme che trova per esprimersi e per raccontarsi. Racconta di una perdita che lascia un vuoto che da una parte non ha colori, dall’altra ha forse tutti i colori dell’arcobaleno, dall’altra ancora ha soprattutto il colore bianco delle ali di una farfalla. Racconta di questo vuoto, il cui peso specifico è insopportabile. Racconta del coraggio di un uomo, che ha una famiglia da ricostruire e dei suoi modi sgangherati con cui cerca la chiave di dialogo con i suoi bambini, in modo che trasudano amore in ogni gesto. Racconta soprattutto di una donna, una piccola grande Wonder Woman, che ha sia un fare sfrontato e positivamente aggressivo, sia un lato più fragile, da ranocchio indifeso e che li alterna, nella sua vita, nelle sue giornate, di fronte alle avversità della vita, senza mai smettere di sperare, senza mai smettere di lottare. E’ un piccolo libro che è un grande dono. Per chi sta attraversando un brutto momento. Per chi gli è accanto. Per chi ce l’ha fatta. Per chi ce la sta facendo. Per chi ha dovuto piegare il capo. Per chi lo ricorda. Perché anche chi se ne è andato, se è stato così tanto amato, continua a viverci dentro e, a modo suo, a manifestarsi. Commovente. Delicato. Sferzante. Caldo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    28 Aprile, 2024
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La prima indagine del commissario Rebaudengo.


E' il primo romanzo della serie che Cristina Nava dedica al commissario di polizia Bartolomeo Rebaudengo, piemontese di Cuneo, in servizio ad Alassio. Un uomo di mezza età, separato, amante della buona cucina, un personaggio solido, tutto dedito al suo lavoro: non ha vizi, vive da solo, stentando ad adeguarsi , lui piemontese doc, al clima ed alle tradizioni culinarie di una regione marinara. Ecco che un giorno, qui inizia la storia, arriva in commissariato una telefonata: una signora della buona società, Fabiola Ferretti, segnala la scomparsa del marito, Alfonso Oddone, professore di filosofia al liceo classico del posto nonché, a quanto pare, impenitente donnaiolo. Poco dopo l'inizio di indagini e ricerche, viene alla luce un delitto allucinante: l'assassinio per strangolamento di un'allieva del professore, Serena De Blasi, rinvenuta in un campo, nuda, al centro di una macabra messinscena. Si scopre che la giovane, di straordinaria bellezza, frequentava il professore per lezioni private e proveniva da una famiglia disastrata, madre fuggita in America e padre docente universitario, incurante dei figli. Un altro delitto complica le già difficili indagini: un'intima amica di Serena viene rinvenuta abbandonata in un campo, strangolata. Rebaudengo si danna l'anima alla ricerca del colpevole, anche perchè altri strani personaggi rivelano inquietanti note personali, un bidello pedofilo e uno studente innamoratissimo di Serena, cultore, così sembra, di riti satanici. Alla fine un diario segreto ed un orecchino antico e prezioso condurranno il solerte commissario alla soluzione dell'enigma: una soluzione inattesa ed imprevedibile che lascerà tutti costernati.
Un giallo coi fiocchi, ben costruito, che mette a dura prova l'abilità del commissario Rebaudengo e dei suoi fidati colleghi e collaboratori: tra questi un bravissimo medico legale, la dottoresse Ardelia Spinola, che avrà in seguito una serie di gialli da protagonista e che conquisterà in questa vicenda il burbero e solitario commissario, con la sua simpatia ed i manicaretti più invitanti della cucina ligure. Le trenette al nero di seppia sarà il piatto che contribuirà a dissipare i molti dubbi di Rebaudengo, autentico piemontese, sulla cucina ligure.
Il commissario Rebaudengo entra da protagonista nella schiera dei ben noti commissari amati dai lettori del genere: gareggia sin dalla prima apparizione con i più noti Maigret, Montalbano e poi via via fino alla più recente Vanina Guerrasi. Un bel tipo, scontroso, buongustaio, un cuneese attaccato alla sua terra, diffidente, ma in via di scioglimento, nei confronti del nuovo ambiente ligure: perché, dice, "io sono un piemontese di provincia, un personaggio alla Fenoglio, una sintesi tra provincialismo, essenza montanara, mangiatori di castagne, contadini diffidenti dello straniero ... spaventati dal nuovo, spaventati dal mare ...", e Cristina Nava lo caratterizza benissimo, nei suoi atteggiamenti più intimi e nella sua attività professionale.
Unico neo del giallo, a mio avviso, la prolissità di alcune descrizioni ambientali, che tolgono ritmo al racconto. Si comprende che Cristina Nava ama la sua terra e la cucina della sua terra: una regione bellissima e speciale, che anch'io amo particolarmente avendoci passato non poco tempo della mia vita
Come inizio di una nuova serie, il romanzo promette bene, coinvolge il lettore fino all'ultima pagina, curioso di seguire il Commissario Rebaudengo e Ardelia Spinola, la "dottoressa dei morti, piena di vita" in nuove future indagini.

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Altri libri di Cristina Nava.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Jaeger Opinione inserita da Jaeger    28 Aprile, 2024
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Una nostalgica ma moderna indagine sul treno

Ernest Cunningham, già protagonista del romanzo precedente "Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno" ha il blocco dello scrittore, ha già intascato l'anticipo del suo prossimo libro ma non ha scritto neppure una riga.
Ecco dunque che accetta di partecipare a una convention cui è stato invitato con alcuni affermati scrittori di gialli, nella speranza che arrivi l'ispirazione. La particolarità è che l'evento si svolge appunto su un treno che attraversa parte dell'Australia.

La scena è pronta: omicidio e numero ristretto di sospetti tra cui gli "esperti del mestiere".
Tutti hanno un movente, ma chi è l'assassino?
Tra i giallisti c'è chi è esperto di autopsie, chi di psicologia, e dunque si indaga un po' sotto tutti i punti di vista, ma "alla vecchia maniera". Si susseguono gli interrogatori e si raccolgono indizi.

Si tratta di un giallo classico, scritto con uno stile frizzante, ironico e moderno.
Capolavoro? Sconvolgente o originalissimo? No, tant'è che l'assassino è piuttosto facile da individuare per un lettore esperto e appassionato del genere.
Resta però una lettura molto piacevole, leggera e scorrevole che non scimmiotta in alcun modo "Assassinio sull'Orient Express", altro punto a favore.
La risoluzione del caso non è campata per aria o improbabile, alla fine tutto torna e quello è l'importante.

Da menzionare che lo scrittore si rivolge direttamente al lettore, una particolarità di questo autore che gioca anticipando fra quante pagine ci sarà un omicidio o quante volte verrà scritto il nome del colpevole.
Trovata che può piacere come no, a me non ha disturbato.

Lettura veloce, un po' "da ombrellone" se vogliamo, ma senza grossi difetti. Per i nostalgici dei gialli inarrivabili della Christie.




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Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Jaeger Opinione inserita da Jaeger    28 Aprile, 2024
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Animale selvaggio o casalinga disperata?

Attenzione: la recensione contiene spoiler.

Avendo già letto quattro romanzi di Joel Dicker sapevo già cosa aspettarmi a livello di stile, ma devo dire che in questo caso l'ho trovato talmente esasperato da aver reso "Un animale selvaggio" il suo romanzo che ho apprezzato di meno.
Probabilmente anche il fatto che manchi la componente di indagine pesa, infatti in questo libro non c'è alcun mistero da svelare. C'è qualche colpo di scena, quello sì, ma nulla che renda la lettura particolarmente entusiasmante.

La trama ruota attorno a due coppie con vite apparentemente tranquille (una persino invidiabile) che celano parecchi torbidi segreti: problemi economici, di lavoro, tradimenti...

Ecco dunque il cast:
- Sophie, che tradisce il marito e partecipa a delle rapine con l'amante per puro divertimento
- Arpad, il marito tradito da vent'anni che viene licenziato dalla banca ma non lo confessa alla moglie, continuando a sottrarre soldi di nascosto. Pur scoprendo di avere le corna da due decenni non farà quasi una piega, perché lei "ama entrambi" e lui ama lei. Ok.
- Greg, poliziotto che tradisce la moglie e spia la vicina di cui si invaghisce con una telecamera rubata al lavoro.
- Karine: la moglie tradita da Greg che invidia i vicini per il loto status e la loro apparente perfezione
- Fauve: il rapinatore ossessionato da Sophie che si fa vivo di tanto in tanto per weekend di passione e furto

Secondo l'interpretazione di alcuni Fauve dovrebbe essere "l'animale selvaggio", in realtà a dispetto del nomignolo per me il titolo si riferisce a Sophie che in modo abbastanza ridicolo viene continuamente accostata a una pantera.
Personalmente i personaggi li ho detestati dal primo all'ultimo, con menzione speciale per Sophie che è una manipolatrice egocentrica tale da avermi causato una vera repulsione. Ancor più di Greg che è un personaggio parecchio negativo pure lui. Arpad e Karine sono le vittime dei rispettivi compagni, più che altro patetici per via del loro complessi di inferiorità.

Il filo conduttore della trama è una rapina che il lettore sa già che avverrà in quanto il tempo nel libro è scandito da una indicazione ricorrente a inizio capitolo "-x giorni alla rapina". Ridondante.

E dunque si salta continuamente, ogni poche pagine, avanti e indietro nel tempo, un po' in Svizzera, un po' in Francia, in un susseguirsi di scarne informazioni che il lettore deve ordinare nella sua testa come i tasselli di un puzzle. E si salta sempre anche dal punto di vista di un personaggio a quello di un altro.

È un libro in cui non si percepisce una emozione positiva dall'inizio alla fine, in cui non c'è mai un barlume di giustizia o buon senso. Dovrebbe essere un thriller di quelli che lasciano col fiato sospeso, invece io l'ho trovato piuttosto noioso e lento, non vedevo l'ora che si arrivasse al dunque e il libro finisse.

L"intrigo diabolico", che viene promesso altro non è che la ricca borghese Sophie (avvocato) madre di due figli che per noia di tanto in tanto partecipa a delle rapine con l'aiuto dell'amante, che il rapinatore lo fa a tempo pieno.
Per chi avesse visto la serie tv posso dire che il romanzo è un po' "Desperate Housewives" a cui manca però qualsiasi personaggio positivo o componente ironica.

