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A Unobravo non piace questo elemento
Ormai penso di poter accettare con serenità che il genere chick lit mi piaccia finché rimane nei limiti della verosimiglianza, mentre quando non solo li attraversa ma li demolisce completamente come nei libri della cara Federica la mia pazienza viene meno. Ergo, "S.O.S. Amore" non è il libro fatto per me, ma non solo: non lo consiglierei ad un gran numero di categorie umane, come chi soffre di attacchi di panico, le vittime di stalking, l'ordine degli avvocati e quello degli psicologi, le persone queer, ma anche le donne e gli uomini etero cis, per il semplice motivo che potreste sentivi più o meno offesi dal contenuto di questo esilarante romanzo.
La trama all'apparenza è non solo innocua, ma anche incoraggiante: la nostra protagonista nonché narratrice è la trentacinquenne milanese Chiara, che comincia una serie di sedute di psicoterapia per risolvere i suoi problemi relazionali, in particolare la sua palese dipendenza emotiva a causa della quale si trova circondata da persone irrispettose e pronte ad approfittarsi di lei. Nella sua continua ricerca di approvazione, Chiara inizia però a mentire al suo terapeuta e si ostina a non seguirne i consigli, peggiorando ulteriormente la sua vita personale.
Con un atteggiamento simile Chiara non poteva sperare di entrare nelle mie grazie, ma la situazione è ben peggiore! sia lei sia il resto dei personaggi sembrano dei laureati in geologia che al contempo sostengano con convinzione il terrapiattismo: in buona sostanza, tutti loro capiscono benissimo quale sia la cosa giusta da fare, ma per ragioni imperscrutabili non la fanno mai. Per questo motivo mi trovo costretta a bocciare un po' tutto il piattissimo e prevedibile cast; perfino il dottor Folli -il terapeuta dal twist più scontato di un bikini a dicembre- non si salva perché a dispetto dei consigli condivisibili dati alla protagonista il suo approccio è l'antitesi della professionalità. Sono arrivata a sperare che si rivelasse un truffatore in stile Striscia la notizia per poter dare una giustificazione al suo comportamento.
E se la protagonista è così ricca di patetismo e povera di interessi personali, come poteva la sua storia essere intrigante? In questa narrazione tutto avviene per puro caso, in base allo scazzo estemporaneo di uno dei personaggi oppure con il preciso intento di ricreare una scena pescata a caso da una qualunque commedia romantica. Inoltre l'autrice non si prende neppure la briga di rileggere quanto ha scritto prima, incappando così in più di una contraddizione. Trattandosi di un romance, mi aspettavo che almeno l'aspetto sentimentale fosse affrontato con cura, invece ci troviamo di fronte a relazioni nate dal nulla che -nel momento in cui rischiano di naufragare- vengono salvate dal semplice trascorrere del tempo: nel giro di un paio di settimane la parte offesa dimentica per magia ogni torto subito.
Lo stile di Bosco non pare aver subito migliorie e, nonostante io possa capire il desiderio di non prendesi troppo sul serio adottando un lessico semplice e diretto, la leggerezza non è un lasciapassare per i refusi. Mi riferisco in particolare ad un utilizzo arbitrario della punteggiatura e della consecutio temporum tali da farmi pensare seriamente che nessun editor abbia messo mano al romanzo prima di mandarlo in stampa. La superficialità della prosa e del contenuto che caratterizza l'ottanta per cento del testo cozza poi terribilmente con la svolta pseudo-seria delle ultime venti pagine; mi è sembrata fuori luogo come una ballerina in tutù ad un concerto rock.
Di positivo c'è la scorrevolezza del testo che, per merito soprattutto dei suoi lunghi e numerosi dialoghi, permette di sciropparsi in poco tempo una quantità abnorme di scempiaggini con un atteggiamento bulimico simile a quello del binge watching. Per questo ho deciso di essere leggermente più generosa nella valutazione, anche perché in confronto con "Cercasi amore disperatamente" per lo meno questo romanzo è onesto verso i suoi lettori e non promette una storia per poi fornire una completamente diversa.
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Un atroce delitto
Niente male quest'opera prima della George, una lettura senza dubbio piacevole, anche se l'autrice indugia talvolta in maniera eccessiva nella descrizione di luoghi e personaggi che, oltre ad essere esposizioni piuttosto leziose, si discostano molto dalle vicende principali, facendo perdere la tensione che scaturisce dal procedere delle indagini dell'ispettore Thomas Lynley. Le ultime cento pagine hanno invece il giusto ritmo e si leggono con un certo interesse e una più viva partecipazione emotiva. Definirlo tra i 25 migliori thriller di tutti i tempi è, secondo il mio punto di vista, un'autentica eresia.
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L'inventore del genere "hard boiled"
Il romanzo, considerato una vera e propria pietra miliare, rappresenta il prototipo di tutti i romanzi "hard boiled" che sono seguiti. I dialoghi sono diretti, immediati, potenti. Hammett si concentra sulle espressioni dei volti, sulle pose dei protagonisti, sui loro tic, sulle abitudini (come quella di Sam Spade di arrotolare continuamente una sigaretta), indugiando talvolta sul loro abbigliamento o sui tratti del volto per caratterizzarne la descrizione. La parte finale, quando per tre quarti del libro ci si è chiesti quanto siano plausibili certi passaggi narrativi, è davvero strepitosa. In un crescendo di avvenimenti tutto si chiarisce e ci si rende conto di quanto le vicende possano essere verosimili. Sam Spade diventa l'icona di tutti gli investigatori privati, seguito a breve distanza dal bellissimo Marlowe di Chandler, personaggio per certi versi simile a Sam Spade eppure così diverso. Sam Spade è un uomo rude, violento, istintivo, determinato, capace di non farsi sopraffare nè dai malviventi, nè dalla Polizia, e neppure dalle donne, con le quali ha comunque un atteggiamento dolce, non disdegnando assolutamente i rapporti sessuali. Marlowe, invece, pur essendo attratto dalle donne è più tendente alla misoginia e comunque non si lascia quasi mai andare, se non per un fuggevole bacio. Inoltre Sam Spade non ha problemi ad accettare compensi alti dai suoi clienti, quando questo è possibile, e non disdegna di poter lucrare da una situazione vantaggiosa. Marlowe è più galantuomo, è sempre al verde e lavora tranquillamente per il suo compenso minimo senza chiedere altro, quando lo ritiene. Per il resto i personaggi sono molto simili, freddi, determinati, laconici, con atteggiamenti da macho, sicuri di sè in ogni situazione e sempre pronti all'azione. John Huston realizza poi nel 1941 una trasposizione cinematografica del romanzo che diventerà un film cult, con l'interprete più azzeccato, il grandissimo Humphrey Bogart.
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Non solo squash
«[…] Quando sei in campo, durante una partita, in un certo senso sei solo. Ed è così che dovrebbe essere. Devi trovare una vita d’uscita. Devi scegliere i colpi e crearti lo spazio di cui hai bisogno. Devi difendere la T. Nessuno può aiutarti. Nessuno può concentrarsi per te o aver paura di perdere al tuo posto. Eppure, a volte accade il contrario. In campo, tutto ti sembra di essere fuorché solo.»
Quando si perde un genitore è come avere un’ala spezzata, potrà forse un giorno guarire ma resterà sempre la cicatrice di quel dolore. Tre sorelle, Mona, Kush e Gopi e Pa, il capofamiglia perdono colei che aveva reso la loro vita piena; la mamma nonché moglie. Viene a mancare troppo presto, la donna e l’uomo deve farsi carico delle tre ragazze crescendole da solo. Il legame da ricostruire non è semplice così come non lo è ripartire e ricostruire una vita ormai in frantumi. Da qui il suggerimento del padre di avvicinarsi a un qualcosa che possa suscitare interesse, qualcosa come ad esempio lo squash, che lui stesso aveva amato in gioventù.
Siamo a Western Lane, un sobborgo di Londra che ospita campi da gioco, siamo in un mondo che diventa seconda casa soprattutto per Gopi, undicenne, che inizia a dedicarsi in modo costante a questo sport. Quel rettangolo diventa tutto. La T diventa tutto. La ragazza ha talento, ha un occhio e una perspicacia diversa rispetto alle sorelle, quando è in campo si isola da tutto e da tutti e quel rettangolo la porta a concentrarsi e isolarsi in una dimensione parallela. È in questo quadrato che conosce Ged, un ragazzo di cui si infatua ma senza mai distaccarsi dalla T.
Il campo diventa metafora della vita e del crescere. Gopi, come le sorelle, come ciascuno di noi, deve trovare la propria voce, accettarsi, maturare e costruirsi un futuro. Tra queste pagine, lo sport diventa a sua volta metafora del senso della vita e delle difficoltà di questa, diventa strumento con cui imparare ad affrontarle. Maroo usa lo squash per mostrarci cosa succede in una famiglia, ma anche nel nostro mero esistere, quando un equilibrio si rompe e si ricompone. Ci mostra, ancora, cosa succede nell’animo di una ragazzina che inizia a diventare donna, cosa succede a quelle che sono sempre state le nostre abitudini, come quelle di un padre, per coniugarsi a una nuova dimensione fatta di nuove responsabilità.
«[…] Mi giravo di scatto per seguire ogni palla e alla fine la caviglia cedette. Il dolore fu una scossa gelida nella testa. […] Dopo tre settimane cominciai a sognare Western Lane. Vedevo i muri bianchi e gli alberi in fiore. Di notte mi alzavo e andavo alla finestra, dove un po’ di luce filtrava dalle tende. Mi sedevo a terra con la racchetta in mano e la schiena appoggiata al termosifone.»
Il romanzo è costruito con dialoghi e dettagli che vengono narrati in prima persona, si ricompone così, passo dopo passo.
“T” di Chetna Maroo rappresenta un esordio di grande interesse ed è avvalorato da una penna rapida che è arricchita da un linguaggio incisivo. Tuttavia, manca qualcosa, quel qualcosa da renderlo perfetto.
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Ricercatore, ricerca te stesso
“Campus novel” : ecco a te, lettore, servito con l'ennesimo anglismo (ma vedrai, riusciremo a volgerlo in lingua italiana), un ulteriore sottogenere del romanzo, che conferma, se mai ve ne fosse bisogno, il suo carattere proteiforme, duttile, camaleontico. Questa ennesima declinazione di genere ha qui da noi come protagonisti baroni universitari e “delfini”, assistenti e dottorandi dall’avvenire nebuloso e precario, stretti tra giochi di potere ed una legislazione che trasforma la loro carriera in una corsa ad ostacoli, concorsi pilotati, servilismo nei confronti del “capo”, perfino vezzi, tic, codificazioni linguistiche dalle maglie strettissime e inderogabili. Un mondo, o .per meglio dire, un topos letterario fatto di persone egoriferite, che soffrono e si infuriano se qualcuno ne rimarca un errore, magari un'etimologia errata, come in Pontiggia ("Il giocatore invisibile"), che si guardano l’ ombelico convinte di essere il centro dell’universo, tanto da chiedersi, ad esempio, come mai un loro saggio sulla metrica nella poesia dialettale tra Otto e Novecento abbia venduto meno dell’ultimo premio Strega.
In queste acque naviga, con regale padronanza, il coprotagonista de La ricreazione è finita, Raffaele Sacrosanti, docente di italianistica, nonché preside della facoltà di Lettere all’università di Pisa, città-campus, scelta per questo in molte opere appartenenti allo stesso filone (anche se Ferrari in un’intervista dichiara l’ambientazione della sua storia priva di nessi con personaggi e fatti reali).
Sacrosanti è personaggio complesso, non lo liquidi con una condanna univoca: è vero, è il dominus incontrastato di questo microcosmo; è certo, trae “un godimento quasi erotico dai rapporti di potere accademici”. Ma una cosa è altrettanto sicura: il fascino intellettuale che sa esercitare sui suoi sottoposti è tipico dei grandi maestri (non ti anticipo se buoni o cattivi…).
Di questa satira della vita accademica, che caratterizza l’intera prima parte, la scena più brillante e divertente, direi emblematica con un termine più vintage, è rappresentata dalle regole sulla composizione di un articolo accademico che un dottorando di lungo corso, Pierpaolo, illustra a Marcello, protagonista e io narrante, vincitore di un dottorato per una serie apparentemente fortuita di circostanze. Cito alcune perle del “vangelo pierpaolino”: ribadire almeno una trentina di volte con parole diverse la propria tesi, che potrebbe benissimo ridursi ad una decina di righe (quello che a scuola, ai miei tempi, i professori definivano, correggendo i nostri temi a corto di idee, “allungare il brodo”); utilizzare le citazioni come strumento di posizionamento politico, cioè citare numerose volte il mentore da cui dipende il proprio destino accademico, non citare mai gli avversari e i nemici dello stesso, o, se costretti, limitarsi a riferimenti generici; evitare di fare altrettanto con chi potrebbe esserti utile e, se trascurato, potrebbe ostacolare la tua carriera. Insomma, una cultura asservita, fin nelle sue manifestazioni marginali per i non addetti ai lavori, ad una logica dei rapporti di potere e di forza e condizionata da un codice comportamentale altamente formalizzato.
Ciò che rende ancor più spassoso il tutto è la distanza abissale tra il giovane neoricercatore e il suo “istruttore”, tanto più preparato di lui e tanto più addentro a quelle logiche. Illuminante la chiusura del capitolo, in cui Marcello interrompe la lettura di un saggio di Sacrosanti che Pierpaolo gli aveva consigliato, per comunicare telefonicamente ad un amico la sua adesione ad una partita di calcetto. Un tipico caso di ironia (anzi autoironia) oggettiva, in cui sono i fatti e il loro giustapporsi a far sorridere, senza alcun intervento a commento del narratore. Ironia e autoironia sono del resto, in tutte le loro varianti, il registro che sostiene in misura non trascurabile la costruzione retorica della trama, contribuendo alla piacevolezza della narrazione.
Ma, in concomitanza con il primo, ecco delinearsi un secondo livello: il racconto di formazione. Marcello è un giovane non più tanto giovane, che riconosce e in qualche modo ostenta senza infingimenti la sua inferiorità culturale rispetto ai colleghi. E’ un irrisolto consapevole di esserlo, si guarda vivere e replica così, in tono minore, la tipologia dell’inetto, antico retaggio della letteratura italiana ed europea, innestandola nell’epoca moderna e finendo con l’equipararla alla figura del cosiddetto “bamboccione” o dell’eterno adolescente (e così viene toccato anche il tema generazionale, ma ti risparmierò un’ulteriore contestualizzazione letteraria: la pazienza, anche la tua, ha un limite). Respinge infatti tutto ciò che possa significare stabilità e inserimento sociale, opponendo continui rifiuti al padre, che vorrebbe affidargli il bar di famiglia, sfuggendo ai tentativi di incastrarlo messi in opera da Letizia, la sua ragazza, che ne rappresenta l’esatto contrario e proprio per questo sarebbe in grado di fornirgli un aiuto pratico, quasi in una riproposizione del legame Zeno -Augusta. Marcello si imbatte però, indirizzato da Sacrosanti, nell’opera e nel pensiero di Tito Sella, un terrorista della brigata Ravachol che operò in Versilia negli anni Settanta, e finisce con l’identificarsi con lui, restando colpito in particolare dall’ improvviso mutamento di rotta che conduce (condurrebbe?) l’attivista e scrittore a condividere un’azione terroristica e violenta da cui si era inizialmente dissociato. In questo gioco di doppi e di rispecchiamenti, Marcello rivede anche in Tea, la ragazza incontrata a Parigi durante le sue ricerche, una sorta di reincarnazione di Emma, la donna amata da Tito. Ma poi…
A questo punto devo però tacere (già mi sono spinto troppo oltre con quel condizionale…), perché tu, lettore, non mi perdoneresti di averti spoilerato un finale così bello e sorprendente, nel quale il romanzo accademico (tale è la traduzione italiana di “campus novel”) e il racconto di formazione inclinano verso il terzo livello di quest’abile struttura narrativa: il giallo, di cui erano presenti nel racconto, senza che ce ne rendessimo conto, gli elementi principali: delitto, movente, indagine, depistaggi, scioglimento, soluzione e individuazione del “colpevole”.
Ma i piani di questo interessante lavoro non restano distinti, bensì si incastrano perfettamente l’uno nell’altro. Anzi, l’uno non sarebbe possibile senza gli altri due. Tutto questo potrà essere verificato nella lettera finale che Marcello indirizzerà al suo professore, in cui si coglierà la sintesi di una triangolazione perfetta tra le varie componenti della narrazione, cui si aggiungerà il meccanismo del metaromanzo o romanzo nel romanzo: quella “Fantasima”, opera mitica di Sella, mai scoperta, che il ricercatore stesso scriverà, elaborando la documentazione raccolta sul suo presunto autore.
Giunto alla fine di questa “fabula” ricca di suggestioni, caro ” lector”, scoprirai anche il vero significato del titolo. L’esortazione rivolta da Charles de Gaulle agli studenti del Maggio francese affinché tornassero finalmente a scuola, si caricherà di significati nuovi e in qualche misura opposti rispetto a quelli originari del capo di Stato che strigliava paternalisticamente gli studenti e si tradurrà in altro, cioè nel bisogno per ciascuno di comprendere il proprio ruolo nella vita, l’essenza del proprio sé, compiendo quello scatto, realizzando quella svolta che avvicina ciascuno di noi a ciò che davvero siamo e che vogliamo diventare.
A questo punto, se sarà maturato in te, non per merito di questa mia modesta “opinione”, ma della capacità di scrittura e di invenzione dell’autore, un qualche interesse per l'argomento, potrai trovare nei consigli di lettura un accenno alla ricca galleria di romanzi italiani ambientati nel mondo universitario, nella quale Ferrari si inserisce in maniera originale e convincente.
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Un giallo d'annata
Simenon riesce a descrivere in maniera davvero straordinaria le atmosfere e i luoghi nei quali vivono i personaggi dei suoi romanzi. L'esperienza di lettura può essere paragonata all'osservazione di un quadro i cui dettagli sono resi attraverso leggere e brevi pennellate che hanno il potere di rendere suggestive le ambientazioni e vibranti le vicende. Sono davvero ammaliato dalla prosa di Simenon e non posso che esprimere un parere positivo per questa splendida opera scritta nel 1932. Tuttavia la penna di Simenon riesce a sorprendere e ammaliare soprattutto nei romanzi che non hanno come protagonista l'ispettore Maigret, i cosiddetti romans durs, come "L'uomo che guardava passare i treni", "Le campane di Bicètre", "La camera azzurra" e molti altri, in totale 117 romanzi scritti tra il 1931 e il 1972. In quest'opera sono comunque da sottolineare alcuni mirabili passaggi, specie nella parte iniziale del racconto, nei quali ci si sente immersi nell'atmosfera affascinante del porto e prendono vita, magicamente emerse dalle nebbie, forme umane e intricate vicende raccontate in maniera magistrale dallo scrittore belga.
