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I SEGRETI DELL'IPNOSI
Pietro Gerber, l'addormentatore dei bambini, riceve una strana richiesta da parte di due genitori: il loro figlio, Matias, di nove anni, è tormentato da un sogno che fa da qualche tempo e per cui ha perso il sonno. Tutte le notti si sveglia urlando perché " una donna silenziosa con i capelli neri invade il suo sonno",la donna non parla,non compie azioni,semplicemente è presente, immobile, come a dirgli qualcosa.Pietro comincia le sedute di ipnosi serali, dai racconti del bambino emerge una figura che sarebbe confinata nel mondo dei sogni e invece diventa via via sempre più reale. Non è solo il bambino ad essere coinvolto in questo incubo, anche lo stesso Pietro percepisce qualcosa di profondo che si insinua nella sua vita, diventando un pensiero costante e fisso. Durante il giorno, Pietro comincia le ricerche sulla base dell'ipnosi avvenuta la sera prima...emozioni e colpi di scena continui che si alternano tra realtà e sogno, tra vita reale e paranormale...perché ormai la #signorasilenzosa è diventata parte reale della vita dello psicologo.
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La casa dei silenzi è un romanzo affascinante e particolare. Non sono informata sul paranormale e non mi attira più di tanto, forse mi spaventa un po? Ma come sempre, Donato Carrisi non delude mai: combina questa trama in maniera geniale: tante spiegazioni di tecniche ipnotiche inserite nel romanzo, colpi di scena da maestro, suspense tangibile, ne fanno un racconto intrigante e interessante, per chi, come me non e' informato.
Gli elementi più affascinanti del romanzo sono l'ipnosi e la signora silenziosa: entrambi hanno bisogno l'uno dell'altra per manifestarsi. Pietro Gerber è un personaggio particolare, condizionato dal suo passato e dalla sua professione che lo ha portato alla solitudine, sentimento inizialmente amato, ma poi quasi odiato.
Io leggerò anche gli altri tre romanzi precedenti, devo ammettere che determinate parti di questo mi hanno affascinata parecchio, ma anche per capirne meglio il finale aperto ....
Vi piacerà, leggetelo!
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Fragilità estrema
L’ idiota è un romanzo di matrice autobiografica che prevede due parti, diverse e non proprio complementari, un viaggio educativo-sentimentale nel fluire di una giovinezza che possiede i tratti della protagonista e le aspirazioni di un periodo della vita ancora immaturo, assoluto, turbolento, fallimentare, da forgiare.
C’è un prima inserito in un contesto accademico-letterario che attrae uno spirito assetato di conoscenza e un dopo aperto a un viaggio alla ricerca di se’ e dell’ altro.
Una trama interessante all’ interno di una prosa scorrevole, alcune riflessioni argute, dialoghi sferzanti, la profondità di alcuni personaggi, la superficiale assenza di altri. Quello che manca, e non è poco, è la fusione tra l’ approccio teorico, che abbonda nelle parole ricercate e nei monologhi cervellotici della protagonista, e il fluire della trama, fragile, frammentato, inafferrabile, lontano.
Selin, diciotto anni e uno stato di unicità, d’ altronde non tutti possono vantare un’ iscrizione a Harvard, centinaia di libri letti, il desiderio di diventare una scrittrice senza avere ancora scritto qualcosa di significativo.
Da sempre una vita molto teorica e poco pratica, la frequentazione di spiriti affini nella propria. ristretta cerchia di appartenenza, in lei una lacerazione evidente, il complicato rapporto tra linguaggio e mondo, qualcosa da definire all’ interno di frasi e parole acquisite e certe.
Un’ età dentro la personale visione delle cose, l’ incontro con Ivan, studente ungherese di matematica, un rapporto altrettanto difficile, iniziato e proseguito grazie a uno scambio di e-mail su temi generali, l’ incertezza di una transizione evidente, il dibattito su linguaggio e realtà, aspirazione e sentimento, una malcelata sofferenza vissuta dentro, come mostrarsi anticonvenzionale dicendo qualcosa di significativo?
Per Selin la scrittura è un’aspirazione teorica, sin dalle superiori vissuta dentro un mondo di idee e di grandi pensatori, un distillato di opinioni, oggi si divide tra un corso e l’ altro, affamata di conoscenza, nella quotidianità poca concretezza, il complesso rapporto con gli altri, una visione del mondo limitata alla propria unicità e a un certo grado di egoismo.
Vive un tormento prolungato, un’ emozione che si fa sentimento, un desiderio da cui è difficile sottrarsi, che ricerca l’ indecifrabile, se stessa, un completamento, mille domande e nessuna risposta, che vede nell’ altro qualcuno da rincorrere, imitare, studiare, con il quale intrattenere una relazione che possa annullare la lontananza, chiarire un legame enigmatico, allargare i propri orizzonti.
C’è una teoria che si sottrarre a definizione certa, che cede a un quotidiano fatto di privilegi di classe e alla praticità di una relazione con il mondo che aspira a leggersi dentro e a comprendere chi ci sta accanto.
L’ ansia di Selin origina dal proprio senso insensato, convinta di non avere niente da insegnare, di essere estranea al mondo, rinchiusa in un personale microcosmo di inconcludenza, senza essere mai andata da nessuna parte, ubbidiente a una madre che le dice cosa fare, una indigente nel grande mercato delle idee.
In questo stato di immobilità, impossibilitata a parlare di se’ in un’ intimità che ne metta a nudo i sentimenti, percorsa da uno sterile rimuginio intellettivo, si interroga su vita e destino, se per destino si considerano persone che gravitano in situazioni diverse.
Nel suo rapporto con Ivan mancano le coordinate di un sentimento condiviso, che fatica ad esprimersi, che fa soffrire l’ altro, sfuggendo a una vera conversazione.
E allora che cosa si intende per amore se non un oscuro e imperscrutabile legame fra due individui e non una competizione di tipo economico in cui tutti vengono accoppiati in base al proprio valore stimato?
Per la prima volta Selin ignorerà che cosa voglia effettivamente studiare e fare, in lei ancora la vecchia idea di essere una scrittrice, ma, dopo un periodo di apprendistato e di insegnamento in Europa a stretto contatto con il reale, scoprirà che la propria idea di amore era un inganno e di potere vivere, di dovere vivere, di vivere…
…quando in autunno tornai all’università cambiai piano di studi lasciando linguistica, e non seguì più corsi di filosofia o psicologia del linguaggio. Mi avevano deluso. Non avevo imparato quello che volevo sapere sul funzionamento del linguaggio. Non avevo imparato proprio niente…
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Laika, la più vicina a Dio.
Ascanio Celestini, scrittore e autore di teatro, ha tratto dai suoi più recenti spettacoli Laika del 2015, Pueblo del 2017 e Rumba del 2023, materiale per quest'opera, "Poveri Cristi", una trilogia che lascia il segno e fa riflettere sulla disperata grandezza di tante vite apparentemente inutili. Sono le vite, appunto, di poveri Cristi, emarginati, rassegnati, personaggi che trascinano con sè un'esistenza ai margini della cosiddetta società civile, senza riconoscimenti, un'esistenza che non vedrà mai il barlume di una luce in fondo al tunnel.
Nella prima parte (Laika, la famosa cagnetta lanciata nello spazio), definita da Celestini "La storia di un giorno di sole", il narratore racconta all'amico Pietro le storie di un'umanità ai margini di un supermercato. C'è un Barbone che lavora, con turni massacranti come facchino, prende botte durante gli scioperi e non crede in un Dio lontano, che, a detta di qualche poveraccio, fa miracoli con l'intercessione dei Santi, tutte scuse per soggiogarti ed illuderti. E poi una Vecchia che dà consigli a tutti, una Prostituta arrivata da lontano , ingannata e finita sulle strade, una Donna "impicciata" che non ragiona più per la morte di un figlio, un naufrago arrivato dalla Libia e finito in un carcere senza acqua potabile : tutti personaggi ai margini che interagiscono tra loro, un'umanità delirante e disperata, come, scrive Celestini, la povera Laika, una randagia mai più rientrata a terra, la creatura lassù più vicina a Dio.
Nella seconda parte (Pueblo, " La "storia di un giorno di pioggia") il racconto continua con le sofferenze di nuovi personaggi, un piccolo Zingaro di 8 anni che fuma in continuazione, una ragazza, Violetta, che fa la cassiera con un passato tormentato, tutto da dimenticare, e poi una donna , Domenica, che mette a posto i carrelli e pulisce il piazzale ricevendo in cambio cibo invenduto, prossimo alla scadenza: ha un amore Said, che perde sempre alle slot machine, e con il quale entra di notte nel supermercato convinta di muoversi tra ombre misteriose... Povera Domenica: una vita da dimenticare, prima ladruncola, poi costretta in collegio retto da suore "bastarde", infine ribelle autolesionista e infine morta come un cane sul piazzale tra l'indifferenza generale.
Ed ecco Giobbe, nella terza parte (Rumba, "La storia di una notte stellata"). E' stato il primo a popolare il piazzale, è analfabeta ma sa tutto, sa dove trovare tutti prodotti sugli scaffali e, udite udite, prepara il caffè al grande capo del supermercato con un piccolo particolare: ci piscia dentro, e nessuno se ne accorge. Muore infine al cesso, solo come un cane: soltanto Domenica, la poveraccia, intona una lamentosa nenia funebre.
Ma non c'è solo questo: Celestini trova modo di inserire riflessioni sul grande Stephen Hawking e sulla sua fede cieca e assoluta nella scienza, sulle centinaia di immigrati che giacciono in fondo al Mediterraneo, su un caratteristico quartiere di Roma, il Quadraro. Non mancano neppure le vite riviste e commentate di Francesco e Chiara, i Santi d'Italia, grandi e "inimitabili", giustificando, come tali, le alte gerarchie a comportarsi ipocritamente in tutt'altro modo.
Gli umili, i poveri Cristi, sostiene infine l'autore, sono sempre solidali tra loro : " vi hanno schifato, menato, carcerato, schiavizzato, torturato, stuprato, ammazzato e poi dimenticato, e voi non siete stati nemmeno capaci a diventare cattivi". Questo, conclude Celestini, è il vero prodigio, a partire dal "sacrificio di alzarsi dal letto la mattina per farsi umiliare su un marciapiede, in fabbrica o in galera".
Un potente atto d'accusa, una denuncia precisa. affilata come lama di bisturi, una presentazione puntuale di protagonisti lontani dalla Storia che conta ma con una propria vita, sofferta e dimenticata da tutti, una vita da santificare, ma non inserita nell'albo ufficiale dei Santi riconosciuti.
L'opera deve far riflettere, ponendo problemi che non sono marginali ma riguardano l'esistenza di tutti.
Lo stile di Celestini è volutamente incalzante, procede a balzi, dando spazio al gergo dialettale: un fiume in piena, che travolge e incanta, trascinando il lettore a conoscere un mondo ai più sconosciuto, quello dei poveri Cristi : "voi siete tutti santi, non c'è manco uno di voi ritratto con l'aureola nelle chiese di Roma ... ma non siete meno angelici di quelli stampati sui santini".
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Colpo di spazzola
Quando uno scrittore è in grado di ideare una storia, già dalla trama di per sé non banale e poi è anche capace di creare suspense, di accelerare i ritmi, ma anche di rallentarli, vuol dire che sa dosare sapientemente i ritmi. Suscita emozioni, ti fa scorrere adrenalina, ti tiene viva l’attenzione, ti invoglia a proseguire per scoprire, per indovinare, per capire. E comunque, con i suoi colpi di spazzola, ti sorprende sempre. In questo nuovo romanzo tutto ruota attorno alla morte, anzi, alla sparizione, di una bambina, non voluta ma poi amata, non pianta ma poi cercata. Che perde la vita, o meglio, la sua essenza, in un’ultima notte di campeggio, dopo aver partecipato alla festa delle fate farfalle. Molti fatti di queste vite che si intrecciano sembrano andare in una certa direzione, ma poi le cose si complicano, nulla è come sembra e colpi di scena inaspettati ti portano verso un ottimo finale. Che ti fa capire che rabbia e dolore non devono mai entrare in contatto, perché possono essere una miscela esplosiva.
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Sofisticato, acuto e brillante.
Un racconto avvolto in un'abbagliante atmosfera onirica. Sofisticato, acuto e brillante.
Una Casa immensa, infinita, sontuosa e labirintica. Ampi saloni in architettura classica circondati da statue, plinti e imponenti scalinate che conducono fin sulle nubi o giù negli abissi del mare.
La Casa è Bellezza ingannevole, smarrisce la via e offusca la mente. Piranesi adora e venera la Casa, unico mondo di cui ha memoria.
"L'atto di ricordare è estremamente potente."
L'Altro è l'unica persona con cui parla, perché i pochi che sono stati nella Casa prima di lui sono ora soltanto scheletri che si confondono con il marmo. Improvvisamente appaiono dei messaggi misteriosi: qualcuno è arrivato nella Casa e sta cercando di mettersi in contatto proprio con Piranesi. Di chi si tratta? Lo studioso spera in un nuovo amico, mentre per l'Altro è solo una terribile minaccia. Piranesi legge e rilegge i suoi diari ma i ricordi non combaciano, il tempo sembra scorrere per conto proprio e l'Altro gli confonde solo le idee con le sue risposte sfuggenti.
Il mondo che credeva di conoscere nasconde ancora troppi segreti e sta diventando, suo malgrado, pericoloso.
"Non importa quanto sarà tardi. Ti aspetterò finché non arriverai."
Un viaggio in cui mistero, magia e fantascienza si uniscono. Un romanzo originario e geniale.
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"Facciamo un gioco. Ti va di disegnare?"
Mallory accetta un lavoro come babysitter per i coniugi Maxwell e si lega sinceramente a Teddy, un bambino di cinque anni dolce e timido che non si separa mai dal suo album da disegno. Un giorno sul foglio compare un uomo che trascina il corpo senza vita di una donna e da quel momento i suoi disegni diventano sempre più sinistri. Per Teddy è colpa di Anya, la sua amica immaginaria: è lei che guida la matita.
Un thriller dalle vibes horror che ho adorato. Una lettura coinvolgente e leggera che si divora.
Le pagine, almeno quelle iniziali, sono colme di un profondo senso di inquietudine che ho decisamente apprezzato. I disegni sono davvero un colpo di genio: un concreto legame con il romanzo e una visione tangibile di quello che la stessa Mallory prova guardandoli.
Disegni in bianco e nero che ritraggono scene di omicidi e violenza sono di per sé inquietanti ma proprio il tratto infantile e abbozzato li rende ancora più angoscianti e "sbagliati", mal accordandosi con coniglietti e soli sorridenti che più si addicono a un bambino.
Un romanzo super apprezzato e consigliato.
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Ad una certa età...
...ci si può permettere di essere anche un po' burberi. Però forse anche no. Perché per qualcuno potremmo essere un esempio, un punto di riferimento e quindi bisogna comunque essere in equilibrio, prima di tutto con se stessi, per dare equilibrio a coloro che potremmo incrociare. Perché anche in quegli incroci, fugaci, noi potremmo fare la differenza. Il disegno di questo personaggio è memorabile e vivido. Molto più fresco e giovane di tanta gioventù. Perché mi piace, e tanto, tantissimo, chi combatte ogni giorno per essere felice.
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Improvvisare nel disagio
Il sentiero degli Appalachi è dannatamente lungo. Sono 5 milioni di passi. E’ una sfida che questo autore, insieme ad un compagno di viaggio un po' improvvisato, un po' stralunato ed un po' bizzarro, decide di intraprendere. Con un po' di sana incoscienza, che forse è la loro salvezza, perché, inconsapevoli, riescono comunque ad affrontare difficoltà e disagi molto di più di come sarebbero riusciti avendo una forma mentis orientata alla pianificazione perfetta. Ispirano simpatia, leggerezza. Lettura piacevole, ironica, frizzante. Sarebbe stato bello, almeno sulla carta, essere stata parte di quella spedizione.
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Un esordio da dimenticare
Mi sono avvicinato a questo titolo incuriosito dalla serie tv a lungo pubblicizzata e, per evitarmi spoiler, ho oculatamente evitato di vedere. Quanto mai!
"L'uomo delle castagne" e' un'opera mediocre, noiosa, scontata e priva di una vera anima. Purtroppo mi sono accorto solo alla fine che l'autore e' uno sceneggiatore: il danno e' presto fatto.
La storia e' scritta esattamente come fosse una serie tv: prevedibile, scontata, grafica e - a tratti - confusa.
Partendo dalla trama, ho trovato la storia poco piacevole e ricca di "deus ex machina". Pochissime parti della narrazione sono fluide e logiche. Un esempio e' l'improvvisa esperienza nell'uso della tecnologia della protagonista. Quando ne hanno parlato? Perché' mai una generica detective della omicidi di Copenaghen dovrebbe saper accedere ad un pc bloccato da password in pochi minuti?
Nella trama sono poi sorvolati aspetti fondamentali per un buon thriller: la scelta delle vittime non e' veramente spiegata fino in fondo, cosi come il modus operandi non e' analizzato. Mi aspettavo una spiegazione, invece per 10 pagine si e' parlato delle castagne e della tipologia di esse.
Secondo punto estremamente dolente del libro: la superficialità dei rapporti fra i personaggi. 560 pagine e non si capisce appieno quale sia il rapporto fra i due detective: amore, odio, rispetto? Non si capisce, l'autore non riesce in nessun modo a spiegarlo o renderlo noto. Mi chiedo se effettivamente il nordico Soren sia in grado effettivamente di poter descrivere una dinamica relazionale al di fuori delle modalita' di interazioni danesi.
Molti personaggi sono inutili, superficialmente descritti (se non totalmente sorvolati), uno per tutti il "nonno", senza nome, senza personalità, senza scopo se non tenere sua figlia. Il passato della detective? Non pervenuto, forse l'autore sperava in una seconda serie?
Ultima critica la rivolgo allo stile: confuso, elementare e purtroppo inadatto. Ci sono stati momenti nella lettura in cui davvero non capivo chi parlasse e perché lo facesse.
L'utilizzo della terza persona e del narratore onnisciente può' rivelarsi molto complesso e, senza il corretto utilizzo, sembra di leggere il tema di un fantasioso ragazzino di terza media.
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La donna, (anti?)eroina nella malavita di oggi
'Credere che le donne siano meno feroci degli uomini è un’imperdonabile ingenuità', e la storia di Anna Carrino è l'eccezione che conferma la regola. Anzi, regole sentimentali, matrimoniali e sessuali che incrociano le figure della donna e delle organizzazioni criminali da una nuova prospettiva.
Prospettiva che si dispiega attraverso dodici capitoli tra il poker ludopatico di Lou ad Atlantic City, il padre di Sabrina strafatto di "basuco", la faida di 86 morti nata per una minigonna, Matteo Messina Denaro, Pasquale Condello, Paolo Di Lauro e Francesco Bidognetti, due gangster cilene e la guerra tra i cartelli colombiani di Cali e Medellin.
Cronaca nera, violenta, aberrante, attiva, reattiva, dinastica, vendicativa e talvolta non binaria, femminismo, studi di genere, controllo delle emozioni e potere imperiale raccontati da un doppio narratore con stile fluido, scrittura minimale e prosa misurata nonostante si tratti di un mondo cupo, melmoso e avvelenato oltre ogni credibilità e libertà, 'dotazione essenziale di cui nessuno dovrebbe mai essere privato'.