Probabilmente è tutto volutamente grottesco, ma non fa per me.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    25 Aprile, 2024
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Un ragionevole dubbio

All’Osteria del Caffelatte, una libreria per insonni, aperta solo di notte, fino all’alba, Guido Guerrieri, avvocato, e pugile all’occorrenza, ci passa certe notti in cui il sonno non arriva, in compagnia del suo amico Ottavio, il padrone della libreria, di un buon libro e di un buon caffè.
Ma questa volta è Ottavio a cercare lui, lo chiama al telefono una mattina, perché ha bisogno del suo aiuto per un’amica, Elvira Castell: le occorre un avvocato perché ha sparato a un uomo, l’ex compagno della sorella, e l’ha ucciso.
Legittima difesa o omicidio premeditato?
Questo è il ragionevole dubbio che Carofiglio ci insinua nei sei mesi di indagini processuali, fino al verdetto finale, che non svela nulla di più né al lettore né allo stesso Guerrieri che ha assunto la difesa di questa donna, della cui innocenza non è convinto neanche lui.
Il romanzo è catalogato tra i gialli, o meglio tra i gialli giudiziari.
Assai riduttivo a mio parere.
A parte che più che un giallo è un mistero che non si rivela, ma il romanzo va decisamente oltre.
L’analisi prettamente tecnico-giuridica, va di pari passo con la terapia di psicanalisi che Guerrieri segue insieme al Dottor Carnelutti.
I dubbi su questo caso e una lettera, post mortem, di una sua ex, Margherita, mettono in crisi Guerrieri. Una crisi che estrinseca le sue paure, che sono poi le stesse di qualsiasi uomo che ha superato la metà della vita: il passare del tempo, inesorabile, e l’ineluttabilità della morte.
“Ero sgomento, terrorizzato e triste. Perché si deve morire? … – Perché è proprio questo che rende la vita bellissima e preziosa”
I dialoghi tra Guerrieri e Carnelutti sono pieni di spunti di riflessioni sul senso della vita, sul senso di giustizia, sui sogni, sulla nostra memoria e su come a volte la modifichiamo per darle un senso logico, che giustifichi la nostra interpretazione dei nostri stessi ricordi, come se costruissimo una storia, che in qualche modo ci fa comodo.
Ma allora quanto è fallace la nostra memoria?
“Il modo in cui ricordiamo può anche essere influenzato dalla nostra tendenza a costruire narrazioni coerenti. Quando rammentiamo un evento, se abbiamo questa inclinazione, lo riorganizziamo mentalmente, anzi riorganizziamo mentalmente le informazioni per fornire anche solo a noi stessi una storia coerente.”
“Costruiamo storie per dare senso, per cercare di mettere ordine nel caos. E le storie, a ben vedere, sono tutto quello che abbiamo.”
Il romanzo ha decisamente degli spunti autobiografici, Guerrieri ha la stessa età dell’autore, ne condivide l’esperienza giuridica, l’amore per il mare e per la sua città, Bari appunto, e ha i suoi stessi gusti musicali e letterari, espressi dalle frequenti citazioni di Carofiglio.
Il romanzo sembra lasciarci con un finale aperto, in realtà è un cerchio che si chiude: dalla lettera della sua ex, Margherita, morta di cancro, che nutre l’aspettativa di un futuro incerto e doloroso, all’incontro finale con l’ex moglie di un suo vecchio cliente, rinata, invece, dopo la guarigione da una lunga malattia, che ci lascia con un filo di speranza e di luce, all’alba di una notte, così buia, da non distinguere l’orizzonte
“Tutto era ancora buio e nel flusso di pensieri ingovernabili che mi attraversavano la mente per sparire veloci com’erano arrivati, uno fu meno fugace degli altri. Pensai che non si distingueva l’orizzonte. Nulla di strano, a dire il vero. L’orizzonte è la linea apparente che separa la terra dal cielo, che divide le direzioni percettibili in due categorie, quelle che intersecano la superficie terrestre e quelle che non la intersecano. Di notte l’orizzonte non si vede. Quindi non esiste? Perché è una linea apparente, appunto. Esiste solo se lo vediamo.”
Romanzo splendido a mio parere, un Carofiglio, profondo e commovente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    25 Aprile, 2024
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lo sguardo al passato e la speranza

****SPOILER****
Al centro una vicenda giudiziaria, che vede Elvira Castell imputata per l'omicidio di un uomo. Qui, nel nucleo del romanzo, troviamo l'avvocato Guido Guerrieri che abbiamo già conosciuto nelle sue precedenti avventure. La sua arringa difensiva porterà a una condanna relativamente lieve per l'imputata, a fronte della pena ben maggiore richiesta dall'accusa. La narrazione di tale vicenda umana e processuale si alterna a riflessioni di stampo psicologico, proposte dallo stesso Guerrieri che rivangando il passato, fa incursione nelle varie relazioni sentimentali avute negli anni (Sara, Margherita, Annapaola) e rievoca vicende personali e familiari durante alcune sedute di psicoanalisi, dettagliatamente descritte.
Queste, se da un lato appesantiscono la lettura e possono risultare noiose (spezzano il flusso narrativo delle vicende legate all'omicidio), dall'altro permettono a chi ha amato l'avvocato Guerrieri di conoscerne aspetti più intimi e personali: Guido infatti si mette a nudo raccontandoci di sé, cercando di trovare un senso alle proprie fragilità e paure. Troviamo qui un uomo maturo, che riflette sul trascorrere inesorabile del tempo, sul suo sentirsi vecchio, stanco e - mi è parso - sul punto di lasciare la professione, anche per questioni deontologiche che egli stesso si pone in riferimento alla linea difensiva assunta per la sua ultima (?) cliente Castell. Il libro tuttavia, seppur caratterizzato da una vena di pessimismo e inquietudine per ciò che tormenta Guido, si chiude con uno spiraglio di speranza e luce. Egli incontra, sul finire di una nottata insonne trascorsa a passeggiare, una coetanea conosciuta anni prima per motivi di lavoro, una donna che ha appena vinto una battaglia contro il cancro e con cui lascia intendere che potrebbe nascere un rapporto di complicità. Colpisce questo finale, laddove emerge la diversa sorte toccata invece a Margherita - con prognosi infausta - a sottolineare da un lato l'ineluttabilità del destino, dall'altro la speranza e le infinite possibilità che la vita può riservare.

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gli altri libri della serie dell'avvocato Guerrieri, consiglio rigorosamente in ordine di pubblicazione !
- testimone inconsapevole (2002)
- ad occhi chiusi (2003)
- ragionevoli dubbi (settembre 2006)
- le perfezioni provvisorie (gennaio 2010)
- la regola dell’equilibrio (novembre 2014)
- la misura del tempo (2019)
- l'orizzonte della notte (2024)
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Romanzi
 
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andrea70 Opinione inserita da andrea70    24 Aprile, 2024
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Dissacrante e per riflettere

Marcello è un trentenne laureato ormai disilluso che , spinto dalla volontà della fidanzata di vederlo finalmente realizzato con un impiego che gli permetta di progettare di farsi una famiglia, partecipa ad un concorso di dottorato in lettere.
Le possibilità di vincerlo sono meno che scarse sia per la presenza di candidati decisamente più preparati di lui sia per gli intrallazzi accademici che non lo vedono tra i possibili beneficiari della benevolenza di chi decide.
Ma il destino ci mette del suo e la preparatissima ragazza che avrebbe vinto il concorso rifiuta così la borsa di studio spetta a lui che era stato classificato secondo a spregio del terzo classificato e non per veri meriti.
Possiamo apprezzare la sottile ironia dell'autore nel descrivere il mondo accademico fatto di favori, invidie, gelosie, ripicche, alleanze e tradimenti insomma un universo parallelo di varia umanità in cui il merito viene quotidianamente sacrificato sull'altare degli intrallazzi accademici.
Il suo Professore è una specie di Santone dell'Università, il potentissimo Sacrosanti (mai nome fu più azzeccato) un maneggione di grande autorevolezza che ha uno stuolo di adoratori al seguito e anche parecchi nemici giurati, questi assegna a Marcello un lavoro di ricerca su uno scrittore viareggino
di grande talento ma sconosciuto ai più , tale Tito Sella, noto alle cronache per essere finito in galera negli anni di piombo con l'accusa di essere un terrorista.
Tito Sella ha scritto poche opere ma una accende l'interesse di Sacrosanti, la famosa Fantasmina, una autobiografia che si dice sia stata scritta ma perduta e mai più ritrovata.
Pare che a Parigi , nella Biblioteca Nazionale , ci siano tracce di tale opera e Sacrosanti procura a Marcello i fondi e i contatti per fare la ricerca in loco.
Inutile dire che la vita di un vitellone di provincia nella Città delle luci si presta a divagazioni di un certo spessore, inoltre Marcello studiando la vita di Tito Sella rimane affascinato dalla sua figura . Ad un certo punto la storia di Marcello si interrompe ed irrompe quella della vita di Tito Sella negli anni difficili del terrorismo e della lotta armata, scopriremo i sogni e i turbamenti di una generazione ferita e le vicende di Tito e Marcello procederanno quasi in parallelo a distanza di 50 anni fino allo scioccante finale.
Bella lettura, ironica e dissacrante incursione nel mondo accademico e in un periodo storico difficile e tormentato.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    24 Aprile, 2024
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La guerra nella testa

Un uomo disteso, con l'orecchio e la bocca appiccicati al terreno con il sangue, un braccio che cerca a tastoni il compagno morto, l'altro braccio che sembra sparito ma che torna a rivelarsi attraverso un dolore lancinante. Una fame e una sete indescrivibili, la pioggia che sferza il corpo agonizzante, fermo lì da un tempo difficile da calcolare, con i testa rumori di guerra che non se ne andranno mai più. Tutto intorno orrore, distruzione e l'atroce fetore della morte. Ferdinand, unico superstite del massacro, si alza con immensa fatica e inizia a camminare, consapevole del fatto di essersi ormai "beccato la guerra nella testa", che la guerra gli resterà per sempre "chiusa nella testa", ma determinato a restare il più possibile attaccato alla vita, quella vita "enorme" in cui "ti ci perdi dappertutto". È questa la scena iniziale descritta da Céline nel manoscritto in questione, recentemente recuperato e dato alle stampe a sessant'anni dalla morte dello scrittore. Pagine stese in tutta fretta e che sembra non abbiano mai visto una seconda rilettura, una seppur superficiale revisione, con pezzi addirittura illeggibili, ma non per questo (o proprio grazie a questo) meno significative, impattanti, "céliniane". Pagine che parlano della mostruosità della guerra e delle ripercussioni che questa può avere sul corpo e sullo spirito di chi ne prende parte, ma più in generale del marciume che può emergere dall'esistenza umana e dai terribili recessi dell'animo. L'autore sembra urlarle con l'urgenza di chi vuole rendere il mondo partecipe del lerciume che gli è rimasto dentro e non bada ad alcuna forma, censura, edulcorazione nel farlo. I temi sono quelli a lui cari, che ricorrono anche nei suoi romanzi più famosi, così come tipici della sua scrittura sono lo stile scurrile e volutamente sgrammaticato, l'erotismo esplicito e aspro, la violenza delle azioni e dei pensieri, l'alternanza tra tragedia e comicità. La storia ha poi dei forti connotati autobiografici, perché Céline ha realmente vissuto l'esperienza del ferimento in battaglia e ne ha portato con sé le conseguenze per tutta l'esistenza. Sfinito, ferito, dolorante, Ferdinand si mette in cammino verso l'agognata salvezza, ritrovandosi poi in un letto d'ospedale dove inizia una lunga e rocambolesca convalescenza che lo vedrà ricevere una medaglia al valore, scontrarsi con medici vogliosi di fare esperienza sulla pelle altrui, diventare il pupillo di infermiere ninfomani, avere a che fare con compagni laidi, grotteschi, truci, tra cui spicca il bieco Bébert/Cascade (il personaggio cambia nome durante la narrazione), divenuto subito "compagno di merende" del protagonista. L'uomo si rivelerà ben presto nella sua essenza, un pappone violento e uno sfacciato imbroglione, pagando con la vita le sue malefatte ma lasciando al compare, oltre al vuoto per l'amicizia perduta, il legame con la moglie e prostituta Angèle, grazie alla quale, sempre per vie moralmente e legalmente discutibili, il nostro Ferdinand sembrerà trovare, alla fine del manoscritto, un lasciapassare verso l'Inghilterra e verso un difficile, quasi irrealizzabile, riscatto. "I due moli sono diventati minuscoli sopra ai cavalloni spumanti, strizzati contro il loro piccolo faro. Dietro, la città si è rattrappita. Poi si è sciolta nel mare. E tutto è precipitato nello scenario delle nuvole e l’enorme spalla del largo. Era finita quella porcheria, aveva sparso tutto il suo letamaio di paesaggio la terra di Francia, sotterrato i suoi milioni di assassini purulenti, i suoi boschetti, le sue carogne, le sue città multicacatoi e i suoi infiniti fili di calabroni miriamerde. Non c’era più, il mare aveva preso tutto, ricoperto tutto. Viva il mare! Non vomitavo manco più. Non ci riuscivo più. Dentro di me avevo tutte le vertigini di una nave. La guerra mi aveva dato un mare pure a me, solo per me, un mare rombante, rumoreggiante assai dentro la testa. Viva la guerra!"