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Un intrigo gastronomico
Petra Delicado e Firmin Garzon sono alle prese con una nuova indagine nell’ambito dello street food. Cristophe, cuoco e socio di Bob Castillo, muore assassinato, nel loro food truck di gastronomia francese, colpito al cuore con una lama di coltello.
Dopo vari sopralluoghi e alcuni interrogatori agli altri proprietari di camion ristorante che spesso partecipavano insieme agli stessi eventi, la coppia di detective scopre che in realtà Cristophe viveva in Spagna sotto mentite spoglie, fuggito dal suo paese perché ricercato, e aveva un “affaire” di droga e sesso con una donna francese misteriosa che appare e scompare per tutto il tempo del romanzo, la donna che fugge appunto.
Inizialmente le indagini si svolgono quindi intorno al narcotraffico, anche se Petra non è del tutto convinta della pista che stanno seguendo.
E così tra altre vittime, ombre e false verità, i due si impantanano in un intrigo così difficile da dipanare che alla fine il tutto si svela da solo.
Ma la Bartlett non si ferma al giallo, che pure è coinvolgente, ma va ben oltre, come è solita fare, e non manca di dire le sue opinioni, attraverso i suoi personaggi, sulla vita, sul corso del tempo, sulla società.
“Dopo la pandemia la gente si era divisa in due gruppi. Da una parte c’erano le persone che non vedevano l’ora di riprendere la vita di prima, addirittura intensificando le occasioni piacevoli che erano state proibite per ragioni sanitarie: viaggi, mangiate nei ristoranti, feste con amici... un frenetico carpe diem volto a recuperare gli anni perduti. E dall’altra c’erano, non so in quale percentuale, perché erano meno visibili, quelli che sostenevano di avere imparato la lezione. Loro cercavano l’isolamento, la pace della campagna, la meditazione, la vita sana e il contatto con la natura.”
Così il romanzo diventa oltre che svago anche spunto di riflessione per il lettore.
Preziose sono le battute tra Petra e Garzon, durante le pause dal lavoro alla Jarra de Oro: davanti a una birra, i due si confrontano e si sostengono a vicenda in un mondo che sembra andare al contrario, dove il rispetto e i sentimenti vengono meno di fronte al vile denaro, un mondo che sempre più si fonda sull’apparenza, sul dover essere giovani e belli a tutti i costi, un mondo che non comprendono e che non li capisce più, ma al quale si devono comunque adeguare
“Anche a me dava enormemente fastidio che un cameriere di vent’anni ci chiamasse «ragazzi». Non attribuivo quell’appellativo a una mancanza di rispetto, ma alle ridicole tendenze del momento. Tutto si infantilizzava, tutto diventava una commedia. … In fondo, la mia visione era molto più allarmante di quella del viceispettore. Lui si ribellava alla scarsa considerazione nei confronti dell’età, mentre io pensavo che tutto fosse ormai decadenza e regressione. Difficile dire chi fosse il più dinosauro dei due.”
Non manca la consueta visione pessimistica dell’A. sull’amore e sui rapporti di coppia, che non sono mai fedeli e duraturi. Petra è infatti al terzo matrimonio e vive ancora una volta una profonda crisi di coppia, che inizialmente sembra avere causa nella sua totale dedizione al lavoro che le assorbe gran parte del giorno e anche della notte, e non le dà la possibilità di avere una vita privata, ma i malumori del marito non sfuggono alla sensibilità di Petra, che non riesce ad archiviare e giustificare tutto così…E infatti la crisi si rivelerà più profonda del previsto e anche stavolta la nostra protagonista si rifugerà nell’unico legame, vero e profondo, della sua vita, quello col suo fedele collega ma prima di tutto, amico, Garzon.
Il romanzo ha un finale molto amaro, che ci lascia un po’ stupiti, ma che conferma il pensiero cardine della Bartlett che è un po’ il leit motiv anche di questo romanzo, e cioè l’imprevidibilità della vita e l’ineluttabilità della morte.
“In fondo siamo tutti perdenti, Fermín. Perdiamo le cose a poco a poco finché con la morte perdiamo tutto.”
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Un'intellettuale lucida e appassionata.
Michela Murgia, sentendo ormai avvicinarsi la fine, detta all'amico editor Beppe Cottafavi le sue ultime note autobiografiche, una specie di sintesi della sua vita, un testamento sociale e politico riarrangiato e riordinato poi dal "figlio d'anima" Alessandro Giammei, professore di letteratura italiana a Yale. Sono pagine coraggiose e commoventi, pubblicate in ordine non strettamente cronologico. Ha sempre lottato, Michela, figlia di una terra aspra e difficile, contro tutto e tutti. All'inizio, a Cabras, paese natale, contro un padre violento, poi contro il bullismo in un liceo di Oristano, tanto da costringerla ad andarsene da casa, ospite di una zia: si iscriverà ad una scuola religiosa, laureandosi in teologia e diventando addirittura vicepresidente regionale dell'Azione Cattolica. E' attirata da letture del Vangelo e della Bibbia, insegnerà religione nelle scuole: il suo è un cattolicesimo laico, lontano da riti e consuetudini ecclesiali, abbandonerà l'insegnamento quando si scontrerà con il cardinale Ruini e l'istituzione del Family Day e soprattutto quando un altro cardinale la sconsiglierà, impedendole di fatto, di commentare e far leggere in classe "L'ultima tentazione di Cristo" di Kazantzakis, che parla di un Gesù nuovo, non risorto ma sceso dalla croce per evangelizzare. Quanti contrasti nella vita di Michela e quanto coraggio ! Ma l'ambizione più forte è la scrittura, per comunicare le sue idee, per esprimersi e ribellarsi. Comincerà con un blog, facendosi notare, sbarcando il lunario poi con i lavori più disparati: impiegata in una centrale termoelettrica, cameriera,, portiera notturna in un hotel di montagna, grafica, portando alla luce in un suo primo libro ("Il mondo deve sapere") le anomalie e le sopraffazioni esercitate su chi lavora e poi in un secondo ("Accabadora") l'assurdità del cosiddetto accanimento terapeutico, prendendo spunto anche dal famoso caso di Eluana Englaro tenuta in vita collegata ad una macchina per 17 anni. La Murgia ha avuto anche il coraggio di presentare una sua lista alle elezioni in Sardegna, una specie di terzo polo, ingiustamente non ammesso: sarà l'occasione per abbandonare definitivamente la sua terra e trasferirsi sul continente, dove avrà modo di continuare la carriera di scrittrice rivoluzionaria e dirompente. Lotterà contro ogni ipocrisia, diffonderà la sua idea di famiglia "queer", istruirà ed aiuterà i suoi prediletti "figli d'anima", prodigandosi oltre ogni limite, nonostante la terribile diagnosi di cancro che, nonostante le terapie, l'avvicinerà alla fine della sua tormentata e difficile vita terrena.
Nel libro, oltre alle note biografiche, c'è molto altro. Ad esempio, la passione per la lettura e l'affermazione che il Vangelo è stato "il libro più influente" della sua vita, unitamente ad alcune letture bibliche ( "da leggere tra le righe e negli anfratti") e ad altre opere: i libri di Carolina Invernizio (ingiustamente definita da Gramsci una "onesta gallina della letteratura" !), di Umberto Eco, di Stephen King e dell'incompreso scrittore sardo Giulio Angioni. Non mancano i suoi apprezzamenti per l'opera lirica (definita "spettacolo ricco ma non per ricchi", considerando le trame) , le considerazioni sul suo fidanzamento di breve durata con un affermato tenore, le opinioni sul mondo della moda, sul calcio, la sua ammirazione per un santo poco conosciuto, Piergiorgio Frassati, il suo incontro con il papa. Non mancano neppure riflessioni sull'attuale politica, sulla memoria corta degli italiani e su quel lento e strisciante muramento della politica stessa, che la Murgia denomina "democratura", intendendo col termine la progressiva affermazione di un regime dittatoriale attraverso la democrazia. Un capitolo è dedicato alle straordinarie caratteristiche della lingua coreana e ad un complesso di cantanti coreani, i BTS, straordinari, di esempio per tutti, e non solo per le canzoni.
Non potevano mancare pagine affettuose nei confronti del dialetto sardo, con esempi di esclamazioni e modi di dire singolari ed efficaci, volutamente iperbolici e in molte occasioni espressi con un linguaggio "catastrofico".
Michela Murgia si prepara ad andarsene per sempre. Ha fatto il suo dovere, ha lanciato i suoi messaggi, con passione e coraggio: ha preso nettamente posizione contro ipocrisie, malversazioni, soprusi, abusi e bugie, contro il maschilismo imperante in difesa dei diritti delle donne, riscuotendo applausi e consensi. Non ha avuto paura di essere criticata, correndo spesso tenacemente da sola contro sistemi collaudati da collusioni e omertà: è stata a suo modo felice, convinta dell'onestà delle sue idee, convinta di "aver detto quello che doveva dire" e di "aver scritto quello che nessun altro aveva il coraggio di scrivere".
Da cristiana laica, si chiede alla fine se esista un aldilà: non ha una risposta, confidando in una "ulteriorità" che , come afferma, "perfezioni le cose che non riesco a vivere con pienezza". Una speranza, insomma, in un futuro migliore, per il quale ha speso tutta la sua vita.
Concordo con Alessandro Giammei, suo "figlio d'anima" e curatore editoriale delle sue opere, che, nella postfazione, scrive: "leggere questo libro "liberatorio" sarà necessariamente doloroso per diverse persone, ma sarà altrettanto divertente, illuminante, addirittura esaltante".
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La metà oscura
Questo è un romanzo duro e forte, letteralmente di acciaio, che non è un metallo ma una lega minerale; acciaio come quello che a suo tempo donò buona notorietà all’autrice, in verità alquanto ben meritata. Anche questa nuova uscita è un buon libro, una buona lettura, però non facile, magari indigesta, trama e lessico possono talora apparire critici. Il testo è ben scritto, davvero molto bene, Silvia Avallone è dotata senza dubbio di una penna scorrevole, narra con un tono eclettico, istruito, sapiente, però descrive più che riportare. Rende bene l’essenza del narrato, ma si fatica ad attribuirlo con realismo agli attori, gli dà voce con fine eleganza, tant’è che si esprimono forse anche troppo chiaramente.
“Cuore nero” parla di persone, e di persone che raccontano di sé stesse, ognuna suo modo; Silvia Avallone riporta, fa da tramite, ma non si immedesima, traduce e resta in rispettosa distanza. Però funziona. Le persone possono essere buone o cattive, dipende da cosa predomina in un certo momento della loro esistenza, quale lato del dualismo bene/male è prevalente in quell’istante, pur nelle mille sfumature di luce evidenti in ogni chiaroscuro. Qui si parla in particolare della metà oscura delle persone: ma le persone non possono essere solo giuste o solo sbagliate per tutta la vita. Perché le cose cambiano, la vita scorre diversamente, l’esistenza ti forgia a sua immagine, l’animo umano conta versatili caratteristiche plasmabili, talora evolvi in meglio, talaltra in peggio, si persiste in certi modi o si svolta. Dipende: dipende dai fatti che ti accadono, dalle persone che incontri, anche se al momento ti appaiono tutto tranne che salvatori, le chiami Frau Direktorin anziché eroi, ma sono angeli custodi anche quando ancora non lo sai. Si cambia, tutto passa: per questo esiste il linguaggio, usa poche lettere ed infinite parole proprio per poter evidenziare i molteplici cambiamenti di una comune, magari banale, esistenza. Questo è racconto di arrivi e partenze, è storia di un viaggio, ma non di una fuga, è la ricerca di un riparo, un sito di riflessione per ritrovarsi, e possibilmente salvarsi. Il luogo scelto, la destinazione finale in cui le anime ferite dei due principali protagonisti si incontrano, si permeano, si salvano e si disfano a vicenda, ha un nome che è tutto un programma, isometrico ai personaggi detti, si chiama Sassaia. Un paesino anche ai tempi belli popolato di poche anime, fatto di sassi, di pietre, giusto per questo un macigno, statico e inossidabile assai più di qualsiasi lega minerale. Uno di quei borghi antichi e rimasto sempre uguale a se stesso, sperduti sulle alture più impervie del Piemonte, spopolato da tutti, abbondonato a se stesso come tanti, troppi, piccoli borghi del nostro paese, con le case tirate su di sassi, appunto, e perciò Sassaia, brullo, roccioso, riarso.
Ne restano solo due di abitanti, vivono qui fuori dal mondo con sporadici e logistici rapporti con l’esterno, il vecchio Basilio, artista, restauratore ed imbianchino ad un tempo, ed il maestro Bruno, ancora giovane e già dannato, auto confinatosi per scelta ed autoflagellatosi per convinzione.
Un giorno a Sassaia, accompagnata dal proprio straordinario papà Riccardo, un uomo comune che è invece la quintessenza buona del concetto stesso di paternità responsabile, giunge anche Emilia Innocenti, e con lei tutto il codazzo in ricordi e racconti delle sue amiche, prima di tutti la sorella di dolore assoluto Marta Vargas, e poi Yasmina, Afifa, Myriam e tante altre ancora.
Ragazze, giovanissime, adolescenti, o appena maggiorenni, che per i casi della vita si portano dentro l’inferno. L’inferno ha tante facce, è un fuoco perenne, quindi ha tinte diverse e calore differente, può solo scottarti o carbonizzarti del tutto, dipende da dove sei situato, le lingue di fuoco hanno le sembianze fluttuanti di abusi, di pedofilia, di incesti, di sfruttamento di ogni tipo, di lutti materni mai metabolizzati, di bullismo, di indifferenza familiare e sociale.
Tutte cose che avvenute ad una certa età pesano, è sempre l’adolescenza che decide chi sei.
Senza adatti strumenti ed artigiani che ti insegnano ad usarli, non puoi lavorare la pietra, meno che mai l’acciaio, in sintesi allora il male che subisci ti appare sempre molto più grave di quello che fai. Servono mirabili ingegneri, usi a forgiare l’acciaio in strumenti, trarne anziché lame per ferire, utensili degni di insigni artisti. I veri protagonisti di questo romanzo restano sempre sullo sfondo, senza mai apparire, sono gli umili fabbri, maestri costruttori che rispondono ai nomi della dottoressa Gilda Pavulli in arte Frau Direktorin, delle educatrici Sara, Rita, Vilma, la Pandolfi, perché l’unica vera risposta è l’amore. L’amore è la cura, il solo che lascia traccia, che innalza vertiginosamente la temperatura di un pezzo freddo di acciaio, portandolo al punto di fusione, rendendolo incandescente, forgiandolo a forma di cuore, rosso come l’amore e non nero, così come è giusto che sia.
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Un personaggio che non si dimentica
– Com’è che non piange? – chiedeva la sera mio padre.
– Piangerà. Le donne prima o poi piangono tutte.
Attratta da un post che lo definiva un romanzo potente l’ho acquistato e, data la trama, ho scelto di iniziare a leggerlo il 25 aprile. Ne sono rimasta affascinata. Talvolta ci si imbatte nella vera letteratura, e questo è il caso.
Il motore che tutto muove è la violenza da una parte, nelle sua tante e diverse forme, e dall’altra l’estrema fragilità che però nasconde la forza della giustizia. A dare plastica dimostrazione è il periodo storico scelto, il fascismo.
Protagoniste assolute, bellissima decisione, due donne, Redenta e Iris. L’ambientazione è Castrocaro, tanto cara all’autrice che ne ripercorre i luoghi con una attenta ricostruzione storica.
La prima e indimenticabile protagonista del romanzo, Redenta, nasce esattamente nel giorno del delitto Matteotti dopo che i fratelli maschi nati prima di lei sono mancati tutti più o meno al momento del parto. Redenta trascorre parte della sua infanzia dalla nonna Fafina (altro bellissimo personaggio di incredibile forza) perché la madre passa alcuni anni in carcere per aver ferito il marito che la tradiva. Dalla nonna, che accoglie bambini orfani, conosce Bruno, ragazzino magro e intelligentissimo e del quale diviene amica sin da piccola. I due sono inseparabili. Redenta inizia a parlare tardi perché ritiene che se non si ha niente da dire sia meglio starsene zitti, si prende la poliomelite che la lascerà storpia. In questo Bruno cercherà di aiutarla a non fermarsi nell’autocompatimento ma a fare tutto ciò che può per migliorare.
La madre ed il paese tutto sostengono sin da quando è nata che ha la “scarogna”. Eppure è una bella ragazza, molto intelligente, e continuerà a subire il fascino di Bruno.
Nel frattempo il fascismo assume sempre più vigore anche se Redenta non si occupa di politica e aderisce come molti all’inizio, suo padre compreso, a questo nuovo movimento che sembra promettere solo una vita migliore per tutti.
Bruno scompare e ricompare e in un’occasione per non essere scoperto nella sua attività clandestina ottiene l’aiuto di Redenta che ne esce però “disonorata” con grande disperazione della madre che teme di non poterla più accasare. Le sorelle di Redenta, Marianna e Vittoria prenderanno strade diverse, comunque interessanti e ben narrate, tutte da donne forti.
La storia passa attraverso il terribile matrimonio di Redenta con Vetro, milite fascista sanguinario e che la tormenterà sempre nella violenza considerandola una beota al suo obbediente silenzio.
Nel frattempo il romanzo racconta la vita di Iris, figlia di una maestra arrivata in un paesino dove nessuno sa leggere e scrivere. La maestra apre una piccolissima scuola e grazie all’aiuto di quello che diventerà suo marito e del paese intero insegnerà a moltissimi ciò che servirà loro per migliorarsi. Iris appena possibile aiuterà la madre a scuola fino a che verrà spinta a lasciare il paese per trasferirsi a Forlì dove potrà farsi strada. Inizia andando a servizio in una famiglia.
In breve Iris scopre che i suoi datori di lavoro sono oppositori al regime fascista, e diventerà subito parte attiva delle loro iniziative, spinta anche da un ragazzo come lei lavoratore in quella casa che già ne fa parte, Diaz, che diventerà poi capo della brigata armata omonima.
Le due storie ovviamente, quella di Redenta e quella di Iris, si intersecheranno in una storia via via più drammatica e che lascia un profondo segno nel lettore.
“Muori come ti pare, ma non per mano sua”
La forza interiore di Redenta, la grandezza del suo personaggio, pur nella sua tranquilla sottomissione, ha dell’incredibile.
