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Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Novembre, 2024
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Bentornato Cesare

«Ma così va il mondo, c’è sempre qualcuno pronto a spiegarti qualcosa, e quel qualcuno spesso nelle tue scarpe non ci ha mai camminato.»

Quando uscì per la prima volta “La tentazione di essere felici”, il ricordo è quello di aver provato un senso di curiosità che poi è stato totalmente appagato dalla lettura. Cesare Annunziata si era rivelato sin dalle prime pagine un personaggio forte, magnetico, energetico, uno di quei volti che ti fa sorridere, ti suscita immedesimazione, empatia e al contempo ti trattiene con sé facendoti riflettere. Quando Feltrinelli ha annunciato la nuova pubblicazione con lui protagonista, la paura è stata tanta: un’opera così ben riuscita può ri-eguagliarsi? O addirittura superarsi?
È un lungo agosto quello che si apre innanzi a noi. Un mese umido, caldo e spregioso in quel di una Napoli vuota dei suoi canonici abitanti. Cesare si aggira per la città, respira afa e diffonde consigli anche a chi delle sue parole importa meno che zero. È un Cesare ben diverso da quello che abbiamo conosciuto. Ha qualche anno in più, o almeno sembra, è ancora più stanco ed è anche più solo di quel che ricordavamo. Non è più quell’orso chiuso e burbero che avevamo conosciuto, non è più un uomo che evita l’umanità cercando di non essere da questa contaminato. Ha tanto, troppo, tempo per pensare e paradossalmente inizia a desiderare di condividere qualcosa con gli altri, a maggior ragione se donne e a maggior ragione se nei loro occhi vede un dolore nuovo ed oscuro. Perché Cesare adesso aggiusta. Cosa? Aggiusta ciò che è rotto e in particolare cura le anime di chi ha bisogno di essere rattoppato. E se Eleonora pensa a rimettere in libertà i suoi gatti, ecco che Federico, il nipote, vive in un mondo tutto suo e affronta il tempo della scontrosità con il mondo intero, ed ecco ancora che Marino persiste con il suo gioco di scacchi. Attende settembre Cesare, attende e pensa al susseguirsi delle stagioni della vita. Ripensa a quelle scatole di fiammiferi che gli regalava la moglie per un suo mancato coraggio di dirle la verità, si sente inetto per non aver davvero amato la sua Caterina, per averla giudicata fino alla fine, per non essere stato un buon padre e per non essere riuscito a intessere con Sveva un rapporto vero e forte, anela ancora in lui un rumore sordo che lo fa sentire da sempre in gabbia. Ci guarda e ci osserva, Cesare. Ci fa notare come siamo diventati una generazione fatta di fretta, corse, telefonini, schermi e rapidità. Ci invita a guardarci intorno, ci invita a camminare nel parco, ad osservare. Ed è qui che lui per primo osserva quella ragazzina che incontra per caso proprio lì.
Se con Emma ci aveva provato senza riuscire, con Iris si incaponisce e diventa una questione di principio. Per l’ex ragioniere e Batman, il cucciolo di cane che gli appioppa la figlia Sveva in occasione delle vacanze, è fondamentale aiutare la ragazza incontrata per caso ai giardinetti in un giorno di pianto. Riuscirà il buon vecchio Cesare (modo di dire eh, non ti arrabbiare Annunziata!) ad aiutarla? A salvarla?

«La solitudine è terribile, che credi, significa non poter parlare di sé a nessuno, che ascolti i tuoi problemi, che condivida le tue gioie, i dolori.»

“La vita a volte capita” è un romanzo per chi cerca ristoro, per chi cerca una coccola per ripartire, per chi vuole cogliere una mano tesa, per chi ha voglia di aprire il cuore e la mente. Lorenzo Marone ci riporta al suo personaggio più importante con tante emozioni, ci invita ad aprirci e soprattutto a guardarci dentro, ci fa assaporare cosa sia la solitudine, cosa sia la paura, cosa sia il dolore e ancora la rabbia, che si sia in una fase dell’adolescenza o in una più matura. Perché alla fine l’ordine degli addendi, non cambia.
Si inizia a leggerlo con calma, questo libro. Poi la lettura accelera e accelera ancora di più sino a quello che è un epilogo che è vivido negli occhi e nel cuore. Cesare ci saluta con un cenno e continua a camminare e a vivere la sua vita sino a che gli sarà concesso. E lo stesso ci invita a fare. Chissà, forse un giorno, se saremo fortunati, lo rincontreremo anche.
Il mio grazie sincero a Feltrinelli per questa occasione di lettura e per questo ritorno a Cesare che da sempre scalda e resta nel cuore.