'L’amore se ne fotte. Spariglia le carte e lo fa come vuole lui, entra come una folata di anarchia e butta tutto all’aria': l'avvertimento vale per tutti, dagli oscuri anfratti di vita dei boss più influenti alla politica, 'che è mera protesi del potere criminale'.
'Battute a parte, è stato bello spiarvi. Se me lo permettete, lo farò ancora. Mi aiuta a capire chi siamo, tutti noi, di fronte all’orrore. La luce che vedo, il calore che sento, mi scalda a tal punto che ogni tanto, assorto a guardarvi, mi dimentico del giorno in cui sono stato punito'.
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La vera grandezza di Bob.
Il romanzo viene dato alle stampe intorno alla metà del secolo scorso e rivela un altro aspetto di un grande scrittore, Georges Simenon: il suo grande talento nel saper approfondire gli aspetti più nascosti e inconsueti di un personaggio. Questa volta si tratta di Robert Dandurand, il "grande Bob" del titolo: un enigmatico ragazzone ( perché come tale viene descritto) quasi cinquantenne, simpatico, gioviale, dai comportamenti a volte eccentrici, sempre rispettoso nei confronti di tutti. Bob viene da una famiglia benestante, il padre universitario, una sorella e una moglie, la dolce Lulù: vivono a Parigi, e si ritrovano spesso a Tilly, nella locanda Beau Dimanche, dove Bob frequenta il bar, gioca a carte con gli amici ed ha un rapporto amichevole molto forte con un medico, Charles Cointreau, un generico con ambulatorio, che, nel racconto, rappresenta la voce narrante, ripercorrendo tappa dopo tappa,la vita di Bob. Sappiamo così dell'incontro di Bob con Lulù, della felicità che traggono dalla reciproca conoscenza, al punto che Bob rinuncia addirittura agli esami di laurea per non lasciare sola Lulu e rompe bruscamente ogni rapporto con il padre. Ma lui sembra felice così, non chiede altro, vive nella spensieratezza con la sua Lulu, senza apparenti preoccupazioni, ripetendo spesso una suo motto abituale ("che spasso!") quasi a voler esorcizzare qualsiasi contrarietà. Anche Lulu vive spensierata la sua felicità: il suo negozio di modista sembra non avere problemi, le scappatelle del marito con Adelina, una lavorante di facili costumi, sono considerate innocue evasioni.
Ma ecco l'imorevisto: Bob, negli ultimi tempi impegnato da una strana passione per la pesca, viene trovato annegato nella Senna, presso la sua barca Le indagini, tra lo sconcerto generale, scopriranno che si tratta quasi certamente di suicidio, così strano e soprattutto inatteso in un personaggio come lui. Iniziano con circospezione anche le indagini dell'amico medico, che chiede, si informa da parenti e conoscenti, ha lunghi colloqui soprattutto con Lulu, apparentemente rassegnata ma tormentata da angosce e dubbi, fino alla scoperta di una crudele e sconcertante verità, che porterà Lulu ad annientarsi lentamente.
Questa verità porterà anche Cointreau ad interrogarsi, sulla sua vita, sulla relazione con la moglie ed i figli: un'apparente normalità che nasconde insoddisfazioni. speranze fallite, traguardi non raggiunti. Simenon è un maestro nel sondare luci e ombre dell'animo umano, rivelando aspetti talora imprevedibili ed inquietanti. Accade anche quando, pagina dopo pagina, ci fa conoscere "il grande Bob": un personaggio "normale" nella sua grandezza, normale perché senza eccessi, né in senso positivo né in senso negativo. Grande perché aveva scoperto, quasi senza accorgersi, un grande segreto, quello della felicità: in fin dei conti, aveva affermato, "se ciascuno di noi si incaricasse di rendere felice una sola persona, il mondo intero sarebbe felice".
Bob, tutto sommato, era un fallito, anche se lucido e consapevole: aveva semplicemente scelto, ecco la sua grandezza, di "dedicarsi a rendere felice una sola persona": la povera, piccola Lulu, l'unico grande amore della sua vita.
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Punte spuntate
Con “Tatà” torna in libreria Valérie Perrin, autrice già nota al grande pubblico per i suoi “Cambiare l’acqua ai fiori”, “Tre”, “Il quaderno dell’amore perduto”.
Fondamentale una precisazione stilistica della traduzione: il titolo ha un accento in più per distinguere il nomignolo affettuoso che in Francia viene usato per indicare “zietta” e che in Italia corrisponde a governante. In questo scritto, infatti, protagonista è una zia che dopo essere morta, ri-muore rivelando di non essere deceduta davvero la prima volta.
Ancora una volta ci ritroviamo il cimitero, un luogo che nei romanzi dell’autrice viene vissuto con dolcezza, con il rispetto del silenzio che lo caratterizza e delle anime che lo abitano in virtù di quei legami generazionali che si susseguono. Non mancano poi i legami quali l’amicizia, la musica popolare, la pedofilia, la musica classica, l’amore in tutte le sue forme, dalla nascita a tutte le forme che assume nel tempo, il legame genitoriale, la perdita e la mancanza. I fantasmi sono tanti e ogni giorno ci legano l’un l’altro.
«[…] Ho la sensazione di non avere più desideri, di aver amato troppo e male, di aver consumato il mio capitale sentimentale, sento che il mio cuore è logoro e bucato come un vecchio paio di jeans su un banco del mercato delle pulci di Saint-Ouen, che aspiro soltanto a stare da sola, a parlare con un cane di passaggio, con un gatto randagio, con gli uccelli nel cielo o con una coccinella che mi si posa per caso sul maglione.»
Non mancano, ancora, i rimandi incrociati tra pellicola cinematografica e canzoni e per riuscirci ci regala anche spaccati di vero e proprio cinema con tanto di sceneggiature. L’impostazione di “Tatà” ricorda molto quella di un fotoromanzo che viene descritto in ogni pagina con una foto diversa. Ogni personaggio è raccontato nel dettaglio e con molta attenzione a quelli che sono gli aspetti più particolari della narrazione.
Conosciamo Colette, la zia (tatà), conosciamo Agnes, la nipote da cui passano i fili della trama stratificata che andiamo leggendo, conosciamo Hanna, la madre di Agnes e cognata di Colette, conosciamo Blanche che è avvolta nel misterio, conosciamo lei, la Vita, quell’esistere che si apre al mondo in tutte le sue complicate e disordinate relazioni e che ci portano a incrociare ogni singola dimensione. C’è anche il nostro desiderio di sapere e sapere ancora anche se sapere tutto è impossibile, c’è ancora la sincerità che è alla base delle emozioni, c’è il racconto di un vivere e di un esistere.
«Non mi scuotete, sono pieno di lacrime.»
La Perrin sa sempre come emozionare il suo lettore grazie a quei nodi emozionali che sa toccare. Tuttavia, in “Tatà” la sensazione è che abbia voluto fare troppo. Per quanto l’idea sia piacevole, per quanto sia mantenuta l’atmosfera che normalmente ricrea, per quanto la trama sia sviluppata nel canonico mezzo narrativo, tra queste pagine la sensazione è quella di un costante “troppo”. Troppe pagine, troppi incastri, troppi personaggi, troppe voci, troppi snodi che appesantiscono una narrazione che avrebbe ugualmente reso con molto meno. Il romanzo di suo non brilla di originalità, la storia talvolta è anche ai limiti del blasfemo e se ci si aggiunge questo aspetto descrittivo e prosaico, diventa ancora più complessa da “digerire” e apprezzare.
Nel complesso un libro dalle buone intenzioni ma dalle punte spuntate.
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Quale salvezza?
…una finzione protratta per quarantuno anni, giorno dopo giorno…
Un lessico famigliare ripetuto, gesti che fanno male, monosillabi di infelicita’, silenzi parlanti, giorni trascorsi in un ristretto spazio non condiviso, lo sguardo sulla propria sofferenza, su quello che resta di se’ nella consapevolezza tardiva di una vita da viversi altrove.
Le parole addolorate di un figlio quarantunenne in un romanzo sulla famiglia che ritorna all’ origine, a quei genitori abbandonatati da dieci anni, un racconto dell’ inverosimile, quel legame ancestrale che sopravvive al proprio senso insensato.
Nella stesura del romanzo il potere dell’ invenzione supera il ricordo separandosi dal reale per accedere al vero, scindendo i genitori l’ uno dall’ altro per viverli singolarmente, la scrittura un modo per leggersi dentro, trasferire emozioni inarrivabili, sentimenti difficili da allocare, grazie alle parole giuste, scavando nei ricordi, in un dialogo personale e con quella parte degli altri incisa dentro di se’.
Il breve romanzo di Bajani penetra con grazia, eleganza e una certa dose di imbarazzo i segreti inconfessabili di una famiglia come tante, vestita di normalità, una vita apparecchiata per conservarsi, al suo interno errori, mancanze, violenze, una coazione a ripetere, ruoli stabiliti cui attenersi.
Tra le pagine dettagli, riflessioni, ricordi, un giudizio personale schietto, il tacito dolore di un figlio nel difficile compito di rivelare l’ incomprensibile.
I propri genitori, figure antitetiche e complementari, una simbiosi costruita sulla fragile negazione dell’ una e sull’ ingombrante presenza dell’ altro, un rapporto di forze squilibrato ma necessario per sopravvivere.
Della madre poco da dire, una vita piccolo borghese, studi classici, nessuna traccia prima del matrimonio, un corpo inesistente, una donna timida e schiva che ha fatto di tutto per non apparire, una presenza-assenza che ha sacrificato se stessa per preservare l’ idea di un amore.
Per contro un padre-padrone violento, maniacale, manipolatore, che si legittima delegittimando gli altri, un passato irrisolto, che esige scuse dalle sue vittime, figlio di un patriarcato che rasenta il totalitarismo, voce unica e braccio della legge.
All’ interno di questa idea di famiglia distorta e manipolatoria i due genitori sopravvivono ai propri fraintendimenti, il niente dell’ uno nell’ ingombrante presenza dell’ altro, il non essere già’ qualcosa, un patto vicendevole mai espresso, il loro segreto, un corpo che si sottrae e uno che avanza, negandosi per legittimare una presenza, perdonando per farsi perdonare, la consapevole e irrazionale protezione dell’ altro dal male che fa a tutta la famiglia.
Dopo il trasferimento da Roma, negli anni ‘ 70 epicentro della vita socio-politica italiana, alla provincia piemontese, c’è chi vive in uno spazio intermedio tra il succedersi delle cose e il prenderne atto, uno stato di distrazione per salvarsi, la negazione di se’ per non essere visti e colpiti.
C’è chi fa uso della violenza per farsi amare, trasformando la vita dell’ altro in un deserto, un luogo che solo una madre è in grado di abitare, rinunciando a tutto e a tutti, una donna che non ha paura del marito.
C’è un figlio che non ha avuto la forza di denunciare, di andarsene definitivamente, avvelenato e costretto all’ anestesia del presente, tra parole ripetute e insignificanti, gesti che pesano come macigni, lo sguardo sull’ inguardabile, chiedendosi origine e significato di tutto questo, occhi che guardano altrove, a un amore, a un’ idea di famiglia sostitutiva, a qualcuno che sappia ascoltare e dare consigli.
E ci sarà un distacco, inevitabile, definitivo, per riuscire a vivere, respirare, assaporare la libertà , grato a chi gli ha permesso di comprendere che
…uno dei modi per esprimere la violenza era la distruzione ma l’ altro, più importante e per così dire virtuoso, era la precisione…
L’ Anniversario affronta un tema ben noto, la famiglia come convenzione sociale, sede di violenze fisiche e psicologiche, così lontana dall’ idea di focolare domestico in cui crescere, amare, essere amati. Lo fa a posteriori, quando tutto ormai è perduto, paura e timore hanno capillarizzato le vittime designate riducendole al terrore e alla masochistica indifferenza.
Nel mezzo una vita a propria immagine e somiglianza da parte di chi, a sua volta, si ritiene una vittima, forse lo è stata, e continua a imperversare sulla propria famiglia, ignorandone l’ essenza primaria.
Il dolore può cronicizzare, ci si può convivere, a lungo e con mille artifici, ma giunge il momento in cui va definitivamente estirpato, prima che si faccia insopportabile.
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Nasce tutto da una Madeleine
Cosa potere raccontare di nuovo riguardo alla "Recherche", universalmente riconosciuta come capolavoro della letteratura mondiale? Ben poco da aggiungere dunque, ma vale sicuramente la pena soffermarsi e riflettere su questo primo volume di un'opera che complessivamente ne consta di sette, di quindici anni passati da Proust in una camera da letto dedicati alla scrittura di questo capolavoro.
"Dalla parte di Swann" pone le basi di tutta la visione alla base dell'immenso lavoro di Proust, perché è da questo libro che scaturisce quel meccanismo del ricordo, del recupero della "memoria involontaria" che, attraverso il celebre episodio "delle Madeleines", del ritrovare gusti e sapori che si pensavano perduti, permetterà all'autore-narratore di riesumare i ricordi di una vita, non solo quelli associati all'episodio riaffiorato ("Così per il nostro passato. E' uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale -nella sensazione che questo ci darebbe").
Eppure questo libro non rappresenta una semplice autobiografia, bensì il tentativo (perfettamente riuscito) di uscire dal proprio spazio-tempo per ricreare una realtà vissuta da rendere immortale, prima di tutto per se stessi, una realtà nella quale ricollocarsi uscendo dal presente ("I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita dìallora"). Ed è così quindi che il lettore seguendo il flusso di memoria verrà proiettato a Combray, nelle estati felici vissute dal narratore in questa località di provincia, sorridendo ai tormenti di un bambino che la notte non trovava pace se non veniva salutato dal bacio della madre. In questo flusso si impara così a capire che "dalla parte di Swann" o "dalla parte di Guermantes" sono espressioni che indicano direzioni da percorrere, passeggiate nella campagna di Combray, luoghi da esplorare, personaggi da conoscere che torneranno nei romanzi successivi, amori giovanili. Senza dimenticare quel romanzo nel romanzo, quel racconto di "un amore di Swann", quei tormenti vissuti da questo amico della famiglia del narratore poi progressivamente allontanato, emarginato per la sua scelta amorosa, per quella "Cocotte" provinciale che decise di sposare non certo adatta al suo rango. A dimostrazione che l'opinione di Proust nei confronti dei salotti del suo tempo, del forte classismo vigente, non era certo positiva.
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Cozy mystery ante litteram
A quanto pare il mio proposito di dare spazio alle serie è sopravvissuto giusto un filino in più delle diete iniziate il 2 gennaio. Infatti, dopo aver letto solo titoli autoconclusivi in febbraio, al momento di scegliere con che libro iniziare marzo ho ignorato la mia tanto agognata copia di "Un piccolo odio" (in lettura da settimane!) per il più rilassante "La quiche letale", primo capitolo nella lunga serie di avventure della detective dilettante Agatha Raisin.
L'ambientazione principale del romanzo è il villaggio fittizio di Carsely, nel Gloucestershire. Dopo aver venduto la sua ditta di PR, la neo pensionata Agatha "Aggie" Raisin decide di trasferirsi qui per coronare un sogno d'infanzia dopo anni trascorsi nel caos della metropoli londinese. La donna fatica però ad integrarsi, in parte per la freddezza dei compaesani ed in parte per la sua indole prepotente; un concorso culinario le sembra quindi una buona idea per aumentare la propria popolarità. Peccato che il giudice muoia dopo aver mangiato la quiche presentata da Agatha alla competizione, portando alla sua porta le forze dell'ordine anziché l'affetto dei vicini.
Potrete facilmente intuire come i rimandi al classico giallo deduttivo non manchino ed in alcuni casi siano incredibilmente palesi, ad esempio la protagonista stessa legge con passione i romanzi della sua omonima Christie. Beaton dà però un tocco di novità al solito murder mystery, grazie ad una prosa fresca ed irriverente -a tratti quasi informale-, che risulta efficacie nelle scene comiche in cui si sfocia in una specie di commedia degli equivoci, senza per questo scadere nel ridicolo: ho trovato l'umorismo valido e ben amalgamato alla storia.
La cara Marion ci regala poi una protagonista che, pur dimostrandosi intraprendente e dotata di intuito, è molto lontana dallo stilema del detective inglese vecchia scuola. Agatha è una donna risoluta e con ben pochi scrupoli quando ha un obiettivo in mente, ma non manca di mostrare anche il suo lato più sensibile e generoso verso gli amici. Nel complesso sono contenta di essermi imbattuta in una personaggia sveglia dopo aver sopportato non pochi protagonisti rintronati nelle mie ultime letture, ed il resto del cast non si dimostra da meno: in particolare, ho apprezzato l'ambiguità di diversi comprimari che rendono più affascinante l'intreccio.
Tra i punti a favore non può che rientrare anche l'ambientazione, perché l'autrice infonde un grande impregno nel descrivere le cittadine, i paesaggi e le abitazioni stesse delle Cotswolds. Un luogo che trasmette serenità, ed influenza così anche il ritmo narrativo, rendendolo allo stesso modo placido. Decisamente un libro da evitare se si cerca una storia maggiormente indirizzata verso il brivido del thriller, ma del tutto adeguato alla sottoscritta che desiderava invece una lettura rilassante sotto ogni punto di vista.
Qualche critica però la devo fare, per correttezza. Innanzitutto, il testo è macchiato qui e là da alcuni stereotipi un po' datati, probabilmente perché negli anni Novanta era normale dipingere i personaggi gay nel modo più effeminato possibile per poi trasformarli in seriosi uomini d'affari non appena trovavano una fidanzata compiacente. Un altro aspetto che avrei cambiato è la risoluzione finale, per i miei gusti fin troppo semplice e priva di complicazioni sul piano pratico: l'arresto e la confessione dell'assassino si risolvono come per magia fuori pagina.
Mi rendo poi conto che questo è solo il primo capitolo in una serie, nel corso della quale immagino una crescita ed un approfondimento per i vari personaggi, ma ho trovato a dir poco inutili alcuni caratteri e linee di trama. Perché mai l'autrice dà tanta importanza a Sheila Barr, scontrosa vicina di Agatha, ed al suo trasferimento? perché introdurre un potenziale interesse amoroso ad oltre metà volume solo per rubare spazio all'intreccio vero e proprio? perché non chiarire mai la sottotrama delle premiazioni ai concorsi? Ma soprattutto perché mettere la parola fine facendoci sapere quale sarà il nome del cottage, ma non quello del gatto? Da brava gattofila ci sono rimasta malissimo!
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Intrusioni pericolose.