La trama è complessa ma chiarissima, succede molto in questo romanzo. Anche i piccoli gesti sono parte della vicenda intera.
La scrittura mescola italiano a qualche raro termine dialettale che nulla toglie alla comprensione del testo. Il periodo storico che fa da sfondo alla storia è disegnato benissimo, con i giusti tempi e tratteggi.
Il personaggio di Redenta, di sua madre, di Bruno, di Iris così come degli altri è ricco di sfaccettature e ben fatto. Confesso che Redenta mi è rimasta dentro, un personaggio da quale è difficile staccarsi.
Lo sfondo storico non è un accessorio ma parte integrante della vicenda che è mossa proprio da quanto sta avvenendo. Una bellissima interazione.
La storia scorre velocemente, non ci sono momenti di noia o di rallentamento, il climax della seconda parte è notevole. Il bilanciamento tra gli elementi è perfetto, la storia non è mai scontata. Il sostegno delle donne fra di loro e la potenza che, seppur per strade diverse, viene tratteggiata, è un bell’ingrediente aggiuntivo. Lo sguardo sincero e disincantato su quanto avviene con al Resistenza è da apprezzare.
Un bellissimo quadro, senza sbavature, una storia bene in vista e ben narrata. Non avevo mai letto nulla di questa autrice, quindi una graditissima sorpresa.
Lo consiglio a chi ama la vera letteratura, tanto rara da trovare oggi.
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La maschera del perbenismo
Davvero straordinaria quest'opera di Simenon, intima, profonda, emozionante. Un personaggio che guarda dentro se stesso e si accorge di aver sempre portato una maschera, per compiacere gli altri, senza il coraggio di guardare oltre, di trovare sfogo alle sue pulsioni, ai suoi desideri più profondi. Parabola sulle convenzioni, sul perbenismo, sulla "immobilità" della coscienza, sulle frustrazioni interiori. Alcuni passaggi dell'opera sono così intensi da rimanere scolpiti nella mente, come la scena del cenone di Capodanno, oppure l'epilogo, in cui Kees Popinga pronuncia la frase più vera e più amara di tutta l'intera vicenda.
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"Eppure sono vivi"
Simenon riesce a descrivere i sentimenti del protagonista, improvvisamente malato, emiplegico e a contatto con un mondo e una realtà nuove, con rara intensità e profonda introspezione. Pagine dense di immagini, attinte dai frammenti dei propri ricordi, che si fanno strada attraverso i dubbi sulla propria esistenza, per approdare ad una presa di coscienza del tutto nuova del proprio mondo e delle persone che gravitano attorno a sé. Egli capisce come i malati, spesso dimenticati e rinchiusi dentro un mondo a parte, avulso dagli altri, si chiudano quasi sempre dentro una dimensione fatta di solitudine, sofferenza e sconforto, un mondo che si riesce a comprendere realmente soltanto vivendo noi stessi in mezzo a loro. "Eppure sono vivi", dice a un certo punto il protagonista riferendosi ai malati e ai vecchi "che trascinano le gambe con un' andatura a scatti buttando un piede di lato come pupazzi meccanici che funzionino male". Il mondo che gravita attorno a loro, anche se si prende cura di loro, li dimentica ogni giorno, costringendoli dentro una dimensione che li intristisce e li svuota della propria dimensione umana. Il protagonista stesso si rende conto che nel suo lungo processo di guarigione tutto ciò che aveva un significato vivo nella sua coscienza verrà presto dimenticato una volta che egli sarà del tutto guarito e potrà tornare alla sua vita: "Si è sentito molto vicino ai vecchi con l'uniforme che fumano la pipa sulle panchine del cortile. Ora non concede loro più che un'occhiata distratta e la pipa acquistata dalla signorina Blanche è chiusa in un cassetto". Ma questo è quanto. E concludendo egli dice: "Si fa quello che si deve fare, ecco tutto. Si fa quel che si può. Un giorno andrà a trovare suo padre a Fecamp, insieme a Lina"... poiché anche il padre del protagonista, come quei vecchi, vive ancora, ma ormai è solo e dimenticato da tutti e trascina la sua povera esistenza in uno stato quasi vegetativo.
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Le angosce del nostro vivere
Romanzo complesso e profondissimo, surreale e delirante, denso di immagini che lasciano annichiliti. Visioni lucide e potenti, ricche di spunti sui malesseri del nostro io più intimo e riflessioni sulle angosce dell'uomo, sulla colpa, sulla impossibilità della redenzione. Riflessioni sulla giustizia distorta e spietata dell'uomo sull'uomo, sulla giustizia divina, sul rapporto dell'uomo con la religione e con Dio. E poi immagini che raccontano dei difficili rapporti umani, del senso di sconfitta, di vuoto, di profondissima angoscia nei rapporti personali, amorosi o semplicemente intimi, della incapacità di raggiungere autenticità, condivisione e verità. Un mondo subdolo, dove nessuno può fidarsi degli altri, dove i propri pensieri non rassicurano, non chiariscono, non aiutano. Le sensazioni provate mentre si legge sono angoscianti, claustrofobiche, persino fisiche, si percepisce l'ansia e la si vive noi stessi assieme a K. e manca davvero l'aria come manca a K. e sembra quasi di provare la fatica di respirare. Sensazioni forti che sono prima di tutto sensazioni dell'anima. Pur essendo un manoscritto per certi versi frammentario, soprattutto nel finale, quasi abbozzato, dobbiamo ringraziare Max Brod per aver disobbedito alle volontà testamentarie di Kafka, il quale avrebbe voluto distruggere questo straordinario romanzo che tanto ha rappresentato e rappresenta ancora oggi per ognuno di noi.
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Le gesta di un popolo
L'opera di Steinbeck non è un romanzo che racconta semplicemente le vicende di una famiglia alla ricerca di un posto dove vivere e di un lavoro ma, alla maniera del poema epico, è un romanzo che narra le gesta di un intero popolo cacciato dalla propria terra e alla ricerca di un posto dove ricostruire la propria identità, ma anche, potremmo dire, trovare semplicemente un po' di pace, un minimo di sicurezza per il proprio futuro e una speranza di vita nuova. In questo straordinario affresco storico, che ha la forza prorompente del capolavoro assoluto, si stagliano le figure degli eroi, che sono gli umili protagonisti della famiglia Joad, soprattutto Mà, la figura forte e centrale dell'intero romanzo, e il figlio Tom. Un grande plauso alla traduzione di Sergio Claudio Perroni, che ci permette di gustare l'opera integrale di Steinbeck in tutto il suo splendore. Alcuni capitoli sono così intensi e pieni di vita, e così pieni di vigore, che producono una specie di risonanza interiore, rimanendo scolpiti nella mente. In particolare il lungo capitolo 26, e tutti quelli finali, fino alla struggente conclusione, la cui forza dirompente si chiude con un finale ad un tempo amaro e pieno di speranza, con un'immagine di sorprendente forza simbolica.
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Barcellona, gastronomia e omicidi
Torna in libreria Alicia Gimenez-Barlett e lo fa con un nuovo capitolo della serie ambientata a Barcellona che vede quale protagonista Petra Delicado e il fedele Fermìn Garzon. “La donna che fugge” è un romanzo che si sviluppa con una narrazione dal ritmo incalzante e rapido, gli scenari sono vividi e le sequenze ben cadenzate. Crimine e gastronomia si fondono tra loro riportandoci ad assaporare le avventure di una coppia di detective che non lesina azione ma che si riflette nel pubblico anche per la complessità umana che ciascuno rappresenta.
La storia prende inizio in un’atmosfera di festa. Siamo nella settima giornata gastronomica, siamo nella plaza del Nord. I food truck offrono delizie culinarie, i colori rendono vivido ogni angolo, è festa ovunque. Tuttavia, in questo contesto di pace e serenità, relax e divertimento, accade l’impensabile: Christophe Dufur viene rivenuto privo di vita. È un giovane chef francese, il suo corpo viene rinvenuto nei pressi del camion ristorante. Petra Delicado viene investita del caso e sin da subito si rende conto che non si trova davanti a un fatto semplice, al contrario. Il caso che si è aperto innanzi ai suoi occhi è estremamente complesso e nulla è come appare.
E mentre Fermìm Garzon assaggia le varie prelibatezze, Petra segue la pista della misteriosa donna francese che pare essere stata vista con la vittima per ultima. Ma non è ancora finita perché emergono anche legami con una rete di narcotraffico. Sempre più debole è l’ipotesi della vendetta personale ma anche quella di un omicidio dettato da un raptus di gelosia.
La Barlett ci ha però abituati anche a una componente emotiva che esula dal mero giallo. Questa in “La donna giusta” è data dalle riflessioni di Petra relativamente al proprio matrimonio, alla sua stabilità, alla tensione emotiva che la caratterizza.
L’opera ultima della Gimenez-Barlett è ancora caratterizzata da un ritmo serrato che non lascia spazio a pause e a respiri e che conduce a un doppio finale che rimescola le carte senza mai perdere di intensità. Al tutto si sommano le descrizioni di Barcellona e il fascino delle varie ambientazioni e dei prodotti culinari.
In conclusione, “La donna che fugge” non delude le aspettative degli appassionati della serie e si propone al lettore come un thriller ricco di colpi di scena ma anche di profondità.
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Misteri e portinaie
È in una Milano degli anni Venti che ha inizio la storia narrata da Luca Crovi. Un giorno come un altro, infatti, uscendo di casa il commissario Carlo De Vincenzi lascia alla portinaia della sua abitazione di via Massena una cartellina azzurra. Niente di impegnativo, in apparenza. Il monito è dato dal fatto che in giornata avrebbe dovuto consegnarla a un giornalista, tale Augusto De Angeli che sarebbe passato a ritirarla. Matilde Maria Ballerini che durante la preparazione della casseula, viene incaricata del compito, vede la cartellina e la sposta sulla madia con il timore che possa sporcarsi. Tuttavia la cartellina non è chiusa e lascia cadere a terra una cartolina con la pubblicità dell’evento all’Arena. Fil rouge della narrazione è proprio la vedova, la portinaia. Sbirciando nella cartellina azzurra scopre alcuni documenti che riguardano “il poeta del crimine”. Ci sono tanti articoli, tanti documenti di giornale ed ancora, storie scritte su fogli di carta blu battuti a macchina.
Sembra la raccolta personale delle vicende dell’uomo, sembra proprio una di quelle scoperte a cui una donna non può resistere, ancor meno lei. Può fermarsi? No. Una storia tira l’altra e così via, pagina dopo pagina.
“Il mistero della torre nel parco” di Luca Crovi è un libro di rapida lettura, trattiene nella sua storia con naturale e rapida consapevolezza. Offre al lettore ore liete e fatte di sincera curiosità. Forse non potrà definirsi un capolavoro ma certamente gli elementi per funzionare li ha tutti e nel suo piccolo, funziona.
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Il disperso
“Il disperso”, titolo originario del primo romanzo incompiuto di Kafka scritto fra il 1911 e il 1914 e pubblicato postumo nel 1927 da Max Brod, l'amico ed esecutore testamentario di Kafka che cambiò anche il titolo dell'opera facendolo diventare “America”, è definito il suo romanzo giovanile. Si tratta però di un'opera già molto matura nel percorso letterario dell'autore poiché vi traspare nitidamente la grande forza narrativa di Kafka e la sua capacità di creare figure ricche di costrutto, attorno alle quali ruotano i temi cari all'autore praghese, come la solitudine, il senso di sconfitta, il desiderio di comprensione e di giustizia. Alcuni capitoli sono davvero straordinari, in particolare, a mio avviso, quello che porta il titolo di "Hotel Occidental", ove il protagonista, Karl Rossman, lavora come ragazzo degli ascensori presso un grande albergo, caotico e pieno di vita. In questo capitolo risaltano i bellissimi dialoghi attraverso i quali Karl deve difendersi dalle ingiuste accuse del capo cameriere e da quelle del capo portiere. Altro capitolo di grande risalto nella narrazione è quello dove è presente il personaggio di Brunelda, ove risalta in maniera straordinaria l'episodio del comizio elettorale osservato dai protagonisti sul balcone di casa. Chiude il romanzo un altro splendido capitolo che Max Brod intitolò “Il teatro naturale di Oklahoma”, dove si rendono chiari i propositi dell'autore di scrivere un finale positivo e pieno di buoni propositi. Nonostante il finale incompiuto il romanzo è senza dubbio il più ottimista dell'autore, privo quasi del tutto di quel senso di profonda angoscia interiore, di smarrimento e di ineffabile sconforto che traspare in maniera più evidente nelle opere successive.
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Il pittore che non deve essere nominato
Dopo l'esperienza di lettura non proprio elettrizzante de "La Vergine azzurra", il mio entusiasmo verso le storie di Chevalier si era parecchio raffreddato, nonostante io continui a considerare le sue sinossi molto promettenti sulla carta. Prima di accantonare del tutto la bibliografia della cara Tracy, ho deciso pertanto di dare un'occasione a quello che sono certa essere il suo romanzo più conosciuto -ossia "La ragazza con l'orecchino di perla"- di cui ho recuperato convenientemente una vecchia copia all'usato.
La narrazione ci trasporta nell'Olanda del XVII secolo, in particolare nella città di Delft, dove vive e lavora il noto pittore Johannes van der Meer (nel testo chiamato con la forma contratta Vermeer). Il volume copre principalmente il periodo che va dal 1664 al 1666, e specula sulla vita della modella scelta dall'artista per posare per la sua opera più famosa: Ragazza col turbante. La giovane in questione si chiama Griet e, a causa delle ristrettezze in cui vive la sua famiglia, viene assunta come domestica presso i Vermeer; in parte per la sua avvenenza, in parte per la propensione dimostrata per gli accostamenti cromatici, la ragazza viene ben presto notata sia dai residenti che dai visitatori della casa in Oude Lagendijck.
Trovatami di fronte ad una premessa simile, temevo davvero di essermi imbattuta in una storia incentrata sul discutibile amore tormentato tra un (molto!) padre di famiglia ed un'ingenua minorenne pronta a venerarlo come un dio sceso in terra. Per fortuna, Chevalier decide di non intraprendere del tutto quella strada; il problema è che per contro sceglie di non raccontare proprio nulla! e con questo non intendo dire che il testo sia privo di avvenimenti, ma sono tutti fiacchi ed inconsistenti. Questo è il principale motivo per cui temo proprio di non essere in sintonia con la prosa dell'autrice, dal momento che in un romanzo ricerco un intreccio almeno un po' solido, o per lo meno dei personaggi ricchi di carisma.
Nessuno dei caratteri immaginati dalla cara Tracy per questa narrazione mi ha invece trasmesso alcunché, a partire da Griet: una protagonista sprovvista di risolutezza, che trasforma ogni nonnulla in una difficoltà insormontabile e si cruccia in gran segreto per le sue pene, anziché affrontare con coraggio la situazione in cui si trova. La scelta di renderla la voce narrante non aiuta la sua causa, e anziché provare della compassione ho avvertito soltanto dei forti dubbi sulle reazioni degli altri personaggi: non saranno così esasperate, perfino assurde, perché mostrate attraverso il suo punto di vista?
Il resto del cast non è comunque molto più interessante, e la difficoltà nel capire cosa leghi Griet ad ognuno rende le loro caratterizzazioni solo più deboli in prospettiva. Dal momento che a libro finito ancora non vi saprei dire cosa provi la protagonista per il suo "amato", direi che il legame più significativo sia la comune passione per l'arte condivisa con Vermeer; da una mera prospettiva estetica, questo dettaglio è anche apprezzabile perché da vita a diverse metafore interessanti, ma se si considera cosa c'è alla base del rapporto e quali conseguenze abbia è inevitabile rimanere delusi.
In realtà l'intera storia è costellata da immagini belle ed evocative che però nel concreto significano poco, come l'inspiegabile fobia di Griet per il sangue animale o la sua insistenza nel voler accontentare Vermeer a discapito di tutto, in virtù di una mera fascinazione per i suoi quadri. Pur ricercando delle narrazioni meno oniriche, ritengo però giusto dare credito allo stile di Chevalier per la buona combinazione di ricercatezza lessicale e scorrevolezza coinvolgente. Altro grande pregio del volume è l'impegnativo lavoro di ricerca svolto per rendere il contesto seicentesco in cui si muovono i personaggi non solo credibile, ma anche coerente con gli avvenimenti nella vera vita di Vermeer e delle altre figure storiche coinvolte.
Qualcosa di positivo nel libro quindi c'è, e senza dubbio farà la gioia dei lettori che prediligono le sensazioni provate al contenuto riscontrato. Se poi a differenza della sottoscritta riuscite ad entrare in empatia con Griet, il gioco è fatto!
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L'irraggiungibile verità
Ho trovato molto impegnativa la lettura di quest'opera di Kafka, tuttavia la lettura di alcuni capitoli ha prodotto dentro di me le stesse sensazioni di quello che considero il vero capolavoro di Kafka, ovvero "Il Processo". In questi capitoli vengono trasmessi al lettore i brani di intere conversazioni della nostra quotidianità, dove le continue "tesi" messe in atto dai personaggi diventano prima plausibili, poi inaccettabili, poi nuovamente plausibili. La prosa, pur essendo notevolissima, risulta spesso appesantita a causa dei lunghi periodi e delle complicate riflessioni dei protagonisti. Rimane un'opera densa di significati, corposa e molto strutturata dove, attraverso l'atmosfera livida del villaggio e di un castello, anche metaforico, irraggiungibile per il protagonista, si producono le tematiche care all'autore, quali il senso di angoscia del vivere quotidiano, la mancanza di chiarezza nei rapporti umani, la ricerca della verità e della giustizia, la lotta e l'accanimento per raggiungere uno scopo, il senso vanificato delle proprie azioni prodotto dai comportamenti dell'uomo coinvolto nei meccanismi della burocrazia ma, si vorrebbe dire, dell'uomo coinvolto nei rapporti con l'uomo e con le sue limitatezze. Un romanzo che merita senza dubbio un'attenta rilettura, per cogliere con maggiore chiarezza il senso ineludibile delle angosce tipiche del nostro vivere.