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Gialli, Thriller, Horror
 
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andrea70 Opinione inserita da andrea70    23 Aprile, 2024
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La gattina frettolosa....

Sebastiano è sparito da tempo fuggito chissà dove. Qualche indizio lo segnala in Sud America dove pare essersi recato Furio per completare la sua personalissima vendetta. Rocco e Brizio partono alla sua ricerca e si muovono tra Argentina e Messico, troveranno Furio , che sembra limitato nella sua operosità dal fatto di non avere gli amici di una vita come spalla. Tra peripezie abbastanza poco credibili e sbruffonate varie troveranno anche Sebastiano e... va beh già il libricino sono cento paginette stiracchiate se poi vi dico tutto stiamo freschi. Sa tanto di operazione editoriale perchè se Manzini avesse davvero voluto mettere la parola fine a questa tribolata amicizia tra Rocco e i suoi fratelli (d'avventura non di sangue) penso avrebbe potuto e dovuto farlo meglio, tutto quanto raccontatoci fino ad oggi sulla vita di Rocco Schiavone avrebbe meritato una storia migliore , meglio argomentata ma forse l'autore voleva solo rifarsi nel modo più crudo alla vita reale: certe cose finiscono in modi bruschi e inaspettati , continuano a bruciare dentro di noi ma non hanno i titoli di coda e la passerella finale. Si legge con piacere ma niente a che vedere con le opere precedenti.

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Letteratura rosa
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    23 Aprile, 2024
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Questo Natale, su Hallmark Channel

Come si potrà facilmente intuire dando una scorsa alle mie letture più o meno recenti, non sono una gran consumatrice di romanzi rosa; cerco di non avere pregiudizi per nessun genere, ma è un dato di fatto che la maggior parte dei romance nei quali mi sono imbattuta mi abbia deluso. Eppure ho iniziato con entusiasmo la lettura di "Book Lovers. Un amore tra i libri", in parte perché la sinossi prometteva una storia d'amore lontana dai soliti cliché, ma soprattutto per averne sentito tessere le lodi da chiunque, specialmente da persone che di solito non bazzicano questo genere di storie. E pur non avendo condiviso l'adorazione collettiva, sento comunque di poterlo consigliare se cercate una lettura leggera e divertente; evitando con cura di fare affidamento su come lo vende la casa editrice!

La trama presenta una variazione sul tema delle commedie romantiche in cui vengono contrapposte città e campagna. La protagonista e narratrice è Nora Katharine Stephens, un'agente letteraria newyorkese di successo che viene convinta dalla sorella minore Elizabeth "Libby" Baby a trascorrere le vacanze estive nel paesino di Sunshine Falls, nel North Carolina; qui è infatti ambientato uno dei romanzi preferiti di Libby, scritto proprio da una cliente di Nora. Un periodo di villeggiatura che dovrebbe portare la protagonista a sperimentare una vita più rustica e spontanea, non fosse per la presenza in città di Charlie Lastra, un editor che al loro primo incontro le ha fatto una pessima impressione.

Per ribadire la mia approvazione a questo titolo, voglio dare subito spazio ai pregi che ho individuato. Innanzitutto, si tratta di un testo scanzonato che punta a far ridere, con dialoghi ricchi di battute e situazioni al limite della verosimiglianza; l'autrice si è palesemente divertita a portare all'estremo le tipiche situazioni delle commedie romantiche. A parte una riserva di cui parlerò tra poco, ho inoltre apprezzato la caratterizzazione di Charlie: la correttezza, la buona volontà nell'aiutare gli altri ed i commenti sarcastici lo hanno reso in pochi capitoli il mio personaggio preferito.

Personalmente mi è piaciuta anche la scelta di includere delle sottotrame collegate alle famiglie dei protagonisti, per mostrare delle relazioni diverse da quella sentimentale. In particolare, ho apprezzato come la cara Emily abbia tratteggiato il confronto tra Nora e Libby nel finale, andando ad analizzare non solo il loro rapporto come sorelle ma anche le diverse prospettive sul comportamento della madre. Senza dimenticare che si tratta di un titolo estremamente scorrevole, in cui la trama prosegue con un ottimo ritmo narrativo.

Con la coscienza più leggera, posso passare ai difetti di questo libro, o meglio al difetto. Sì perché il mio problema principale è stato notare le differenze tra quanto mi aveva promesso la CE nella sinossi e l'effettivo contenuto. Sulla carta il romanzo dovrebbe regalare al lettore dei colpi di scena stupefacenti, eppure io sfido il più distratto tra voi a definire imprevedibile una sola delle svolte di trama, e non parlo (solo) dello stucchevole epilogo. Sulla carta il romanzo dovrebbe raccontare la storia di due persone che si odiano ricalcando un po' la dinamica tra Lizzy Bennet e Mr. Darcy, mentre li vediamo prontissimi a saltarsi addosso già alla prima conversazione informale; e anche gli altri ostacoli al loro amore sono tutti di poco conto, come il fatto che lavorino nello stesso settore o l'iniziale riserva di Libby nei confronti di Charlie: dopo poche pagine già lo adora! Sulla carta il romanzo dovrebbe parlare di due persone fredde ed incapaci di esternare i propri sentimenti, quando invece sono soltanto molto pratici e preferiscono cercare delle soluzioni concrete ai problemi delle persone alle quali tengono; anche la loro rigidità è solo presunta, perché in tutto il volume non fanno altro che ridere e fare commenti ironici.

Ma soprattutto, mi era stato garantito un ribaltamento degli stereotipi del genere romance, ma nella pratica non ne manca neppure uno: la protagonista che scivola di continuo e viene presa al volo dal belloccio di turno, la coppia infoiata nei momenti e nei luoghi meno opportuni, i personaggi in grado di emanare un profumo delizioso anche dopo un'intera giornata di lavoro, gli occhi paragonati a metalli pregiati, pietre preziose o dolciumi assortiti. Tutto ciò lo rende un brutto libro? ma certo che no! Però permetterete che mi senta un filino presa in giro se ho ordinato un trancio di salmone mi vedo portare al tavolo un hamburger vegano.

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Avventura
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    22 Aprile, 2024
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Due accademici alla ricerca dell’Illuminismo

Presso la Real Academia Española a Madrid è presente una copia della prima edizione integrale dell’Encycopedie curata da Diderot e D’Alembert. L’Autore-narratore, accademico di questa prestigiosa istituzione, ne resta affascinato e, incuriosito, si comincia a domandare come, un’opera così rara e preziosa, sia potuta arrivare sin lì, soprattutto se, come gli confermano i colleghi, è certamente giunta alla fine del XVIII secolo quando, oltre a essere formalmente proibita in Francia, era posta all’indice pure dalla Santa inquisizione spagnola che mai avrebbe consentito l’importazione della monumentale trattazione, ritenuta eretica e offensiva della fede.
Per l’A. inizia, così, una appassionante ricerca tra gli atti e i verbali dell’Academia e nei documenti che relazionano sulla storia di quell’ultimo quarto di secolo che, di lì a poco, sconvolgerà il mondo con la rivoluzione in Francia.
Quindi, sulla scia di quanto rinvenuto, ci narra le avventure degli accademici Don Hermógenes Molina, bibliotecario dell’Academia, e don Pedro Zárate, brigadiere in pensione della Marina Reale, ma chiamato ammiraglio dai colleghi. I due verranno incaricati dal direttore Francisco de Paula Vega de Sella, marchese di Oxinaga, di recarsi a Parigi per acquistare e portare a Madrid i preziosi volumi che arricchiranno la collezione della biblioteca e aiuteranno gli accademici nella revisione del loro monumentale Diccionario Catalan.
L’impresa non si rivelerà per nulla facile, un po’ per la rarità dell’enciclopedia — i ventotto volumi della prima edizione, l’unica attendibile come contenuti, furono stampati in poco più di 4000 esemplari, la maggior parte dei quali venduti all’esterno della Francia, stante la contrarietà religiosa alla sua diffusione, e quelle poche edizioni ancora disponibili raggiunsero presto costi stellari — un po’ perché due loro colleghi accademici, Manuel Higueruela e Justo Sánchez Terrón, di contrapposte posizioni ideologiche, ma entrambi fermamente contrari all’acquisizione dell’opera, si accorderanno segretamente con un sordido individuo, perché faccia di tutto per ostacolarli.

Con questo suo romanzo del 2015 Pérez-Reverte tenta un interessante esperimento con il quale, attraverso le righe di ciò che, ufficialmente, dovrebbe essere “solo” un romanzo storico, cerca di riproporre e veicolare le idee e i principi che hanno ispirato la filosofia illuminista e hanno fatto grande quel movimento di pensiero trasformandolo nel motore che ha radicalmente mutato la cultura occidentale.
In effetti, ciò che evidentemente interessa di più l’A. non sono tanto e solo le avventure dei due accademici attraverso una Spagna e una Francia turbolente e perniciose, quanto l’enunciazione dei fondamenti portanti dell’epoca dei lumi e il dibattito che ne seguì, a sostegno o in opposizione a quelle tesi. A dar voce e difendere, nelle diverse graduazioni, i principi dell’illuminismo scenderanno in campo, con lunghi e argomentati dibattiti, i due “uomini buoni”: don Hermógenes, pacato e pio studioso che, pur affascinato dalle nuove tesi, si fa scrupolo di non abbandonare la sua pietas religiosa e il devoto rispetto dei principi del cristianesimo; più apertamente riformatore e cinicamente scettico nei confronti delle tesi moderate del compagno è l’ammiraglio don Pedro, agnostico e pessimista di natura. Si unirà a loro nelle dispute verbali l’abate (di nome, ma non di fatto) Salas Bringas Ponzano, il Virgilio che li guiderà per Parigi e li assisterà nella difficile ricerca dell’Encycopedie. L’uomo manifesterà posizioni accesamente rivoluzionarie; un deciso, sanguinario giacobino ante litteram, al punto che l’A. gli farà fare la medesima fine dell’avvocato di Arras. I suoi pensieri, non più moderati di quelli che esporrà a gran voce Robespierre nel Comitato di salute pubblica durante il Terrore, scandalizzeranno e stupiranno i due accademici, ma si riveleranno profetici.
Nella narrazione non manca neppure spazio per l’esposizione delle tesi opposte, da quelle più radicalmente conservatrici e intransigentemente bigotte del giornalista baciapile Higueruela a quelle di Sánchez Terrón, illuminista radicale, ma favorevole solo a una elitaria ed esclusiva diffusione della filosofia innovatrice che non consegni quel “materiale infiammabile in mani poco adatte”.
Al temine della lettura resta il sospetto che il libro sia una sorta di testamento spirituale dell’A. e un modo per affermare a gran voce che, anche oggi, quei principi vadano difesi, anzi attuati per evitare di ricadere nel dogmatismo e nella soggezione a un mondo che l’A. non ha mai nascosto di ritenere ignorante e brutale; un mondo che ha tradito gli ideali dell’Illuminismo.
Ne discende che le pagine più curate e attentamente elaborate sono proprio quelle nelle quali i protagonisti si confrontano su quegli argomenti filosofici e dibattono su temi quali religione contro laicità; ragione e progresso contro tradizione e ossequio dei dogmi cattolici; libertà o tirannia; prevalenza della scienza o del precetto divino; eguaglianza tra gli uomini e indipendenza di pensiero, o subordinazione a una guida superiore, sia essa divina che di un saggio sovrano. Nessuna delle posizioni dell’epoca verrà taciuta, tutte elaborate e contestate.
Purtroppo, l’aver preferito una narrazione che predilige il ragionamento all’azione (che non manca, ma è assai diluita tra i capitoli) rende un po’ lenta e faticosa la lettura. L’aver giocato soprattutto sui lunghi dialoghi pro e contro le varie tesi appesantisce lo scritto. Chi è abituato alla prosa di Pérez-Reverte, fluida, emozionante e coinvolgente, resterà, forse, parzialmente deluso. Infatti gli argomenti, senza dubbio importanti e su cui riflettere, spesso sono dibattuti in modo troppo “accademico” e l’attenzione tende a scivolare via.
Segnalo che alla narrazione principale è abilmente intrecciata pure una sorta di relazione autobiografica i cui intermezzi servono all’A. a raccontarci il come e il perché delle sue ricerche storiche e l’impegno profuso per ricreare con fedeltà e accuratezza le ambientazioni, i personaggi e le situazioni, studiando trattati e documenti storici, compulsando antiche mappe, ripercorrendo le stesse strade di quel viaggio avventuroso e parlando con esperti per approfondire le specifiche materie. In pratica nel libro è inserita una sorta di manuale su come comporre un romanzo storico con proprietà e accuratezza documentale. Queste parentesi, se, da un lato, rallentano e spezzettano ulteriormente il racconto sulle avventure degli accademici, dall’altro appaiono stimolanti nell’illustrare cosa sia, per davvero, il difficile mestiere dell’autore letterario.