Isabella Maldonado, la coautrice del giallo, vanta un passato di ex poliziotta, ex agente dell'FBI, e, per di più, è l'unica donna latinoamericana ad aver raggiunto il grado di capitano: grande collaboratrice, dunque, che, nel racconto, lascia la sua impronta autorevole. Tutta la vicenda non ha momenti di tregua, a cominciare dall'inizio: conosciamo subito il killer, Dennison Fallow, uno psicopatico con la passione per i ragni (ne porta uno tatuato sul polso), che commette delitti mosso da una "spinta" interiore cui non sa resistere. Infatti, già all'inizio del romanzo, ne dà dimostrazione uccidendo a badilate un noto fotografo naturalista. Conosciamo anche i due protagonisti, Carmen Sanchez, agente federale del Reparto Indagini dell'Homeland Security , esperta in soluzioni per la sicurezza nazionale. ed il suo collaboratore Jack Heron, uno straordinario personaggio docente della Berkley University in metodiche di "intrusione", intendendo con tale termine la capacità di introdursi nella vita altrui con intendimenti non sempre amichevoli. I due, all'inizio ostili tra loro per precedenti disavventure, procedono nelle indagini tra mille ostacoli, vieppiù motivati quando l'assassino tenta di strangolare la sua seconda vittima, Selina, sorella di Carmen, salvata in extremis e messa al sicuro. Il folle riesce sempre a dileguarsi ed a mantenere l'anonimato, pur lavorando in un callcenter: tenta di guarire dalle sue manie omicide, affidandosi alla guida di un "esperto", una specie di guru, ex militare e pure lui killer seriale. Un secondo delitto scatena l'allerta generale: uno chef famoso soffocato e appeso ad una gru è la vittima del folle, che persegue anche un suo disegno preciso, quello cioè di far fuori Selina e la sorella Carmen che gli dà la caccia. Ma Fallow è protetto dal dark web, una matassa ingarbugliata, in cui ogni crimine sembra lecito e dove solo superesperti riescono ad entrare, interpretare codici segreti e cercare di capire l'abilità di certi killer nello scegliere potenziali prede. La motivazione principale sembra essere quella di colpire persone che hanno avuto fortuna dalla vita, ma si capirà poi, dopo svariati colpi di scena, che non è proprio così: lo si capirà quando entrerà nei racconto un altro killer, incaricato di eliminare chi si opporrà ad un progetto grandioso, folle, che, nella mente dei complottisti, dovrà sovvertire l'ordinamento sociale.
Ho cercato di delineare solo una traccia della trama, che è molto più complessa, non facile da seguire in tutti i suoi dettagli e con molti riferimenti a particolari legati all'informatica: non per nulla uno dei protagonisti, Heron, è un esperto del web e addirittura ex hacker professionista. Quello che colpisce è lo stile narrativo, incalzante, fluido, senza pause, con dialoghi serrati : tutto scorre come fosse un film, nulla è lasciato al caso, come, ad esempio, la dettagliata descrizione degli abbigliamenti, i particolari dei luoghi frequentati, le sequenze degli agguati, degli inseguimenti, delle frequenti sparatorie, ii particolari macabri di delitti raccapriccianti... Ben delineati anche i caratteri dei due protagonisti: il fascino della Sanchez, competente e preparata, sempre pronta all'azione e ad affrontare senza timori le situazioni più pericolose, e poi la saggezza e la straripante cultura informatica di Heron, collaboratore pragmatico e brillante. L'astio tra i due si trasformerà poco a poco in simpatia e, forse, in qualcosa di più.
Non mancano momenti commoventi, soprattutto nei rapporti tra Carmen e la sorella minore: una verità nei rapporti familiari, rivelata nel finale, le riavvicinerà.
In complesso un poliziesco con i fiocchi, forse un pò ostico per i non esperti di informatica e di certi suoi difficili meandri, ma godibile e avvincente nell'insieme, ed in particolare per alcuni specifici temi trattati, come il dark web, gli hacker, il complottismo e la sua incidenza sulla sicurezza nazionale.
Ultimi particolari: tutto si svolge nella California meridionale e, sembra impossibile, nell'arco di pochi giorni, da lunedì a giovedì.
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Geni imbecilli ne abbiamo?
Più leggo storie che si concentrano sui viaggi nel tempo, più rimango delusa dal modo in cui un trope così intrigante viene sprecato in drammi strappalacrime e polpettoni sentimentali. Eppure io so per certo di aver adorato diversi titoli rientranti in questa categoria, quindi posso solo ipotizzare che a farmi innamorare non sia stato tanto il concetto in sé quanto la sua esecuzione in determinate narrazioni. Di certo il colpo di fulmine non è scattato con "Tutti i nostri oggi sbagliati", romanzo d'esordio di Mastai che già ad un anno dall'uscita sarebbe dovuto diventare un film, e poi una serie TV; il fatto che ad oggi non sia diventato ancora un bel niente penso sia significativo.
La storia inizia in una versione utopica del nostro mondo, dove l'accensione di un macchinario in grado di generare energia illimitata -noto come Motore di Goettreider- nel luglio del 1965 ha reso possibili incredibili sviluppi tecnologici. Si è arrivati perfino ad un passo dal viaggio temporale, per merito dello scienziato Victor Barren, il padre del protagonista Tom; quest'ultimo non condivide il genio paterno e si sente da sempre in difetto nei suoi confronti. L'improvvisa morte della moglie convince Victor ad assegnare al figlio un posto nella sua squadra, e questo sarà il primo passo di Tom verso un salto nel passato dai risvolti inaspettati.
Pur avendo parecchie critiche da muovere al romanzo, non nego mi abbia anche colpito in positivo in più punti. Ad esempio, ho appezzato il tono volutamente umoristico della prosa e la scelta di un protagonista a dir poco imperfetto: in un cast composto per la maggior parte da geni inarrivabili, Tom è un uomo semplice, che commette tanti errori e cerca di porvi rimedio con i suoi limitati mezzi. La sua voce dà poi un taglio decisamente divertente alle vicende, includendo perfino dei riepiloghi che mettono in prospettiva le sue azioni e contribuiscono a renderlo simpatetico al lettore.
A parte alcuni scambi ironici, i passaggi che ho trovato più validi sono quelli in cui si affronta il tema del lutto, perché ritengo che le riflessioni del protagonista siano genuine ed emozionanti al punto giusto. Forse per questo i numerosi dialoghi preghi di retorica hanno fatto schizzare i miei occhi al soffitto! infatti, capita spesso che i personaggi (e specialmente il protagonista) attacchino con degli pseudo-monologhi del tutto fuori luoghi e per nulla verosimili. Tra i difetti secondari potremmo includere anche la scarsa logica dietro diversi dettagli fantascientifici, la presenza di un sottotesto pro-life non di mio gusto e l'estetica scelta: non si tratta di un problema esclusivo dell'edizione italiana, ma comunque ritengo si potesse presentare meglio questo genere di storia.
Ma perché parlo di difetti secondari? perché i veri problemi di questo titolo sono altrove. Abbiamo infatti una componente romance parecchio prepotente, che a più riprese sembra rivendicare il focus della narrazione; il tutto per regalarci scene di disagio (causate da instalove anacronistici) e di inquietudine, dove l'ossessione viene spesso scambiata per amore e dove ogni comportamento del partner può essere scusato. Neanche a dirlo, nessuna delle dinamiche di coppia presentate mi ha convinto, e questo è dovuto in buona parte alla caratterizzazione superficiale dei coprotagonisti.
La trama banale e artificiosa rappresenta l'altra grande mancanza del romanzo. Innanzitutto, lo spunto è poco motivato: tutto comincia perché Victor inventa una macchina in grado di viaggiare nel tempo, ma perché lo fa? a quanto pare, un po' per vanagloria e un po' per creare un nuovo ramo del turismo per ricconi. Accettato questo pretesto sciapo, ci troviamo di fronte ad un intreccio privo di conflitto, nonostante i buoni spunti non manchino: Tom potrebbe voler salvare la madre, o cambiare il suo rapporto con il padre, oppure ancora avere successo nella vita. Ovviamente, non farà nulla di tutto ciò, eppure il libro si conclude con il più zuccheroso ed immeritato degli epiloghi! Con buona pace di tutti quelli che ci hanno rimesso nel mentre.
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Nei Mari tempestosi dell'infanzia
Negli undici racconti della raccolta ritroviamo i principali temi dell’opera di Michele Mari, a cominciare dal rapporto con la figura paterna, che qui appare però più mite ed empatica rispetto a quella severa e inflessibile di Leggenda privata. In Chi ha ucciso Liberty Valance il padre è una sorta di angelo, custode e “tesoriere”, che mette da parte e preserva tutti i giocattoli che il figlio smarrisce o abbandona senza riflettere sul vuoto che lasceranno nella sua vita: un fucile giocattolo lasciato su una panchina, due macchinine Mercury regalate con superficialità ad un compagno, un fortino di bambù. Ne La freccia nera è sempre il padre a mandare un piccolo segnale di apertura - il dono inaspettato di un libro- al quale il narratore risponde col silenzio, incapace di rimuovere il blocco affettivo che fa da ostacolo insormontabile alla comunicazione tra loro. Non manca l’altra grande protagonista di Leggenda privata, la madre, che in Certi verdini coinvolge il figlio nell'arte del puzzle, amplificandone via via le difficoltà di esecuzione, in un gioco cerebrale dominato dall'ossessione di superare prove sempre più ardue. Si fa strada qui quel culto dell’intelligenza, associata ad una pratica di separatezza dagli altri, che il narratore eredita da entrambe le figure genitoriali. Né mancano i mostri, protagonisti delle copertine di Urania, classificati con ampia figura retorica di accumulo per illustrarne le svariate caratteristiche che essi assumevano in quella celebre collana di fantascienza: ”loricati e squamosi, catafratti, pelosi, bavosi, mucosi, ungulati ,fiammanti, bituminosi, lobati, crestati, gassosi, colanti, informi e deformi, araldici, immani, solinghi, aggruppati ecc.”. A questa miniera di creature fantastiche lo scrittore attingerà ripetutamente nella sua produzione, da Di bestia in bestia a Locus desperatus.
Ma il protagonista principale di questi racconti è il narrante stesso, con i suoi tic, le sue manie, le fobie, il solipsismo, l’ aristocratica ed elitaria solitudine nella quale si rifugia disdegnando i rozzi compagni, i bulletti sfacciati e prepotenti de L’orrore dei giardinetti, apripista del Pigi di Leggenda privata.
Su questa tematica s’innesta uno dei “grumi” esistenziali più difficili da sciogliere: il desiderio sessuale struggente, che tornerà in Leggenda privata, complicandosi e contaminandosi col feticismo al quale sarà associata la figura di Doretta. Una libidine alla quale il protagonista sarebbe voluto sfuggire svanendo nel nulla, prima che si manifestasse e lo rendesse morbosamente geloso, trasformandolo, nel racconto fantastico “E il tuo dimon son io”, in una sorta di serial killer involontario dei suoi piccoli rivali in amore.
E qui emerge il tema dei temi, l’infanzia stessa, il luogo in cui tutto quello che contava si è svolto: “Non c’è stato molto altro, nella vita”, “No, è quasi tutto laggiù”. Questo è il parere dei due vecchi che si scambiano i loro ricordi nel racconto conclusivo, l'unico in terza persona. L'infanzia in Mari non è generatrice di illusioni come in Leopardi, né simbolo di un’aurorale e primigenia intuizione del mondo come in Pascoli, ma spazio doloroso di affetti non dichiarati e inespressi, di scelte elitarie ma anche di nodi esistenziali mai risolti, che Leggenda privata metterà in luce con squarci di grande e penetrante bellezza.
Il linguaggio di Mari, ricercato e denso di frequenti scarti dalla norma, neologismi, latinismi, arcaismi che ci riportano ad un italiano antico e confermano la struttura mentale filologica dello scrittore, è il segno e lo strumento di un distacco da questo magma emotivo di vicende familiari tanto intime, tanto decisive, tanto, a modo loro, violente e sanguinose. Ma anche i costanti riferimenti al cinema e alla letteratura, esaltata in Otto scrittori attraverso un’appassionata competizione tra i principali autori del romanzo marinaresco, rafforzano la cifra iperletteraria di questo affascinante autore. Senza dimenticare la passione per i "giornalini", gli album di Tintin e di Cocco Bill, di Mandrake e di Nembo Kid, di Linus e Topolino, che conferma il superamento di ogni steccato alto/basso e trova riscontro nell'opera sia saggistica, sia narrativa di Umberto Eco. Un titolo per tutti: La misteriosa fiamma della regina Loana.
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OSSESSIONI
Joe Rose scrittore britannico sposato.con Clarissa, insegnante universitaria, è il protagonista di "L'Amore Fatale". Il romanzo si apre con la descrizione di.una giornata apparentemente tranquilla : Joe e Clarissa stanno festeggiando il loro anniversario di matrimonio con un pic nic in un parco fuori Londra, ma si trovano coinvolti in uno strano incidente con una mongolfiera. Il nonno che stava controllando l'andamento della stessa ne perde il controllo a causa di un'improvvisa forte raffica di vento, il piccolo nipote all'interno grida per lo spavento e accorrono cinque uomini in soccorso, uno di questi è Joe. Nel tentativo di trattenere la fune, uno dei cinque aiutanti perde l vita; lo sguardo di Joe si intreccia per qualche secondo con uno dei soccorritori, Jad Perry. Quest'ultimo, omosessuale e fortemente religioso, sente una sorta di colpo di fulmine verso Joe, ma soffre della sindrome di De Clerambault e interpreta il veloce scambio di sguardi come lo stesso sentimento da lui provato. Da questo momento, la vita di Joe cambierà totalmente: lo stesso.Jad, ossessionato dall'amore non corrisposto di Joe arriverà a compiere atti assurdi iper convincerlo a lasciare la moglie. Quest'ultima che dapprima sminuisce la richiesta di supporto del marito, finirà per lasciarlo per completa sfiducia, rovinando così un matrimonio.
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L'Amore Fatale è un romanzo che scava all'interno della psicologia umana, mette in risalto le ossessioni umane e ne accentua il pericolo a cui possono portare. Le ossessioni generano ossessioni: se Jad è ossessionato da Joe, quest'ultimo è ossessionato dall'essere l'oggetto di un'altrui ossessione. Un gioco di parole su cui l'autore è molto bravo a farci riflettere.
L'amore è un sentimento potente in questo romanzo: non si tratta più di un sentimento puro, ma è quella potenza che può distruggere rapporti e portare al delirio, proprio come succede agli stessi Joe e Jad, ognuno per i loro motivi.
Questo è un romanzo che mi è piaciuto moltissimo, è breve, ma molto impegnativo: i contenuti sono importanti, serve attenzione ad ogni parola per cogliere i pensieri, le psicologia dei personaggi.
Dal Romanzo:
Anche l'egoismo ce lo portiamo scritto nel cuore. E' questo il conflitta di noi mammiferi: quanto dare agli altri e quanto tenere per noi stessi. All'atto di calpestare la linea sottile di tale confine, il controllo che esercitiamo sull'altro e quello che l'altro esercita su di noi, costituisce ciò che noi chiamiamo etica."
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Di solito è il contrario.
Il libro, che racconta romanzandola la vera storia della scomparsa della spedizione Franklin in cerca del famoso Passaggio a Nord Ovest, ha il pregio di avere originato la scrittura di una delle più belle serie TV degli ultimi anni, la omonima The Terror. Avendo visto la serie ed avendone apprezzato la bellezza visiva, l'eccellente scrittura e il magnifico lavoro dietro la costruzione e l'evoluzione dei personaggi, mi aspettavo che il libro da cui é tratta permettesse di esplorare ancora più a fondo il carattere, i lati nascosti e le dinamiche dietro i personaggi che la serie avesse soltanto lasciato intendere. Purtroppo leggendo il romanzo ci si rende subito conto di come molti degli eventi e delle dinamiche che rendevano unici i personaggi principali, come il Capitano Fitzjames, il Dottor Goodsir ed il Signor Blanky soprattutto, mancano del tutto o non vengono affatto esplorarate se non ad un livello molto superficiale. Questo é un enorme problema, quando riusciamo a capire e ad avvicinarci maggiormente a un personaggio di cui vediamo solo le interazioni nella serie piuttosto che quando ci viene raccontato in prima persona nel romanzo. Anche nel caso del protagonista, il Capitano Crozier, benché ci siano dei punti di svolta, si ha l'impressione che non venga realmente cambiato, limitandosi ad una maggiore "forza di volontà" e all'adattarsi ai cambiamenti, fino a accettare placidamente la morte del suo equipaggio, che aveva giurato di proteggere, addirittura alleandosi con chi ne ha causato la distruzione. Sembra quasi che l'autore tenesse talmente tanto all'immagine che aveva dato del personaggio da volerla mantenere tale a dispetto dei cambiamenti che avrebbero dovuto influenzarlo. Il personaggio di Cornelius Hickey poi, antagonista principale, é estremamente monocromatico e completamente vago, non regge il confronto con la controparte scritta magistralmente per la serie, limitandosi ad essere il cattivo infingardo per natura. Ci sono pur sempre nel libro diverse scene ben congegnate e avvincenti, che hanno dato origine ai plot points della serie, ma in generale i punti di svolta e di approfondimento, i gesti di eroismo o di vigliaccheria, quei momenti che ci fanno capire a fondo il carattere ed avvicinarci al personaggio, non reggono il confronto e sono sostituiti da stancanti pagine di ricordi personali che spesso fungono da spiegazione forzata, da dialoghi e soliloqui che hanno l'unico scopo di introdurre (ancora...) particolari irrilevanti, e da lunghissime e sconnesse descrizioni, come l'enumerazione continua di elementi naturali, di minuziosi dettagli tecnici presi da altri libri, e del ripasso di eventi già avvenuti, tanto che ci sono almeno due interi capitoli separati dedicati al riassunto delle vittime, con tanto di grado nella gerarchia e circostanze della morte. "A volte il ghiaccio era cosí e a volte era cosà, a volte camminavano cosí e a volte camminavano cosà". Tutte queste continue divagazioni stancano e danno l'impressione di essere soltanto sterili riempitivi per allungare il brodo.
Un altro grosso problema, su cui purtroppo non riesco a passare sopra, é la pesante iper caratterizzazione dei personaggi, su cui non c'è molto da dire: Tutte le volte che un autore cerca di rendere i suoi personaggi delle maschere, tipo il gigante fortissimo ma tonto che parla frignando, il dandy dalla blesa pronuncia inglese, l'esquimese ridanciano col nome buffo o il marinaio sboccato dal linguaggio colorito, magari nel tentativo di fare ridere, non si accorge che sta menomando i suoi personaggi, sta irrimediabilmente distruggendo tutta la credibilità ottenuta e li sta rendendo delle macchinette. Sono i personaggi sinceri e reali che strappano un sorriso, non le mascherate. Allo stesso modo, quando un autore vuole inserire per forza un omaggio ad un altra opera letteraria, dovrebbe almeno cercare di farlo in maniera sottile o convincente, e non sperare che i lettori si bevano che un gruppo di marinai e ufficiali inglesi avrebbero ricreato alla perfezione l'ambientazione di una storia di E.A. Poe. per una festa. Tanto valeva che subito dopo comparisse pure la lucentezza di the Shining... ops.
Per finire si posso dire di aver trovato comunque dei punti positivi leggendolo, e che in sostanza il romanzo prende un suo percorso e bene o male arriva in quello che si é proposto, tracciando, se non un arco narrativo, almeno una linea del personaggio di Crozier che comunque arriva a compimento, anche se troppo spesso appesantita con le visioni, gli incubi, le sorelle Fox che non c'entrano niente, e dando alla fine un senso di chiusura e di compimento. Sicuramente avrebbe beneficiato di una migliore pianificazione.
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Una giornata speciale
La protagonista ormai matura, a 19 anni si rese conto perla prima volta "come la sua generazione fosse immersa nel flusso del tempo. Come gli altri prima di loro sarebbero cresciuti, sarebbero invecchiati e sarebbero morti" . Le venne in mente quindi che era giunto il momento di prendere marito.
Adesso è una donna sposata con due figli e già nonna.
Il romanzo si svolge nell'arco di una lunga giornata. Molte informazioni però ci pervengono attraverso varie digressioni retrospettive.