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Estraniamento e miraggio
“Il deserto dei Tartari” può essere considerato come la parabola dell'uomo che cerca di dare un senso alla propria esistenza. Nell'ambito immaginario del romanzo, in questo luogo-non luogo suggestivo e ricco di tensione, in questa fortezza che è casa e riparo, ma anche prigione e sofferenza, in questo deserto che rappresenta estraniamento e annientamento, si risolvono le ansie, i propositi, le speranze del protagonista. Egli è alla ricerca di qualcosa di grande, di glorioso, che lo possa distinguere e farlo sentire diverso dagli altri. In questo protendersi verso i propri ideali egli vive una tensione grandissima che lo porta verso un'aspirazione che è quasi bramosia, che è fame e sete insieme. Ma egli è anche e semplicemente un uomo, con i suoi limiti, la sua mediocre esistenza, la sua limitata concezione del mondo e degli altri, la sua incapacità di cambiare lo stato delle cose. Il protagonista rincorre un sogno, un miraggio di là da venire, e l'intera sua vita è il sacrificio di un uomo che si accorge di quanto breve sia la propria esistenza. In tutto questo vi è il riconoscere la limitatezza della vita di ogni essere umano e infine, al giungere dell'età senile e degli inevitabili rimpianti, arriva la consapevolezza del vero nemico che egli deve affrontare, non più i Tartari oltre il deserto, ma la morte. Il capitolo finale è certamente il più struggente, il più malinconico, il più amaro dell'intero romanzo.
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I manoscritti non bruciano
E' un libro difficile, questo è da dire, ma una narrativa davvero suprema.
Sembra addirittura che la storia narrata sia la storia di Bulgakov stesso che bruciò l'intero manoscritto una sera d'inverno e lo riscrisse completamente.
Il romanzo si svolge in archi temporali diversi, abbiamo la crocefissione di Cristo e, il periodo precedente sul giudizio che deve mettere Ponzio Pilato di fronte ad una decisione storica importante e poi abbiamo un mago, un tale Woland che passeggia per la Mosca comunista del XX secolo ed incontra il Presidente di una nota associazione russa, in compagnia di un poeta molto conosciuto.
Tutto inizia negli Stagni del Patriarca (noto parco di Mosca) con un quesito: "Dio esiste?" e "Gesù è realmente esistito come dicono?".
Lo svolgere della trama è sensazionale, Bulgakov è davvero il Maestro e Woland non è altri che il Diavolo in persona che tedia la coscienza umana, portando scompiglio e mostrando la debolezza degli individui attraverso la loro bramosia per gli effetti materiali.
Per gli amanti di storia, questo romanzo non nasconde affatto l'idea che molti intellettuali avevano degli eruditi russi comunisti e, di come certi salotti fossero effimeri e culturalmente spenti ed inconcludenti..
Vi ritroverete in un manicomio dove Ivan (il poeta) internato per aver confessato di aver conosciuto il diavolo in persona, continuerà la narrazione con l'arrivo di Margherita tra le righe del racconto, della sua figura e della sua importanza nella vita del narratore.
Margherita diventa una strega (nel senso figurato del termine) che vola su di una scopa e potrà finalmente ritrovare il suo Maestro, divenuto molti anni prima suo amante ed abbandonato senza più avere sue tracce.
Ad aiutarla in questa impresa, uno dei tanti scagnozzi di Woland, Azazzello, che già dalle prime righe sono descritti magnificamente. Non accade mai che il Diavolo se ne vada a zonzo per le città da solo, ha uno stuolo di servitori tutti con una specifica qualità.
Come ho già scritto, il libro è tosto, consiglio l'edizione dove all'inizio sono elencati tutti i personaggi con la descrizione breve di ognuno di loro.
Anche se vi confonde, continuate la lettura, continuate fino alla fine e, non ve ne pentirete.
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Le Weywart, le donne, le streghe.
Acquistai questo libro attirata dalla copertina e dalla trama che in maniera spicciola si legge aprendo il manuale. Tra l'altro, mi è capitato che mancassero 20 pagine all'interno e, sono stata costretta ad attendere la nuova copia per continuare la lettura.
La storia si svolge in situazioni di arco temporale diversi tra loro. Le protagoniste sono Althea, Violet e Kate. Althea inizia la sua storia dalle prigioni nauseabonde in un tempo medievale, accusata di stregoneria e in attesa di giudizio, Violet si trova ai primi anni del XX secolo o la fine del XVIII, in una famiglia abbiente, orfana di madre e con un fratello che la adora e protegge, intorno alla figura materna aleggia il più fitto mistero e un padre scontroso e conservatore, la renderà prigioniera di un costume sociale per l'epoca naturale per una donna di buona famiglia. Infine c'è Kate che vive nella Londra contemporanea e scappa dalla sua relazione amorosa ossessiva e possessiva che la rende ancor più chiusa e remissiva visto il suo carattere quieto.
La trama è molto avvincente, il racconto scorre benissimo e, il lettore è davvero ben guidato nelle pieghe del tempo in queste storie che riporteranno ad una sola narrazione con un finale unico e molto educativo.
Ci si chiede spesso come sia possibile che la figura femminile subisca ancora oggi certe particolari tirannie dalla società maschilista che si prefigura in ogni azione quotidiana, diciamo che qui c'è più di uno spunto da cogliere per cominciare a ragionarci sopra.
L'idea è buona e la scrittrice è stata straordinariamente brava a gestire queste storie in maniera limpida e chiara.
E' stata una bella scoperta con un mix di magia che dà al romanzo quel brio fantasy che non guasta affatto. Non viene banalizzata la trama per due formule magiche di troppo, ma anzi, la fortificano a mio parere. Aggiungendo anche quell'amore per la natura e per l'entomologia che mi hanno fatto spesso dire:" Vorrei aver avuto anche io una prozia così!!" soprattutto quando l'eredità si prefigura con un cottage inglese, malandato e da ristrutturare immerso nella brughiera. Ritorno alle origini spogliandosi del superfluo.
Lo consiglio davvero, una lettura riflessiva che dovrebbe trovarsi tra le mani di ogni ragazza e madre. Piacevole senz'altro.
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Non lo ritengo un vero horror, ma social-psico
Un libro strano, un libro davvero particolare. Bisogna chiarire questo: l'argutezza può essere o meno qualità di molti, ma la fantasia nello scrivere un horror non deve richiedere prerequisiti di tale natura.
L'incubo di Hill House è, a mio parere, un libro per nulla horror, ma psicologico e sociopatico, dove il mix delle depressioni personali dei protagonisti, danno origine a una storia di ricerca ossessiva verso l'ignoto e verso il paranormale.
Un professore che deve scrivere un saggio al riguardo, chiama a sè alcune persone scelte in base ad alcune caratteristiche, per soggiornare all'interno di questa dimora per registrarne le attività paranormali. Theodore una ragazza sfrontatella e disinibita nel linguaggio (e forse non solo in quello), Luke l'erede dell'edificio che in ogni parola ed atteggiamento spera in una riuscita con le ragazze; Eleonor la protagonista indiscussa che attira a sè spettri non spettri e catastrofi reali, disagiata sociale con una famiglia alle spalle totalmente disinteressata a lei e infine altri coprotagonisti che si aggiungeranno alla fine che sono la moglie del professore e un tale Arthur che sembra il suo lacchè (o amante).
I protagonisti sono assai irritanti, nei modi, nelle attese da una scena all'altra e di gran lunga nei dialoghi spesso quasi inutili nel contesto che si va a prefigurare.
La storia dobbiamo considerare che è stata scritta e pubblicata alla fine degli anni 50, quindi non credo fosse possibile essere esageratamente espliciti e, spacciare questo romanzo per un Horror, ha dato la possibilità alla scrittrice, come al suo editore, di esagerare in etica e forma e pubblicare qualcosa come "L'incubo di Hill House".
Ho acquistato questo romanzo perchè molto osannato da un King che è un maestro dell'horror (ma anche lui spesso si perde...) e speravo in qualcosa di più. A mio parere deludente.
SPOILER
Il finale è ad interpretazione. Il succo del romanzo si svolge TUTTO a venti pagine dalla fine: pessima strategia.
Se siete molto razionali, vi apparirà chiaro che Eleonor è impazzita di brutto (e prima era già sulla buona strada) e ha dato motivo alla sua vita creando Lei stessa uno spettro per quella casa. Se invece siete amanti e credenti ferventi del paranormale, ogni riga vi sembrerà un'attività paranormale che porta Eleonor ad essere posseduta dalla casa stessa che la guida tra le sue mura e la rende padrona di questo mondo simultaneo con la realtà e ne tesse la rete per un finale davvero "paranormal activity".
Credo che, ad ogni modo, vista l'età del romanzo, non c'è da aspettarsi nulla di spregiudicato e eccessivamente macabro.
Se siete in cerca di un reale horror, non credo questo sia calzante, ma come ho scritto all'inizio, bisogna scindere l'argutezza di cogliere i dettagli per avere un bell'horror sotto gli occhi, dall'avere questa qualità come prerequisito per leggerlo.
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Un fuoco pirotecnico
Il Maestro e Margherita è un'opera davvero straordinaria. Un romanzo che incanta e fa riflettere, che riesce a commuovere e che fa sorridere, un'opera così ricca di significati da renderla complessa e affascinante al tempo stesso, ma assolutamente facile da leggere e comprensibile per chiunque. La sua impronta ironica e surreale, che risulta chiara e travolgente fin dalle prime pagine, ci permette di gustare ogni descrizione con quello spirito di magico incanto che proviene soltanto dalle grandi opere, inducendo talvolta a rileggere intere pagine per gustare certi passaggi, che sono davvero un fuoco pirotecnico di immagini fantastiche e di suggestive figure allegoriche. Le vicende si susseguono a ritmo incalzante e sono un'esplosione di rappresentazioni ricche di grande vigore creativo ed entro le quali si risolvono e si sbrogliano i dialoghi più stimolanti e coinvolgenti che sia possibile leggere. Romanzo nel romanzo sono i capitoli su Ponzio Pilato, nei quali lo stile, assolutamente diverso da quello degli altri capitoli, rende l'opera ancora più appassionante e ricca di spunti sui quali riflettere. Le descrizioni che si ritrovano in alcune parti dell'opera, specie quelle dei capitoli finali, sono pregne di quell' afflato poetico che è riconoscibile soltanto nei grandi scrittori. L'opera è davvero appassionante e commovente, fin quasi alle lacrime, specie per il modo in cui ci si ritrova partecipi del dolore causato all'autore dalla censura che dovette subire la sua opera quand'egli era in vita a causa del regime staliniano. Una suprema rivincita la pubblicazione postuma del romanzo, che ci rende testimoni della meravigliosa grandezza della sua opera.
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INTERESSANTE MA POCA AZIONE
L'idea di questo libro è molto buona, amo sempre leggere qualcosa di nuovo, nuovi autori o nuove ambientazioni, la curiosità prevale sempre sul resto, anche se in questo caso ho trovato anche una trama interessante.
Questo romanzo è una sorta di thriller, di storia familiare con un pizzico di gotico ma il problema per me, è come è stata costruita la storia, non era molto avvincente, con pochi colpi di scena e la parte ambientata ai primi del Novecento era noiosa. Pensavo ci fosse più azione, più mistero, mi è mancata quella magia che sento quando leggo un testo vittoriano, probabilmente questo è dovuto al fatto che l'autore fosse contemporaneo e non è riuscito a creare quell'atmosfera così suggestiva.
Per comprendere al meglio la storia si dovrebbe iniziare la lettura dalla parte di fine Ottocento, che è anche quella che io ho preferito.
E' una stata una lettura piacevole ma mi è mancato anche un vero e proprio approfondimento dei personaggi principali che avrebbe reso la storia più credibile.
E' un testo leggero senza alcuna pretesa, purtroppo sarà un libro che dimenticherò in fretta.
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Come utilizzare tremila yen
La narrazione ruota attorno a come risparmiare nelle varie fasi della vita, probabilmente questo non doveva essere presentato come un romanzo ma più come un saggio di economia domestica giapponese.
Un altro importante aspetto che fa somigliare questo libro a un manuale è il fatto che i personaggi non vengono approfonditi ma vengono presentati in maniera superficiale. Ci troviamo di fronte a una serie di racconti dove la parola chiave è il risparmio ma non c'è nulla di più.
Doveva essere proposto come saggio sull'arte del risparmio giapponese, perché in questo testo non c'è una trama e non c'è nessuna storia da seguire.
Non basta parlare di tre donne della stessa famiglia che in periodi diversi affrontano la vita e le difficoltà economiche, serve anche una narrazione con uno spessore e un filo conduttore. Qui il vero protagonista è il denaro che porta sofferenza o felicità.
Il messaggio che il libro vuole dare è importante, capire il valore dei soldi fin da piccoli è fondamentale, come saperli gestire, ma credo che sia sbagliato presentare il libro come un romanzo è alla fine non lo è.
Non è una saga famigliare o una storia corale, è semplicemente un manuale e in alcuni punti devo dire anche estremamente noioso.
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GIUSEPPE IL NUTRITORE
“Grande è l’arte dello scrivere! Ma cosa più grande ancora è quando la vita che si vive è essa stessa una storia.”
“Giuseppe in Egitto” si era chiuso con Mut-em-enet che aizzava la servitù della casa contro Giuseppe, il “mostro ebreo”, falsamente accusandolo di aver attentato con la violenza ai danni della sua virtù. Per far ciò, la moglie di Potifar fa leva sulla più retriva demagogia sciovinista, titillando l’orgoglio di razza dei suoi sottoposti egizi per incitarli a ribellarsi contro l’abietto usurpatore straniero. Come risuonano tristi e profetiche le parole di Mut-em-enet, alla vigilia di quella che sarebbe nel volgere di brevissimo tempo diventata la più grande e vergognosa tragedia del ventesimo secolo, la Shoah, il genocidio del popolo ebreo per mano dei connazionali di Mann, i nazisti tedeschi! E in quale nuova, sorprendente luce ci appare l’intero ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, se si pensa che l’ultimo suo capitolo, pubblicato nel 1943, è praticamente contemporaneo agli orrori di Auschwitz, Birkenau e Dachau! In “Giuseppe il nutritore” non mancano velate allusioni al nazismo, come quando Giuseppe, giustificando davanti al Faraone l’uso della forza in determinati frangenti storici, dice: “Che cosa vorresti tu fare con re predoni che incendiano, saccheggiano e taglieggiano? Tu non puoi insegnare loro la pace di Dio, perché sono troppo stupidi e malvagi per comprendere. Gliela puoi insegnare soltanto battendoli […] Stolida è la spada, eppure non vorrei dire accorta la mansuetudine. Accorto è l’intermediario che a quest’ultima consiglia la fortezza”. Nonostante che il conflitto mondiale, con bellicosi popoli che premono ai confini e terribili carestie, aleggi costantemente sullo sfondo, “Giuseppe il nutritore” è comunque di gran lunga il romanzo più “leggero” dell’intero ciclo. Persino la iniziale prigionia di Giuseppe, la sua seconda “caduta nella fossa” (dopo quella drammatica provocata dai fratelli invidiosi nel secondo capitolo, che lo aveva portato a un passo dalla morte), si rivela tutto sommato un castigo lieve, quasi simbolico, in quanto il protagonista si trova di fronte un carceriere estremamente umano, giusto e sensibile, al punto che, quando Giuseppe entrerà nelle grazie del giovane Faraone per avere interpretato i suoi enigmatici sogni, egli ne farà, in un bizzarro scambio di ruoli, il suo fedele maggiordomo. La tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli” assomiglia perciò a un fiume che, dopo le rapide vorticose, progressivamente si acquieta per tornare a fluire placidamente e senza fretta in prossimità della sua foce. Giuseppe dopo tanti anni riesce finalmente a incontrare i suoi fratelli, giunti dalla loro lontana terra per acquistare cereali, si palesa, dopo un’ingegnosa messinscena, ai loro occhi, increduli di trovarsi di fronte, nei panni di un potente dignitario egizio, al loro fratello perduto, li perdona magnanimamente per i loro antichi misfatti e giunge perfino a far trasferire in Egitto l’intera tribù di Israele e a riabbracciare il vecchio e amato padre che lo credeva morto, e che quindi può solennemente morire in pace. Sintetizzato così sembra il più classico e scontato degli happy end, anche se va detto che Mann non inventa nulla di nuovo rispetto al testo biblico. Il tutto è però raccontato dallo scrittore tedesco con una leggiadra e incomparabile ironia, conscio com’è che “tutto deve compiersi nel più ilare dei modi, come uno scherzo solenne” e che “l’ilarità, l’arguto scherzo sono quanto di meglio Dio ha concesso agli uomini”. In “Giuseppe il nutritore” ritorna così quell’ironica levità che aveva caratterizzato “Le storie di Giacobbe”, ossia il tomo introduttivo della tetralogia. Si prenda ad esempio la storia dell’ambiziosa e risoluta Thamar, che vuole a tutti i costi entrare con un ruolo di primo piano nella storia di Israele (e che infatti diventerà la progenitrice del re Davide), il cui inganno ai danni di Giuda, da cui si fa mettere incinta a sua insaputa, ricorda non a caso la beffa del furto della primogenitura di Esaù o quella ordita da Giacobbe contro Labano per liberarsi dal suo odioso giogo.
La leggerezza di “Giuseppe il nutritore” non deve però far pensare che il coté intellettuale del libro sia affievolito rispetto a quello dei suoi predecessori. In esso infatti si narrano miti (quello, ad esempio, del dio-bambino nella caverna), si discetta dottamente di dèi in conflitto tra loro (Aton e Amun) o al contrario misteriosamente affini (Aton e Jahvè), si discute di questioni filosofiche e di astrusi sofismi (l’essere come punto di incidenza tra il non-essere e l’essere-per-sempre), si interpretano sogni come se fossero messaggi in codice della divinità. Non inferiore è poi la componente meta-letteraria del romanzo, giacché più volte, come nei libri precedenti, Mann cerca di accreditare la sua storia come più realistica, più veritiera di un originale “la cui laconicità poco risponde al modo in cui la storia raccontò originariamente se stessa, cioè a come la realtà storica si svolse a suo tempo”. Mann scrive così “non con la disinvolta imprecisione della leggenda, bensì con la ragionevole riserva che impone il rispetto per il reale svolgimento dei fatti. Qui infatti non si millanta, ma si racconta”. Pertanto lo scrittore di Lubecca non si fa scrupolo di fermare la narrazione per fare una precisazione psicologica, oppure per chiarire un’inesattezza storica, o ancora per stemperare le esagerazioni del mito (come quando mette in dubbio che gli anni della carestia siano stati effettivamente sette, o i componenti della tribù di Giacobbe precisamente settanta, lasciando intendere che chi ha tramandato la storia abbia voluto privilegiare dei numeri considerati sacri rispetto ad altri meno emblematici). Mann si pone quindi come un mediatore tra la storia che in origine si è raccontata da se stessa e la storia come è giunta, con i suoi travisamenti e i suoi malintesi, fino alle nostre generazioni, ed in fin dei conti si fa egli stesso protagonista con le sue riflessioni parallele alle vicende di Giuseppe.