In conclusione un bel libro, pieno di concetti importanti e di descrizioni avvincenti, ma non sempre piacevolissimo e di lettura scorrevole e agevole. Comunque, da leggere per ricordarci chi siamo o, almeno, chi dovremmo essere per non rinnegare coloro che hanno fatto evolvere la nostra civiltà.

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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    22 Aprile, 2024
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Attesa vivente

….” Siamo in perenne lockdown, ognuno di noi lo e’. Solo che non lo sappiamo, tutto qui. Ma facciamo del nostro meglio. La maggior parte di noi cerca solo di arrivare in fondo”…

…” e ho sentito dentro la scossa leggera di un presentimento, un presentimento che riguardava me e il mondo intero. E mi sono aggrappata a quell’ uomo come se fosse l’ ultimo essere umano rimasto sulla Terra, triste e bellissima com’è”…

Duemilaventi, inizio della pandemia, la scrittrice Lucy Barton lascia l’ amata New York per trasferirsi nel Maine con l’ ex marito William, il futuro è imprevedibile, uno stato di isolamento lontana dai propri affetti più cari, una quotidianità sconosciuta e poco rassicurante, in lei un’ ansia che declina in nostalgica malinconia.
Il Maine è per i newyorkesi un luogo dove essere disprezzati e considerati alla stregua di untori, per Lucy si prospetta distanziamento sociale, solitudine indotta, lunghi giorni piovosi in cui sostare all’ interno di se’ condividendo l’ isolamento con un uomo che appartiene al passato. Il suo futuro prossimo potrebbe definirsi infausto, il presente rivestito di altro, un percorso circostanziato in compagnia delle proprie umili origini, riconsiderando affetti lontani, relazioni perdute, decisioni definitive, come moglie, madre, scrittrice.
Non si tratta del bilancio di una vita ma di un nuovo inizio con la paura di perdere una parte di se’, amori, inclinazioni, aspirazioni.
Il cambiamento è necessario per sopravvivere, forse è un atteggiamento egoistico, uno stato di incertezza, ansia, insonnia in un tempo dilatato da una stasi protratta, il cuore di Lucy è diviso tra il passato, New York e l’ex marito David, e il presente, il Maine e la convivenza con William,
Riflessioni malinconiche si susseguono invischiata in una condizione che le appare come

…” una distesa di ghiaccio da attraversare ogni giorno”….

Da lontano New York assume un’ aria spettrale, continue immagini televisive di morte con la preoccupazione per la sorte delle proprie figlie, di un fratello lontano, eppure il ricordo non riesce ad allontanarla affettivamente dalla metropoli.
Ciascuno esprime la propria storia, un’ intrinseca diversità in un mondo da subito violento e incurante, ciascuno pretende di essere ascoltato, vorrebbe sentirsi importante, gradirebbe un abbraccio.
Lucy Barton attraversa il proprio flusso di coscienza, rivede e ricorda, pervasa da una tristezza ondivaga sovrapponibile alle maree, l’ incertezza della pandemia la confronta con il pensiero della vita e della morte.
Scruta l’ oceano e ne trae conforto, ricorda la propria infanzia, quella madre assente e crudele ma sempre e comunque sua madre, della quale inventarsi un’ immagine buona, guarda William considerandone il senso di solitudine, pensa alle due figlie lontane interrogandosi sul loro destino, si scioglie nella tenerezza di un abbraccio e nelle parole gentili di un amico, condivide una vicinanza solidale con una donna intrisa del proprio sentire.
Nel frattempo l’ isolamento si protrae, il virus si allarga, i morti riportano al proprio senso di appartenenza, i vaccini ridanno speranza.
Il viaggio stanziale di Lucy genera in lei una nuova consapevolezza, la solitudine dell’ infanzia, quel lockdown in cui ha vissuto e che mai l’ abbandonerà, accusata di egoismo dalla sorella Vicki, affranta dal suo stesso senso di solitudine, ripensando a perdite definitive, al distacco dalla casa della propria infanzia, tutti elementi che le fanno credere di avere reciso con il passato.
William pare lontano ma in fondo lo è sempre stato, il ricordo di David le scivola dalla mente inspiegabilmente, l’ amara verità le dice che non ci sono risposte definitive, solo ipotesi e sensazioni mutevoli nello scorrere di una vita che ignora il proprio futuro.
E allora si interroga proprio essere scrittrice e su quanto effettivamente i suoi libri abbiano aiutato la gente, comprende la diversità tra William e David, riconosce essere giusto che le proprie figlie navigano al largo, con il presentimento che la vita trascorsa e’ finita per sempre.
In una vicinanza condivisa Il dolore rimane un sentimento del tutto personale, uno stato di solitudine, chiedendosi quanto le nostre scelte ci appartengono realmente.
Un romanzo profondo, necessario, arguto, doloroso, reale, inserito in una prosa fluida, colloquiale, una donna ditata dell’ unicità tipica dei personaggi della Strout ( a questo proposito ricordiamo Olive Kitteridge peraltro presente nel testo).
La pandemia è un respiro asfissiante che genera una neo dimensione relazionale con un forte senso di disadattamento e di ansia sociale, ma anche personale.
È il racconto di una solitudine infantile incollata addosso, di un senso di inutilità e di scarso valore non scalfito dalla propria dimensione di notorietà, un viaggio stanziale tra domande, riflessioni, memoria, incertezza, vita vissuta, aggrappandosi al poco o al tanto rimasto.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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PaparattoC Opinione inserita da PaparattoC    22 Aprile, 2024
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Un nuovo significato....

I lettori più fedeli di Carofiglio conosceranno, ormai fin troppo bene, uno dei suoi più noti personaggi: l’avvocato Guido Guerrieri.
Per chi scrive, è invece la prima esperienza di lettura dell’autore, nonostante avesse già avuto modo di apprezzare la miniserie televisiva, ispirata a due delle vicende che coinvolgono il noto legale pugliese.
Si è scelto allora, l’ultimo dei suoi romanzi, come punto di partenza di questa serie di letture che senza meno proseguirà, a ritroso, verso le precedenti opere.
La vicenda raccontata è di per sé molto semplice: una donna, Elvira Castell, viene accusata di aver ucciso a colpi di pistola l’ex compagno e convivente della sorella. Si rivolge quindi all’avvocato Guerrieri per l’impostazione della difesa, dinnanzi alla Corte d’Assise. Si è trattato di omicidio premeditato o legittima difesa?
Il racconto visto con gli occhi dell’avvocato, si alterna così tra l’avanzare del processo e le sue vicende più intime e personali, che disegnano qualche tratto caratteristico del protagonista, ormai forse giunto al termine della carriera.
Soffermandosi esclusivamente alla trama, ad una prima approssimazione questa potrebbe apparire piuttosto banale, almeno è questa la sensazione trasmessa all’atto dell’acquisto: è certamente necessario scendere più nel profondo.
Insomma, aldilà della vicenda squisitamente legale narrata, che comunque offre una qualche nozione processuale ai non addetti ai lavori, occorre rilevare come l’usus scribendi dell’autore, così come il suo stile siano straordinari e siano contraddistinte da una certa piacevolezza. Guerrieri offre riflessioni molto profonde, in grado di coinvolgere il lettore e quasi farlo ritrovare nella sua stessa condizione. Le riflessioni che nascono nella mente del lettore e per le quali l’avvocato si interroga, sono le più varie, da quelle sentimentali o più in generale esistenziali raggiungendo un alto grado di intimità, tale da far affezionare chi legge al personaggio.
Non si tratta allora di tecnicismi giuridici buttati qua e là, nell’espletamento delle funzioni che comporta l’esercizio della professione forense, si tratta di vita, di vita vissuta, di un uomo ormai maturo che vive, forse talora sopravvive, mettendosi a nudo dinnanzi al lettore.
La vita torna sempre allora, anche tra le pagine di questo romanzo: essa è il “contenitore” di tutto, è ovviamente la base di ogni nostro aspetto. È un imperativo assoluto al quale nessuno deve sottrarsi, dice Carnelutti, lo psicoterapeuta che ha in analisi Guerrieri. La vera grande sconfitta sarebbe rinunciare alla vita, questa va invece vissuta, occorre trovare sempre un nuovo significato per continuare a viverla, per riprendere il nostro cammino. Un unico grande disegno che tutti siamo chiamati a realizzare.
L’autore tratta poi un tema già discusso, il rapporto legalità-giustizia, il filo sottile che separa la verità processuale da quella fattuale, laddove ciò che conta non è accertare la reale innocenza di taluno, quanto dimostrare l’esistenza del ragionevole dubbio, anche solo uno, circa la colpevolezza dell’imputato.
L’esito del processo, nonostante non fosse così inaspettato, metterà in crisi il protagonista, che comprende, anche per via del supporto di Carnelutti, come sia giunto il momento di cercare un senso nuovo. Perché forse, è questo che facciamo tutti in qualche momento della nostra esistenza: scrutiamo oltre, alla ricerca di un nuovo orizzonte.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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3.0
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    21 Aprile, 2024
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La bella e la bestia.