Il viaggio che la coppia intraprende di buon mattino è per partecipare al funerale del marito di un'amica, una vecchia compagna di scuola. Una cerimonia molto strana con momenti inaspettati.
Al ritorno c'è un'altra tappa non preventivata ma assai importante.
Libro vincitore del più prestigioso Premio letterario americano.
Lettura gradevole con una scrittura agile da destare attenzione anche ai tanti dettagli che compongono questo ritratto di signora con marito.
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letteratura di qualità non impegnativa
Sarebbe finita la disperazione
«Sarebbe finita la disperazione.» Max Porter, Grief is the thing with feathers
Martha, che ha appena compiuto 40 anni, viene lasciata dal marito Patrick. Siamo nel Regno Unito, la vicenda si svolge tra Londra e Oxford, dove Martha e Patrick erano andati a vivere qualche anno dopo il matrimonio in una Prestigiosa Villetta che fa parte di un Elegante Contesto Abitativo.
Leggendo queste prime frasi introduttive potrebbe sembrare l’ennesimo romanzo sulla crisi di una coppia che apparentemente ha avuto tutto dalla vita. Invece no. Questo è un romanzo sull’enorme disagio che è provocato, in una normale esistenza, dalla malattia mentale. Quando infatti Martha aveva soltanto 17 anni è esplosa una malattia nel suo cervello, che ha influenzato enormemente, in maniera negativa, le sue scelte di vita, le sue relazioni personali, la possibilità di essere autentica e felice. Il racconto si dipana dalla stessa voce di Martha, una voce sì piena di dolore ma anche colorata di ironia e sarcasmo, che, attraverso analessi, ripercorre tutta la sua storia, fino a tornare al punto di partenza della narrazione, ossia la separazione dal marito Patrick.
Si tratta di un romanzo che affronta il tema della malattia mentale in modo diverso rispetto ad altri che ho letto in passato, ben più drammatici e intrisi, spesso, di disperazione. Qui possiamo percepire la sofferenza di Martha, la sua difficoltà nell’affrontare la vita, ma è una sofferenza che ci sembra familiare, è un disagio che riconosciamo come prossimo, vicino. La malattia mentale specifica non viene mai nominata, forse per lasciarla volutamente nell’indeterminatezza. Invece i problemi di Martha sono abbastanza comuni: il fallimento nelle relazioni di coppia, l’inadeguatezza che percepiamo, a una certa età, sentendo di non aver realizzato le proprie aspirazioni, la difficoltà nel rapportarsi con i familiari, che pure amiamo.
Chi è che non ha mai provato almeno uno, se non tutti, questi fallimenti? Chi è che non si è sentito, almeno una volta, inadeguato e incapace di aver vissuto con efficacia la propria vita?
“L’opposto di me stessa” è un romanzo intenso e doloroso, introspettivo e triste, coinvolgente grazie alla prosa brillante, ironica e ricca di citazioni della sua autrice.
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Una buona idea mal sviluppata
Non avevo mai letto alcun libro di Camilla Lackberg, nonostante ne avessi sentito parlare e avessi visto i suoi romanzi in libreria.
La trama mi ha incuriosito, ma devo ammettere che sono rimasta delusa.
Mi aspettavo qualcosa di meglio, un racconto più dettagliato viste le tematiche trattate. Ciò che l’autrice vuole raccontare è di per sé interessante sul piano teorico, ma è come se non fosse riuscita a mettere nero su bianco le idee che aveva in mente.
La storia si svolge durante la notte di Capodanno: quattro giovani, figli di famiglie ricche, festeggiano insieme nella villa di uno di loro, mentre i loro genitori fanno lo stesso nella villa di fronte.
Tra alcol costoso, cibi raffinati e un gioco che è un misto tra Monopoli e il Gioco della Bottiglia, Liv, Max, Anton e Martina aspettano lo sbocciare del nuovo anno insieme.
Durante la serata emergono tutte le difficoltà e le pecche delle loro famiglie disfunzionali, dedite solo a salvare le apparenze senza preoccuparsi di come i ragazzi possono sentirsi.
L’idea di base è buona, lo stile è scorrevole, il libro si lascia leggere senza problemi.
Tuttavia tutto è molto superficiale, accennato, approssimativo. L’autrice introduce un sacco di tematiche delicate molto interessanti, che meriterebbero di essere approfondite; invece rimangono sullo sfondo, nonostante poi siano il perno di tutto il racconto e rappresentino la motivazione che spinge i quattro amici a detestare e a volersi vendicare dei genitori.
Credo che il finale sia il tratto peggiore di tutta la narrazione, ciò che mi ha deluso maggiormente per il suo essere sbrigativo e per niente accurato, come se la Lackberg avesse fretta di concludere il libro il prima possibile.
Non è una lettura che mi ha impressionato, non mi è rimasta impressa e non mi ha entusiasmato per niente.
Peccato, perché l’idea non era malvagia.
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Attesa di niente
…Sono arrivati i tartari? Sì, sono arrivati…
Giovanni Drogo, alias Dino Buzzati, un giovane ufficiale partito dalla città un mattino di settembre diretto alla Fortezza Bastiani, momento atteso da anni, l’ inizio della sua vera vita.
Una Fortezza piccola, vecchissima, di seconda categoria, che non è mai servita a niente, di fronte un deserto, il deserto dei Tartari e un pensiero,
….come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per iniziare un viaggio senza ritorno…
Il tempo accompagnerà l’ insondabile attesa di un nemico impalpabile ( i Tartari ) da nord, di una possibile guerra, anni dentro i quali abbandonare la speranza, una vita dentro la vita, lasciata, ritrovata, persa in un progressivo senso di inutilità, un “ sogno “ smorzato per ritrovarsi a cinquant’anni prosciugati dalla malinconia.
Il Deserto dei Tartari è un lungo viaggio stanziale all’ interno di un microcosmo di regole e disciplina, vicinanze e lontananze nella monotona ripetizione dei giorni, gelide notti di guardia, lo sguardo rivolto a nord alla ricerca di un movimento, presenza vivida ancorata dentro di se’.
Un immobilismo esteriore in una fertile interiorità, sogni e rimpianti di una vita che poteva essere altro, il destino immutabile ha trascinato Giovanni al di fuori di una famigliarità che, dopo quindici anni, avverte estranea a se stesso, un piccolo mondo che ha fatto a meno di lui e che lo ha dimenticato.
Nel mentre una generazione è cambiata e, a più di quarant’anni, senza avere fatto niente di buono, senza figli, Giovanni Drogo si sente solo al mondo.
La Fortezza Bastiani avamposto di niente, ossimorica presenza, osteggiata, tollerata, nauseabonda, indispensabile per chi tra quelle mura ricerca una definizione e un senso di un qualcosa che potrebbe ancora accadere.
Pare evidente che le speranze di un tempo, l’ illusione della guerra, l’ attesa di un nemico da nord, siano stati solo un pretesto per dare un senso alla propria vita, accontentandosi, trascinandosi, desiderando sempre meno.
Quanto è difficile credere quando si è soli, consapevoli della distanza che separa gli uomini, anche nella prossimità e, per chi soffre, capire che il dolore va vissuto in completa solitudine.
Nel romanzo il respiro di una vita, la propria, una prosa centellinata trasudante metodo e precisione, amore per le parole, un rimuginio intellettivo tra sogno e realtà nel flusso ininterrotto di anni imperturbabili, fatti di niente, l’ aspirazione alla guerra nell’ invenzione della guerra, la morte di chi è solo un numero, un destino di immutabilità e rassegnazione, un tempo atemporale protratto malinconicamente.
Lunghi giorni di solitudine in cui immaginare, dare forma alla vita, rassegnarsi all’ evidenza, arrivi e partenze fotografano la propria uscita dalla giovinezza, la maturità, il paesaggio della vecchiaia, l’ incontro con la malattia, un riscatto personale nel respiro lontano e indifferente di un nemico alla porta, il sorriso quieto di una fine.
…facendosi forza Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’ uniforme, da’ ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride…
Il Deserto dei tartari, un classico da amare che anticipa numerosi temi della modernità, intriso di elementi autobiografici, prende forma tra i numerosi carteggi e gli appunti di Dino Buzzati nelle interminabili notti da lui trascorse, ancora giovane cronista, nella redazione del Corriere della sera, ( tra il 1933 e il 1939 ), nella progettazione di due finali, nella pubblicazione del romanzo ( 1940 ) pochi giorni prima dell’ entrata in Guerra dell’ Italia fascista, nella tardiva trasposizione cinematografica ( 1976 Regia di Zurlini ) dopo una lunga gestazione quando l’ autore è da poco scomparso.
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LA CONVIVENZA DELL'IDILLIO E DELL'INGANNO
Elsa Morante potrà piacere o non piacere, ma, in entrambi i casi, si commetterebbe un’insolente cattiveria nel definirla una scrittrice senza carattere. Solo una penna di un’identità autoriale così forte può essere in grado, al suo primo esordio narrativo vero e proprio, di buttar fuori un romanzo di questa portata, in totale contrasto con la linea letteraria novecentesca presente all’epoca.
“Menzogna e sortilegio” sorge come un’imponente cattedrale, costruita con il gusto del sottile e del minimo dettaglio, abitata da personaggi mitici, santi e dannati. La chiave d’accesso, donata al lettore per introdursi in questo spazio monumentale, è l’ambiguità; la via da seguire è la menzogna, accompagnati dalla narratrice, Elisa, la quale si presenta, onestamente inaffidabile. La sua inattendibilità è ostentata fin dalle prime pagine del romanzo e prenderà tutto il tempo necessario per presentarsi e far capire che il suo non è un gioco letterario, ma uno stato psichico alterato di un personaggio “pericoloso”, che tenta, forse di medicare, ma non guarire del tutto, le profonde ferite del passato, munendosi di strumenti, quali la fantasia e la memoria.
E che cosa sono fantasia e memoria per l’età di un fanciullo, se non un gioco complesso che rischia di intrecciare i fili della realtà con quelli dell’inganno?
Il romanzo, che i lettori leggono per la prima volta, in realtà non è che una rilettura ragionevole dell’infanzia e della prima adolescenza di Elisa, che la narratrice poco più adulta, decide di rielaborare e scrivere a posteriori, ed è importante tenere sempre a mente questo dato fondamentale per accettare di abbandonarsi a quell’ambiguità in cui ogni personaggio, ogni episodio e, dunque, ogni lettore rimane come sospeso.
“Menzogna e sortilegio” è in superficie un romanzo familiare, nell’abisso, invece, un’esasperata e inappagabile ricostruzione dei più intricati modi e comportamenti umani che l’individuo costruisce sia verso di sè sia nell’incontro con l’altro e, soprattutto, come l’esperienza di questo rapporto dialettico dentro-fuori, rientri nelle forme fantasma di un’epifania mentale, partorita da sè stessi, di cui la realtà effettiva non porta più alcuna traccia.
Lo spazio dominante su cui i personaggi si muovono è un terreno brulicante di desiderio mentale, la passione, infatti, riguarda la fisicità solo perchè essa è invasata e sottomessa da uno stato psichico manipolatorio, che non si cura della verità, ma solo della proiezione del proprio volere.
Dentro questa diagnosi che, senza suspence narrativa, presenta immediatamente la tragicità degli effetti di questo processo psichico, si svela come, quella che viene presentata come una leggenda degli occhi infantili sia, in realtà, un dramma piccolo-borghese.
I complicati rapporti familiari descritti, si inseriscono nel filone psicoanalitico freudiano dell’evangelico “Romanzo familiare dei nevrotici”, rappresentativo di una costruzione fedele e di una demolizione complessa del grande mito genitoriale, che prima di essere sconfessato definitivamente e oltrepassare la tremenda linea di separazione, i cui poli estremi sono trattenuti dall’idillio e dall’inganno, subisce uno scambio di ruoli da genitore-figlio a figlio-genitore.
Elisa, statica, stagna nella consapevolezza dostoevskijana di aver intravisto la verità, ma di non sapere che cosa farne. L'esistenza è bloccata in un passato sepolto e il tempo ha perso la funzione ordinatrice di classificare il presente o proiettare il futuro. La presa di coscienza, se non rifunzionalizzata in una nuova espressione vitale, disintegra il soggetto dall’interno.
E’ un fatto noto che la Morante ponga al centro dei suoi romanzi il grande incanto della giovane età, sembra non esistere altro, né tantomeno qualcosa di più importante da raccontare, se non quel tempo tra l’infanzia, la fanciullezza e la giovinezza, in cui un piccolo gesto, un pensiero imbarazzante, un modo di atteggiarsi o un sogno irraggiungibile, vissuto da un giovanissimo ragazzo o da una giovanissima ragazza, siano elementi di natura indispensabili e raccontati come fossero le punte di diamante di ogni esistenza, come se fossero l’unico principio per cui si vive e si muore. Non esiste e non può esistere, per la Morante, alcuna forma di vergogna o di ridicolezza dentro una giovane incoscienza perfetta e purissima in qualunque manifestazione si presenti. Tutti i romanzi della Morante, in un modo o nell’altro, entrano in un potente dialogo tra di loro, ed è curioso come questo acerbo, bestiale e magnifico primo frutto letterario, più di ogni altro, comunichi a distanza con il più raffinato, onirico e celestiale epilogo morantiano di "Aracoeli". Tutte le volte è un grande onore, un incanto e una difficile e bellissima violenza leggere Elsa Morante.
Il Buio dell'inconscio
L’addormentatore di bambini Pietro Geber, psicologo infantile che attraverso la tecnica ipnotica aiuta giovani pazienti ad elaborare traumi imprigionati nell’inconscio, si ritroverà tra le mani un caso complesso. Il piccolo Mattias da ormai un anno ha un sogno ricorrente, una donna vestita di nero dai lunghi capelli inquieta le sue notti. Ma chi è questa donna una presenza o è reale?
Un romanzo che cattura l’attenzione trascinandoti nella storia densa di approfondimenti scientifici sulla psiche umana legate all’età dell’infanzia, sottolineando la complessità della mente e le sue attività non coscienti che possono dominare la parte razionale, con possibilità di danni permanenti se non si agisce in fretta. “non c’è più tempo” è quello che i genitori di Mattias dicono rivolgendo un disperato bisogno di aiuto allo psicologo, che dopo una seduta ipnotica è convinto che il piccolo paziente sia affetto da allucinazioni oniriche, ma è davvero così?
È proprio durate una di queste sedute che Pietro raccoglie indizi, che lo portano a dubitare che si tratti di un disturbo del sonno, ma allora come è possibile? da dove viene la storia raccontata da Mattias nella fase R.E.M. e soprattutto questa donna perché ha scelto proprio lui?
Pietro non sa come aiutare Mattias ricorre agli insegnamenti del padre anch’egli “addormentatore” per cercare di arrivare ad una diagnosi, ma sembra non funzionare, da sempre scettico su presenze soprannaturali o pseudo-scienze proverà ad aiutare il piccolo paziente trovando una spiegazione attraverso di esse, cominciando a dubitare del proprio scetticismo.
Donato Carrisi mette in scena un romanzo psicologico che ruota sull’attività onirica, celando un mistero che traina ogni capitolo a quello successivo, arrivando ad un finale “normale”: cioè quel tipo di romanzo che non ti accorgi di essere arrivata ad una conclusione finisce e basta, lasciandoti perplessa. Il raggiungimento del traguardo finale è marginale rispetto a tutta la storia che secondo me funzionava.
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....MA DAVVERO NON SUCCEDE MAI NIENTE SU QUEST'ISO
Liten è una piccola e tranquilla isola vulcanica tra la Danimarca e la Svezia. Il tempo qui sembra essersi fermato e non accade mai nulla, tranne nella stagione estiva in cui i turisti la animano attratti dal suo lago. Tutto cambia quando viene ritrovato nel lago il cadavere di una ragazza, Erika Lundstrom, legato a stella. L'intera isola è scomvolta, niente del genere è mai successo e la stessa polizia locale non sa come gestire le indagini. Così, in aiuto, viene mandato l'ispettore della scientifica di Malmo, Henning Olsson, con l'agente Kaj Bak che dovrà assisterlo nel fotografare, raccogliere ed analizzare le prove. Henning non sarebbe mai voluto ritornare sull'isola; a Liten, infatti, lavora l'agente di pilizia, Annelie Lindhal, con cui in passato ha avuto.una relazione sentimentale che l'ha ferito moltissimo. I due sono costretti a lavorare insieme per risolvere il caso ed evitare che ciò che è accaduto si ripeta ancora.
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#omicidiofuoristagione è un giallo che mi ha appassionato fin dalle prime pagine. Liten non è solo il luogo dove si svolgono le vicende, ma è essa stessa un personaggio tanto ostile agli stranieri e allo svolgimento delle indagini quanto protettiva verso i suoi abitanti. Essi sembrano in apparenza una comunità unita, qualcuno di loro ama fortemente l'isola, qualcuno si sente prigioniero, vorrebbe andarsene e vede nella terra ferma la salvezza.
Tanti sono i personaggi: dai coetanei di Laura, in particolare Malin Dahlberg, una youtuber in cerca di fama, tanti sono gli intrecci sviluppati.
Arwin J. Seaman, autore italiano che scrive con questo pseudonimo, è stato bravissimo a descrivere luoghi e comporre una trama in perfetto stile svedese, dai toni freddi e avvincenti in cui il caso ha la sua conclusione, ma per tutto il resto, il finale è aperto.
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L'imprevedibile Arturo Bandini !
Cronologicamente parlando questo libro sarebbe il secondo nella serie dedicata ad Arturo Bandini, alter ego di J. Fante, venendo subito dopo di “Aspetta primavera, Bandini” (rappresenta la genesi del personaggio, nel quale si racconta l’adolescenza trascorsa in Colorado all’ombra della figura paterna) e prima del più celebre “Chiedi alla polvere” (dove si trova un Bandini adulto a Los Angeles in cerca dell’affermazione definitiva come scrittore). Eppure questo romanzo ha avuto una storia travagliata in quanto sarebbe il primo scritto da Fante ma l’ultimo a venire pubblicato negli anni ‘80 del secolo scorso perché rifiutato in serie dalle case editrici.
Scritto negli anni ‘30 e dal contenuto fortemente autobiografico, il Bandini protagonista si delinea per il suo narcisismo esasperato: ancora lontano dal successo e costretto a svolgere lavori umilianti per sbarcare il lunario (uno su tutti operaio nella fabbrica di inscatolamento sgombri), Arturo Bandini si costruisce una realtà alternativa nella quale rifugiarsi, vedendosi già come un grande scrittore conosciuto e glorificato dai media, oggetto di culto, una sorta di superuomo come descritto in “Cosi parlò Zarathustra” dal filosofo Nietsche, uno degli autori preferiti da Arturo (“L’immortale Bandini, lo scrittore, ed eccolo disteso laggiù senza dubbio stava componendo qualcosa per la posterità”).
Bandini l’orgoglioso (“Il mio primo e ultimo verbo si leva dal cuore di quello strato profondo chiamato Orgoglio”), Bandini perennemente litigioso che inveisce contro la sorella che apostrofa in malo modo, accusandola di essere una bigotta schiava della chiesa di Roma, totalmente incapace di comprendere il suo talento letterario.