Il leit motiv del romanzo, sotteso alle numerose e avvincenti storie di Giacobbe e di Giuseppe, resta comunque soprattutto uno: la scoperta di Dio da parte dell’uomo. E’ curioso come questo sentimento religioso, che da Abramo in poi si fa sempre più raffinato, presupponga un atteggiamento che a molti potrebbe apparire addirittura presuntuoso ed egocentrico, ossia mettere il proprio io e la propria salvezza al centro di tutte le cose, come essenziale premessa per la creazione di un Dio insieme universale e personale. Parlo di creazione non a caso, perché se l’uomo ha bisogno di Dio per decifrare e portare a compimento il proprio destino, diventandone docile strumento dei suoi disegni, allo stesso modo Dio necessita dell’uomo per rivelarsi e venire alla luce. Nel gustoso e quasi umoristico “Preludio tra le gerarchie celesti” si immagina addirittura un Dio che ambisce a farsi incarnazione di un popolo per poter essere come gli altri dèi, per scendere dal suo algido e solitario iperuranio e sperimentare quella vitalità che l’uomo deve aver provato con il peccato originale, quando ha rinunciato alla perfezione dell’Eden per l’attrazione verso la materia, l’informe, la vita. E’ questo, secondo Mann, il misterioso motivo che porta alla nascita del patto stretto da questo Dio, geloso e collerico non meno che sommamente sapiente e giusto, con i patriarchi dell’Antico Testamento, da Abramo giù giù fino a Giuseppe, e che lo scrittore tedesco descrive con un’ineguagliabile vena, non soltanto mistica e religiosa, ma anche e soprattutto umorosa, viscerale e carnale, facendone il centro di gravità di un’opera che parla, in una maniera solo apparentemente contraddittoria, di cose ultraterrene mentre contemporaneamente narra di passioni e di speranze, di amori e di rancori, di vendette e di riconciliazioni estremamente terreni, come se Giuseppe e i suoi fratelli fossero in tutto e per tutto nostri contemporanei. In questo, io credo, risiede la grandissima forza espressiva, e in ultima istanza il fascino, di un’opera dalle ambizioni smisurate, ma che si legge con grande facilità, trascinante come un romanzo d’amore o d’avventura e leggero, a dispetto della sua mole, come una nuvola o come una piuma.
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Profonda e disincantata osservatrice dell'anima
Dalle critiche lette avevo un poco di timore nel cimentarmi con questo libro. Con una scrittura lineare ed efficiente, si legge con velocità nonostante le 510 pagine.
Inizia con un suicidio di cattivo gusto (come se esistessero suicidi di buon gusto) nella prima notte di luna di miele della protagonista. Nel corso del libro sembra leggere vari libri che di riflettono e si annodano l'uno nell'altro. I personaggi cambiano agli occhi del lettore nel corso della narrativa, così come nella vita reale il carattere delle persone si svela, nel bene e nel male con il passar degli anni.
Come sempre la Joyce Carol Oates mette a nudo l'ipocrisia e la voracità economica della classe media nord americana con stile ed eleganza ma sempre senza facili luoghi comuni o scorciatoie.
Una bella lettura, avvincente che ti prende dalla prima all'ultima pagina.
Solitudini e moltitudini
Storie di tre giovani, un po' scontenti, e delle loro famiglie. Storie intrecciate, scritte con un linguaggio decisamente non accademico (e questo è un peccato) e con un’impronta molto provinciale sullo sfondo, impronta che è un po' la matrice essenziale di questo libro, forse il suo migliore aspetto connotativo. Sono solitudini che si incontrano. Sono però anche moltitudini. Di scontri ed incontri generazionali, sociali, etnici. Che aiutano a superare le solitudini. Così come si coglie nello stesso tempo sia l’ironia sia la profondità dell’autore.
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E' tutto un imbroglio
Gogol riesce, con la maestria che gli è propria e con il suo tipico tratto, ironico e pungente, a generare un mondo ricco di personaggi esilaranti e al limite del surreale. Un mondo dove sfilano gli attori più diversi, dai ricchi e viziosi proprietari terrieri ai funzionari statali biechi e corrotti. E anche laddove vengono ritratti personaggi apparentemente positivi, apparentemente buoni, lavoratori onesti dediti al benessere della propria famiglia e dei servi delle loro terre, si scorge in realtà, rivelandone il vero volto attraverso la satira, la loro misera vita, la loro pochezza, la mancanza di valori autentici. Personaggi che sono essi stessi le vere anime morte, non i servi oggetto delle contrattazioni di Cicikov. Questi, figura e personaggio principale dell'opera di Gogol, è il catalizzatore dei vizi e delle storture dell'intero mondo creato dall'autore, mondo fittizio si, ma specchio di un mondo reale altrettanto ricco di storture e vizi. Cicikov è un uomo privo di scrupoli in una realtà pervasa dalla corruzione morale, un uomo che, meglio di chiunque altro, è capace ad un tempo di mettere alla berlina i notabili cittadini e i piccoli proprietari terrieri dediti ai divertimenti e alle ricche libagioni, e apparire poi ridicolo, misero e senza spessore morale, con la sua ricercatezza nel vestire e la cura della sua toletta. Egli arriva persino a farsi cucire da un sarto un abito assai ricco e sfarzoso anche quando sono stati scoperti i suoi disonesti traffici ed è costretto a fuggire. Il tratto caratteristico dell'intera opera è dunque l'ironia e la satira piccante, provocatoria, capace di illuminare in modo vivido e beffardo un mondo dove regnano depravazione e immoralità. Ma in questa prima opera, che voleva essere, secondo le intenzioni dell'autore, un grande poema sulla Russia, si ritrova anche la poesia di una natura magica e incantata che viene raffigurata in maniera appassionata e commovente. Una natura che si beffa delle miserie umane e regna sovrana, incontrastata, immutabile e meravigliosa sopra ogni cosa.
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Viaggio verso Sud
…” Tamon era abituato a leggere e a capire cosa avevano nel cuore gli esseri umani”…
Giappone, in una dimensione quotidiana fatta di calamità naturali ( tsunami, terremoti ), follia e debolezza, una figura comparsa dal nulla si mostra, creatura speciale inviata da Dio, da Buddha, dal destino.
Il suo nome è Tamon, un cane magro, sporco, di certo affamato, di taglia un po’ piccola, un meticcio a metà tra un pastore tedesco e una razza giapponese, ha il collare ma non il guinzaglio, abbandonato e solo dopo la sciagura dello tsunami.
Sembra possedere uno sguardo intelligente, osserva, ascolta, ha un dono, comprende gli esseri umani, ne segue passi e destino penetrandone i cuori in momenti e vicissitudini complicate, si accompagna a vite deragliate, svuotate, sole, riportando la luce della speranza, lasciandole a una nuova possibilità.
Incroci casuali, forse voluti, ciascuno imbrattato della propria storia, sospeso in un reale ricoperto di niente, maschere impegnate a sbarcare il lunario, fragilità, paura, rabbia, violenza, un egoismo cinico e noncurante che non sa riconoscersi, anime assenti, fagocitate dal crudo presente.
….”Lo guardò negli occhi e lui si sentì sprofondare in quelle pupille nerissime in cui il suo viso si rifletteva”…
Tamon appartiene al mondo animale ma esprime una forte umanità, ascolto, deferenza, rispetto, attesa, empatia, fedeltà, riconoscenza, simbolo e archetipo di un’ essenza, avvolto da una triste parabola di dissolvenza.
Malviventi, prostitute, disoccupati, uomini soli, bambini traumatizzati, genitori affranti, Tamon c’è e si percepisce in luoghi e modi diversi, restituisce sguardi, sorrisi, ululati, silenzi, dona significato a esistenze vuote.
Non sempre riesce a influenzare il presente sostituendosi al vissuto degli altri, lui stesso in viaggio verso sud per ricongiungersi a un passato di sofferenza e ridare valore alla propria esistenza.
Nel presente vaga tra passato e futuro riaccendendo relazioni e memoria, con un tepore in grado di alleviare i dolori, in fondo alle sue pupille ristagna una sofferenza nascosta, uno sguardo determinato che esprime volontà, percepito e vissuto anche da chi è impegnato altrove tanto da riconoscere che
…” in certe occasioni il legame tra un cane e un uomo è la cosa più importante che ci sia”…
Tamon è compagno prezioso e alleato fidato, lui stesso oggetto di attenzione e di cura, di una pietas che si fa umana presenza, interprete di una storia, di spezzoni di storie, per riscoprire un’ amicizia datata e un ricongiungimento che è rottura e rinascita, perché
…” Tamon è qui, qui dentro”…
“ Il bambino e il cane “ è una fiaba contemporanea caratterizzata da una profonda levita’ nel cuore di un’ Odissea protratta, la semplicità espositiva del reale voce interiore in una parabola che riabbraccia il sapore di un’ umanità restituita ai propri significati più veri.
Il legame indissolubile uomo-cane si ricopre di emozioni e di sentimenti dando voce a un futuro ricco e sognante, accoglie, attraversa, abbandona frammenti di storie, riformula relazioni latenti, genera incontri, restituisce voce ed emozioni a un cuore che ha smesso di battere, un senso del vivere intriso di gioia e di speranza.
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Ritorno dalla seconda occasione
Ritorna l'agente Mila Vasquez, protagonista de "Il Suggeritore" che in seguito agli eventi del libro precedente si ritova a lavorare nel Limbo, una sezione particolare della polizia che si occupa delle vittime di omicidio senza un nome e di persone scomparse.
Il lavoro al Limbo è una specie di rifugio per agenti in lotta con i propri demoni interiori, ognuno ha la sua storia i suoi fallimenti , il Limbo è un posto di penombra anche nella descrizione che ne fa l'autore.
Improvvisamente da questa ombra viene ripescata l'agente Vazquez chiamata dalla polizia, vista la sua abilità sul tema delle scomparse, a collaborare sulla strage di una famiglia in cui è sopravvissuto solo il bambino più piccolo.
La difficoltà non è scoprire l'autore del delitto che è assolutamente noto e anzi ha fatto di tutto per palesare la propria identità ma il fatto che questa persona fosse scomparsa molti anni prima senza lasciare traccia e sia ricomparso per compiere questo delitto addirittura vestito con gli stessi abiti che indossava l'ultimo giorno prima di scomparire.
Quella che superficialmente potrebbe passare per una vendetta non convince l'agente Vasquez la quale spinta dalle proprie inquietudini oltre che dal particolare carattere, inizia ad indagare in modo piuttosto personale, supportata da Simon Berish un agente speciale di grande qualità divenuto anni prima un reietto per i colleghi a causa di un presunto tradimento al corpo di polizia.
Un certo numero di persone scomparese ritornano ad anni di distanza commettendo efferati crimini, ritorna a galla una caso rimasto irrisolto anni prima nel quale il misterioso Kairus, il Signore della buonanotte, tirava le fila di una inquietante serie di sparizioni che oggi diventano omicidi commessi da persone che avrebbero dovuto essere scomparse da tempo, c'è sempre la sua opera dietro a tutto?
Nel perfetto stile di Carrisi la trama diventa via via più complessa e quando pensi di aver capito tutto volti pagina e ti accorgi che l'autore è già due passi avanti a te e ti ha mischiato le carte in tavola con un nuovo colpo di scena.
Molto interessante il tema delle persone scomparse, della seconda possibilità che spesso è solo apparente e intrigante la teoria che da il titolo al libro, l'ipotesi del male: il bene di qualcuno finisce per essere il male di un altro come se le due cose non fossero mai completamente separate ma un filo per quanto sottile le tenesse legate.
Bella la trama e anche l'introspezione dei vari personaggi, finale meno sconvolgente di altre opere dell'autore ma forse ci ha solo abituati troppo bene.
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Un turbinio di emozioni
Buzzati si rivela scrittore del tutto nuovo in questo romanzo pieno di vigore, intenso, coinvolgente, con un ritmo che colpisce con forza, in maniera quasi insolente, specie in alcuni capitoli, che si leggono senza prendere fiato, "risucchiati" nei profondi monologhi interiori del protagonista. Rispetto al più conosciuto "Il deserto dei Tartari", che ha tutt'altro ritmo, sembra davvero un racconto scritto da un altro autore. Mi ha sorpreso l'utilizzo di una prosa vibrante, che tralascia spesso la punteggiatura, ma lo fa volutamente, per rendere il ritmo ossessivo, come ossessivi sono i pensieri del protagonista. Un romanzo che scorre come un fiume in piena e sembra scandagliare il flusso dei pensieri più reconditi, ma anche di quelli improvvisi, del protagonista, per riversarli poi sulla carta come un pittore surrealista fa con i colori della sua tavolozza, gettandoli vigorosamente sulla tela, quasi volesse imbrattarla, renderla densa, corposa, astrusa, ma anche profonda, e certamente oscura. In questo senso il romanzo è quasi surreale, poiché vive attraverso le angosce di Antonio Dorigo, nutrendosi dei suoi contorti e macchinosi pensieri, nel contesto di una Milano malinconica e grigia, piovosa e sporca. L'ambiente nel quale vive, o meglio, sopravvive il protagonista, è simile ai suoi pensieri, alle sue angosce interiori, e sembra che l'uno si alimenti degli altri e viceversa. Sorprendenti gli immediati passaggi dalla prima alla terza persona, meravigliosi i dialoghi interiori pieni di dubbi di Antonio, che giorno dopo giorno rimane invischiato in un'amore morboso che gli toglie ogni energia, che lo tormenta e lo angustia, che lo fa diventare diffidente e geloso, ma anche incapace di reagire, di conservare la sua dignità, di ribellarsi definitivamente, di raggiungere un qualche punto fermo. Egli si divora interiormente senza capire i motivi che lo spingono a comportarsi in quel modo, si annienta, si lascia andare alla disperazione, distruggendo anche il suo amor proprio, senza capire cosa lo porti al tormento. Romanzo possente, denso, abbacinante, che racconta di un sentimento chiamato amore qui ridotto a puro stato morboso, a pura sofferenza interiore.
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Uno splendido esordio
Ogni volta che si legge Conrad si rimane colpiti dalla perfezione stilistica della sua prosa. La sua impronta classica, il suo romanticismo tipicamente ottocentesco, sono il segno distintivo di uno scrittore che già nel suo romanzo di esordio, all'età di 38 anni, riesce a farci vivere una storia densa di contenuti e piacevolissima da leggere. La lotta quotidiana alla ricerca della ricchezza e del benessere, l'amore verso la figlia Nina, le speranze, le paure, le illusioni, l'angoscia e infine la follia, sono messe in scena in maniera davvero magistrale L'atmosfera del romanzo, primo libro della trilogia malese, insieme con "Un reietto delle isole" e "Il salvataggio", è davvero suggestiva, con la tipica ambientazione conosciuta dall'autore nel periodo dei suoi viaggi nelle Indie orientali, nella fattispecie una località sperduta nel Borneo, dove la maestosa dimora di Kaspar Almayer fa da centro nevralgico dell'intera vicenda. Uno sguardo eloquente sull'insensatezza del colonialismo, un lucido ritratto di un uomo disperato, rimasto solo, in preda ad un tormento interiore che lo distrugge giorno per giorno fino al prevedibile epilogo.
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Chi era davvero Vittoria?
Quando sono usciti i dodici finalisti del premio Strega 2024 mi sono fatta una mia personale selezione dei libri che avrei voluto leggere.
Il primo che ho recuperato è “Chi dice e chi tace” di Chiara Valerio, edito da Sellerio.
Siamo a Scauri, paesino realmente esistente sulla costa tirrenica al confine tra Lazio e Campania, nei primi anni Novanta del secolo scorso.
«Paese è il posto dove tutti sanno tutto di tutti.»
La voce narrante appartiene a una donna che fa l’avvocato, Lea Russo, vive a Scauri, ha due figlie e un marito professore di fisica al liceo, Luigi. Quasi subito irrompe nella narrazione la notizia, imprevista e dolorosa, della morte di Vittoria.
Vittoria viveva a Scauri da circa vent’anni, ma non era originaria del luogo. Era arrivata da Roma, insieme a quella che allora era una ragazza bellissima, Mara, che non era sua figlia, né una sua parente, e con la quale Vittoria viveva come con una moglie. L’evento inaspettato della morte di Vittoria dà il via al romanzo: Lea si rende conto di non sapere poi molto della donna, fino al giorno del funerale non ne conosceva nemmeno il cognome; eppure, vivendo nello stesso paesino avevano condiviso molti momenti di vita, eventi, chiacchierate, paesaggi, amicizie. Lea comprende in quel momento di essere sempre stata affascinata da Vittoria, una donna libera, moderna, brillante e seducente e, nello stesso tempo, capisce di non aver mai approfondito questa amicizia, di non essere mai scesa in profondità nella relazione con Vittoria.
«Non importa il senso in cui ti piace qualcosa, importa che ti piaccia, e alla fine, quando ti piace e ti avvicini abbastanza, ci finisci dentro.»
La sua morte inoltre fa porre a Lea alcuni interrogativi: come è possibile che Vittoria sia morta annegando nella vasca da bagno quando tutti sapevano che era una nuotatrice provetta? Si tuffava regolarmente in mare, d’estate e d’inverno, e nuotava per chilometri.
Così, quando il parroco di Scauri consegna a Lea il testamento di Vittoria, l’avvocata decide che vuole saperne di più. Inizia quindi l’indagine di Lea, che non sarà la tipica indagine che nei gialli porta il lettore a scoprire chi è l’assassino. L’indagine di Lea porterà a ricostruire chi era veramente Vittoria, perché vent’anni prima era arrivata a Scauri con Mara. Cosa aveva lasciato della sua vita precedente e cosa invece aveva portato con sé. Questo momento di conoscenza di Vittoria avviene però quando lei ormai non c’è più e quindi diventa, per Lea, un momento di riflessione su se stessa. Lea prende maggiore consapevolezza di chi è, da dove è venuta, perché ha compiuto determinate scelte e non altre. Approfondendo la storia di Vittoria Lea – e direi anche noi lettori- si è resa conto di quanto le esistenze degli altri siano così diverse ma anche così simili le une con le altre.
Il romanzo mi è piaciuto molto. La narrazione procede speditamente in una prosa diretta e colloquiale, ma anche molto ricca di citazioni e richiami letterari. Le parole dei personaggi, riportate senza virgolette, sembra che irrompano improvvisamente nella mente di Lea come delle epifanie.
La vicenda è raccontata in modo delicato e allo stesso tempo profondo: gli affondi psicologici e sociologici ci sono ma vanno ricercati e colti dal lettore.
«Come definirebbe l’amore, avvocato, se non come l’oggetto del primo pensiero del mattino per ogni mattino della vita, io, di certo, ho pensato a lei ogni giorno.»