Di Joel Dicker avevo letto tempo fa "La verità sul caso Harry Quebert" del 2012 " , un romanzo del tutto singolare, difficilmente giudicabile. Uno stile nuovo, una trama complessa, piena di imprevisti, uno di quegli esempi di letteratura difficilmente giudicabili, pareri entusiastici o critiche senza appello. Ecco ora l'ultima fatica del nostro autore, una narrazione che lascia il segno, anche per il modo di impostare tutta la storia ed il susseguirsi dei capitoli. Tutto in funzione di una rapina in una famosa gioielleria ginevrina, il 2 luglio del 2022, annunciata all'inizio e portata a termine alla fine del libro: i capitoli costituiscono un lento countdown, con digressioni anche in tempi precedenti, e raccontano tutti gli eventi che precedono. Eventi che vedono implicate due famiglie di Ginevra: quella più modesta di Greg, agente di polizia, e Karine, commessa, con due figli, e quella invece, anch'essa con due figli, più agiata, di Arpad, impiegato di banca, e Sophie, una bionda affascinante, figlia di ricchi ristoratori, vera protagonista e punto intrigante di tutta la storia. Bisogna sapere anche che Greg è morbosamente attratto da Sophie, che spia di nascosto nei momenti più intimi, e che Arpad ha perso il lavoro, all'insaputa della moglie. Sophie, pur legata alla famiglia, ha un passato burrascoso: anni ed anni prima si è fatta irretire da un giovane rapinatore, Fauve, compiendo in coppia con lui due rapine Costui, brillante e pieno di fascino, ha un forte ascendente su Sophie, non esce completamente dalla sua vita: è l'animale selvaggio del titolo, che ama ancora, contraccambiato, la giovane, sedotta dai brividi dell'avventura e da esperienze nuove ed eccitanti. Arpad, sconvolto dalle rivelazioni della moglie, lascia la famiglia: la storia si complica ulteriormente, Greg è coinvolto come poliziotto, l'ultima rapina si concluderà tragicamente ma riuscirà a rimettere in sesto i cocci di una famiglia apparentemente distrutta.
La trama, come già detto, è molto complessa e mette a nudo i rapporti altalenanti tra le due famiglie. Non bastano le acrobazie di Arpad per nascondere alla moglie il licenziamento dal lavoro e le inconfessabili manovre di Greg per spiare Sophie: è l'irrompere di Fauve, l'animale selvaggio, che coinvolge Sophie in un susseguirsi di attività pericolose alle quali lei non può e non sa rinunciare, avida di una vita più libera e carica di emozioni nuove e forti. Le emozioni non mancano, i colpi di scena neppure, tutto sembra svolgersi in un'atmosfera surreale, dove tutto è vero ma nulla sembra realmente vero.
E qui ecco che tornano, forse più accentuate, le perplessità che avevo avuto leggendo anni fa "La verità sul caso Harry Quebert". Perplessità sullo stile narrativo, scarno, essenziale, diretto, privo di approfondimenti sui vari personaggi e di qualsivoglia introspezione psicologica. Fatti, fatti nudi e crudi, semplicemente raccontati come in una lunga e complicata favola.
Ecco, una bella e lunga favola. Ma, a differenza di quanto raccontato solitamente nelle favole, dove i buoni fanno i buoni ed i cattivi solamente i cattivi, qui le caratterizzazioni sono mescolate (ad arte?) : la "buona" Sophie, madre adorabile e sinceramente innamorata di suo marito, è anche un'audace rapinatrice e, attratta dal fascino del brivido, flirta con il selvaggio Fauve, mentre il marito, Arpad, apparentemente fedele e onesto, accetta di partecipare ad una rapina e rivela lati oscuri e violenti del suo carattere. L'animale selvaggio, Fauve, poi, pur conducendo una vita al di fuori da ogni regola, preda degli istinti più imprevedibili, riesce anche a rivelare momenti di tenerezza e di onestà, pagando un prezzo altissimo per questi "cedimenti".
Comunque, a parte qualche riserva sullo stile narrativo, il romanzo è godibile, coinvolgente, non ha momenti di stanca e non deluderà sicuramente chi ama azione e colpi di scena. Segnalo che i salti temporali, in previsione della rapina finale, sono continui e possono creare qualche difficoltà nel seguire il filo del racconto.
Buona lettura!

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I precedenti romanzi dell'autore.
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Classici
 
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    19 Aprile, 2024
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Un libro assai 'costruito'

Unamuno, filosofo e scrittore spagnolo, pubblicò "Nebbia" nel 1914.
Coevo di Freud, T. Mann, Proust e Bergson, quindi. E di Pirandello, benché i famosi drammi di quest'ultimo siano soprattutto databili dopo la Grande Guerra.
'Pirandelliano' prima di Pirandello, azzardo. E pure anticipatore dell'Esistenzialismo che si diffuse qualche decennio dopo.
Unamuno tuttavia ha radici profonde nella tradizione letteraria spagnola a cominciare da Cervantes, e non solo.

Qui il protagonista è un giovane ricco di famiglia che vive da solo col proprio cane, un domestico e la cuoca.
S'innamora, e pensa: "Quella donna (...) non mi ama" ; però "per lei ho saputo che vi sono altre donne e che qualcuna potrebbe amarmi ..." .

Emerge un gran bagaglio di speculazione filosofica in questo romanzo; anzi è un testo nel quale la narrazione è subalterna alla concezione filosofica dell'autore.
Un libro, pertanto, molto 'costruito', con una scrittura d'effetto, teatrale.
A mio avviso, una storia sospinta da troppa ideologia, direi anche strumentalizzata da essa, com'era accaduto per tanta narrativa del Settecento illuminista.
Non è questa la letteratura che mi piace.

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a chi non disdegna libri scritti con tesi precostituita
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Fantasy
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    19 Aprile, 2024
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MacGuffin a profusione

Volume conclusivo della serie ideale formata dalle storie companion de La Prima Legge, come suggerisce il titolo scelto per la pubblicazione in Italia "Tredici lame" è un'antologia composta da treducu racconti, la maggior parte pubblicati in precedenza su riviste dedicate al fantasy ed edizioni speciali mentre una manciata sono storie nuove, scritte proprio in occasione della pubblicazione di questa raccolta.

Le tredici narrazioni coprono un periodo di oltre venticinque anni nella Storia del Mondo Circolare, partendo così da ben prima della prima, iconica scena de "Il richiamo delle spade" ed arrivando ad un paio di anni dopo la conclusione delle avventure di Shy e Tempio in "Red Country". Le storie si concentrano soprattutto su una quantità di caratteri già ben conosciuti dai fan di questo universo fantastico, come Sand dan Glokta, Monzcarro "Monza" Murcatto e Curden lo Strozzato, ma cinque storie vanno a strutturare una narrazione ad episodi incentrata sui personaggi inediti di Shevedieh "Shev" ul Kanan mut Mayr, Carcolf e Javre, conosciuta come la Leonessa di Hoskopp.

La scelta di creare una storia vera e propria anche in questo contesto mi è piaciuta parecchio, e nonostante Shev e Javre difficilmente rientreranno tra i miei personaggi preferiti di Abercrombie, le ho trovate comunque interessanti e ben sfruttate all'interno di una narrazione più ampia. Per contro le storie dedicate a personaggi noti hanno più un effetto di riempitivo -per mostrare qualche piccolo retroscena o illustrare in modo più dettagliato degli episodi ai quali si era soltanto accennato nei romanzi principali-, con qualche significativa eccezione.

È il caso dei superbi "Nel posto sbagliato al momento sbagliato" e "Tempi duri dappertutto", nei quali si compongono delle microstorie ricche di (crudele) ironia con caratteri che risultano immediatamente carismatici. Ho apprezzato altrettanto "Ieri, nei pressi di un villaggio chiamato Barden...", per il modo in cui il lettore viene rimbalzato da un punto di vista all'altro: ricorda molto l'eccellente tecnica utilizzata dall'autore in "The Heroes" per descrivere una battaglia da molteplici prospettive. Tra i miei preferiti devo includere per forza anche "Libertà!", che troverete a dir poco esilarante se come me avete letto da poco tempo "Red Country".

La prosa sempre ironica ed esasperata di Abercrombie conferisce un tono tagliente alle storie, che per questo si dimostrano incisive a dispetto della loro brevità. Conoscendo già le ambientazioni e quasi tutti i personaggi, ho trovato inoltre divertente scoprire alcuni piccoli dettagli delle loro avventure principali. Ovviamente, se non si è letto nessun volume di questo universo narrativo, questi racconti risulteranno insulsi nel migliore del casi e del tutto incomprensibili nel peggiore; e questo nonostante alcune possano essere considerate a tutti gli effetti delle storie prequel.

Purtroppo i motivi per cui lo stile del caro Joe è tanto apprezzato, risultano essere anche i suoi maggiori punti deboli, perché a tanti non andranno giù le sue continue esagerazioni, sia nei dialoghi che nei gesti compiuti dai personaggi. Un dettaglio che mi ha lasciato perplessa invece è la decisione di inserire "Creare un mostro" come ultimo raccolto, mentre fino a quel momento si è seguito un chiaro ordine cronologico.

Il grande limite di quest'antologia, o meglio di questa specifica edizione, è rappresentato dalla sua traduzione. Non soltanto sono state cambiate espressioni storiche come Uomini del Nord qui adattato come Nordici, ma alcuni nomi sono stati tradotti in modo diverso oppure non tradotti affatto, e questo crea non poca confusione. A coronare questo disastro abbiamo la presenza di molti refusi, che in più punti riguardano un singola pagina; penso occorra un particolare talento per sbagliare in maniera tanto evidente.

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Romanzi
 
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Viola03 Opinione inserita da Viola03    18 Aprile, 2024
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UNA LUNGA DELUSIONE

Avevo voglia di un romanzo pieno, corposo, coinvolgente e mi sono fatta attirare dai tanti elogi a “Una vita come tante”, che parlavano di una storia struggente, commovente e così via.
Neanche a dirlo, le mie aspettative sono state deluse.

Visto che le cose da dire sono tante, andrò per blocchi:

STILE: ho letto commenti entusiasti sullo stile dell’autrice e mi trovo fortemente in disaccordo. La scrittura non ha nulla di riconoscibile o di particolarmente interessante. Le descrizioni più accurate sembrano essere solo quelle incentrate sul dolore, a discapito degli altri momenti in cui sembra quasi che l’autrice inserisca tante più informazioni possibili in una sola frase, con il risultato che, anziché creare un’atmosfera in cui il lettore si possa immergere, si ha la sensazione che quelle parole servano solo a fare finta di darci una dimensione reale. I salti temporali (non tanto tra passato e presente, ma in avanti), che potrebbero anche avere un senso, vanno ad inserirsi sempre dopo un fatto specifico di grande portata, con la sensazione che ci vengano risparmiati, non tanto i momenti noiosi, quanto piuttosto i conflitti che ne susseguono con la conseguente vacuità di tutte le situazioni. I dialoghi sono fatui e surreali, infarciti di termini che, data l’incapacità dei personaggi di confrontarsi con le situazioni, suonano forzati e didascalici.