Ed ancora Bandini che vuole mostrarsi latin lover, sprezzante nei confronti delle donne ma al tempo stesso incapace di resistere al fascino femminile, con un debole verso le foto delle pin-up dei giornalini illustrati che ritaglia e conserva gelosamente per poi inventarsi storie di fantasia con loro. Bandini arrabbiato col mondo intero che si comporta come i bambini e scarica la propria frustrazione su animali indifesi come i granchi, che poi stermina sprezzantemente cullandosi nell’idea di potere essere rispettato e temuto (“Questi granchi maledetti da Dio avevano addirittura messo in dubbio il potere di Bandini il Superuomo!”).
Ma anche il Fante-Bandini che aveva ben capito il sistema capitalistico americano che si basa sullo sfruttamento del povero, dell’immigrato per ottenere profitti (“Vittime dell’ignavia bottegaia e del sistema americano, schiavi bastardi degli squali della finanza. Schiavi, parola mia!”) e che aveva già anticipato e denunciato lo scontro di classe tra americani ed immigrati (nulla di nuovo a quanto pare, siamo ancora fermi a questo punto) .
Per tutto questo ed altro ancora, “La strada per Los Angeles”, raccontato in prima persona così come avviene per tre dei quattro romanzi dell’ideale tetralogia, è stato rifiutato, temuto e non pubblicato per lungo tempo. Eppure lo stesso Fante, senza scoraggiarsi, ha solamente smussato le caratteristiche del suo personaggio, rimasto fedele alla sua genesi (in fin dei conti non poteva essere diversamente, l’autore parla di se stesso) e che per fortuna ha poi trovato la luce con gli altri romanzi della serie.
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Traffico di armi tra Messico e California.
E' un nuovo episodio, il 19° se non erro, della serie "Le donne del Club Omicidi ",
protagoniste una detective, una giornalista, una procuratrice ed un'anatomopatologa, tutte legate da una forte amicizia e da un encomiabile spirito collaborativo. Questo, che dovrebbe essere se non erro il 19° episodio, ci porta in California, dipartimento di San Francisco, in un momento particolare, caratterizzato dall'emanazione di una legge federale che vieta l'uso di un certo tipo di armi, quelle automatiche. Legge che, oltre a suscitare sconcerto e rivolte da parte di chi si appella al famoso secondo emendamento (addirittura del 1791), che sanciva il diritto dei cittadini USA a detenere e portare armi di qualsiasi tipo, inizia a favorire il commercio clandestino di armi Il giallo "Se parli muori" fa parte della serie "Le donne del Club Omicidi", che ha come proibite. Ed è proprio questo il tema del romanzo, che inizia con l'arresto di un trafficante messicano: sorpreso a smerciare armi proibite in una fiera, è arrestato e rispedito in Messico dove verrà incarcerato. Ma il traffico tra Messico e California è molto più vasto, abbinato allo smercio di droga: chi parla (e sono diversi nel racconto, poliziotti e civili) viene ucciso, con le labbra cucite e la scritta "se parli muori". Le indagini appaiono molto intricate e battono varie piste, soprattutto la detective (Lindsay) e la giornalista (Cindy) si danno da fare, correndo personalmente grossi rischi: un poliziotto corrotto sembra collaborare dal carcere, ma muore in modo sospetto, suicidandosi, un informatore lautamente ricompensato sembra conoscere i movimenti di un grosso carico in arrivo, ma sarà un tranello. Si brancola nel buio, fino alla soluzione che individua finalmente la pista giusta. Tutto finisce in un drammatico scontro finale tra buoni e cattivi e nell'individuazione del principale colpevole dei delitti misteriosi. Le coraggiose donne del Club se la cavano sempre egregiamente, esponendosi ad ogni pericolo, anche Claire (l'anatomopatologa) che sarà protagonista di una vicenda a parte, eseguendo l'autopsia di una povera bimba scomparsa da casa e rinvenuta morta in un fossato: una storia commovente che inchioderà alle loro responsabilità colpevoli inimmaginabili.
Tutto il racconto è scritto con la solita prosa incisiva ed incalzante, che bada più ad emozionare il lettore con sparatorie, agguati, prevedibili colpi di scena, che ad approfondire caratteri e psicologia dei personaggi: il classico prodotto in serie della premiata ditta Patterson e Co., che attira e conquista comunque centinaia di milioni di lettori in tutto il mondo.
C'è sempre però qualcosa da imparare. Per esempio non sapevo che il famoso secondo emendamento sul possesso di armi da parte dei cittadini USA risale addirittura al 1791, emendamento che ha permesso una straordinaria diffusione di armi di ogni tipo in tutti gli States. Ignoravo anche che la legge sulla restrizione e sulla vendita di armi da fuoco (soprattutto le automatiche) è stata approvata dal presidente Biden nel giugno del 2022, per limitare le sempre più frequenti esplosioni di violenze da armi da fuoco. Legge che non sempre ha incontrato giudizi favorevoli, ed ha in un certo modo incentivato commerci clandestini di armi, come ci ha narrato James Patterson nel libro.
Dimenticavo di segnalare il fatto che la brava giornalista Cindy ha ottenuto dal direttore del suo giornale due giorni liberi alla settimana per dedicarsi alla scrittura di un libro su un famoso assassino (tale Evan Burke) condannato all'ergastolo, un mostro seriale che le ha procurato lettere, foto delle vittime, vive e morte, ed ampia documentazione sulle sue malefatte: sarà forse la trama per un prossimo episodio delle donne del Club Omicidi?
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Il destino in una scelta
La vita presenta ombre insospettabili e minacciose presenze, un passato ingombrante, è cruda, misteriosa, indecifrabile, violenta. Quando un amico viene a mancare improvvisamente un inevitabile vuoto ci prende ed è difficile sottrarsi al senso di colpa, a un destino che poteva essere altro, circondati dal dolore muto di amici e parenti, dalle voci dei conoscenti.
E allora, sopraffatti da una curiosa presenza, il destino dell’ altro si allinea al proprio e, specchiandoci, ci domandiamo chi siamo e che cosa realmente sappiamo di noi,
identificandoci con l’ umano che resta, con la paura della morte, con un lascito insostenibile.
Inevitabilmente ci addentriamo nel passato del defunto scoprendo che di lui ben poco ci resta se non quell’ idea con la quale abbiamo convissuto da sempre, una visione di superficie che si nutre di uno stato apparente.
Questo quanto accade al dottor Charles Coindreau, voce narrante, un medico parigino alle prese con la tragica notizia della morte dell’ amico Bob Dandurand, improvvisamente annegato lungo la Senna.
Che sia un incidente o un suicidio la ricerca della verità ne ricostruisce la trama, Bob era un quarantanovenne dalla battuta pronta, disponibile, giocoso, ospitale, divertente, la sua casa parigina sempre aperta.
Perché lo ha fatto? Difficile dirlo, ciascuno nasconde una parte di se’, il proprio ménage famigliare, codici personali di comunicazione e appartenenza, figlio di legami atavici, prodotto di scelte avventate, ponderate, insondabili, giovanili, di una narrazione trasversale che non ci tocca, con il diritto di decidere della propria fine .
Lulu, moglie di Bob, che gestisce una modisteria, è percossa dai sensi di colpa, da un dolore muto che non cede all’ evidenza, nell’ impossibilità di ricominciare, una parte di se’ definitivamente consumata e persa.
Giorni rivestiti di un abito smunto, lei che ha sempre amato e giustificato Bob, anche nelle sue ripetute scappatelle, che non ha niente da rimproverargli, che gli è grata di averla scelta, che si incolpa di quello che potrebbe essergli successo, consumata da uno sfinimento psichico e corporale.
A contorno rapporti famigliari tronchi, una gioventù deragliata precocemente, la ricerca di momenti giocosi, un’ affezione profonda, un’ abitudine protratta, una solitudine profonda.
Charles si immedesima in Bob a tal punto da sostituirlo in alcune debolezze, da domandarsi che fine farebbe se fosse vittima della medesima sorte, rivisitando il proprio ménage famigliare, cercando di leggersi dentro, richiamando emozioni sopite.
La morte di Bob scoperchia un nuovo volto, sociale e famigliare, oltre ogni costruzione apparente, sulle sue origini, sulla sua storia, sulle sua famiglia, sui suoi desideri, scoperte sorprendenti delle quali non resta che accettare l’ evidenza.
Oltre il dolore dell’ assenza una certa inquietudine riveste la propria maschera di invisibilità, sconosciuti a se stessi, soli tra tanti, un piccolo mondo borghese pervaso da un alone di frequentazioni e conoscenze che mira alla sopravvivenza, che vede ciò che crede, eppure basterebbe un po’ di ascolto, uno sguardo attento, l’ accettazione dell’ altro nel suo diritto di compiersi.
Il grande Bob e’ un testo costruito su una trama scarna che scava in piccoli dettagli significanti lasciando domande inevase.
…a cosa pensi? A niente, a tutto…
Un’ indagine del profondo dalla quale emergono verità più o meno evidenti, una vita alla quale l’ uomo si adatta, con l’ esclusione di felicità e riposo, una società che egli combatte continuamente, la quotidiana infelicita’, di se stesso e della propria esistenza, una vita nella quale c’è chi ci sbatte in faccia sgradevoli verità e chi cerca di fare gioire gli altri, chi sembra un fallito e chi ha scelto di esserlo consapevolmente.
Niente può essere predetto o domato, conosciuto perfettamente, la verità ( fattuale ) lentamente prende forma e, dopo una lunga rincorsa, si mostra, fredda e deludente, quanto è complicato e complesso comprendere l’ altro, prima sarebbe opportuno leggersi dentro.
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Alta velocità e meditazione lenta
Vagoni, treni, binari, orari, attese, incroci, avvistamenti, il ritrovamento di due corpi senza vita su una spiaggia nel lontano Kyushu, un complesso rompicapo da risolvere.
Il probabile suicidio di una coppia dopo un lungo viaggio condiviso e un’ attesa durata cinque giorni, odore di avvelenamento, quale il movente di un’ indagine archiviata prematuramente, un dubbio tra i binari in attesa di un treno visibile solo per pochi istanti, un incontro apparentemente casuale, forse organizzato, l’ inizio di un’ altra storia, una serie di viaggi tra le isole dell’ arcipelago giapponese inseguendo flebili tracce che possano incriminare un sospettato insospettabile.
Due funzionari di polizia impegnati nella ricerca, il giovane investigatore Mihara supportato dall’ esperto Torigai, niente di accidentale, un intricato puzzle che sfugge a definizione certa.
Otoki e Sayama, quale l’ identità dei suicidi, il motivo del loro gesto, un’ intrattenitrice di un locale di Tokyo e un funzionario ministeriale, che si tratti di una relazione nascosta, complessa, pericolosa, di un’ amicizia di lunga data, di semplice conoscenza, di un tranello costruito ad arte nel quale cadere inesorabilmente ? Come sono giunti nel Kyushu, in coppia o separatamente, e per fare cosa, dirsi semplicemente addio?
La lenta ricostruzione di una trama inserita in una dimensione spazio-temporale di attesa, luoghi percorsi velocemente, coincidenze, particolari apparentemente insignificanti a separare una possibile messinscena dalla certezza di essere soggiogati e distratti dalle apparenze.
Un percorso di numeri, sensazioni, ipotesi da convalidare, di occhi indiscreti, nomi falsi, presenze-assenze, un probabile stato di connivenza, un amore tradito dalla certezza di una malattia invalidante, il lento e inesorabile sbriciolamento di una trama apparente.
Una certa solitudine meditativa scivola nella velocità degli spostamenti, pochi indizi, pochi protagonisti, intrecci pericolosi, la freddezza relazionale nella lentezza situazionale, certezze indimostrabili, un film orchestrato attorno a un orario ferroviario ricordato perfettamente, coincidenze, ritardi, viaggi, presunti, effettivi, mancati, uno stato di evidenza, ciò che è non è come sembra, c’è dell’ altro, nascosto, costruito, successo.
Tokyo Express è un buon giallo scarnificato con un finale privo di suspense che vive su un complesso giuoco di incastri, probabilmente eccessivi nel proprio tecnicismo, su un macabro evento orchestrato scrupolosamente, su una costruzione mentale alla ricerca di una valenza in un campo indiziario circoscritto agli spostamenti di Mihara, tra digressioni protratte, creazioni fantasiose e deduzioni brillanti sulle tracce di un assassino e dei propri complici.
È una peregrinazione ad alta velocità nel cuore di un Giappone infettato da una corruzione dilagante, tra maschere di non appartenenza, tradizioni rafforzate dall’ apparenza, una sottile linea oscura che richiama pazienza per afferrare l’ inafferrabile, l’ ovvio sovente nasconde tenebrose presenze.
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Gli amanti defunti
Si pensava tutti che l’autore avesse calato il sipario sul commissario Ricciardi, congedandosi da lui nel più doloroso dei modi. Invece probabilmente questo straordinario personaggio è mancato tanto all’autore quanto a noi o forse di più, motivo per cui ci è stato regalato questo ulteriore episodio, che non è comunque ancora l’ultimo. E Ricciardi ha decisamente ancora qualcosa da raccontarci. Sono passati 5 anni dalle ultime vicende, la porta sul proprio abisso interiore non è ancora chiusa, ritroviamo un Ricciardi stanco, inevitabilmente segnato ancora dal proprio lutto, consapevole, come sempre, dell’insostenibile peso che lo opprime, nonché aggravato dalla sua situazione familiare e personale, così tanto profondamente cambiata. Ricciardi sente e soffre con rara intensità, però ha la luce di Marta che gli illumina le giornate. Anche i personaggi secondari sono sempre meno cornice e sempre più parte integrante del canovaccio. Si muovono sulle note di un tango, che crea un’ideale connessione fra Napoli e Buenos Aires e che è capace di scaldarci, ad un secolo di distanza.
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Flora, Miles e le presenze oscure...
“Il giro di vite” di Henri James è un libro che o si ama, o si odia. Divide il pubblico e suscita diverse emozioni e diverse sensazioni che variano a seconda delle letture. Sicuramente è uno di quei libri che non basta leggere una volta sola ma che richiedono, senza ombra di dubbio, una lettura ulteriore.
Pubblicato per la prima volta nel 1898, si propone come una lettura in stile gotico e che è caratterizzata da uno stile che sin dalle prime battute punge e coinvolge il lettore. Le parole di James non sono mai lasciate al caso, sono ricche, descrittive al punto giusto, minuziose. Le scene che vengono delineate accompagnano passo passo e permettono al lettore di avere vivido nella mente ciò che viene narrato senza alcuna difficoltà. Questo favorisce l’immedesimazione.
L’intera narrazione ruota attorno alla sensazione di oscure presenze, fantasmi, che si aggirano nelle vite dei protagonisti. Abbiamo una istitutrice che si prende cura di due bambini, Flora, di otto anni, e Miles, leggermente più grande. I ragazzini vivono con la governante, la signora Grose, in una sperduta località dell’Essex di nome Bly. Sono orfani dei genitori e sono protetti da uno zio che però è molto impegnato in città. È un uomo che mai si sottrae al prendersi cura delle loro necessità seppur da lontano. A causa della morte prematura della precedente istitutrice, viene assunta una nuova ragazza che è figlia di un povero parroco di campagna. È lei che narrerà le vicende aggiungendosi a una prima voce narrante che conosciamo nel prologo. È un personaggio, questo, senza nome che attorno al focolare nella notte di Natale, partecipa a uno scambio di storie sui fantasmi. Douglas narrerà di una casa a Londra ove è custodito un manoscritto relativo a una storia di fantasmi raccontata dall’istitutrice di sua sorella. Una matriosca nel vero senso del termine, un escamotage narrativo con cui James arricchisce la narrazione, la rende ancora più sinistra e rende ancora più complesso il rompicapo da risolvere. Nulla tra queste pagine deve essere dato infatti per scontato.
«[…] Se mi guardo addietro, mi pare che tutto sia stato pura sofferenza; ma, almeno, sono arrivata finalmente al duro nocciolo della questione, e la via di scampo piú sicura sta nell'andare avanti.»
“Il giro di vite” di Henri James gioca molto su sottointesi e atmosfere che suscitano curiosità ma che richiedono pazienza nell’attendere. Non è un romanzo immediato e ancor meno rapido. Questo si può ipotizzare per scelta volontaria stante i molteplici espedienti narrativi adottati. Altra dimostrazione della sua bravura è data dal fatto che il testo, nonostante gli anni, è ancora attuale e capace di coinvolgere il lettore dell’ora come il lettore del tempo.
Flora e Miles sono perfettamente tratteggiati. Se agli occhi della istitutrice appaiono come due bambini angelici e buoni, due ragazzini di rara bellezza e bontà, nel conoscitore si definisce, al contrario, un discreto senso di inquietudine innanzi a loro. Tende a stare sempre sul chi va là. A maggior ragione con la consapevolezza della perversione e della depravazione dei fantasmi di Quint, defunto inserviente di Bly, nonché della signorina Jessel, la precedente e già citata istitutrice.
Di contro, interessante è il ruolo della nuova istitutrice che non fa altro che far da testimone dei misteri e delle apparizioni che si susseguono. Non riuscirà mai a venire in contatto con lo zio ma resterà occhio tra il consapevole e non consapevole degli accaduti.
«Il momento si protrasse tanto a lungo che sarebbe bastato poco ancora per farmi dubitare che anch'io fossi viva.»
Non può forse gridarsi al capolavoro quando si parla de “Il giro di vite” di Henri James, ma cosa certa è che si tratta di un titolo che nella sua brevità sa offrire tanto al lettore. È una storia che con una rilettura si lascia apprezzare ancora di più. Al contempo è un testo che sa coinvolgere e trattenere tanto per descrizioni quanto per narrato. Divide per la sua impostazione non immediata che dunque porta anche a quei dovuti sospiri.
Uno di quei libri da leggere almeno una volta nella vita e da gustare piano piano senza aspettative ma con naturale curiosità.
«[…] Sarei riuscita ad andare avanti soltanto prendendo confidenza con quella natura, mettendola in conto, e considerando il mio mostruoso calvario come una spinta in una direzione insolita, certamente, e sgradevole, ma che richiedeva dopotutto un altro giro di vite alla consueta, umana virtù.»
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Un thriller profondo
Come tutti i libri di Ilaria Tuti, ho trovato questo romanzo delicato e profondo.
Elemento chiave per leggere i casi di Teresa Battaglia e' non pensare a questo libro come ad un thriller, perche' effettivamente non lo e'.
Il racconto e' molto introspettivo, complesso ed affronta tematiche spesse, complicate e non imputabili al genere, per esempio la malattia o la voglia di maternità. I dialoghi sono intensi e ben strutturati, ho particolarmente apprezzato le dinamiche fra i personaggi.
Purtroppo, solo due personaggi sono davvero raccontati, ripetendo lo stesso errore del primo romanzo: Teresa e Massimo. A volte, non capivo il perché descrivere un'intera squadra, se l'autrice non ha donato una vera personalità a tutti i compagni.
Altra nota dolente del libro e' la lentezza del racconto. Questo non e' un romanzo corto, ma certo non mi aspettavo l'apice della trama dopo 400 pagine. Credo che l'autrice a volte si lasci prendere dalle descrizioni dimenticandosi dell'importanza di una costanza nelle azioni.
Tutto sommato lo ritengo un bel libro, adoro Teresa e sicuramente leggero' le successive indagini.