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Il lavoro nobilita l'uomo
Vitali abbandona le atmosfere della cara Bellano per raccontarci le vicende familiari del protagonista attraverso il suo monologo.
Titolare di una rinomata ferramenta che è il suo orgoglio per pulizia, disponibilità di materiali e competenza del titolare vorrebbe che qualcuno dei suoi figli condividesse la sua passione per proseguire nel lavoro una volta che lui decidesse di passare la mano.
Ma la primogenita è una dolce fanciulla e “Alice, la prima figlia, era stata una disgrazia di per sé. Voglio dire averla avuta per prima e, a tempo debito, non poterla mettere a lavorare in ferramenta. Cioè, avrei potuto. Ma una donna in una ferramenta, secondo me, non faceva una bella figura”.
Il secondogenito, l'Alberto, è prima un pò scavezzacollo, “Una testa di cazzo. Lo dicono che a volte i maschi giovani sono così. L’esatto contrario della maestrina che intanto aveva il pancione. Voglia di studiare, niente. Voglia di lavorare, ancora meno. Voglia di fare l’asino, fin troppa”.
Poi quando l'Alberto sembra aver imparato finalmente il mestiere diventa parecchio ingrato accettando la generosa offerta di lavoro nell'autosalone del "Concessionario", così viene chaimato il suocero.
L'ultimo è l'Ercolino, minuto a dispetto dell'appetito infinito, non solo alimentare ma anche di conoscenza, il ragazzo infatti sta sempre sui libri destando un misto di orgoglio e preoccupazione nei genitori.
Aggiungiamoci una moglie che parla un pò a sproposito e il quadretto famigliare è completo.
Le tribolazioni del povero protagonista sono espresse sotto forma di monologo, in modo sempre parecchio colorito, dalle vicende amorose della figlia Alice con il marito Anselmo che da subito non incontra i favori della moglie "ah quell'Anselmo lì..." e infatti si rivelerà un autentico farabutto.
Per arrivare ad Ercolino e al suo originalissimo "Erasmus" con 50 anni di anticipo sui tempi.
Consueta ironia sottile di Vitali a raccontare i tormenti di un capofamiglia figlio del suo tempo e delle sue tradizioni quali il valore del lavoro e dello studio purchè non fine a se stesso e con gli svarioni da beata ingenuità e ignoranza come quello per l'Anselmo rappresentante della nobilissima Ferfort , fornitore ufficiale della ferramenta, e dunque considerato un buon partito, peccato non si riveli poi una buona persona nei fatti.
Fino all'epilogo improvviso che da il titolo al libro in modo parecchio originale.
Non entusiasmante ma godibile.
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Quale casa?
Un luogo chiamato famiglia dove si è stati felici, oasi condivisa in un tempo insostituibile, dolce appartenenza nella diversità. Due genitori diversi e complementari, tre fratelli e la propria complicità, un cane che sbadiglia con la bocca spalancata, la cui presenza è un inno alla gioia e spezza la solitudine famigliare.
Il presente, negli ultimi anni sembra smarrito insieme alla propria identità, assenze immotivate, silenzi protratti, uno stato bulimico di trasandatezza in un dolore inarrivabile.
Come ritrovare la via di casa per sentirsi nuovamente a casa, ripercorrendo gli anni e gli avvenimenti che hanno accompagnato la famiglia Hasegawa all’ implosione del presente, come interpretare il passato tra stranezze e particolari nascosti che ora paiono così diversi?
La memoria riporta emozioni vivide, ricordi indelebili non sempre corretti, lei stessa variabile, labile, fallace.
Kaoru, figlio ultimo e voce narrante, ripercorre la salita verso casa chiedendosi che cosa abbia potuto disperdere un equilibrio famigliare perfetto riempiendolo di cotanto dolore.
Da sempre ha vissuto all’ ombra della fama disincantata di Haijme e della bellezza inquieta di Miki, fratelli ammirati, corteggiati, amati, nessun sentimento di gelosia, oggi si chiede da quali profondità e difficoltà fossero attraversati.
Spesso la vita è quello che pare, una definizione già scritta, nessuna interruzione, dubbio, sospetto, poche domande. Quando questa linea si spezza e deraglia, tutto collassa e ci si domanda che cosa ne è stato di noi, chi sono gli altri, quali verità si nascondono rendendosi conto di vivere pensando di non essere se stessi, imitando gli altri.
Kaoru rivisita le stanze di una vita condivisa, errori, omissioni, verità inimmaginabili, un percorso di intimità dolce-amaro, inseguendo un senso smarrito di somiglianza che superi il passato per ritrovare la serenità nel presente.
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Un po' Fantabosco, un po' High School Musical
Prima di leggere dei volumi companion all'interno di una serie mi capita di avere le idee poco chiare sull'ordine di lettura ideale, ma dopo riesco sempre ad individuare la soluzione migliore, anche se non è necessariamente quella adottata da me. Mi è capitato ad esempio con "La leggenda del vento" di King, che a posteriori avrei preferito leggere alla conclusione di The Dark Tower; "La lama dell'assassina" invece mi lascia perplessa anche dopo aver letto l'ultima pagina dell'antologia. Non riesco proprio a decidermi se avrei fatto meglio a leggerla prima de "Il trono di ghiaccio" o meno!
Il mio dilemma nasce dal fatto che questa raccolta è formata da cinque novelle ambientate cronologicamente prima degli eventi raccontati nel volume iniziale della saga, quindi sulla carta sarebbero molto utili per introdurre il lettore all'ambientazione ed alla storia di origine della protagonista, così che gli siano già familiari quando comincerà con i romanzi veri e propri. Per quanto mi riguarda però, se questo fosse stato il primo approccio a Throne of Glass, non escludo che avrei abbandonato immediatamente la nave perché tutti i difetti presenti ne "Il trono di ghiaccio" (trama inconsistente, protagonista esasperata, comprimari stereotipati, prosa urticante) qui sono elevati all'ennesima potenza. Avendo però alle spalle ben due libri letti, ho capito di non dover prendere sul serio neppure la metà delle occhiate minacciose che la nostra Celaena Sardothien lancia a destra e a manca, e così sono riuscita a trovare la lettura perfino divertente.
A dispetto di quanto credevo inizialmente, il volume può vantare una sorta di filo rosso teso a collegare le diverse narrazioni -che sono ambientate a pochi giorni l'una dall'altra- ed a delineare una sorta di avventura episodica. Si comincia con "L'Assassina e il Signore dei Pirati", nel quale Celaena ed il suo rivale Sam Cortland vengono inviati dal loro capo Arobynn Hamel per consegnare una missiva al Capitano Rolfe; quanto succede in questa novella porta la protagonista ad intraprendere un viaggio verso il Sud durante il quale incontra l'aspirante guaritrice Yrene Towers ne "L'Assassina e la Guaritrice", per poi finire ad addestrarsi con i Sessiz Suikast (meglio noti come Assassini Silenziosi) ne "L'Assassina e il Deserto", dove viene introdotto il personaggio di Ansel di Briarcliff, che di certo ritornerà più avanti. Pur con dei titoli fuorvianti, gli eventi de "L'Assassina e il Male" e "L'Assassina e l'Impero" gettano definitivamente le basi per portare Celaena alla sua reclusione presso le miniere di Endovier.
Prima di passare alle necessarie lamentele, voglio spendere qualche rigo sui pregi di questo titolo. Innanzitutto mi ha stupito in positivo scoprire che le diverse storie fossero chiaramente collegate tra loro; ho apprezzato inoltre l'inserimento di nuovi personaggi ed elementi di world building, come la mappa di Rolfe, gli accenni al fantomatico Continente Meridionale o la parentesi dedicata alla tela di ragno. Nonostante vengano messi in scena in maniera rivedibile, reputo pur sempre validi alcuni messaggi di fondo, come gli accenni all'importanza dell'autodifesa e la pressione psicologica da una figura di riferimento; mi sarebbe piaciuto promuovere anche il lato romance, ma per mio gusto manca di solide fondamenta: per quanto riguarda Sam dobbiamo accontentarci di sapere che l'ha sempre amata, mentre dal punto di vista di Celaena tutto lo sviluppo avviene quando sono separati e si basa sul comune biasimo verso la schiavitù. Non mi sembra granché per intavolare una storia d'amore!
Tra gli aspetti che reputo meno riusciti c'è di sicuro la regressione di Celaena, che cronologicamente avrebbe senso ma non per questo risulta meno fastidiosa: l'Assassina di Adarland punta di nuovo ad essere tutto e niente (schifa i poveri e poi vuole aiutarli, fa la provocante e poi si copre imbarazzata, secondo la CE dovrebbe avere un «cuore di pietra» e poi si impietosisce per chiunque). Ad avermi fatto alzare più volte gli occhi al cielo è stato però il suo continuo slutshaming e victimblaming: povera Lysandra! Su Sam non ho un'opinione migliore, perché i suoi rari sprazzi di intelligenza sono eclissati dalla sua eccessiva simptudine.
Personalmente avevo poi delle aspettative che questo volume ha demolito con fermezza. Mi aspettavo di vedere un passato più lontano (così da assistere all'addestramento di Celaena, anziché sentirlo solo raccontare dai personaggi), mi aspettavo un maggiore approfondimento sul personaggio di Arobynn e sulle sue motivazioni, mi aspettavo che la morte di Ben nascondesse qualche recondito mistero, mi aspettavo una conclusione in linea con gli altri volumi della serie, mi aspettavo degli assassini privi di scrupoli. Che poi è inutile schifare gli schiavisti, quando stai collaborando attivamente al racket della prostituzione.
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Fable, ma sei fatta per questa vita?
Fable non ha ancora diciotto anni, ma da quattro cerca di sopravvivere sull’isola di Jeval, covo di criminali violenti e senza scrupoli, mettendo a frutto la sua tenacia e, soprattutto, le sue abilità di apneista e gemmofila, per racimolare pietre preziose dal fondo del mare. Vi è stata portata, anzi, abbandonata dal padre, Saint, il più potente armatore mercantile dello Stretto, dopo che la loro nave era affondata trascinando con sé l’adorata moglie Isolde, la madre di Fable.
L’uomo, dal carattere cinico e imperscrutabile, le aveva promesso che, se fosse riuscita a sopravvivere e a tornare da lui nella città di Ceros, le avrebbe riservato ciò che le spettava. Per questo Fable ha cercato di risparmiare ogni ramillo (la valuta del luogo) che guadagnava vendendo i piropi che faticosamente stappa dal fondale corallino, per pagarsi il passaggio su una delle poche navi mercantili che attraccano a Jeval.
In particolare Fable è in contatto col giovane West, il comandante della Marigold, una lorcha che fa scalo ogni due settimane sull’isola. È lui che le compra tutte le gemme che trova. Quando, inseguita da uno dei loschi figuri di Jeval, Fable riesce finalmente a salirvi e, dando fondo a tutti suoi risparmi, a pagarsi il viaggio, crederà che la sua odissea sia terminata e ogni suo guaio risolto: potrà tornare dal padre e imbarcarsi su una delle sue navi.
Nulla di più errato: si troverà coinvolta in guai e pericoli che mai si sarebbe immaginata di dover affrontare tra misteri e intrighi tutti da scoprire. In una società feroce, che punisce ogni sgarro con morte atroce e che conserva rancori per decenni, dovrà lottare contro tutti e contro tutto per sopravvivere e riuscire a rifarsi una vita sua, libera da paure e costrizioni, libera anche dall’ombra opprimente di suo padre.
“Fable” è il romanzo d’apertura di una serie di storie ambientate in un immaginario mondo che gravita attorno a un braccio di mare chiamato “lo Stretto”, dove le tempeste che squassano le acque sono pane quotidiano per i marinai che osano percorrerne le rotte, ma dove il pericolo maggiore viene dagli uomini, implacabili e feroci al punto che una delle regole che Saint impartirà a Fable sarà proprio “Non rivelare mai, per nessun motivo, chi o cosa conta per te”, perché quella debolezza potrebbe essere fatale. E Fable lo scoprirà sulla sua pelle.
Ufficialmente considerato parte di una saga fantasy, in realtà questo libro di fantastico ha assai poco, se si esclude la dote della “gemmofilia”, l’affinità per le pietre preziose che contraddistingueva Isolde e che Fable ha ereditato da lei: una particolare sensibilità che l’aiuta a capire dove siano le gemme e quale sia il loro effettivo valore.
Per il resto è una storia di formazione alla dura vita dello Stretto, tra confronti non dissimili a quelli che potrebbero essere raccontati in un’avventura tra i bucanieri dei Caraibi o in un qualunque slum infestato da bande criminali e dolorosi ritratti di esseri umani che, per sopravvivere alle condizioni di vita disperata in cui sono costretti, accettano ogni compromesso, scendono a ogni bassezza. È pure una storia di amicizia e solidarietà (en passant pure d’amore), ma dove gli affetti debbono essere tenuti celati, per non trasformarsi in strumenti di ricatto e minaccia da parte di chi ti odia, sostanzialmente, cioè, da parte di tutti gli altri.
Molto ben delineate le ambientazioni marinaresche, anche con l’uso corretto dei vari termini tecnici, senza sbavature o i classici strafalcioni di chi non è uso a quel particolare vocabolario. Anche le atmosfere sono ben trovate e descritte. Il neo principale del romanzo, forse, è l’estrema sua lentezza descrittiva. Tutto sommato, nelle oltre 350 pagine, si racconta poco di più del viaggio di Fable tra Jeval e Ceros e il suo confronto col padre. Purtroppo il far parte di una collana che, a oggi, conta, oltre alla trilogia principale, un volume di prequel (dedicato a Saint) e due di sequel, ha concesso tempo e spazio all’A. di spandere su molte pagine il contenuto della storia che aveva in mente. Ne soffrono la descrizione dei personaggi, che in questo primo libro sono poco più che abbozzati e ancora da definire con chiarezza, soprattutto per i misteri e i retroscena che ognuno di loro cela accortamente. La reticenza che li contraddistingue ad aprirsi e manifestare i loro intimi stati d’animo, peraltro, rende i loro caratteri solo soffusi e tutti da decrittare. Ma pure l’evoluzione delle loro vicende è ancora incerta. Il concatenarsi delle azioni è solo ai primi passi, al punto che il romanzo si conclude lasciando il lettore col fiato sospeso a seguito degli ultimissimi spiazzanti avvenimenti che sembrano sparigliare le carte di una storia che si avviava verso un auspicato lieto fine.
In definitiva si tratta di un interessante libro, sotto certi aspetti innovativo, ma sul quale il giudizio finale resta ancora in sospeso, in attesa di vedere quali possano essere gli sviluppi futuri della storia e l’elaborazione che, in questo mondo fantastico solo all’apparenza, si intende dare alle tante questioni e relazioni al momento solo abbozzate.
Purtroppo è speranza vana aspettarsi che i romanzi fantastici possano essere autoconclusivi (anche se all’interno di una saga) e non unicamente elementi di una collana di indeterminata lunghezza da far scorrere sino al suo ultimo, lontano punto estremo.
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Il lato oscuro del consumismo
Un vero classico contemporaneo questo libro che può assolutamente definirsi un “evergreen” che non ha perso smalto dal 1962 (anno di pubblicazione) ad oggi. Nella storia fortemente autobiografica del protagonista, emigrato a Milano negli anni del boom economico per spirito di vendetta con l’intento di provocare un’esplosione nel “Torracchione” (un grattacielo pieno di uffici direzionali) e vendicare così le morti sul lavoro di numerosi minatori suoi compaesani, si evidenzia un messaggio ancora molto attuale. A tutt’oggi infatti le morti sul lavoro continuano a esistere, così come le mille difficoltà a trovare un lavoro e sbarcare il lunario per coprire tutte le spese ed arrivare a fine mese.
La vicenda raccontata da Bianciardi a tratti assume i contorni di un saggio sociologico nel quale l’autore non esita a illustrare il suo pensiero (“...questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre...Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano”). L’Italia del dopoguerra è un Paese nel quale la logica consumistica, il bisogno di spendere denaro per possedere sempre più oggetti è pompato al parossismo. L’obiettivo è la crescita continua della produzione, del reddito, dell’occupazione, con l’intento di creare un meccanismo apparentemente virtuoso che in realtà non fa che accrescere il potere delle classi dirigenti, delle autorità, provocando altresì l’alienazione delle masse, l’incomunicabilità degli individui, per ultima la noia. Lo stesso protagonista non risulta immune dal perverso meccanismo in quanto travolto dal fascino delle mille luci della città. Milano ed in particolare il quartiere di Brera dove vive, garantiscono un facile divertimento, molteplici occasioni di incontro, tanto che sembra inevitabile arrivare a tradire non solo la moglie rimasta col figlio nella provincia toscana, bensì il proprio vissuto, le proprie origini.
Sta proprio in questa aspetto il messaggio salvifico rilanciato dal protagonista che si rende conto del proprio fallimento, oramai ruota di un ingranaggio dal quale non riesce a staccarsi, perennemente alla ricerca di quel denaro necessario per vivere e da mandare a casa, dalla moglie. L’unica possibilità di redenzione da questa “Vita agra” passa dalla scelta consapevole della gente che deve imparare a “non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi rinunziare a quelli che ha”. Solo così si potrebbe tornare ad uno stato di natura primigenio, con una riscoperta della sessualità “dono gratuito di natura l’unico bene riconosciuto e durevole” che farebbe così cessare qualsiasi altro bisogno consumistico.
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Il Sacro femminile
“Donne sacre”, interessante saggio di Franco Cardini e Marina Montesano, ci accompagna in un dotto percorso storico e, direi, in parte anche antropologico, di approfondimento riguardo al tema del sacro declinato al femminile. Benché il sottotitolo sia “Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici”, questo studio non è propriamente, a almeno, non esclusivamente, una storia di personaggi femminili straordinari, una biografia di donne eccezionali. È piuttosto un approfondimento del concetto di sacro coniugato alla sfera del femminile.
Innanzi tutto occorre definire bene il concetto di “Sacro”. Sarebbe fuorviante pensare al Sacro come a un concetto che porta con sé necessariamente delle qualità che si attribuiscono al Divino come la Bontà, la Verità, la Giustizia, considerate assolute e perfette: qualità che finiscono comunque per essere antropizzate. Il Sacro invece è “ciò che per sua natura è tutt’altro da noi”.
«Al pari della corrente elettrica, il Sacro non è per sua natura né “positivo” né “negativo”, né buono né cattivo.»
«Il Sacro è una forza silenziosa e sottile ma sconvolgente: qualcosa di totalmente diverso, di “altro”, rispetto all’uomo; una forza divina e mostruosa al tempo stesso. Può essere anche Santo, quindi prossimo al Divino e al suo modello; al contrario, però, accade che si presenti come terribile e feroce.»