PERSONAGGI: i personaggi sono, a mio avviso uno degli aspetti peggiori del romanzo. Il primo elemento fastidioso è che il libro ci viene presentato parlandoci di quattro amici, ma il quartetto ha una rilevanza soltanto nelle primissime parti, per divenire poi più una sorta di espediente per risolvere determinate situazioni che non una reale intenzione di portare avanti quattro storie parallele. Nel corso del romanzo non assistiamo ad una vera evoluzione dei protagonisti, vediamo soltanto la loro ascesa sociale che non si accompagna ad una reale crescita personale, ad un aumento di consapevolezza. Ci vengono presentate figure sempre pronte ad aiutare Jude, nonostante non capiscano realmente cosa gli accada, non vadano mai a fondo dei problemi. La sensazione che mi è rimasta è quella di figure di carta, creature fittizie che simulano sentimenti come se non li conoscessero realmente, ma, sapendone l’esistenza, li imitino. L’essere adulti viene descritto soltanto attraverso i traguardi lavorativi, che, ovviamente, sono assolutamente enormi per tutti, come se fossero nel racconto di un bambino cui venga chiesto cosa fanno i grandi e risponda “Lavorano”. I rapporti non comunicano concretezza, gli screzi sono poco credibili e, sebbene la presenza di una costante propaganda sul buon cuore di chiunque sia accanto a Jude, nessuno sembra davvero mai prendere in mano la situazione, se non dopo lunghi anni ed episodi molto gravi. Jude, che diventa il fulcro della storia, avrebbe molto potenziale, poiché potrebbe essere il veicolo della comprensione del dolore di chi ha subito episodi gravissimi come accaduto a lui, ma anche qui mi è rimasto un sapore strano in bocca, come se le emozioni da lui vissute non vengano raccontate con una conoscenza reale di fondo (non tanto personale, quanto del tema), ma come l’imitazione di quello che “forse si proverebbe in quei casi”. L’unico momento in cui ho sentito che qualche emozione fosse verosimile è verso la fine, dopo uno specifico episodio che non andrò a spoilerare. Beh, dopo 900 pagine, un’emozione è arrivata.

IL DOLORE: segnalo qualche piccolo SPOILER in questa sezione. Ho letto molto riguardo alla sovrabbondanza di dolore, c’è chi ritiene sia esagerata, chi sostiene che sia necessaria per rendere empatici verso chi soffre (forse parole della stessa autrice?). Qui la mia opinione è puramente di natura personale. Il dolore ha molteplici forme e talvolta, depressione, odio verso di sé, vergogna e tutte le altre terribili espressioni, compaiono anche se non si è passati attraverso le tragedie di Jude. Come già scritto, la sensazione è che manchi qualcosa, la conoscenza reale di cosa significhi il dolore, quello che stringe lo stomaco, che ti fa guardare lo specchio e provare schifo per te stesso, che spinge così forte nel petto che l’unico modo è sentirlo sulla pelle per provare un po’ di sollievo. Ci viene descritto tutto nel minimo dettaglio, ma no, non sono mai riuscita a sentirmi partecipe. Il dolore più realistico è verso la fine del romanzo, il dolore di una perdita, lì sembra che l’autrice fosse più padrona delle emozioni ed è l’unico punto dove le lacrime sono scese. Riporto un ultimo parere. Se l’intento fosse stato quello di raccontarci il vissuto di una persona vittima di abusi, la trama ha un senso, questa full immersion nel trauma ha un senso, ma se l’obiettivo fosse stato invece quello di creare empatia verso il dolore altrui mi sento di dire che sia stato fatto in modo più adulatorio, per attrarre le lacrime facili. Chi può restare indifferente nei confronti di tanti patimenti?
Credo che la vera bravura stia nel farci empatizzare verso il dolore comune, quello che dilaga per episodi considerabili senza rilevanza, il dolore quotidiano di stare al mondo.
Conoscendo cosa significhi stare accanto a chi soffre di un disturbo grave, posso dire che manchi ancora una cosa: il senso di impotenza. Vedere chi ami stare male è qualcosa che devasta, non poter trovare una soluzione è corrosivo. I personaggi qui ogni tanto si dicono “ok, questo aspetto fa parte di lui”, ma a me non è mai arrivato il pungo allo stomaco di sapere che non potrai mai fare nulla, che l’altro proseguirà nella sua discesa verso gli inferi e tu sarai lì, sempre con la tua mano stesa per dargli aiuto e la vedrai sempre vuota.

VARIE: Ho letto anche io che l’etichetta data a questo romanzo è quella di “romanzo gay”, anche se onestamente non trovo che sia un elemento di alcuna rilevanza ai fini della trama o della ricchezza della storia. Questo romanzo tratta l’argomento dell’identità sessuale, ma senza mai veramente andare a fondo; come anche qualche discorso iniziale tra JB e Malcolm incentrato sull’essere neri, sparito poi tra le pagine. Questi elementi sembrano inseriti più per allinearsi con le tendenze del momento che non per una capacità di svolgerli a pieno, di costruire delle opinioni, di portare avanti un credo personale o di denunciare qualcosa. I personaggi sono inseriti in un ambiente che diventa asettico, dove non esiste neanche la complessità di avere un lavoro “normale”, le case sono belle, il successo è garantito, il tutto non fa che accrescere la sensazione di irrealtà, ma mai quando ci racconta di Jude, che sarebbe invece il momento in cui dovremmo sentirci più alienati, dovremmo poter entrare in contatto con quel dolore senza eguali, toccare con mano l’assoluta mancanza di punti fermi.
Ho anche letto di alcune persone che lamentavano la poca presenza di figure femminili, che restano ai margini della storia. Rispetto a questo mi sento di dire che non trovo necessario che ci siano donne per immedesimarmi in una storia e forse qui l’intento era quello di farci immergere nell’amicizia maschile, mostrandoci pregi e difetti, anche se quello a cui assistiamo sono spunti di assoluta bontà e disponibilità verso Jude, che suonano come la didascalia “GUARDA, QUESTI GESTI DI BONTA’ SONO PER DIRE CHE L’AMICIZIA E LA GENTILEZZA SONO IMPORTANTI”.

CONCLUSIONI (FINALMENTE!!!): il libro è didascalico nei messaggi di bontà, di gentilezza, ma resta vacuo. Tratta il dolore, gli abusi, ma mancando, secondo me, di basi solide di conoscenza di chi ha subito traumi tanto gravi. Ci accompagna in un percorso che non vede una crescita dei personaggi, ma una staticità che rende noiosa la lettura.
Sicuramente questa è soltanto un’opinione, un libro va letto perché ognuno di noi è diverso e può trovare spunti che magari a me sono mancati.
Lato positivo, 1000 e passa pagine e il peso specifico di un metallo alieno, saranno sicuramente utili a qualcosa.

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Romanzi storici
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    16 Aprile, 2024
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Rilettura del mito

"Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero. Mi chiamarono ninfa, presumendo che sarei stata come mia madre, le zie e le migliaia di cugine. Ultime fra le dee minori, i nostri poteri erano così modesti da garantirci a malapena l’immortalità. Parlavamo ai pesci e coltivavamo fiori, distillavamo la pioggia dalle nubi e il sale dalle onde. Quella parola, ninfa, misurava l’estensione e l’ampiezza del nostro futuro. Nella nostra lingua significa non solo dea, ma sposa." Avvalendosi di uno stile di scrittura semplice ma al tempo stesso elegante e dimostrando grande conoscenza del mito greco, Madeline Miller propone al lettore un approccio alla mitologia leggero e coinvolgente, ma non certo per questo superficiale. Anzi, l'autrice si addentra nella personalità complessa e misteriosa della temuta maga Circe, scavando fino a tirare fuori una figura della protagonista ben diversa da quella conosciuta e vista per lo più in maniera negativa, la strega subdola che seduce il grande eroe e ne trasforma i compagni in maiali. Qui si entra nella natura della ninfa immortale seguendone la crescita, lo sviluppo, la maturazione, fin dalla più tenera età, quando conosce ben presto le umiliazioni, le angherie, l'emarginazione. Circe è una dea, ma il suo aspetto è ben diverso da quello dei suoi simili, manca di quello sfolgorio tipico delle divinità, la sua voce appare ridicola rispetto a quella degli altri titani, i suoi modi pacati contrastano con l'irruenza, la tracotanza, la malizia di chi la circonda. Circe vive la sua natura divina come un pesce fuor d'acqua e Madeline Miller mette a nudo tutti i suoi tormenti, facendo sì che per il lettore sia facile entrare in empatia con un animo più simile a quello dei mortali che a quello degli dei. I maldestri tentativi della protagonista di uscire dal vicolo cieco in cui si è infilata la sua esistenza non faranno altro che metterla in guai ancora peggiori, fino a costringerla ad un esilio punitivo su Eea, un'isola sperduta e disabitata. Tuttavia sarà proprio da qui che nascerà il suo riscatto. Circe saprà trasformare la punizione in opportunità, creandosi un'esistenza atipica per gli esseri della sua natura, fatta di lavoro, solitudine, applicazione, riuscendo a perfezionare le sue arti magiche fino a raggiungere poteri insperati. Il suo isolamento, poi, non sarà totale, a partire dalla tresca che nascerà con Ermes, messaggero degli dei, proseguendo con le diverse visite che riceverà sulla sua isola, che riuscirà anche a lasciare per brevi periodi, vivendo rocambolesche avventure e incrociando la sua vita con quella di altri personaggi mitologici quali il Minotauro, Dedalo, Arianna, Medea, fino all'incontro che cambierà per sempre la sua vita: quello con Odisseo. "Odisseo, figlio di Laerte, il grande viaggiatore, principe dell’inganno e dell’astuzia e dei mille espedienti. Mi aveva mostrato le sue cicatrici, e in cambio mi aveva permesso di fingere che io non ne avessi alcuna. Salì a bordo della sua nave, e quando si voltò a guardarmi, io non c’ero più." L'eroe omerico sbarca ad Eea sfinito dalle mille peripezie vissute, ma sempre scaltro e manipolatore. Tuttavia si troverà davanti una dea ormai matura, disingannata e altrettanto intelligente. La passione sarà inevitabile e si porterà dietro strascichi inaspettati che, complice la grande Atena, finiranno per rimescolare le carte e condurre il lettore ad un epilogo sorprendente. Una rilettura del mito all'insegna dell'introspezione, che dà risalto ad una figura femminile finora relegata ad un ruolo marginale, in un racconto coinvolgente e ben strutturato, ricco di pathos, abbellito da fini descrizioni e piacevolmente scorrevole, capace di discostarsi dalla tradizione senza eccedere in smodate licenze poetiche. "Lassù le costellazioni ruotano e tramontano. La mia natura divina sfolgora in me come gli ultimi raggi di sole prima di tuffarsi nel mare. Un tempo pensavo che gli dèi fossero opposti alla morte, ma adesso vedo che sono più morti che altro, poiché sono immutabili, e non possono trattenere nulla nelle mani. Per tutta la vita mi sono spinta avanti, e adesso eccomi qui. Di un mortale ho la voce, che io abbia tutto il resto. Sollevo alle labbra la ciotola piena fino all’orlo e bevo."