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Il brutto anatroccolo
Il giornalista Domenico Cigno, protagonista del romanzo “La fame del cigno”, a firma dello scrittore casertano Luca Mercadante, è tutt’altro che persona gradevole, come lo sono ben altri eroi di carta, davvero difficile definirlo fisicamente piacevole e attraente. Ha compiuto il percorso inverso del brutto anatroccolo della fiaba famosa di Andersen, che da palmipede piccolo e sgraziato si ritrova, nella maturità, uccello flessuoso, elegante, aggraziato, neanche si riconosce mirandosi in uno specchio d’acqua. Il nostro Domenico, al contrario, in gioventù è stato davvero un cigno, o almeno un ragazzo normale, con un qualche talento per lo sport, era uno sportivo, una sicura promessa del pugilato, con fisico adeguato al ruolo e una castagna niente male. Nella maturità, persi per strada i sogni di gloria tirando pugni, è diventato giornalista di successo, un segugio investigativo di razza, tutti i media si disputavano la sua firma e l’ esclusiva dei suoi servizi. Poi qualcosa gli è successo, nella vita oltre che nello sport una valanga di cazzotti deve averlo tramortito, ha iniziato gradualmente ad azzuffarsi di brutto con il proprio peso, anche senza guantoni, avendo la peggio, e ad aver sempre più fame, cosa che per un atleta è quanto di più deleterio gli possa accadere. Da cigno, passa a diventare brutto anatroccolo, peggio ancora, un’oca all’ingrasso. Tuttora lo devasta, non più giovanotto ma pur ancora giovane cinquantenne, una grave bulimia ingravescente, il mezzo con cui palesa in tutta la sua bruttezza il proprio disagio esistenziale. Per capirci meglio, Domenico Cigno una normale pizza margherita la piega “a fazzoletto”, ma non per degustarla come l’omonimo “street food” napoletano, ma per versarsela direttamente in gola in maniera rapida e, chiaramente, nevrastenica, da fuori di testa. Questo non è più un disturbo alimentare, è l’urlo d’orrore di un’anima devastata. La sua non è fame di solo cibo, è autodistruzione metodica a base esponenziale.
“La fame del Cigno” è un ottimo lavoro, una lettura avvincente, un libro interessante.
Anche originale, diverso dai soliti gialli investigativi, vario e variegato, un racconto che è più un’analisi sociale di un certo territorio e del degrado ivi esistente, che un noir vero e proprio. Davvero un ottimo libro, da leggere, da gustarsi con calma, specialmente per chi non conosce la location dove è ambientata la storia, un racconto acuto, profondo e interessante, scorre in maniera rapida ed essenziale. Non un noir fine a se stesso, con delitto, investigazione e soluzione dell’arcano, per quanto il mistero sia pregevole e stimolante, tutto il costrutto induce invece a riflettere e a osservare con occhio diverso quanto troppo spesso fingiamo di non vedere. Per esempio, neanche ce lo chiediamo, cosa fanno, come vivono, quanto è disgraziata e miserabile la loro esistenza, intendiamo quella di nugoli di ragazzine nere scollacciate e succintamente vestite in qualsiasi stagione dell’anno, distanziate pochi metri l’uno dall’altra, prostituite a forza e in eterna attesa d'infiniti clienti ai margini di una strada di grande scorrimento nella periferia suburbana. Un testo analitico, curato nello sviluppo della trama fin nei particolari, una storia originale, fuori del comune, che mette insieme delinquenza organizzata d'infimo livello, razzismo, violenze, fatti d'immigrazione clandestina, volte in particolare a rifornire di materia prima i racket della prostituzione, florida attività criminale a danno di intere popolazioni dell'Africa. Giovani africane rapite, schiavizzate e brutalizzate, costrette a vendersi per strada, senza voler far cenno poi ad altre pratiche bestiali di dominazione di genere in uso presso quei popoli come l’infibulazione. Cosa possa succedere nella testa di una ragazza che subisce tutto questo non possiamo neanche immaginarlo. Il tutto che avviene realmente, e non nella fantasia dell’autore, in una zona ben precisa, quella di Castelvolturno in provincia di Caserta, e gli immediati e fangosi dintorni del gran fiume campano. Qui, pur essendo bianco, vive anche Domenico Cigno, che sconta a caro prezzo, e su se stesso, il proprio fallito tentativo di emanciparsi dalla nefasta influenza del genitore, sfidandolo e cimentandosi nel pugilato anziché nelle arti marziali di cui il padre è un esperto maestro. Da qui lo scherno paterno, perché esistono genitori così, che non ti toccano mai con un dito, nessuna violenza o coercizione, e però lasciano trasparire ogni giorno quanto rimpiangano con tutto il cuore non il momento in cui ti hanno messo al mondo, fanno di peggio, rimpiangono di averti riconosciuto, e fanno dell’assenza nella tua vita di bambino sensibile, di ragazzo delicato, di giovane atleta, l’unico modo per sopportarti. Ti rendono un mendicante in cerca di affetto, di amore, di stima, d’approvazione, che non gli viene mai riconosciuta. Forse a qualcuno questo non sembrerà poi tutto questo grande inferno, al punto da trasformare un cigno in una balena spropositata. Ma bisogna rendersi conto che l’inferno è fatto a gironi, a ciascuno il suo. Evidentemente quello di pertinenza di Domenico Cigno è il terzo cerchio, dove il buon Dante aveva posto i golosi perché subissero la giusta punizione, custoditi da un papà Cerbero. Domenico Cigno capirà a sue spese, rischiando la pelle in prima persona, che se vuole riuscire a rivedere le stelle, a salvarsi, deve farlo da solo.
A fatica, con dolore, a digiuno: e in ogni caso, senza alcuna garanzia, non è detto che troverà la luce in fondo al tunnel. Magari però uno specchio d’acqua sì, dove un brutto anatroccolo potrebbe riconoscersi cigno, chissà.
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Infanzia e adolescenza di Elena e Lila.
E' il romanzo di una grande scrittrice (Elena Ferrante è uno pseudonimo), non per niente classificata da TIME nel 2016 tra le cento personalità più influenti al mondo. Un romanzo, uscito nel 2011, il primo (riguarda l'infanzia e l'adolescenza) di una tetralogia che proseguirà negli anni seguendo le vicissitudini di due amiche, Elena e Lila, accompagnate nel loro percorso, dalle prime esperienze scolastiche via via fino alla giovinezza ed alla maturità. "L'amica geniale", fra l'altro uno dei migliori romanzi degli ultimi 25 anni secondo il New York Times, è ambientato a Napoli, in un rione malfamato, nei primi anni del dopoguerra. Il racconto è affascinante e commovente, un affresco pieno di chiari e scuri, la storia di due anime, la storia di una città uscita dalle ferite di una guerra che cerca di risollevarsi, tra mille espedienti e personaggi indimenticabili che lasciano segni indelebili. Le due ragazzine sono molto intelligenti e provengono da famiglie diverse: Elena figlia di un usciere del Comune e di una madre bislacca e brontolona, Lila figlia di uno scarparo. La prima è grassoccia, con i brufoli, la seconda magrissima, trasandata, con lampi di cattiveria negli occhi: si compensano a vicenda, crescono insieme in vicoli dove più o meno tutti si conoscono e tirano a campare, ognuno come può. Fanno le elementari insieme per separarsi poi alle medie: Elena, più metodica e diligente, continua con ottimi risultati, Lila non ne ha la possibilità economica, ma divora i libri di Elena, imparando tante cose per conto suo e mostrando un'intelligenza acuta e vivace. Poi, ecco il ginnasio e il liceo classico: Elena continua con ottimi voti, Lila lavora con il padre e tenta di convincerlo a produrre scarpe in proprio, con risultati altalenanti e battibecchi continui. Il quartiere intanto cambia, le ragazze crescono, sbocciano le prime simpatie, le prime infatuazioni, le gite in città, l'incontro con un mondo nuovo fatto di persone diverse, più eleganti, con macchine lussuose. Elena e Lila appaiono dapprima spaesate, non credono ai loro occhi, sono invitate ai primi balli, si accendono rivalità, scoppiano litigi, le prime discussioni con ragazzi sempre pronti alla rissa, alcuni schierati con simpatie politiche opposte, comunisti contro monarchici, o appartenenti a famiglie malavitose che ostentano benessere. Elena e Lila sperimentano i primi fidanzamenti, non si perdono di vista, anche quando Elena accompagna d'estate amici più piccoli al mare: si scrivono, non possono fare a meno di consultarsi, di pensarsi, di far parte l'una della vita dell'altra. Elena intanto cresce e si prepara alla maturità ma è Lila che sboccia prepotentemente e accende la fantasia dei maschi locali. Dice infine di sì a Stefano, figlio del salumaio che si è prodigato nel favorire l'attività industriale del padre calzolaio con finanziamenti, però, di assai dubbia provenienza: verrà alla fine celebrato un fastoso matrimonio, come di consuetudine nel rione, Lila ha appena sedici anni, ma non tutto filerà liscio come sperato ...
Così, a grandi linee, la storia di Elena e Lila.
Ma c'è molto di più. Sono tanti i temi trattati che emergono dalla lettura, un primo approccio che può sembrare fluire monotono, senza picchi di interesse, ma che, riflettendo, rivela introspezioni profonde sui caratteri delle protagoniste ed una varietà di temi complessi. In primis le varie fasi comportamentali di Elena e Lila, due ragazzine tanto diverse ma così simili da mettere in dubbio a quale delle due affidare la "genialità" del titolo: Lila indubbiamente è più brillante, propositiva, ha più carattere, voglia di imparare e di trovare soluzioni decisive in situazioni ingarbugliate, ma, guarda caso, è proprio Lila a definire invece "geniale" l'amica Elena, per la sua capacità e costanza negli studi e per i risultati ottenuti. Il che fa pensare che l'autrice abbia voluto affidare a tutte e due la patente di "geniale", ognuna ovviamente a modo suo.
Le due protagoniste vivono e crescono poi in un ambiente particolare. un ambiente in cui farsi valere è anche questione di sopravvivenza, dove le liti tra clan sono frequenti, costellate da minacce di morte, e dove l'etichetta di "plebe" marchia le persone in modo indelebile, confinandole in un mondo lontano da un'altra Napoli, quella del benessere e delle prime automobili "lussuose". L'autrice, tra i vari temi che emergono nel racconto, non trascura quello dell'emancipazione femminile, ben evidente in quegli anni, anni in cui l'istruzione superiore privilegiava i maschi : Lila infatti non ce la fa a proseguire gli studi dopo le elementari, mentre Elena riesce solo dopo raccomandazioni, interventi di insegnanti, sacrifici familiari. Anche la malavita interviene pesantemente a condizionare la vita dei personaggi: amicizie interessate, strozzinaggio, ricatti inquinano ambienti forse già predisposti, mentre affiorano le prime rivalità politiche che influenzano antipatie e simpatie giovanili.
Un quadro generale che ci mostra un'Italia postbellica in trasformazione, dove boom economico e cambiamenti sociali si intrecciano a delineare situazioni nuove e speranze in una vita migliore.
Lo stile della Ferrante è semplice, piano, informale, impreziosito da approfondimenti psicologici che seguono via via l'aprirsi alla vita delle protagoniste. Il romanzo invita a riflessioni profonde sui cambiamenti di Elena e Lila, pronte, ognuna a modo suo, a fronteggiare situazioni nuove, nuovi rapporti, amori e delusioni. Una storia da leggere e magari rileggere: uno stimolo anche a seguire le vicende delle protagoniste nei tre romanzi successivi.
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meravigliosa creatura
SPOILER
Lasciare andare questa storia e i suoi personaggi è difficilissimo, tornare alla propria vita dopo aver letto tutta la dolcezza e la devastazione di queste vite lascia un vuoto nel cuore. Le emozioni che si provano sono forti, intense, emerge tutto il dolore della vita ma anche, nel suo paradosso, tutta la bellezza e la dolcezza infinita. E’ una contrapposizione reale; dura da digerire ma che contraddistingue la nostra esistenza, qualunque cosa essa rappresenti. Ed è da qui il titolo: Jude, seppur con i suoi estremi traumi, rappresenta ognuno di noi, le scelte che possiamo fare, per continuare a vivere nella difficoltà per dare un senso al tutto che ci circonda o lasciarsi sopraffare perchè la vita è pura mostruosità, nonostante gli spiragli di luce, pochi, bellissimi, alternati ad un’oscurità persistente e soffocante. La storia è una linea temporale che ci porta a familiarizzare con 4 amici e le loro vicende: Jude, Willem, Malcom e JB. Diversi, ma ognuno con una storia e una personalità unica, l’amicizia tra Willem e Jude però è più stretta. C’è qualcosa, che pian piano verrà svelato, nella vita di Jude che lo porta a un’enorme sofferenza silenziosa di cui l’amico si accorge cercando di aiutarlo. Il passato del ragazzo è costellato di traumi disumani tra cui numerosi abusi sessuali, prostituzione minorile, cattiverie di ogni genere perpetuate nel corso degli anni da persone malvagie. Eppure Jude è resiliente, resiste, grazie all’autolesionismo, che, è l’unica cosa che può tenerlo in vita. Nel corso degli anni, le persone a lui care, sapendo e non sapendo del suo passato cercheranno in ogni modo di aiutarlo, ma lui persiste nel suo ciclo autodistruttivo. Tagliarsi è l’unica cosa su cui ha il controllo: solo così la disumanità che si sente addosso può uscire. Inutile dire che il lettore è catapultato in un vortice di autodistruzione, pur capendone le ragioni, e assiste, impotente, proprio come tutti gli altri personaggi a un dolore che non ha il potere né il diritto di fermare. Jude è uno di quelle persone che non hanno avuto niente dalla vita, eppure la bontà che ha è disarmante, fino a quando però, non esplode la cattiveria, soprattutto dopo la morte di quello che era diventato il compagno: Willem. Dopo la morte dell’amato, e dopo le difficoltà che questa relazione ha dovuto affrontare, con grandissime rinunce ma legato da sentimenti fortissimi, Jude fatica a stare a galla. Ha perso già troppo nella sua vita e il lutto del suo amore, di quell’unica persona che poteva tenerlo in piedi è troppo difficile da sopportare. La sua vita è alternata da momenti felici, belli, gioiosi, ma le “iene” maledette ritornano, è qualcosa di cui non riesce a liberarsi in modo definitivo. Con il passare degli anni la vita diventa un nascondiglio da cui non uscire mai, e l’unica vera felicità è l’annullamento totale. Così, dopo anni di tentativi e di estremo dolore, Jude si toglie la vita. Nonostante l’amore delle persone attorno a sè, non è riuscito a risalire da quella voragine oscura e infernale del suo trauma, vedeva l’amore e la gentilezza di persone che mai l’avrebbero trattato male di proposito, eppure, non è stato sufficiente. E’ una storia disarmante, che lascia un vuoto nel cuore e sfonda ogni tipo di pregiudizio. La scelta di Jude è stata una scelta giusta o sbagliata? L’amore può davvero salvare e guarire dai traumi? Possiamo davvero cambiare chi siamo e il nostro destino? L’amore è solo un illusione? Che cos’è la vita e cosa ci insegna? Se le persone vicine a lui avessero fatto scelte diverse, Jude sarebbe ancora vivo? Di chi è la responsabilità? Cosa significa davvero lasciare andare qualcuno, anche se questo significa perdere letteralmente una persona?
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Mi aspettavo di più
Attratta dalla brevità e dalla storia ambientata nel mondo dei libri, ho deciso di leggere questo romanzo.
Le vicende sono raccontate attraverso vari punti di vista ma quello principale è quello di AJ Fikry, un libraio che dopo la morte dell’amata moglie, si trasforma in un tipo scorbutico e freddo fino a quando nella sua libreria non gli viene lasciata Maya, una bambina di due anni che gli cambierà la vita e non solo la sua.
La storia è carina e riesce a tenerti incollata alle pagine ma lo stile dell’autrice non mi ha convinto. Tutti gli eventi, soprattutto quelli importanti, vengono presentati e poi nel capitolo successivo ci ritroviamo davanti a cosa succede dopo. Non si ha modo di “vedere” il percorso e quindi sembra sempre di esserti persa qualcosa. Ci sono aspetti che andavano approfonditi invece avviene tutto rapidamente e in maniera superficiale come il rapporto tra Fikry e la figlia adottiva (che doveva essere il perno di questo libro o almeno così avevo creduto) o il rapporto tra Fikry e Amelia etc. etc.
La svolta drammatica sul finale, secondo me, risulta forzata e inutile.
Ho adorato, invece, le numerose citazioni, i riferimenti ad autori e titoli di libri. Un amante della lettura non potrà non apprezzarlo.
La trama è semplice e lineare con qualche piccolo colpo di scena che però sembra buttato lì e non sembra produrre grandi conseguenze.
Un romanzo che non lascia il segno anche se ne aveva tutti i presupposti.
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Perdersi ma non ritrovarsi
“Il mare non bagna Napoli” altro non è che una raccolta di cinque racconti e di questi, i più godibili e apprezzabili, sono senza dubbio i primi due. Questo perché l’autrice riesce a descrivere una Napoli nel suo aspetto più autentico e non per forza bello, una Napoli che di suo è popolare e anche un po’ disagiata, una Napoli che si attacca alle tradizioni e alle consuetudini e che per questo mostra anche una visione che non rappresenta l’ideale canonico che immagiamo pensando alla realtà napoletana.
Nel quarto racconto, ancora, lo squallore della realtà descritta emerge con tutta la sua forza. Non c’è dunque da stupirsi della difficoltà dell’autrice del far ritorno a un popolo che non la vede di buon occhio, ivi comprese le rappresentanze politiche.
«Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follìa; infine, una razza svuotata di ogni logica e raziocinio, s'era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l'uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza. Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all'Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuna lo avesse visto, o lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.»
Nonostante gli intenti, così come la denuncia sottesa, possa essere di interesse per il lettore, il problema dell’opera è lo stile narrativo che, dopo un inizio tutto sommato lineare, finisce per arrovellarsi su se stesso e per perdersi in digressioni e articolazioni che sono “troppo”. Il lettore arrivato a un certo punto perde le coordinate, si perde nel quantitativo di informazioni, si perde, ancora, negli intenti che dovrebbero essere alla base dello scritto. Si tratta di un’opera di denuncia agli intellettuali napoletani dell’epoca o ancora è una reportistica dettagliata su quel che succede angolo per angolo, strada per strada, della realtà del tempo e del luogo? Questo fa sì che l’attenzione cali e con questa anche l’interesse per un’opera che, al contrario, avrebbe potuto dare molto e con molto meno.
«Ma quegli uomini e donne e bambini seminudi, e cani e gatti ed uccelli, tutte forme nere, sfiancate, svuotate, tutte gole che emettono appena un suono arido, tutti occhi pieni di una luce ossessiva, di una supplica inespressa – tutti quei viventi che si trascinavano in un moto continuo, pari all'attività di un febbricitante, a quella smania tutta nervosa che s’impadronisce di certi esseri prima di morire, per un gesto che gli sembra necessario, e non è mai il definitivo – quella grande folla di larve che cucinava all'aperto, o si pettinava, o trafficava, o amava, o dormiva, ma mai veramente dormiva, era sempre agitata, turbava la calma arcaica del paesaggio, e mescolando la decadenza umana alla immutata decenza delle cose, ne traeva quel sorriso equivoco, quel senso di una morte in atto, di vita su un piano diverso dalla vita, scaturita unicamente dalla corruzione.»
“Il mare non bagna Napoli” è uno di quei testi che vanno letti al momento giusto ma anche con la dovuta cognizione di causa. Certamente risente del tempo, certamente risente dell’impostazione che ne caratterizza la struttura, ma certamente è anche uno di quei testi che fa pensare al “sopravvalutato”. Questo anche se, come me, il lettore ci si avvicina senza aspettative.