Nella storia sono esistite, sia nei sistemi religiosi che in quelli mitico-religiosi, delle donne che hanno avuto un contatto privilegiato con il Sacro. Non sempre questo le ha rese migliori o sante, anzi, a volte il diverso presente nella loro natura sacrale può averle rese anche terribili e mostruose.
In questo testo quindi vengono presentate alcune figure femminili che hanno avuto una relazione privilegiata con il Sacro, così come lo abbiamo definito. Infatti, anche se le donne, in alcuni contesti storici, sono state escluse dai ruoli istituzionali del sacerdozio, le figure di sacro femminile certo non mancano nel mito, nella realtà, nella letteratura e nell’immaginario comune. Il Sacro femminile è stato un elemento essenziale di molte culture, un ponte verso il divino, l’altrove, l’aldilà.
Procedendo in questa stimolante lettura possiamo conoscere diverse tipologie di sacralità femminile dell’età antica, tardo antica e medievale, fino ad arrivare alle soglie dell’età moderna e facendo un rapido excursus anche nella contemporaneità.
I primi capitoli esaminano il Sacro femmineo presente nel sistema delle religioni a struttura mitico-immanente, i culti metroaci, le divinità femminili e le sacerdotesse delle religioni politeiste antiche. Lentamente si arriva alla figura di Maria, la Vergine e Madre di Dio secondo i cristiani, alle sante medievali per poi giungere all’approfondimento riguardante le donne che riescono a comunicare con i morti e con l’aldilà, alle donne fatate, magiche e alle streghe. Infine, arriviamo all’ultima parte del testo in cui si approfondiscono alcune figure di donne particolarmente carismatiche, come Eva Perón.
Siamo di fronte ad un saggio molto stimolante, soprattutto per gli appassionati di storia, etnologia e antropologia, che ci permette di approfondire il tema del Sacro femmineo attraversando principalmente le epoche storiche di antichità e medioevo ma con accenni anche a momenti più contemporanei.
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Quale colpevolezza?
….” La brezza che scende lungo i fianchi della collina mormora tra i fili d’ erba alta e la fucsia color del sangue. Non mormora parole di perdono”…
Jim Winter, uno scrittore impantanato nei giorni asfissianti del lockdown, organizza un workshop online per cinque aspiranti scrittori che manterranno il completo anonimato. Uno dei testi, scritto da una certa Deirdre, è locato a Rally, piccolo e sonnolente villaggio irlandese dove negli anni ‘70 si è consumato l’ assassinio di un orfano diciassettenne, Mattie Lantry, un mistero allora irrisolto.
Il noir di William Wall, romanziere, poeta e traduttore irlandese, inscena un dubbio atroce, almeno nella testa del protagonista, la ricerca di un colpevole che completi le tessere mancanti.
In fondo omettere, mentire, nascondere, tralasciare, tradire, lasciare soli, sottomettersi al volere altrui è già una ammissione di colpa, un peso insostenibile per una coscienza sporca che riaffiora e non conosce possibilità di fuga, in primis da se stessa.
Il racconto, via via arricchito di capitoli e di particolari, che Jim Winter da subito riconosce appartenere alla propria infanzia, nella storia e nei protagonisti, lo induce a riflettere sulla reale identità della presunta scrittrice e su che cosa ella voglia ottenere, dimostrare, rivelare, scoprire.
Di certo Deirdre conosce bene la materia e i fatti di cui parla, per Jim quale il senso di rivivere una trama che ha già respirato, rivedendo i volti di amici, parenti, rivali, un testo che potrebbe avere scritto direttamente, immaginando un finale a sorpresa, qualcosa di certo che lo metterebbe in pericolo?
Non è dato saperlo in una storia a metà tra reale e finzione letteraria, ridiscutendo i termini di quello che fu, quel nastro della memoria riesumato dalle parole di un estraneo, una memoria che non è altro che
….” il modo in cui noi raccontiamo una storia a noi stessi, un modo di razionalizzare gli eventi casuali che costituiscono effettivamente la nostra vita”….
Ci si confronta con significati non sempre evidenti, mutanti nel tempo, nelle circostanze e nelle persone.
La propria vita cambia, soverchiata da ansia, preoccupazione, paura, ridiscutendo il presente in funzione del passato, una versione di se’ sconosciuta anche a se stesso, dubbi, ferite, ricordi sfumati, il proprio matrimonio rivisto in funzione di quello che è stato.
Jim si specchia e non si riconosce, legge, rilegge, suggerisce, cancella, partecipa alla costruzione del testo, ma di quale testo si tratta, proprio, altrui, quello che avrebbe voluto scrivere, e chi è Deirdre o semplicemente diventa,
…” un mio alter ego, un me stesso diverso, innocente, che stava scrivendo la storia della mia vita, una parte di me nella quale non avevo mai osato inoltrarmi, uno scrittore molto più bravo di quanto io non fossi mai stato, una parte di me non soggetta ad alcuna autocensura”…
Il mistero si infittisce e permea una prosa dal ritmo sempre più incalzante in un’ Irlanda attraversata dal virus, imbevuta di cattolicesimo, politicamente scorretta, infarcita di paesaggi mozzafiato, una miscela di maschere e di tracce tra passato e trapassato in un presente ansiogeno e in completo disfacimento verso un futuro imbevuto di niente.
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La Femme Fatale
Charles Antoine Frédéric Dard nasce nel 1921 in Francia e muore in Svizzera nel 2000. E stato uno tra i più famosi e prolifici romanzieri francesi del genere noir della seconda metà del XX secolo. Ha scritto più di 300 romanzi in tutta la sua carriera e ha venduto più di 290 milioni di libri e nel 1957 è stato insignito del Grand prix de littérature policière, il più importante riconoscimento francese per il genere del giallo. Diventa famoso con la serie di polizieschi che ha per protagonista il commissario Sanantonio, serie che prosegue anche dopo la sua morte con il figlio Patrice Dard come autore.
Per chi volesse seguire la sua produzione in ordine cronologico si addentra in un bel ginepraio, perché oltre alla mole di opere da lui scritte, quelle tradotte in italiano non sono purtroppo tantissime.
Io ho scovato in libreria due riedizioni, e Prato all’inglese è una delle due.
In una ridente ed estiva Juan le Pins in Costa Azzurra, Jean Marie Valaise conosce fortuitamente Marjorie Faulks, la donna sale per errore sulla sua macchina, accampando la scusa che anche lei ha un'automobile uguale posteggiata proprio lì accanto e che si è confusa. La donna sparisce ma inavvertitamente lascia la sua borsa nella macchina del nostro protagonista. I due si incontrano di nuovo per caso la sera al casinò e poi ancora il giorno dopo quando lei si presenta in albergo da lui per riprendersi la borsa. Marjorie è infelicemente sposata e Jean Marie è temporaneamente in pausa da un fidanzamento in crisi. Lei deve tornare in Inghilterra la sera stessa e gli lascia un indirizzo dove lui può scriverle. Ma in realtà, tempo poche ore e per Jean Marie, la bella Marjorie è già quasi dimenticata, almeno fino a quando non riceve una lunga lettera di lei, la quale lo invita a passare con lei una settimana a Edimburgo, perché sarà sola, dato che il marito sarà in viaggio per lavoro.
Jean Marie non ci pensa due volte, coglie l’occasione al volo e parte per Edimburgo, ma arrivato in hotel non trova Marjorie, e la cerca disperatamente per tutta Edimburgo finchè non la trova in un alberghetto di periferia, dove trova però anche una bella sorpresa, il marito.
Da questo triangolo indesiderato nasce il delitto, quasi rocambolesco e inverosimile, nel quale Jean Marie rimarrà coinvolto in prima persona in quanto accusato di omicidio premeditato.
Devo dire un libro di una inaspettata piacevolezza. Oltre a una vera suspence che ti tiene incollato alle pagine, il tutto è condito da una sottilissima vena ironica e da un’arguta dovizia di dettagli che fanno riflettere e stupire al tempo stesso.
E’ un classico noir, edito in lingua originale nel 1962, e c’è la classica femme fatale, da cui il nostro “eroe” viene inevitabilmente irretito, in un gioco di passione e morte apparente e non.
Il ritmo di lettura è quello francese, cadenzato da un susseguirsi di eventi, uno dopo l’altro che catturano l’attenzione del lettore fino alla fine.
Un libro che consiglio a chi cerca qualche ora di svago.
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Anime nere
Colle San Martino è un paesino arroccato nel centro Italia, senza particolari attrazioni e senza aspirazioni.
I suoi abitanti sono l'emblema della piccolissima provincia sperduta: tutti sanno quasi tutto di tutti, pochi sono utili davvero a qualcuno. Samantha ha 17 anni e un problema molto serio : teme di essere incinta e a preoccuparla non è tanto la possibilità in se quanto la consapevolezza del nulla che è il rapporto col fidanzatino.
Le uniche ad esserle vicine e di conforto sono l'amica Nadia e la vicina di casa Ida, i genitori hanno troppi problemi a mettere insieme il pranzo con la cena dopo che papà ha perso il lavoro.
Su tutto il paese dominano due figure agli antipodi ma ugualmente tormentate Cicci Bellè facoltoso proprietario di parecchie case in paese dove è parimenti temuto ed odiato, il quale tratta come una serva la moglie e si angoscia per il figlio Mario un ragazzone di 32 anni con il cervello di un bambino e Don Graziano, ruvido sacerdote che si occupa del nipote rimasto orfano.
La vita in paese prosegue tra i sussulti delle miserie di ogni individuo , il papà di Samantha non riesce a trovare lavoro ed è disperato e sommerso dai debiti, Samantha scopre che il fidanzatino è anche peggio di come lo aveva giudicato, lei cerca conforto e aiuto in un altro ragazzo che è a suo modo vile e immaturo.
Cicci Bellè ha continui scontri con Don Graziano e una serie di problemi nella riscossione dei debiti che la povera gente ha contratto con lui per l'affitto o per altre necessità, tra i più inguaiati c'è proprio il padre di Samantha e Cicci Bellè arriva a fargli una proposta allucinante per estinguere il debito.
In un simile contesto i social, la Tv e tutte le modernità non riescono a fare breccia nelle mura di ignoranza e consuetudini retrograde che sembrano circondare e soffocare il paesino, siamo ai giorni nostri ma pare di essere rimasti indietro nel tempo di cinquant'anni.
Samantha dovrà tirare fuori le unghie per difendersi dalle angherie delle persone e del destino fino ad un finale drammatico da fiaba nera con una resa dei conti disperata che scompiglia le carte in tavola e i "buoni" che finiscono per non essere più così buoni, la mala erba si è estesa a tutti ed è diventata l'unico modo di essere per sopravvivere .
Noir freddo e spietato, crudo nelle vicende e nei termini , Manzini non fa prigionieri nel descrivere la solitudine dell'anima delle persone nelle piccole realtà di provincia, la miseria morale più che economica non solo degli adulti Bellè e Don Graziano ma anche dei giovani tra cui si elevano la lealtà di Nadia e il coraggio di Samantha che impersona la figura del poster in cameretta : la donna lupo.
Da leggere per riflettere.
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Agghiacciante
“Non ho ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra quasi di avervi dato una mano a morire.”
La voce narrante è Jack, quattordici anni.
Con lui la sorella maggiore Julie diciotto anni, Sue dodici, Tom sei.
Tutto comincia con quindici sacchi di cemento che servono a costruire un alto muro intorno al loro mondo per circondare la casa, davanti e dietro, con una spianata liscia di cemento.
“Mio padre steso per terra a faccia in giù, con la testa appoggiata al cemento appena steso. Mi avvicinai lentamente, sapendo che dovevo correre a chiedere aiuto. Per parecchi secondi non riuscì ad allontanarmi… quando l’ambulanza se ne fu andata, uscì a guardare il nostro vialetto. Nessun pensiero mi attraversava la mente mentre raccoglievo la tavola e con ogni cura cancellavo l’impronta di mio padre dal cemento fresco, soffice. ”
Questi accadimenti non sono un segreto, che tutto ciò succederà lo sappiamo a priori. Dalla quarta di copertina.
Quattro fratelli, una madre debole e malata. Un padre assente, ora per sempre. Una casa.
La narrazione è fredda, spigolosa, spietata, nessun aggettivo che ci faccia pensare all’affetto familiare. Sono tutti come fantasmi nei sentimenti.
E poi Jack, diabolico, ne starei certamente alla larga.
Quattro ragazzi che resteranno soli.
Le risa di fronte al corpo inerme della madre. I ragazzi che discutono sul da farsi. Come se la situazione fosse estranea da loro. Per un attimo mi viene in mente la stupidità, ma solo per un attimo.
Il racconto è talmente una narrazione lontana che quasi non mi impressiona. Ciò che destabilizza è l’inutilità di questi figli che tali non sono, la loro vuotezza d’animo, il loro pensare a soddisfare gli istinti animaleschi beandosi delle situazioni più dolorose.
La loro ignoranza di sentimenti ci viene spiattellata dall’autore subito.
I loro gesti fastidiosi che avrei volentieri evitato di leggere.
La sensazione di una prosa praticamente perfetta per ciò che racconta mal si sposa con i pensieri che suscita in me che leggo. McEwan non si smentisce mai, ti fa ruzzolare giù con lui a velocità vorticosa, nonostante la narrazione sia frenata, lenta, affinché il dolore emerga piano e coinvolga chi legge. Io non vorrei farmi trascinare ma l’unico modo per resistere e interrompere la lettura. Questo è McEwan. Non te le manda a dire.
Sarò una voce fuori dal coro ma questo romanzo non mi è piaciuto, non mi sento di consigliarlo e tornando indietro non lo leggerei. Ma se non lo avessi letto non potrei esprimere questo parere. Sembra contraddittorio ma è proprio questo che provo.
L’autore mi piace tanto, ho letto diversi suoi scritti tutti più o meno gradevoli e molto interessanti.
Chissà se con questo romanzo non volesse ottenere proprio questo risultato.
Forse la risposta è tutta nel titolo.
Buone prossime letture.
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Un romanzo double face
Londra 1881, il giovane medico Simeon Lee è ossessionato dalla volontà di sconfiggere il colera, ma non riesce a ottenere dal suo istituto ospedaliero i necessari fondi per la ricerca. Allora accetta l’incarico che suo padre gli ha trovato: assistere un lontano parente, il reverendo Oliver Hawes che da alcuni giorni denuncia un progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Simeon, perciò, si reca a Colchester, Contea dell’Essex, e da lì nell’isola di Ray un affioramento fangoso collegato alla terraferma solo da una strada che l’alta marea spesso sommerge rendendo pericoloso il percorrerla. Sull’isoletta, non di rado avvolta dalla gelida bruma del Mare del Nord, sorge solo la residenza del sacerdote, Turnglass House, un bizzarro edificio a due piani, sormontato da una banderuola fatta a clessidra di cristallo. Qui vivono solo padre Oliver e sua cognata Florence che il tribunale ha condannato alla reclusione domiciliare, come alternativa all’internamento in manicomio, per la brutale aggressione ai danni del marito a seguito della quale l’uomo era morto dopo una breve agonia.
Il sacerdote sospetta di essere stato avvelenato proprio da lei, anche se non sa in qual modo, visto che non si ciba che delle pietanze preparate dai due domestici anche per loro (ed essi godono di ottima salute) e la cognata da oltre due anni vive confinata in un’ala dell’edifico, una sorta di gabbia di vetro, senza poter aver alcun contatto con l’esterno.
Per il dottor Lee, inizia così una gara contro il tempo per scoprire le cause dell’infermità dello zio, ma anche per portare alla luce la storia passata della famiglia, misteriosa e inquietante; storia che potrebbe nascondere la motivazione, se non la causa, del male che sta uccidendo il sacerdote.
Los Angeles 1939, Ken Kourian è un giovane laureato a Boston che s’è trasferito in California nella speranza di sfondare nel cinema sonoro che sta avendo un enorme successo ovunque. Il caso gli farà conoscere Oliver Tooke, figlio del governatore dello Stato e scrittore di successo. Ne diviene amico e, con lui, passerà momenti piacevoli nella villa sull’oceano della famiglia; un bizzarro edificio a due piani interamente in vetro, sormontato da un segnavento a forma di clessidra di cristallo che è fronteggiato, in mezzo al mare, da una strana costruzione che l’amico chiama “torre dell’ispirazione”, ove si rifugia per lavorare ai suoi libri.
Questi momenti felici verranno brutalmente interrotti dalla morte violenta di Oliver. Ken, una notte in cui si trovava ospite a casa sua, lo ritroverà, ormai cadavere, nella torre dell’ispirazione, ucciso da un colpo di pistola alla testa.
Possibile che Oliver si sia davvero suicidato, come asserisce la polizia, proprio il giorno dopo l’uscita del suo ultimo, atteso romanzo, “Turnglass House”? Ken, lo ha visto sulla barca che si dirigeva alla torre assieme a un’altra persona; ma il secondo uomo non si trova da nessuna parte e non c’è nessuno a confermare la sua versione.
Assillato dai dubbi, inizierà a indagare assieme alla sorella del morto, Coraline, andando in Inghilterra, sull’isola di Ray, dove sorge l’antica casa di famiglia dei Tooke per indagare, ma pure studiando attentamente l’ultimo romanzo di Oliver, che narra della storia del giovane medico Simeon Lee il quale, nel 1881, cercò di salvare la vita al reverendo Oliver Hawes. Proprio nel libro scoprirà inquietanti corrispondenze tra il passato della famiglia Tooke e i personaggi del romanzo. Che dette somiglianze siano qualcosa di più che semplici casualità, espedienti narrativi o mere ispirazioni letterarie? Che in esso Oliver abbia tentato di fare rivelazioni scottanti relative alla sua famiglia e queste abbiano fornito il movente per il suo omicidio?
Due romanzi in un unico volume? O un unico romanzo suddiviso in due storie convergenti? Questo è ciò che ci offre Gareth Rubin in questo sorprendente libro double-face.
La tecnica tipografica del tête-bêche era molto utilizzata dagli stampatori del XIX secolo e consisteva nel disporre una parte del testo al diritto e l’altra al rovescio. L’A. in questo caso ci offre due romanzi, uno, con copertina blu da leggere al dritto e uno, con frontespizio rosso, da leggere capovolgendo il volume.