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    16 Aprile, 2024
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Un "tranquillo" motel di periferia

Da questo romanzo è stato tratto uno dei più grandi e famosi capolavori della storia del cinema.
Film cult, che ho sempre rivisto con estremo interesse, con la scena della doccia, che è una della più famose mai girate.
Il Maestro Alfred Hitchcock prese idea del suo film più famoso, da questo libro di Bloch (autore tra l'altro anche di "Jack lo squartatore", anche quello libro di successo da cui sono state tratte innumerevoli opere cinematografiche e teatrali".
La vicenda si svolge quasi tutta intorno a un tetro e dimenticato motel di periferia, taglio fuori con il suo folle proprietario, dal mondo, a causa della costruzione di una superstrada.
Solitudine, impotenza, sdoppiamento di personalità, amori impossibili, miseria umana e sociale, emarginazioni sociali, paura, odio.....sono tanti i sogni che si infrangono in quelle sinistre stanze.
Il libro di certo lo si gusta di più se non si è visto il film. Ma comunque approfondisce maggiormente la vicenda rispetto alla pellicola, introducendo elementi nuovi per comprendere la contorta psiche dell'assassino.
C'è però a mio avviso una grandissima discrepanza tra la versione su carta e quella su celluloide!
La scena, che dicevo prima, della doccia.....mi ha colpito molto, come lo scrittore e il regista abbiano dato una importanza sensibilmente diversa a questo passaggio fondamentale della storia.
Per non spoilerare preferisco non dire nulla di più, ma ritengo che il grande Alfred Hitchcock
abbia colto nel segno e approfondito maggiormente il delirio che ammanta l'opera.

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Shining
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Romanzi autobiografici
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    16 Aprile, 2024
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Dipendenze

Tove ci racconta Tove, la sua necessità di scrivere. Gli unici momenti in cui si sente serena sono quelli passati alla macchina da scrivere. La sua felicità non è legata al successo di critica o di pubblico, che comunque ottiene, ma al magico allontanamento dal mondo per entrare in un territorio di pura bellezza. Da come ne parla, la sua scrittura è veloce, sicura e senza ripensamenti. Anche il rapporto con l'editore e l'ambiente letterario non sembrano darle troppi problemi o troppe delusioni e non sembrano avere nemmeno troppa importanza se non per il fatto di costituire una fonte sicura di reddito. Invece nella vita affettiva Tove non ha la stessa facilità e felicità di scelta. Non sembra nemmeno guardarsi intorno. Ogni volta si lega al primo che le capita con una rapidità spensierata e sorprendente, che tradisce un bisogno assoluto e impellente di sicurezza affettiva. Fin da ragazza Tove ha un forte desiderio di una relazione stabile di amore vero (non riesce a guardare le coppie di fidanzati o le coppie con bambini). Eppure passa da una relazione priva di ogni comunicazione con un uomo troppo anziano e egoista a una relazione con un narcisista ancora più egoista. Infine si lega a Ebbe, uomo debole e incapace di esserle di aiuto in nessun modo, che la spinge a un aborto clandestino. Credo che questa esperienza porti poi al passo successivo, cioè alla necessità di qualcosa che la renda felice in modo più stabile e sicuro, e cioè alla dipendenza da sostanze chimiche. Allo stesso tempo Tove sembra volersi autopunire privandosi di Ebbe che in qualche modo ama, tuffandosi in una relazione peggiore di tutte le precedenti. In mezzo a tante fragilità, debolezze, in mezzo a tanto disastro spicca la figura forte e confortante della prima figlia Elle, in grado di osservare le cose con saggezza e di prendersi cura della famiglia e dei fratelli più piccoli, che suggerisce quale relazione sia buona e quale da tagliare con uno spirito di osservazione sorprendente in una bambina così piccola. Tove ci descrive anche il suo cammino per uscire da queste dipendenze. Ce la fa, perchè rispetto ad altri ha più ragioni di vita: figli, un nuovo amore e la scrittura, incompatibili tutte con la dipendenza da farmaci.

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Romanzi
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    15 Aprile, 2024
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Ogni riferimento focoso è puramente voluto

Quando alcuni mesi fa stilai un elenco di libri molto popolari su Goodreads che avrei voluto recuperare per capire se meritassero effettivamente tanto successo, non pensavo di imbattermi in titoli davvero degni di nota, perché sappiamo bene tutti quanto la fama su questo social non vada proprio a braccetto con la qualità letteraria. Di conseguenza, le mie aspettative al momento di iniziare "Eleanor Oliphant sta benissimo" erano parecchio tiepide e la cover -significativa, ma per nulla accattivante- non contribuiva di certo a riscaldarle. Per fortuna è arrivata la prosa di Honeyman ad accendermi di entusiasmo verso una lettura molto più appassionante di quanto la sinossi lasci intendere.

La narrazione si ambienta all'interno dei confini della città di Glasgow, nella Scozia dei giorni nostri, anche se risulta difficile crederlo dal momento che quando la sua storia comincia la protagonista, l'impiegata trentenne Eleanor Oliphant, è sprovvista di computer e smartphone. La donna conduce una vita quasi monastica ed oltremodo rigorosa in ogni suo aspetto: dal cibo, al vestiario, agli impegni, tutto segue una tabella di marcia prestabilita all'insegna della moderazione. Una routine nata da un passato traumatico, svelato pian piano all'interno del volume, che una serie di nuovi incontri riescono a stravolgere; primo tra tutti quello con il musicista Johnnie Lomond, del quale Eleanor si invaghisce all'instante, tanto da convincersi di essere la sua anima gemella.

Questo mio sunto fornisce purtroppo un quadro incompleto di ciò che il romanzo effettivamente è, ma ogni informazione in più finirebbe per rovinare l'esperienza di lettura; questo perché l'intreccio è composto da pochi avvenimenti cruciali, mentre la maggior parte del testo è riservata al percorso di crescita intrapreso (prima in modo casuale, poi con assoluta consapevolezza) dalla protagonista. Non che si tratti di un vero e proprio difetto, come pure gli altri: sono soprattutto elementi da quali mi aspettavo qualcosa in più. È il caso dei comprimari non troppo sviluppati caratterialmente o del ruolo ricoperto dal personaggio di Samuel "Sammy" Thom, che mi ero convinta sarebbe stato più presente nella storia.

Personalmente, ritengo il romanzo riuscitissimo in ogni altro aspetto, a cominciare dalla caratterizzazione di Eleanor e dal modo in cui il suo POV dona un tono molto particolare alla narrazione, riuscendo a costruire sia scambi divertenti che confronti emozionanti. In questo senso aiuta il lavoro di foreshadowing svolto dall'autrice nel corso dell'intero volume: quando si arriva alla rivelazioni finali, si ha così un senso di completezza per i misteri chiariti anziché provare uno spaesamento per dei colpi di scena campati per aria, come capita con altri titoli.

A rendere ancor più valida la scrittura di Eleanor sono le relazioni che instaura nel corso del libro: tutte solide e credibili, crescono pian piano senza stravolgere il modo di vedere il mondo della protagonista da una pagina all'altra. Ovviamente la mia preferenza soggettiva va al rapporto amicale (e forse anche romantico) con Raymond Gibbons, che Honeyman è stata davvero brava a non sminuire in nessun modo mettendo l'una o l'altro in condizione d'inferiorità.

Personalmente devo dire di aver molto apprezzato anche l'umorismo -che spesso vira verso un adorabile tono dissacrante- ed il modo per nulla pedante o paternalistico con cui viene rappresentata la particolare condizione di Eleanor. Inoltre, in tempi di potenziale reading slump, abbiamo anche un ulteriore bonus dato dal ritmo incalzante; forse a qualcuno sembrerà anche troppo rapida come narrazione, ma io l'ho trovata piacevolmente scorrevole.

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Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
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4.0
Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    13 Aprile, 2024
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Tutto si crea

Questo di Marco Vichi non è la più recente uscita editoriale dello scrittore fiorentino, è però l’ultimo in ordine di tempo che annovera a protagonista il suo personaggio seriale più noto, il commissario di polizia Franco Bordelli. Gli anni giovanili e della piena maturità vedono Bordelli impegnato in prima persona negli eventi bellici del secondo tragico conflitto mondiale, sia in divisa da graduato militante nel glorioso Battaglione San Marco, sia successivamente nelle file della lotta partigiana.
Nel secondo dopoguerra, presterà servizio come funzionario della squadra omicidi della questura di Firenze, nel disbrigo con esito sempre felice delle indagini su omicidi e affini.
Sul finire degli anni Sessanta, sarà congedato ancora assai giovane per i canoni odierni, avendo però raggiunto i limiti d’età di messa a riposo richiesti all’epoca, e per fortuna sua, aggiungeremmo noi, visto che oggi l’età minima per lasciare il servizio professionale attivo in ogni campo si allunga sempre più verso l’alto. In questo romanzo, siamo nel 1970, un ancor giovane Bordelli è fresco pensionato, ma per niente un vecchietto decrepito, tutt’altro. Che persona è Franco Bordelli?
Un testimone del suo tempo, un uomo che osserva, ascolta, raccoglie, poi filtra quando riceve secondo regole elementari di buon senso, di giustezza, di coscienza civica.
Bordelli è persona comune di normale intelligenza, non un eroe o un tipo eccezionale, meno che mai un investigatore acuto, somiglia invece molto di più ad un segugio ostinato dal fiuto allenato. Esattamente come il suo pet personale, Blisk, un orso maremmano, vale a dire un cane dalle fattezze di un plantigrado delle banchise polari, dotato certamente di un buon fiuto, ma dal cuore ancora più buono. Quello che caratterizza il poliziotto è il suo io interiore, con il quale interagisce di continuo, sempre Bordelli pare pensare ad alta voce rivolto a sé stesso ma in realtà si indirizza a chi lo legge per raccontargli ciò che ha visto, che ha vissuto, con chi o cosa ha interagito nel bene e nel male, descrive con prosa semplice, mai complicata, dialogata, i tipi di varia umanità con cui ha a che fare.
Non solo, ma fa parlare anche con loro i lettori, perciò i romanzi di Marco Vichi non raccontano solo quello che accade a Bordelli, ma anche le storie degli altri personaggi, ciascuno estrinseca il suo vissuto. Non a caso, il clou dei romanzi di Vichi con Bordelli attore principale, vede sempre in primo piano l’ allegra convivialità favorita dalla gustosa gastronomia toscana. Bordelli ed i suoi amici più cari, pochi all’inizio fino ad aggiungerne man mano altri ed arrivare ad una decina di avventori, si riuniscono periodicamente nel casale del commissario, ed il solo lasciapassare per sedere al tavolo e gustare le leccornie approntate da alcuni dei commensali, è che ognuno racconti una storia, vera o inventata che sia. Ne consegue una forma di moltiplicazione dei pani e dei pesci, di storie e di novelle, Marco Vichi non sforna romanzi con Bordelli, scrive invece i racconti del commissario, i suoi libri sono decameroni, infarciti di storie nella storia, di racconti nel racconto, di aggiunte, divagazioni, nuovi aneddoti, aggiornamenti vari.
Vichi, e Franco Bordelli per suo tramite, narrano all’unisono ed a più voci delitti e memorie, fatti e fattacci, prosa, amori, poesie, in particolare il funzionario di polizia si fa forte di tutto quanto ha ricavato assistendo la vita nel momento che accade, oppure, come in questo caso, nel momento che accadeva, giacché “Nulla si distrugge” allude ad un cold case, la scoperta casuale di uno scheletro rivelatore di un delitto occorso tempo addietro.
Nulla si distrugge, è vero, e nulla si crea, i motivi che inducono al delitto ed al malaffare sono sempre gli stessi; tuttavia, non se ne può fare una valutazione standard, Bordelli ha ricavato dalla sua e dall’altrui esistenza lezioni di vita semplice, a misura di persona, facendone tesoro.
Da sbirro aveva sempre tenuto conto di quanto la giustizia potesse diventare ingiusta, se applicata con i paraocchi. Non a caso ha un rapporto di stretta amicizia, direi di fratellanza ed intimità, con un ex ladro alla Robin Hood, non ritenendo sbagliato voler vivere dignitosamente invece di arrabattarsi nella miseria. E se per riuscirci si sottrae ai ricchi quel che per loro sono solo spiccioli, non suona poi così immorale. Perciò nell’esercizio delle sue funzioni è uomo rigoroso, ma non intransigente, è determinato ma non ossessivo, comprende che la tolleranza, la giusta misura applicata al singolo caso è la sola che ristabilisce un minimo di equità civica. In sintesi, Franco Bordelli è personaggio che si spende in prima persona seguendo comunque, in vari tempi e modi, una propria etica di legge e di giustizia, di rettitudine e lealtà. Rischia e si mette in gioco, con coraggio ed umiltà, sa di non essere un santo o un giustiziere, ma una persona imperfetta che ragiona talora più con il cuore che con il cervello. Lo confessa lui stesso, ha sempre detestato i soprusi, fin da bambino, ha lasciato andare più di un assassino. Mai come in “Tutto si distrugge” devia dalla correttezza ottusa, non manda a marcire in galera chi ha commesso omicidi del tutto giustificabili, chi ha tolto di mezzo esseri spregevoli e difficili da incriminare, arrestare e condannare. Si schiera dalla parte di chi subisce, non di chi umilia, oltraggia, maltratta, infanga. Da persona che adora i libri, sa benissimo che l’ignoranza e la miseria sono le più efficienti fabbriche di mostri. Il tutto, entro certi limiti: è inflessibile, infatti, è Nemesi per chi delinque con disumana crudeltà, con gli adulti senza un apparato morale, incapaci di sopportare la sconfitta, di accettare la volontà e i desideri degli altri, e contro coloro che si arrogano privilegi e misfatti travolgendo tutti i derelitti con arroganza e prepotenza, quasi fossero carri armati guidati da bambini. A modo suo Bordelli è poco più che un piccolo borghese, non un eroe benché coinvolto per indole e rigore morale in condotte di rischio e di coraggio, ma un uomo comune che svolge al meglio i suoi compiti secondo come gli detta la propria coscienza di persona buona, di cuore seppur rigida e determinata, con principi etici ben precisi. Il territorio dell’etica si impara a conoscerlo crescendo, è una conquista della coscienza, e a seconda di come si è nati si prende una strada o un’altra: talora è una scelta forzata, talaltra è deliberata, Bordelli perseguita chi volutamente sceglie il male, pur potendo evitarlo tranquillamente, solo loro, e non altri.
Marco Vichi è un ottimo scrittore, piace ai lettori non perché le sue siano storie, o multi-storie, di alta levatura letteraria, Vichi certamente scrive bene e chiaro, non si dilunga ma mette in luce, non mistifica ma porge con cura, tuttavia la sua fortuna è altro, è che soprattutto Vichi racconta.
La letteratura è una lunga catena, e il primo anello si perde nella notte dei tempi, quando, a fine giornata, intorno al fuoco ci si raccontava le giornate, e quindi la vita.
Vichi eccelle perché affabula, novella, è un cantastorie, un menestrello di corte letteraria, un aedo, incanta con il suo dire, nulla distrugge ma tutto reinventa, mette a fuoco i punti nodali del suo personaggio e la sua indole di persona perbene, onesta, di buona educazione, a suo agio con ex prostitute di postribolo, commesse innamorate, questori, agenti semplici, piantoni intenti a disbrigarsi nelle parole crociate, filosofi e medici legali, ex ladri ed agenti dei servizi segreti. Con Marco Vichi si discute di letteratura con chi la sforna, come parlare di farina con un fornaio, si leggono libri e si incontrano dal vivo gli autori preferiti, come, non so, Alba De Cespedes, per esempio, alternando tempi e luoghi, fatti e memorie, intrecciando i mille fili del raccontato a costituire non un gomitolo aggrovigliato, ma un tessuto dalla trama calda, avvolgente.
Bordelli come Vichi è schietto e sincero come sanno essere i fiorentini purosangue, quelli del popolo, i“ maledetti toscani” in senso buono, quelli cioè che sventurati non sono, bensì gioiosi, arguti, positivi.
Che non si distruggono.