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C'è di meglio in giro
La paziente silenziosa è un thriller psicologico e romanzo d’esordio, vincitore del Goodreads Choice 2019.
Il romanzo racconta la storia di Alicia, una donna che viene arrestata per aver ucciso il marito a colpi di pistola. Dal suo arresto, non ha più parlato e questo l’ha portata a essere rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Ma poi arriva Theo, uno psicologo che è convinto di poterla aiutare così, non appena ne ha l’opportunità, si fa assumere proprio in quell’ospedale psichiatrico e inizia a indagare.
La storia è raccontata attraverso due punti di vista: Alicia soprattutto attraverso le pagine del suo diario e Theo che per aiutare la sua paziente se ne va in giro a parlare con le persone vicine ad Alicia (e tra un colloquio e un altro scopriamo anche la vita privata dello psicologo).
Parte davvero in maniera intrigante solo che a un certo punto perde di tensione, per poi riprendersi nel finale. Devo però ammettere che quando mancavano le ultime due ore di ascolto, avevo capito chi fosse il tizio che seguiva Alicia e perché ma non il resto. Quest’ultimo è stato un bel colpo di scena.
Per quanto riguarda la parte psicologica/psichiatrica, non mi sembra molto realistica ma capisco che per esigenze di trama si lavora di fantasia.
Il romanzo è scorrevole, anche se, per gran parte non succede quasi niente di davvero sconvolgente, e solo nel finale diventa più concitato.
Senza dubbio ci sono anche alcune stranezze che fatico a spiegarmi: come il non poter portare accendini nell’ospedale psichiatrico ma poi i pazienti accendono tranquillamente le sigarette oppure l’effetto di una dose letale di morfina che permette di farti scrivere una confessione coerente e a nascondere un oggetto? Oppure Alicia che riesce a a portare nell’ospedale psichiatrico il proprio diario e tenerlo nascosto perfino alla polizia dopo il suo arresto per l’omicidio del marito… e potrei andare avanti ma mi fermo.
Ci sono troppe false piste e restano quasi tutte “appese”.
Mi è piaciuta la voce dell’audiolibro ma sarebbe stato meglio avere una voce maschile quando il punto di vista era di Theo.
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Quale amore?
I diciassette brevi racconti di Raymond Carver si addentrano nel cuore di una vita dalla complessità semplice, parole pungenti, momenti di attesa, movenze improvvise, corpi che si sfiorano, sensazioni rarefatte.
In tempi e luoghi diversi voci e gesti ripetuti, unici, inconcludenti, relazioni estinte, durevoli, perse, un’ umanità eterogenea e monca, piccoli oggetti del quotidiano, l’ incapacità manifesta di comprendere e collocare il circostante.
Un viaggio nel rimpianto per un amore mancato, nella violenza brutale di un gesto, con l’ idea di avere perso tutto, vivendo la sensazione che è meglio addormentarsi al più presto, che ogni regola non conta più niente, che tutto può cominciare e finire con un sasso, che ci sarebbe ancora tanto da discutere e da raccontare, che la sfortuna di qualcuno può abbattersi sui suoi compagni di viaggio.
Basta il sentore di alcune dita tra i capelli a riportare il pensiero altrove, ridendo e fregandosene del freddo esterno che non ci riguarda mentre le cose cambiano irrimediabilmente senza rendercene conto fino a quando l’ amore sarà solo un ricordo.
Che cos’è l’ amore se non qualcosa di oscuro per il quale comportarsi da principianti, dimenticato e sostituito al più presto, che cosa resta oltre la percezione del battito di chi ci sta seduto accanto nel silenzio di una stanza, con qualcosa da dire senza sapere cosa, ubriacandosi, cominciando a ballare, smettendo di parlare.
In Di cosa parliamo quando parliamo d’ amore si respira il peso di un’ aria rarefatta nella quale entrare e dalla quale uscire rapidamente, parole sconclusionate, interpretabili, impronunciabili, mai dette, gesti apparentemente inconcludenti, un piccolo mondo compresso in un linguaggio scarno, minimale, tronco, la sensazione di una vita impercettibile, che ci addossa colpe già nostre, che richiede un conto esorbitante, una vita sfiancante, inafferrabile nella propria insensatezza, che ci trascina al proprio interno senza rendercene conto.
Tra dialoghi sferzanti momenti visti e vissuti in una statica freddezza, quasi senza rendersene conto, ribaltamenti improvvisi di trame già scritte, raccontate, subite, aperte e chiuse drasticamente, nessuna possibilità, una vita descritta mirabilmente, tocchi minimali a coglierne l’ essenza più vera.
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Vuoti a rendere, mura e occasioni perdute
«Basta che tu lo desideri. Però non è semplice, sai desiderare qualcosa con tutto il cuore. Può darsi che ci voglia del tempo. E che lungo il percorso tu debba abbandonare tante cose. Cose preziose, a cui tieni. Non darti per vinto, però. Perché non c’è fretta, la città rimane lì, non sparisce.»
Haruki Murakami è uno di quegli autori che o si amano, o si odiano. Ultima sua fatica è “La città e le sue mura incerte”, titolo non immediato che si scopre poco alla volta ma che richiede anche una discreta dose di pazienza.
In apparenza siamo davanti a una storia d’amore, o almeno è così che ci viene presentata. Lei vive in una città dalle mura insormontabili e che non è segnata o tracciata su mappe. È un luogo che può essere trovato solo se ci si crede con tutto il cuore, con tutta l’intensità del caso. Poi, come se nulla fosse, ella sparisce. Lui per effetto cade nello sconforto e si risveglia in una vita catatonica, monotona, routinaria. Ha una casa in cui abita da tanto, un lavoro in editoria ormai assodato, una serie di abitudini improcrastinabili. Questa vita che è trascorsa lenta, adesso non gli basta più. Si risveglia all’improvviso ritrovandosi ora uomo adulto che torna a pensar al passato e a quella donna che gli ha fatto provare un sentimento fortissimo all’età di diciassette anni. Si rassegna perciò a vivere in solitudine, con quel che ha, di quel che ha. Il risvegliarsi lo porta a rimettere in gioco tutte le carte in tavola, lascia la casa, lascia il lavoro e decide di diventare bibliotecario in un microscopico paesino sconosciuto a Dio e situato in una montagna altrettanto ignota.
E se quella città che aveva scorto in adolescenza stesse tornando? E se quel desiderio fosse davvero a portata di mano ma il tempo per lui fosse ormai passato? È davvero passata quell’occasione? Altri sono pronti a prendere il suo posto?
«Non esiste nessuno che non abbia dei segreti. I segreti sono qualcosa di cui abbiamo bisogno, per vivere in questo mondo. Non è così?»
“La città e le sue mura incerte” di Haruki Murakami è molto più di una storia d’amore. Si tratta di una storia di perdita, di vuoto, di un vuoto che in nessun modo può essere colmato. È la storia di un vuoto con cui si può solo imparare a convivere. È una storia tra fantastico e onirico che solletica e accarezza con l’intensità di una lama tagliente e che ci riporta in quel realismo magico proprio del narratore.
A tornare sono proprio le ambientazioni che abbiamo conosciuto in “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”. Tornano le mura, tornano le ombre, tornano i guardiani, i sogni, lo sdoppiamento tra due mondi, il ruolo cardine del bibliotecario, la forza delle parole. La sensazione, tuttavia, è quella del déja-vu e questo a causa del fatto che l’autore torna a soffermarsi su un’idea già trattata ed elaborata seppur non fino a fondo stante la necessità di tornarvi sopra. Il lettore non ne è subito consapevole e dunque è affascinato e al contempo respinto dal narrato. Il retrogusto che lascia è quella di un qualcosa di già scritto, di una riscrittura in toto. Sono presenti anche tutti quei temi – dal modo di narrare la donna e il sesso passando per una prosa chiara con elementi onirci ed ancora protagonisti in procinto di cambiare la propria vita, confusone tra realtà, un finale aperto –, che da sempre ne caratterizzano le opere.
«No, ho mormorato fra me, al mondo non c’è niente di perfetto. Se una cosa ha una forma – qualsiasi cosa, di qualunque genere –, ha sempre un angolo morto che diventa il suo punto debole.»
Un libro, “La città e le sue mura incerte”, da leggere con un approccio asettico, senza aspettative, altrimenti non riuscirà a soddisfarle. Al contempo può essere un buon modo per avvicinarsi a Murakami anche se, certamente, non può annoverarsi tra i lavori più riusciti. Si sente l’esigenza dello scrittore di tornare su un tema che non era stato esaminato in ogni sua sfaccettatura, ma il ritmo è lento, non accelera, procede in modo costante e segue la canonica penna ricca di dettagli e prolissa che da sempre caratterizza il giapponese. Senza lode, senza infamia.
«Ho cercato per anni le parole giuste per spiegare a me stesso quello che vidi quella notte. Ho letto tanti libri, ascoltato i discorsi di tanti saggi. Ma le parole che cercavo non le ho trovate. E senza poterla esprimere con le parole giuste o le frasi adatte, la mia angoscia è diventata sempre più profonda. Il dolore era sempre con me. Ero come un uomo che cerca l’acqua nel deserto.»
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contesto familiare e sofferenza
Ho acquistato il libro a scatola chiusa, in quanto avevo già molto apprezzato l'Autore, specie in "se consideri le colpe". La prosa anche qui è sublime, t'incanta questa scrittura melodiosa, dolce, penetrante.
Il romanzo, breve, è un intenso racconto delle vicende e dinamiche familiari ricostruite a posteriori dall'io narrante che decide, adulto, di prendere le distanze dai genitori, di fatto abbandonandoli.
La leggerezza che prova, nel lasciarseli alle spalle, è pari alla pesantezza che ha pervaso la sua vita fin lì, pesantezza derivante dal contesto familiare in cui si è (suo malgrado) trovato a vivere.
È un romanzo totalmente introspettivo, psicologico, descrivendo il faticoso percorso del protagonista volto a liberarsi, emanciparsi dalla famiglia di origine, luogo violento, asfissiante, disfunzionale, che ha segnato profondamente la sua personalità. Non è una lettura scorrevole, a tratti l'ho trovata anche pesante, ma ciò è comunque bilanciato dal numero ridotto di pagine. Consente una riflessione importante. A volte si sentono commenti di incredulità di fronte a figli che decidono di troncare i rapporti con i loro genitori, che decidono di non prendersi a carico la loro vecchiaia, che decidono di andare a vivere altrove, molto lontano dai luoghi (bui) dell'infanzia. Non siamo nessuno per giudicare le scelte degli altri, non sappiamo come e dove le persone sono cresciute, come e dove hanno vissuto, quanto hanno patito. La famiglia, lungi dall'essere quel luogo che il sentire comune si ostina a dipingere come il nido, come il posto dove siamo cullati in una bolla di accoglienza, di calore, di amore, diviene a volte in realtà la fonte primaria di disagio e di sofferenza; bambini senza strumenti per capire e per difendersi da pesanti dinamiche relazionali vissute in famiglia; bambini che subiscono violenze, anche sottili, che poi da adulti sviluppano vulnerabilità se non vere e proprie patologie. Questo dunque: serve forza, ma è comunque possibile agire, liberarsi dai sensi di colpa per quello che la società ritiene abietto e pensare, secondo una logica di sano, sanissimo egoismo, a difendere sé, per iniziare a vivere pienamente, liberi dal passato che ingabbiava in sofferenze. E celebrare poi l'anniversario di questa rinascita.
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Attesa e rimpianto
Un uomo alla propria porta, rivelazione inconcepibile e concreta minaccia a una vita famigliare da rivisitare completamente, fragile, insostenibile, sospesa, forse cambiata per sempre.
A Eilis, irlandese sposata da vent’anni anni e residente a Long Island, un marito di origine italiana ( Tony ), due figli ( Rosella e Larry), arrabbiata, ferita, vilipesa, non resta che affrontare l’ inaffrontabile nella speranza di trattenere ciò che sente appartenerle, un viaggio nella propria terra d’ origine per festeggiare l’ ottantesimo compleanno della madre in attesa dei propri figli.
Un ritorno al passato nella disillusione del presente, che sia un nuovo inizio, la prosecuzione di quello che fu, un flusso insperato di ricordi e rimpianti, difficile dirlo.
Nella terra d’ Irlanda riabbraccia la madre, con la quale ha mantenuto rapporti epistolari, i fratelli, Nancy, ex amica del cuore, e ritrova Jim, un coetaneo con il quale vent’anni prima aveva vissuto un’ intensa storia d’ amore prima di tornarsene dal marito di cui lui ignorava l’ esistenza.
Oggi probabilmente tutto è cambiato, vita, condizioni, persone, sentimenti, Jim paradossalmente vive una relazione con Nancy, tuttora nascosta alla comunità e destinata a uno sbocco matrimoniale, giorni che scorrono tra passato e presente, il futuro da definire.
Eilis rivisita una dimora sentimentale che ritrova lentamente, momenti sospesi, perduti, lontana da una famiglia patriarcale devota a se stessa che non ha mai riconosciuto e rispettato il suo spirito irlandese, che comunque le manca, un luogo tutto per se’ che la riavvicini a se’, alle proprie origini, a un amore che poteva essere altro, a una scelta obbligata, a quello che è stato.
Anche Jim attraversa la turbolenza di una routine apparente, un passato di inspiegabili e improvvise menomazioni, abbandonato da due donne, ciascuna per motivi diversi, e, a differenza loro lui non ha saputo reagire, un tempo nel quale avrebbe seguito Eilis ovunque, persino in America, umiliato dalla sua partenza, rimasto solo con le sue storie.
Nancy, a sua volta, è desiderosa di ricostruirsi una vita dopo tante sofferenze, consapevole che tutto per lei sarebbe potuto andare diversamente, se il marito George non fosse morto, se Eilis non fosse partita per l’ America e avesse sposato Jim.
E c’è chi ha vissuto vent’anni separata da una parte di se’ e oggi vorrebbe ricominciare altrove.
Intrecci, fallimenti, rimpianti, fragilità esposte, una commedia di relazioni famigliari che ricorda la connazionale Catherine Dunne, meno poetica e più romanzata.
Sentimenti sospesi, complessi, rilasciati, quanto il bisogno d’ amore determina un caos affettivo-relazionale, la rivisitazione di un passato tronco, riassaporando ciò che si credeva perso, frammenti di felicità destinati a fine certa, sperando nell’ improbabile, affidandosi ai sentimenti, esposti ai desideri altrui?
Quanto il passato è presente, i rimpianti ci toccano, le responsabilità ci appartengono, sovrastati dalla complessità, dai sensi di colpa in una vita che poteva essere altro?
In una confluenza di anime sole, svuotate, perse, un vortice turbolento di accadimenti riporta a uno stato di attesa, di un fragore cangiante, di una resa dei conti, di un ritorno all’ ovvio.
Nel frattempo c’è chi resta nell’ ombra …
…si appoggiò al muro e chiuse gli occhi. Forse l’ indomani avrebbe avuto una qualche idea di cosa fare. Ma per il momento avrebbe aspettato lì, senza fare niente. Avrebbe ascoltato il proprio respiro pronto ad aprire la porta a mezzanotte, quando arrivava Nancy. Ecco che cosa avrebbe fatto…
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La storia come romanzo
Settembre 1939, le truppe tedesche dopo aver superato la resistenza della Polonia attaccano la Francia e sembra chiaro che i transalpini non potranno resistere a lungo, l'estensione del dominio nazista
sull'Europa è più di una triste possibilità.
La Gran Bretagna sembra l'ultimo baluardo di un certo spessore che possa fermare questa avanzata inarrestabile, ma lo è davvero ?
Non lo è nelle paure della gente comune che teme di vedersi invadere da un giorno all'altro dalla Germania e neanche in quelle del governo al cui capo c'è un uomo stanco e logorato come il
primo ministro Neville Chamberlain sfiduciato dal parlamento e costretto a rimettere il suo mandato nelle mani di Re Giorgio.
Il quale nomina primo ministro Winston Churchill, ultrasessantenne, visto dai più come un pò scorbutico, inviso a molti membri del Parlamento ma probabilmente , prorpio per il suo carattere tosto, la persona più indicata a guidare il paese in simile drammatico frangente, tanto più che nessuna candidatura alternativa pare un minimo credibile nè alcuno si infervori per avere un incarico che ha tutti i crismi della condanna. Il libro narra essenzialmente la storia del primo anno e mezzo di governo di Winston Churchill, in pratica quello decisivo in cui la Gran Bretagna , contro ogni pronostico degli stessi inglesi resiste alle violente e continue incursioni aeree tedesche grazie ad uno stato efficiente ed unito e ad un popolo resiliente e mai domo anche per i comportamenti e le parole del suo Primo Ministro : uomo pratico, deciso, abilissimo oratore capace di esaltare le vittorie e far sembrare la peggiore sconfitta come una lezione talmente utile che è come se si fosse vinto, ma soprattutto diplomatico geniale e paziente. Churchill si circonda di collaboratori fedeli ed efficienti che trasformano la produzione aerea inglese in una macchina quasi perfetta in grado di produrre un numero tale di aerei da stravolgere le stime di Goebbels e degli altri gerarchi nazisti consiglieri di Hitler che ritenevano la Gran Bretagna un avversario abbordabile e poco attrezzato.
Sviluppa i primi sistemi di intercettazione aerea ma soprattutto gioca una partita a scacchi diplomatica con il presidente americano Roosvelt, conscio che solo l'intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto
possa consentire all'Europa invasa di sconfiggere Hitler e la sua enorme potenza militare. Ovviamente dall'altra parte dell'oceano il presidente americano, che pure nutre per il Premier inglese una certa stima,
non può decidere un'entrata nel conflitto con tutte le conseguenze in termini economici e di sacrificio di vite umane, giustificandola solo come una necessità di un pur caro alleato.
Ma la fortuna si sa aiuta gli audaci e la buona sorte per Churchill ha le forme del drammatico attacco giapponese a Pearl Harbour che di fatto sancisce l'inevitabile intervento degli Stati Uniti nel conflitto.
Larson riesce a parlare di politica, di strategie militari, di storia senza mai essere noioso o prolisso, anzi in certi punti diventa quasi difficile lasciare il racconto ed è strano considerando che come sono andate
le cose lo sappiamo tutti, quello che non sappiamo, e che Larson ci spiega senza usare una parola di troppo è la varia umanità che c'è dietro quelle pagine di storia, i comportamenti i dubbi, le paure persino gli amori dei protagonisti della storia, più che una cronaca di guerra in certi momenti è una storia di famiglia, perchè questo sembra il governo inglese in quei mesi , una famiglia allargata di persone che per lo più si stimano in qualche caso si tollerano ma senza che mai eventuali divergenze possano intralciare in qualche modo il fine comune che è vincere la guerra.
Se tutto questo è possibile lo si deve alla salda guida del Primo Ministro Winston Churchill, divenuto famoso ai posteri per i suoi coloriti aforismi , ma uomo solido, indomito e saggio per quanto poco incline
all'etichetta e amante dei sigari e del buon bere. Gran bel libro, Larson trasforma i dettagli , su cui tanti scrittori inciampano diventando prolissi e dispersivi alla noia, in una parte imprescindibile del racconto.