La scelta non è solo un artificio grafico per rendere più accattivante e curioso il libro, ma proprio un metodo narrativo. Non per nulla anche le due storie sono racconti matrioske con libri entro libri che interagiscono con la realtà raccontata cercando di svelarcela o anticiparcela. Inoltre in entrambe sono presenti libri tête-bêche: nella storia del XIX secolo c’è un libricino con una vicenda ambientata nel suo futuro (1939 in California!) che, sul retro, riporta il diario segreto del reverendo; nella seconda, quella del 1939, il romanzo di Oliver Tooke sul retro riporta un diverso racconto.
Ma il gioco di specchi continua per tutta la narrazione, intrigando e incuriosendo il lettore: entrambe le vicende sono misteriose e piene di enigmi; i riferimenti e i collegamenti tra le due vicende, lontane mezzo secolo, divengono, pagina dopo pagina, più evidenti e inquietanti.
L’A., in pratica, oltre a offrirci due racconti intrinsecamente connessi l’uno all’altro, ci presenta un gioco di incastri ed enigmi per sfidarci a scoprire le arcane relazioni che esistono tra le due vicende distanti nel tempo.
Molto abilmente anche lo stile narrativo si adatta alle epoche: quello usato per raccontare la storia del 1881 è più retrò e ricercato, mentre quello della seconda vicenda è decisamente più veloce e diretto, quasi chandleriano.
La prima vicenda ha un sapore vagamente gotico, con atmosfere cupe e tenebrose, che si snodano in un ambiente chiuso e astioso, fatto di gente dedita a traffici illeciti, ostile verso gli estranei; evidenti i richiami a temi cari a Poe, Bierce e Stoker, con accenni a vaghe ingerenze soprannaturali.
La seconda, invece, ci porta in una California rutilante al colmo del suo splendore, tra feste alla Grande Gatsby (con gente sfavillante fuori e vuota dentro) e infatuazioni cinematografiche, ma con situazioni hard boiled e immancabili strizzate d’occhi, come accennavo, alle ambientazioni tipiche in Chandler e Hammett.
Gradevoli le due vicende, ben congegnate ed entrambe cariche di suspense e colpi di scena, narrate con ritmo serrato e scorrevole, anche se non sono particolarmente astrusi gli enigmi proposti e intricate le avventure che affrontano i protagonisti. La fine di entrambe, però, ci lascia parzialmente insoddisfatti, come se i due cammini, che dovrebbero condurci alla soluzione finale del doppio mistero steso tra i due secoli, fossero interrotti da un baratro, un burrone che impedisce di percorrerli sino all’auspicata meta. Le quattro pagine bianche che dividono la fine del dramma ottocentesco da quella del giallo moderno sembrano quasi poste allo scopo di consentire al lettore di continuare, lui, la narrazione per giungere a una conclusione comune e soddisfacente, cercando di dare un senso a indizi e segnali disseminati nelle due storie che, a fatica, si debbono individuare, interpretare e connettere.
In definitiva, si tratta di un romanzo gradevole e divertente, di buon intrattenimento, ma parzialmente incompiuto, irrisolto; un libro che pur svelando le trame occulte che vi sono intessute e identificando formalmente i colpevoli e i mandanti dei delitti compiuti, ci priva del momento catartico atteso nel finale. In pratica ci lascia insoddisfatti e in attesa di un ulteriore capitolo risolutivo, con la delusione di chi, intrigato e affascinato dall’idea e dalla sua realizzazione tipografica, si aspettava ancor di più di quanto realizzato e si trova, invece, abbandonato sull’orlo del disvelamento risolutivo.
Un’ultima curiosità: come Dante si dilettò di chiudere le cantiche della sua Commedia con la parola “stelle”, ripetuta nei suoi ultimi tre endecasillabi, così Rubin termina i due racconti con la stessa, identica parola: “tempo”. Forse, proprio il tempo è la chiave di lettura di questo libro, la soluzione cercata: con il suo scorrere può sciogliere, prima o poi, i nodi e gli intrecci che gli uomini ordiscono.
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Un’avvertenza ai futuri lettori. Per quanto, in teoria, è previsto che si possa iniziare sia dal racconto ottocentesco che da quello più moderno, consiglio di cominciare da quello cronologicamente precedente, cioè da quello con la copertina blu. Infatti, per quanto esistano richiami incrociati alle due vicende, nella storia del 1881 si incontrano meno anticipazione dell’altra e, quindi, non c’è rischio di privarsi delle sorprese che ci riserva la seconda.
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Destino infausto
…” Ambos mundos, i due mondi, ossia quello vecchio e quello nuovo, dritto e rovescio, sostando dall’ altra parte”… ,
I personaggi dei sette racconti di Natzuo Kirino, uomini, donne, bambini, amanti, figli, mogli, senzatetto, trascinano le proprie solitudini e fragilità verso una deriva esistenziale personale e condivisa, il mondo un luogo dove non riconoscersi, sovente antitetico al proprio sentire.
Una scrittura , scorrevole, sussurrata, essenziale, un’ alternanza di grazia e crudita’, dolcezza e violenza, amore e morte all’ interno di un microcosmo relazionale e sentimentale deflagrato in indifferenza e noncuranza, anime che si sfiorano senza toccarsi, corpi vicini che non si guardano, sogni tramutati in incubi, digressioni di reale sfumate in una solitudine esistenziale tristemente indotta.
Protagoniste al femminile, bullizzate sin dall’ infanzia, sopravvissute a un’esistenza di stenti, non amate abbastanza, respinte dal proprio padre naturale, soverchiate dai sensi di colpa per essersi perdute in un ideale romantico, donne che ricordano buffe avventure erotico-sentimentali, che ripercorrono un passato famigliare dissolto, giovani che vivono un futuro già scritto, ricordando i tempi felici.
Il presente, figlio di giorni alienati e alienanti, sfugge a una possibile definizione, imbrattato di cupe parole e tristi presagi, solitudine, disperazione, rabbia, alienazione, tristezza, ansia, senso di vuoto, debolezza, stati d’ animo malinconici e iracondi, un presente inspiegabile oltre le avversità che hanno indirizzato il proprio destino.
Una vita sovente non voluta, inaccettabile, paralizzante, quando scelta sovente specchio artefatto di un viaggio violato dalla noncuranza di chi dovrebbe prendersi cura di noi, amarci, soccorrerci, proteggerci, indirizzarci. Laddove un briciolo di felicità sembrerebbe prendere forma, tutto pare dissolversi in sfaccettature declinanti senza la forza di affrancarsi da una condizione siffatta, sovrastati da debolezza e fragilità, da un male di vivere con radici profonde, destinato a una rassegnazione definitiva.
Un senso del vivere compagno di egoistiche presenze riflettendo su un’ imperscrutabile incomunicabilità di fondo, vite perdute, rimpiante, consumate, affrante, nessuno esente da colpe, nella forma e nella sostanza, un po’ vittime e un po’ carnefici, di se stessi e degli altri, abbandonati a una riflessione amara sulla propria condizione necessaria.
Tra le pagine la superficialità di chi è costantemente impegnato altrove, innamorato di se’, sospinto da stereotipi gaudenti che ignorano emozioni e sentimenti dell’ altro, riducendoli a strumenti del proprio apparire, una società costruita su tradizioni obsolete, deragliamenti famigliari, infelicita’ di coppia, solitudine affettiva.
Una condizione siffatta, che accompagna retaggi dell’ infanzia, esercitando un cammino di violenza e di indifferenza, ha sottratto e spogliato il delicato universo femminile dei propri sogni più intimi, ha abbandonato la sensibilità individuale in un’ arida terra di nessuno, elevando a quotidianità invivibile l’ idea infausta di contare assai poco agli occhi di chi si ama.
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Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?
Ero in libreria alla ricerca di un nuovo compagno quando lo sguardo si è posato su questa copertina e su questo titolo. Conosco l’autrice e mi piace molto come giornalista.
Una veloce lettura della quarta di copertina mi ha quasi bloccata dall’acquistarlo temendo un risveglio delle mie paure più ancestrali. Poi mi sono detta che le paure comunque restano. E questo libro non avrebbe cambiato un dato di fatto.
Ciò che mi colpisce di lei nel suo lavoro è la sensazione che possa sentirsi a casa ovunque, nei territori più lontani, feroci e poco ospitali.
Il racconto è molto diretto, sembra di leggere un diario di ricordi e di confessioni a cui non si sottrae. Famiglia e malattia si alternano nella narrazione. Ma anche le difficoltà di trovarsi al cospetto di ospedali, medici, infermieri…file interminabili e liste di attesa che non hai il tempo di attendere. Le scelte da prendere e le persone di cui fidarsi. Scontrarsi improvvisamente con quell’immenso mostro burocratico che è la Sanità. Sapere di non poterne fare a meno.
“Mentre uscivo dal parco di Santa Maria della Pietà ho chiuso gli occhi e l’ho sentita, finalmente. Era la sua voce. Mi ha detto: attenta a te.”
E’ impossibile non provare empatia, ma questo non è l’unico sentimento che la lettura suscita.
Cerco di immaginare cosa possa significare non sentire più un lato del corpo, gamba, piede, ascella, collo, testa, spalla, gomito, avambraccio, mano, anulare, mignolo, vederli, ma sentirli estranei, assenti.
Mi impressiona il racconto della sua prima risonanza, rivivo la mia, la maschera intorno alla testa a bloccarla, le cuffie per attutire i rumori, la pompetta stretta in mano da schiacciare al primo accenno di claustrofobia. Quando il lettino è scivolato nel tubo e la luce ha cominciato a sparire ho realizzato lo spazio che avevo. E non ho avuto il tempo di premere la pompetta. Ho urlato di tirarmi fuori. Solo dopo tanto tempo ho riprovato, e come lei ho tenuto gli occhi chiusi per circa un’ora.
Ammiro il suo coraggio. Perché così appare ai miei occhi. Il suo prima e il suo dopo.
E io avrei avuto lo stesso coraggio?
La sua diagnosi mi gela. Ignoravo questo aspetto della sua vita.
Francesca Mannocchi ha trentasei anni e un figlio di sei mesi quando scopre di essere affetta da una malattia neurologica cronica, la sclerosi multipla, una malattia potenzialmente disabilitante del cervello e del midollo spinale. E’ definita ingravescente, cioè la situazione patologica può peggiorare progressivamente.
Quando ciò possa accadere resta un punto oscuro.
“Chiedimi se ho paura.”
Quando sarà cominciata la malattia, dove, perché. Ha senso porsi queste domande?
Le foto con un prima e un dopo. Essere nel contempo ignari.
“Non posso spostare l’asse del tempo e riportarlo indietro, ma posso provare a non essere schiacciata dal passato e dal futuro.”
Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?
Macchie nel cervello, quel grigio che invece di essere uniforme ha delle placche bianche. Il danno.
“Mi posso fidare ancora del mio corpo?”
Le sue domande sono le mie. Lo erano anche prima di leggere la sua storia.
Perché in fondo il pensiero di come sono ora e di come sarò domani non mi abbandona mai.
Rifiuto, collera, ingiustizia, depressione, vergogna, malattia.
La rabbia che le fa pensare “Perché a me?”
È un raccontarsi in modo molto pulito, asciutto ed essenziale, senza travestimenti da supereroe, senza descrizioni di una famiglia perfetta e di una gravidanza idilliaca. Forse perché quando qualcosa ti tocca da vicino mentire sarebbe un inutile sforzo. Chissà che il suo lavoro, di inviata in zone di guerra che con tanta cura riesce a raccontare, non abbia condizionato e reso veri, reali, anche i racconti su se stessa e su ciò che le sta’ intorno, sul voler chiamare le cose con il loro nome.
Che è sempre un punto di partenza fondamentale, aggiungo io.
La prosa asciutta e schietta mi fa pensare ad una rassegnazione e ad una reazione. E questo mi suscita grande ammirazione.
Se potessi farlo le direi semplicemente grazie.
Buone prossime letture.
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Invisibilità manifesta
Il signor Cui è un uomo invisibile che costruisce e smercia altoparlanti, preda di se’ e di un vago sentimento nostalgico, un’ ombra che sa di malinconia in attimi rarefatti di serenità, attraversato da una consapevolezza effimera, impossibilitato a scavare nel profondo preferendo sostare in superficie, intriso di ricordi rarefatti di chi non c’è più, percorso da esili presenze-assenze in una Cina rivolta al capitalismo con retaggi di un passato recente.
Vive una condizione di solitudine acuita dal tentativo della sorella di cacciarlo di casa, si sottrarre all’ appellativo di audiofilo preferendo il termine “artigiano” che nella contemporaneità è un po’ come essere un mendicante.
Tuttora sconta l’ asfissiante presenza di un matrimonio finito tristemente conducendo un’ esistenza piatta in un angolo di mondo, ignorando e ignorato dalla società, un peso doloroso appresso, impaurito dalla propria ombra, immagini di una tristezza che vorrebbe dimenticare.
Intellettuali e imprenditori costituiscono i suoi abituali clienti, ama il proprio lavoro meticoloso, ossimorica presenza in un presente dominato dal caso e dal caos, poche tracce scoperchiano preziosi reperti della vita passata agitando la sua memoria sopita, eco di suoni da tempo dimenticati.
Per lui il reale si fa insostenibile, rassegnato al non protagonismo, nutrendo un desiderio di indipendenza e di solitudine da incastrarsi in un affare che potrebbe sistemarlo per sempre ma anche invischiarlo in una vicenda di mistero vestita.
Nel frattempo sopravvivono e riemergono echi di un luogo chiamato casa, il pensiero ai genitori scomparsi, il senso di esclusione e di appartenenza, la sorella vorrebbe vederlo maritato per liberarsi della sua presenza, il cognato cinico e violento, un vecchio amico macchiatosi di un’ imperdonabile colpa, un enigmatico imprenditore che vorrebbe possedere l’ impianto Hi Fi più bello del mondo, una donna avvolta nella propria menomazione.
Tutto scorre lentamente tra realtà e sogno, desiderio e rassegnazione, un vuoto evidente alternato a dolci note interiori, il mistero di chi realmente ci si trova di fronte, fantasma riemerso da una vita che potrebbe cambiare forma. Attorno a Cui il mondo percuote poche certezze rilasciando un tono di voce improvviso estraneo anche a se stesso…
…” Posso esprimere il mio modesto parere sulla questione? Se lei non fosse particolarmente intento a cercare il pelo nell’ uovo e ad andare alla radice di ogni questione, se imparasse a chiudere un occhio e la piantasse di lamentarsi sempre degli altri per i soliti problemi, potrebbe scoprire d’ un tratto che , in realtà, la vita è fottutamente bella. Non è forse così?”….
“ Il mantello dell’ invisibilità “ è un breve e intenso romanzo di sottrazione con un respiro di rassegnato umorismo nel cuore di una socialità violenta, nebulosa, indifferente. Una nebbia stratificata ricopre pagine di reale e digressioni di immaginario, una cupa presenza aleggia e sovrasta il protagonista, colonna sonora di un mondo sommerso e tristemente certo che disperde significati per acquisire una neo consapevolezza, consegnando il substrato emozionale a una riflessione profonda, quel senso apparentemente insensato che riguarda il proprio vivere.
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Rinascita
…” L’ amore, l’ amore vero, arriva solo una volta nella vita. Ma se tenti o meno di trattenerlo, di stringerlo a se’, ci sfugge sempre”…
Note suadenti nel romanticismo di un amore sottratto alla noia e indirizzato all’ eterno, dolci cadenze nel cuore di un ménage famigliare limitato alla bellezza di un angolo di paradiso, al lago, al giardino, alla grande casa bianca con le persiane verdi.
La sponda del lago è un luogo segreto dove Luna viene a rigenerarsi dopo una giornata di faccende domestiche, impegnata a gestire il bad and breakfast di famiglia, una vita ordinaria, tre figli, un marito impegnato altrove per buona parte della giornata, il desiderio abbandonato alla noia, lo stupore alla ripetitività, il sogno a una rassegnata malinconia.
Ore di solitudine poco gratificante in un luogo dell’ anima che sa di trascuratezza, a quarantacinque anni ci si può accontentare, essere madre e moglie fedele è un modus vivendi, tralasciando domande e risposte inevase.
Un giorno, d’ improvviso, il gelido inverno sentimentale lascerà il posto a una leggera brezza primaverile, un incontro unico, bello, suadente, il suo nome è Raphael, fascino, discrezione, intelligenza, modestia, altruismo, sensibilità, un amore sconfinato per l’ arte, un lavoro intrigante come restauratore, il bisogno di un posto dove alloggiare.
Sarà un’ attrazione fatalmente esposta, un viaggio sensoriale, volo pindarico che profuma di giovinezza, soffio gaudente, la riscoperta di se’ e dei propri sogni.
I giorni si coloreranno di un’ intimità sempre più manifesta, un’ inarrestabile aura erotico-sentimentale, nuovi significati, una parte ignara di se’, brezza poetica, ipnotica, spensierata, totalizzante, dispersa nella grandezza di un sentimento profondo e inafferrabile.
Chi è l’ altro, un ideale estremizzato, la parte più oscura di se’, un’ unicità che rende la propria anima più bella? Incontri segretamente rubati, spazi condivisi, intimità, la promessa di un amore per sempre, reale e immaginario si fondono e si confondono, miscela di sogno e desiderio, il senso di colpa rivisita il peso di una vita a lungo annullata e sottratta.
Luna si lascia travolgere da riflessioni protratte immerse nel quotidiano, gesti sublimi che sfiorano l’ eterno, ipotesi di un futuro mai nato, per contro l’ onta gravosa del tradimento, assenze prolungate, la convivenza forzata, il senso di libertà avallato dai propri figli, una prolungata lotta contro apatia, solitudine, noia. Che cosa resta di lei, come rinascere, costruirsi una vita altrove, abbandonarsi ai propri desideri più intimi?
C’è chi si nutre di indifferenza per rivelarsi più fragile dell’ evidenza, legandola a scelte egoistiche, impossibilitato a rinunciare alla sua presenza.
E allora la propria idea di futuro rivede se stessa sostando nell’ intensità del ricordo, in pensieri ricorrenti, nel profumo di una presenza, nella luce di un sorriso, nel rimpianto di un’ assenza definitiva, riabbracciando i momenti condivisi, l’ intensità degli sguardi, parole sussurrate, mani sfiorate, fotogrammi impressi in un cuore toccato per sempre.
“ Se solo tu mi toccassi il cuore” è un romanzo breve dalle sfumature difformi, soffio di romanticismo esposto a un desiderio inespresso, rivisitazione poetica di una vita smarrita nel sapore dei giorni, viaggio nel cuore di una donna sottratta a se stessa, sogno a occhi aperti, lunga lettera d’ amore, diario dei sensi sopiti, monologo condito di dolcezza e speranza, un’estate infinitamente ( nella percezione personale ) breve ( nel tempo trascorso) destinata a cambiare una vita per sempre.
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