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Marco Vichi
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68 Opinione inserita da 68    13 Aprile, 2024
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Sospensione relazionale

…” Sarebbe bello se una volta morti si potesse uscire da se’ stessi per sedersi nel cinema deserto in cui è stata proiettata la propria vita. Sarebbe bello potere piegare il tempo in due, come se fosse un pezzo di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato”..

Lo scorrere di una vita può assumere colorazioni difformi, insidie, imprevisti, legami costruiti faticosamente, la felicità condivisa di un amore, la fine di un amore, un lutto improvviso, l’ inizio di altro, il dolore della perdita, rifiuto, rabbia, un processo di auto annientamento in una solitudine protratta, la nostalgia del ricordo, un’ abulia del presente in giorni ricoperti di niente.
Fotogrammi del passato in una quotidianità fatta di gesti e di parole condivise, la progressiva elaborazione della perdita, una progettualità ridefinente in un tempo scandito dalle sfumature della dimenticanza e ora indirizzato al nuovo, matrimonio, famiglia, figli, il ritorno alla vita, all’ amore, del passato solo pochi dettagli sfumati.

…” Non è più la mancanza tagliente dell’ inizio e non è neanche il dolore della perdita. È qualcosa di più diffuso, è una vaga malinconia”..

Che cosa ci appartiene e ci è appartenuto, ci ha uniti, resta di noi, giorni riempiti di un’ armoniosa presenza, cosa sarebbe se tutto improvvisamente finisse e ci trovassimo, post mortem, a osservare e a indagare la vita senza la nostra presenza, spettatori del proprio ricordo?
È questo il destino infelice che investe i due giovani protagonisti, una coppia alla vigilia delle nozze, lui vittima di un incidente stradale mortale, lei improvvisamente sola, incredula, anestetizzata nel dolore, impossibile porvi rimedio. È un lutto vivido, viscerale, lacerante, un punto esclamativo che richiama il passato condiviso caratterizzando il presente, un’ assenza ingiustificata, nessuna idea di futuro.
Non resta che constatare la propria mancanza dialogando con il ricordo, con se stessi e con l’altro in una vita che ormai non ci appartiene se non nei sentimenti più veri, convivere con un ego ferito, che nega la propria insostituibilità riversando una gelosia ingiustificata.
E se, un giorno, si potesse ritornare azzerando il passato, ripartendo da dove si aveva lasciato, tutto sarebbe come era o in qualche modo diverso e che cosa rimarrebbe di noi, del nostro essere, del passato, nel presente, quale futuro?
Che il proprio destino infausto abbia determinato la svolta, sostando nel proprio io più profondo, ridiscutendo se stessi e il proprio sistema relazionale, oppure l’ osservazione, l’ ascolto, l’ elaborazione indotta rivelano una constatazione evidente, che nessuno è così insostituibile da indirizzare una giovane vita per sempre?
Un ego ferito, affranto, destabilizzato, un’ interiorità frammentata, l’ idea che nulla sarà più come prima, una neo dimensione cosciente sospesa tra vita e morte in una elaborazione filosofico- esistenziale per nulla soddisfacente, il sentimento sostituibile di un amore che forse non aveva niente di speciale.
Chi siamo realmente, che ne sarà di noi, come ci relazioniamo con l’ altro che rischiamo di perdere, abbiamo già perso, assentandoci in una solitudine sentimentale sospesa tra sogno, illusione, certezza, mentre non resta che un silenzio parlante nella certezza di una fine.
Un romanzo lieve nel proprio mostrarsi, greve nei temi proposti, lineare nella trama definente. Se la prima parte elabora il lutto e il ritorno alla vita con una certa timbrica vivacità espositiva, nella seconda si prospetta una forma inversa, giorni inquieti e funesti macchiati da un senso insensato e da un’ idea della morte impregnata di un egoismo fagocitante sfociato in un eccesso teorico e in un caos poco definente ma definitivo.


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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    12 Aprile, 2024
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Non si dimentica né si perdona

"Dodici mesi fa sono tornato in Cile, dopo quattordici anni di esilio. Ho voluto vivere gli ultimi giorni ufficiali di una dittatura troppo crudele per essere cancellata da una semplice cerimonia civica, nonché gli inizi del ritorno a una democrazia frutto più della disperazione che dello slancio con cui, appena ieri, è stato abbattuto il tiranno. Una democrazia che nasce stanca e per gentile concessione, sotto sorveglianza e vincolata da un patto mostruoso: costruire l’eufemismo che salvi la faccia a uno Stato di delinquenti, che ammetta pubblicamente l’esistenza dei crimini commessi ma non riveli i nomi dei criminali." È il marzo del 1991 quando Luis Sepùlveda ritorna in Germania dopo aver finalmente riabbracciato la sua patria, il Cile, per scrivere questo memoriale fatto di frammenti di storie in bilico tra passato, presente e futuro. Parte tutto da una foto, scattata otto anni prima ad un gruppo di ragazzini di "La Victoria", uno dei quartieri più poveri di Santiago. L'autore vede il ritratto a casa della persona che lo ha scattato, Anna Petersen, e capisce subito che non sarebbe più riuscito a dimenticare quei volti, la loro dolcezza, la profonda purezza che non faceva pensare che fossero lì, in uno dei luoghi maggiormente tormentati dalla repressione della dittatura e dalla miseria. La domanda terribile, spietata, disillusa, nasce subito nell'animo di Sepùlveda: quanto tempo ci avrebbero messo quei dolci ragazzini a perderla? Finito il suo esilio, parte allora con l'amica Anna per cercarli, scoprire cosa è stato di loro e scattare una nuova foto. Scopriranno che negli anni trascorsi quei bambini, così puri e dolci nella fotografia, hanno innalzato barricate, incendiato pneumatici, lanciato molotov, sfidato le pallottole, respinto lacrimogeni. Tutto questo senza sentire paura, perché la paura la sente solo chi non vuole morire, mentre loro non hanno più voglia di vivere. Provano più paura per i sogni, perché i sogni sono solo bugie e per questo fanno rabbia, i pochi che riescono a fare sono utopie, come fuggire in Australia o diventare famosi come Maradona, correndo dietro un pallone con una maglietta straniera addosso. Dopo il racconto arriva il momento della foto, ma sarà una foto incompleta, un ritratto di gruppo con assenza come dice il titolo, perché non tutti saranno sopravvissuti alla triste realtà intorno. È questo l'episodio iniziale da cui scaturiscono gli altri spezzoni che compongono questo mosaico di storie, un collage in cui si mischiano ricordi piacevoli e altri drammatici, in cui si passa dall'entusiasmo della rinascita alla consapevolezza di non essere pienamente liberi di costruirsi il futuro sognato, dove si alternano la felicità per una libertà finalmente ritrovata e la rabbia e il disgusto per come, invece di ripulire a fondo la società cilena, si faccia finta che il passato non sia esistito, nascondendo la polvere sotto il tappeto. Racconti che parlano di abbracci e cicatrici, di fame e di grandi grigliate, di orgoglio e di vergogna, senza però mai cadere nella tristezza, sempre con grande ironia e buttando un occhio anche all'ecologia, alla letteratura, alla politica estera. Ma l'umorismo dell'autore non riesce ad impedire che quel senso di assenza, nato con la foto incompleta dei ragazzini, aleggi per tutta la lettura, che il peso di 17 anni di sanguinosa dittatura gravi su ogni pagina, che nella mente di chi legge, come in quella di ha scritto questa breve ma toccante opera, risuoni il motto: "non si dimentica né si perdona".

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