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How to giustificare un instalove
Capiterà un po' a tutti i lettori di recuperare il libro di un autore molto popolare, solo per la curiosità di scoprire se sia nelle loro corde o meno. Succede spesso anche a me, con l'aggravante che ho il vizio di lasciare suddetto libro a prender polvere sullo scaffale; quindi se una decina di anni fa (ovvero quando acquistai la mia copia di "Ogni giorno") c'era la possibilità che mi piacesse, la mia attuale lontananza al target YA ha azzerato ogni chance per questo romanzo. Anche perché nel frattempo ho letto "Touch", che gestisce mille volte meglio la medesima premessa narrativa.
Strutturato come un dialogo interiore declamato dal protagonista -la coscienza auto-battezzatasi A-, il volume segue un breve periodo della sua esistenza bizzarra: infatti ogni mattino quest'entità si risveglia nel corpo una persona diversa, senza poter mai rimanere ancorato ad una singola vita per più di ventiquattr'ore. La sua risoluzione ad abbracciare questo destino nomade si sbriciola quando si trova a vivere nel corpo del sedicenne Justin, innamorandosi a prima vista della ragazza di lui, Rhiannon. L'idillio tra i due viene però oscurato da Nathan Daldry, una delle persone abitate da A che riesce ad intuire cosa gli sia successo e non intende lasciar correre.
Mi rendo conto che così descritta la trama, per quanto risicata, sembra dieci volte più avvincente ed intrigante di quanto non sia in realtà. Infatti la maggior parte dei capitoli -ossia delle giornate vissute da A- ruota attorno alle vite quotidiane dei suoi ospiti oppure alla sua ossessione (storia d'amore mi pare eccessivo) verso Rhiannon, oggetto del conflitto di fondo. Se vi aspettate che Nathan o Justin diventino vere minacce per il protagonista, oppure che l'intreccio acquisti un briciolo di verosimiglianza, fareste meglio a desistere. Magari avrete più fortuna nei seguiti, che personalmente non intendo infliggermi neppure se venissi posseduta di un'entità mistica!
L'assenza di una trama in senso lato passerebbe anche in secondo piano, non fosse per le altre gravi pecche del libro: personaggi, stile e romance. Ho indicato per primo quello che reputo il difetto peggiore, infatti ho detestato per l'intera lettura l'atteggiamento giudicante del protagonista; la sua controparte femminile sembra cavarsela un pochino meglio, ma pian piano diventa se possibile ancor più fastidiosa nei suoi comportamenti. Eppure la morale di entrambi non viene mai messa in dubbio -loro sono perfetti e predestinati-, a differenza di quanto succede con i caratteri che gli orbitano intorno. Per ovvie ragioni, risulta difficile interessarsi ai tanti coprotagonisti, ma il modo in cui vengono raccontati è imbarazzante: sembrano le figurine di album, collezionati dal protagonista per avere almeno un esempio per ogni tipo di rappresentazione, dalla malattia mentale al lavoro minorile passando per la dipendenza da sostanze. Tanto i personaggi sono caratterizzati in modo superficiale, quanto queste tematiche: non solo manca lo spazio su pagina, ma il protagonista stesso si sofferma il minimo indispensabile come stesse depennando una data voce dalla sua lista.
Come accennato, la scrittura di Levithan non mi ha fatto impazzire, soprattutto per l'eccesso di retorica e la presenza esasperante di frasi perfette per un biglietto dei Baci Perugina (o per una canzone di Tiziano Ferro). Per quanto riguarda invece la relazione tra A e Rhiannon -vero motore del romanzo, seppur resa inconcludente dall'epilogo- si basa su un instalove, che io non approvo per principio, ma ancor più quando viene giustificato da elementi pseudo-spirituali. Per come è raccontato, l'interesse di A per Rhiannon mi è sembrato più una cotta idealizzata che la base per un rapporto genuino.
Vorrei dire che almeno la rappresentazione di una persona non binaria sia ben fatta, ma mentirei. Parte della colpa va alla CE italiana, che non si è presa nemmeno la briga di includere una nota a riguardo nella traduzione, ma in generale la premessa stessa impone ad A di non avere un genere: così la sua identità sembra più un obbligo che una presa di consapevolezza. Ho trovato più convincente il suo orientamento come persona pansessuale, che viene spiegato in modo semplice e spontaneo.
C'è qualcos'altro da salvare in questa lettura? sicuramente la scorrevolezza della prosa -caratterizzata da frasi quasi telegrafiche- e la presenza di alcuni spunti validi sul tema della crescita individuale e delle relazioni interpersonali; messaggi teoricamente positivi che nel mio caso di sono un po' persi in una narrazione troppo artificiosa e priva di un reale crescendo emotivo, nonostante le tantissime scene teoricamente strappalacrime.
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'Addio giovinezza'
"Lily Bart era vittima della società che l'aveva prodotta" . "Era stata allevata per fini ornamentali", "paragonabile a un fiore raro coltivato per un'esposizione".
Apparteneva socialmente alla 'creme de la creme', ma non era ricca. Faceva di tutto per inserirsi adeguatamente; spendeva molto, sicuramente al di sopra delle sue possibilità.
Era considerata bellissima, di inconsueta eleganza e finezza; colta, intelligente e di morigerata amabilità.
A 29 anni un mesto rintocco le faceva intravedere l'orlo del baratro. E lo specchio le rimandava l'immagine del tramonto della sua primavera.
Poi c'era dell'altro ... E ci sono cose che feriscono "profondamente, al di sotto della propria superficie dell'orgoglio".
Libro che raccolse i primi elogi diffusi per un'autrice destinata alla celebrità. C'è critica sociale. un po' di paleo-femminismo ...
Il punto forte è però la scrittura già di una bellezza letteraria assai gradevole.
Il punto debole è invece la struttura del testo che non presenta certo quell'incisività riscontrabile poi in "L'età dell'innocenza" : questo soffermarsi su tanti accadimenti minori non giova affatto alla coesione narrativa col rallentamento dell'auspicato decollo della storia narrata.
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classici
Negato alla Storia e allo Stato
«Serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato»: è questo il manifesto che presenta i luoghi in cui l’io narrante è stato confinato per ragioni politiche (non si parla mai approfonditamente delle cause, vengono invece specificate quelle di altri due confinati: uno è un muratore comunista di Ancona, l’altro uno studente di scienze politiche di Pisa, ex ufficiale di Milizia, anch’egli comunista) in una condizione di «vita sotterranea». È un io narrante che ha studiato medicina ma non pratica la professione da medico ed è molto appassionato di arte, il suo hobby preferito è la pittura. I luoghi di cui si parla sono quelli della Lucania, da «Lucus a non lucendo», letteralmente la terra dei boschi che però si staglia sullo sfondo come «tutta brulla». Il periodo storico in cui si colloca la vicenda è quello della politica imperialistica del Fascismo: siamo negli anni Trenta durante le guerre di espansione in Eritrea e in Etiopia. L’intento di Carlo Levi è riassunto fin dalla premessa del testo: «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia». I primi che non si sentono cristiani sono i contadini che popolano queste terre. Non si sentono cristiani perché nel loro linguaggio vuol significare essere uomini. Invece, in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, Cristo non è disceso. L’io narrante è stato confinato dapprima a Grassano, poi è stato trasferito a Gagliano e proprio in questa seconda località si svolgono la maggior parte dei fatti.
È un libro ricco di personaggi e ricco di socialità. Proprio questa fitta rete di personaggi permette di addentrarsi nel mondo di Gagliano. Il primo personaggio in cui ci si imbatte è il professor Magalone Luigi, maestro delle scuole elementari ma soprattutto sorvegliante dei confinati del paese. È il podestà di Gagliano, è il principale punto di riferimento fascista della narrazione, è colui che fa da tramite tra i monti sperduti della Lucania e la Prefettura di Matera. Poi, in rapida successione vengono presentati i due “medici” (le virgolette sono obbligatorie considerando le loro competenze scientifiche): il vecchio dottor Milillo e il dottor Gibilisco. Entrambi percepiscono l’arrivo dell’io narrante come una minaccia per il loro monopolio del sapere in ambito medico/scientifico. Interessante la concezione del proprio ruolo da parte del dottor Gibilisco. Per lui l’arte medica non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni. Non pago ha sistemato le proprie figlie nell’unica farmacia del paese in modo tale da rendere ancor più evidente il monopolio. Ma come rileva l’io narrante «i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza». Inoltre, sulla piazza di Gagliano vengono presentati i cosiddetti “signori” del paese, i quali colpiscono l’attenzione per il tono generale di astio, disprezzo e diffidenza reciproca nelle loro conversazioni. La guerra dei “signori” si trova nelle stesse forme in tutti i paesi della Lucania. Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada lasciano il paese (ciò avviene ancora oggi con la tanto analizzata “fuga dei cervelli”), dove ci restano gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi, i quali vengono resi malvagi dalla noia e dall’avidità. Questa classe degenerata deve per vivere dominare i contadini e assicurarsi i ruoli remunerati del paese, come quelli di maestro, farmacista, maresciallo dei carabinieri, prete. In realtà, il prete di Gagliano è un personaggio del tutto sui generis: si chiama don Giuseppe Trajella, è finito per punizione a reggere questa parrocchia ed è del tutto avverso alla comunità. Vive in uno stato di semiabbandono fisico e cognitivo, sebbene in passato abbia avuto esperienze di studio e di vita importanti. L’io narrante dice che «doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo». A Gagliano è invece diventato un relitto posto su una spiaggia inospitale. In questo universo prettamente maschile spicca una donna sopra tutte le altre: donna Caterina Magalone Cuscianna, sorella del podestà, la vera padrona del paese, molto più acuta intellettivamente del fratello; sapeva di poter fare su di lui qualsiasi cosa pur di lasciargli l’apparenza dell’autorità. Tra l’altro, in quel dato periodo era senza il marito perché era l’unico volontario di Gagliano per la guerra in Africa, perciò donna Caterina era moglie di un eroe. Per donna Caterina l’arrivo dell’io narrante in paese è una benedizione perché attraverso le sue competenze mediche avrebbe potuto finalmente rovinare il dottor Gibilisco e il suo monopolio medico; in effetti, il dottor Gibilisco è una severa minaccia per l’onore della sorella del podestà perché una delle sue figlie farmaciste se la intendeva un po’ troppo con suo marito e la gente mormorava eccessivamente su questo disdicevole fatto.
Nella fitta rete di personaggi un ruolo meno distinto ma non meno importante lo hanno i contadini, coloro che non si possono sentire cristiani per le condizioni nelle quali sono perpetuamente costretti a vivere da secoli. Per loro «c’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire». La massa dei contadini è ricca di persone che hanno provato a coltivare il “sogno americano”, hanno attraversato l’oceano, sono arrivati negli States e lì hanno vissuto come avevano sempre fatto nella loro Lucania, ovvero lavorando la terra quanto più possibile. Poi, sono stati attratti dal ritorno, magari forti del gruzzolo accumulato, dalle condizioni favorevoli decantate in Italia. Tempo un anno e si sono ritrovati nelle medesime condizioni di quando erano fuggiti, riavvolti nella medesima condizione di perdizione, di smarrimento anche di Cristo. Una condizione alla quale sei destinato fin da infante. I bambini che l’io narrante incontra per le vie del paese «avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impermeabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato». L’unica capacità di espressione utile per i contadini era l’arte, non avevano potuto farlo con il diritto e con la violenza, quindi provavano con l’usanza di recitare una loro commedia improvvisata per esprimere il loro sdegno. In una tragedia senza teatro come la loro vita questi residui di arte antica e popolare erano un loro moto spontaneo di rinascita.
Come si può intuire dalla pratica paramedica proposta dal dottor Milillo e dal dottor Gibilisco, il mondo di Gagliano e più in generale della Lucania è popolato da leggende, miti, riti, false conoscenze. Un mondo selvaggio, quasi primitivo, lontano anni luce dalla civiltà novecentesca. Un mondo stregonesco, tanto che Giulia, domestica che si occuperà della casa dell’io narrante per alcuni mesi del soggiorno, è a tutti gli effetti etichettata come una strega. Rispetto alle credenze diffuse un esempio vale per tutti. L’aria, a detta di chi viveva quelle terre deserte e tra quelle capanne, era piena di spiriti, alcuni maligni e bizzarri come i “monachicchi”. Si narra infatti che al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli, uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono; e così né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare per tutta la notte. In questa realtà che si fonda sulla credenza non è un caso che alla metà di settembre nella domenica della Madonna a Gagliano vengano spesi tremila lire, ovvero il risparmio totale di mezza annata, per i fuochi d’artificio. Nessuno rimpiange questa spesa, tanto che per l’occasione si consultano gli artificieri più noti della provincia. I fuochi d’artificio con la loro duplice natura, tra colore e suono, sono emblemi ancestrali, si legano indissolubilmente a dati e a motivi della discendenza o della tradizione sentiti come reconditi o inspiegabili. Fanno uscire dal tempo e dallo spazio, proprio come ha vissuto l’io narrante in una realtà sotterranea durante il suo confino, in una realtà mai toccata nemmeno da Cristo.
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I racconti di un'anima.
Leggendo questi racconti è impossibile anche non leggere la biografia dell'autrice, una vita breve, intensa, che l'aveva portata da Kiev dove era nata nel 1903 in Russia, e poi, in fuga in Finlandia e Svezia fino ad approdare in Francia dove aveva pienamente espresso la sua passione per la scrittura, lasciando ai posteri una lunga sere di capolavori letterari. Immagini ormai svanite nel tempo, come le riprese dei fratelli Lumière relative al Carnevale di Nizza, riprese dall'autrice insieme ad una lunga serie di altri racconti, alcuni giovanili, che fermano nel tempo immagini della prima metà del secolo scorso: situazioni e personaggi descritti minuziosamente, tanto da renderli presenti e vivi nella nostra immaginazione. Non per niente, come si legge dalla critica, il primo editore della Nemirowsky si era addirittura meravigliato come l'autrice fosse riuscita, pur giovanissima. a scavare così profondamente nell'animo umano.
Basta passare in rassegna alcuni dei personaggi che animano i racconti, cominciando dalle quattro scenette che hanno come protagonista una ragazzetta ironica e sfacciata, Nonoche, antesignana delle attuali forse più smaliziate discotecare: Nonoche, da sola o con l'amica del cuore Louloute, visita il Louvre, va al cinema, in villeggiatura, nello studio di una chiaroveggente, comportandosi sempre da svampita credulona ma nascondendo un animo da sognatrice, sempre alla ricerca di un principe azzurro, tra delusioni, situazioni buffe e incomprensioni.
Le avventure dell'impertinente Nonoche sono raccontate come fossero una sceneggiatura teatrale, seguite da altri racconti in cui primeggiano personaggi che lasciano un segno. Come, ad esempio, la borghese Claudine alle prese con un tema drammatico, un aborto, affrontato con piglio moderno, pur in tempi nei quali l'argomento era ancora tabù. E poi ancora la storia della governante Njanja al seguito di una famiglia russa fuggita in Francia a seguito della Rivoluzione: una anziana dolcissima, riservata, incapace di ambientarsi a Parigi, nostalgica della sua terra lontana e della neve...
Una serie di personaggi raccontati quasi con tecnica cinematografica, come se l'autrice fosse dietro ad una macchina da presa: ed ecco Christian Rabinovitch e l'incontro con un enigmatico barbone, Mario alla conquista di Parigi e di un sogno che via via si affievolisce, l'emozionante racconto "Le rive felici", "I giardini di Tauride" , ricco di appunti e riflessioni dell'autrice.
Una serie di racconti narrati con tecniche diverse, ma sempre illuminanti sul desiderio quasi impetuoso dell'autrice di "buttar fuori" d'impeto l'urgenza di comunicare, di esprimersi, di ricordare in tanti modi un passato lontano, rimpianti, nostalgie, illusioni di una giovinezza che fugge via e, forse, il presagio di un avvenire minaccioso.
La Nemirowsky infatti, di origine ebraica, sarà arrestata nel 1942, internata ad Auschwitz dove morirà poco dopo. Stessa sorte toccherà al marito, dopo vani inascoltati tentativi di salvare la moglie. Si spegneva così a soli 39 anni una delle scrittrici più sensibili ed avvincenti del secolo scorso.
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Crescere significa compiere scelte
“Credeva a tutto quello che non si vede. Credeva al destino già scritto, all’anima che vive dopo la morte, al malocchio che colpisce, all’invidia che affama a certi pensieri che spostano gli oggetti, alle voci dei defunti, ai sogni che si avverano, al potere misterioso della luna”.
Con questo incipit Domenico Dara nel suo ultimo romanzo, dopo il grande successo di “Malinverno”, presenta la protagonista del libro, Liberata, una ragazza sognatrice, fragile, spesso con la testa tra i fotoromanzi che divora letteralmente, sperando in una sovrapposizione tra finzione e realtà. Liberata sogna infatti che l’eroe maschile di quelle pagine patinate, il suo beniamino Franco Gasparri, possa materializzarsi realmente trasformando così la sua vita che trascorre senza particolari scossoni nel paese della provincia calabrese in cui vive, circondata dalle poche amicizie che fanno parte del suo cerchio magico. Proprio come accade nelle favole, così come l’autore ha già mostrato nelle pagine di Malinverno, ecco che la vita di Liberata cambia improvvisamente, inaspettatamente, incontrando il presunto amore, bello proprio come Franco Gasparri l’eroe dei fotoromanzi. Come tutti i cambiamenti ed in tutte le storie che alla fine insegnano qualcosa, anche Liberata, eroina di una sorta di romanzo di formazione, dovrà compiere scelte dolorose, capirà che le carezze che ti riserva la vita possono trasformarsi in schiaffi da un momento all’altro.
La narrazione intessuta dall’autore è un continuo crescendo ed elemento che ne costituisce valore aggiunto è il parallelismo con il mondo degli insetti che rappresentano un elemento cardine della storia, perché quel mondo dell’invisibile a cui appartengono cela in realtà preziosi insegnamenti per gli esseri umani. (“Liberata aveva imparato così che l’invisibile non è solo ciò che non esiste, ma anche ciò che si nasconde o non si vede”). L’istinto di sopravvivenza degli insetti, la loro capacità di mutare, di trasformarsi, di abbandonare l’esoscheletro in cui vivono rigenerandosi a nuova vita, costituisce un riferimento anche per Liberata che non è estranea a questo mondo proprio grazie alla passione del padre per l’entomologia. Crescere infatti, evolversi è un percorso paragonabile a quello di insetti che pur di sopravvivere scelgono di perdere parte dei loro arti e, figurativamente parlando, sarà così anche per Liberata.
Liberata non è tuttavia solamente una storia di invenzione con una morale, bensì una favola moderna ambientata nella prima metà degli anni ‘70 in un piccolo paese della provincia calabrese che trova compimento nei fatti di cronaca. Sono gli anni della lotta politica e di protesta, della sinistra comunista in contrapposizione alla violenza fascista calati in una realtà locale fedele alle proprie tradizioni. Il “piccolo mondo” descritto da Dara, quello delle processioni religiose di paese, degli allestimenti in onore del santo patrono, si mescola così alla vicenda di Liberata e dei suoi genitori, di Luvio (il ragazzo di cui è innamorata) e di altri personaggi non affatto secondari.
Un piccolo mondo nel quale i misteri che via via emergono troveranno una progressiva ricostruzione assolutamente credibile ed inaspettata rispetto al tono di partenza, tenendo il lettore incollato alla pagina fino alla fine del romanzo.
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