«[…] Mia madre non perdeva troppo tempo dietro a noi figli, era un’altra epoca quella, si cresceva per strada, ma uno dei suoi insegnamenti lo ricordo bene: mai giudicare le persone al primo sguardo, come ha fatto quella signora, siamo tutti molto più complessi di quel che crediamo.»

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    20 Novembre, 2024
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Se morisse mio marito... ma davvero!

Adesso ho letto tutti i libri di Waters, e non so proprio se essere felice per aver recuperato l'intera produzione della (forse) mia autrice preferita, oppure disperata perché nel mio futuro -nei miei autunni futuri- non ci saranno più le sue storie. Ammenoché non si decida prima o poi a pubblicarne di nuove, cosa che purtroppo non fa da un intero decennio, ossia dall'uscita in lingua inglese de "Gli ospiti paganti". In diversi aspetti, si tratta di un romanzo simile ai suoi precedenti lavori (per l'ambientazione storica o per la romance queer, ad esempio) eppure risulta molto difficile inquadrarlo, perché tocca elementi parecchio diversi.

Questa volta il periodo scelto dalla cara Sarah è il primo dopoguerra, ma la location rimane la sua amata Londra. Nel quartiere di Camberwell la precaria situazione economica -data dai cattivi investimenti del padre defunto e dalla morte in battaglia dei fratelli- convince Frances Wray e sua madre Emily ad affittare alcune stanze; stanze nelle quali si trasferiscono ad inizio volume Leonard "Len" e Lilian "Lil" Barber, una giovane coppia. Stanca di una routine domestica fatta di piccole economie e tristi uscite con la madre, Frances si fa coinvolgere sempre più nella vita dei ben più vivaci inquilini, subendo in particolare il fascino della bella Lil.

Un intreccio quindi abbastanza lineare e prevedibile, seppur colorato da un paio di svolte per nulla scontate. Nonostante ciò, la trama rimane il tallone d'Achille in questa narrazione, con una prima metà composta soprattutto da semplici episodi domestici ed una seconda in cui l'autrice tenta di dare un guizzo alle vicende senza però pestare abbastanza il piede sul pedale del ritmo, che rimane parecchio fiacco per tutto il volume. L'altro limite del libro si cela nella scelta di mescolare due generi (il romance ed il thriller) molto distanti tra loro; non si tratta di una scelta sbagliata a prescindere, perché le commistioni di storie diverse possono portare a risultati interessanti, Waters non trova però il coraggio di stravolgere l'attitudine dei protagonisti, ed è questo a rendere la miscellanea poco efficacie.

Eppure io mi sono sentita incredibilmente coinvolta nella storia di Frances e Lil: la travolgente prosa della cara Sarah mi ha trasportata all'interno del libro, facendomi avere davvero a cuore le sorti dei personaggi. Una gran parte del merito và sicuramente all'ambientazione, che non solo è inappuntabile dal punto di vista storico -senza per questo sfociare nella pedanteria-, ma risulta anche di vitale importanza per fornire un contesto socioeconomico rilevante e per motivare le azioni degli stessi protagonisti. La Londra dei primi anni Venti non rimane quindi un fondale impersonale delle vicende raccontate ma le influenza direttamente, e l'autrice sottolinea in più passaggi come diverse azioni cruciali siano da imputare tanto all'indole del carattere che le compie quanto alla condizione (dettata dal potere economico, dal genere di appartenenza o perfino dalla mera apparenza fisica) in cui la società lo ha relegato: in un'altra epoca Len sarebbe meno strafottente, Emily meno pedante, Lil meno ritrosa e Frances meno impaurita.

Parlando quindi dei personaggi, non si può che sottolineare come tutti siano scritti con grande attenzione e coerenza; per quanto riguarda le due protagoniste, assistiamo inoltre ad un corposo percorso di crescita personale, costellato da incertezze ed ostacoli reali. Ciò rende estremamente soddisfacente assistere alla loro maturazione, anche in un'ottica relazionale. In realtà, penso che tutti i rapporti descritti nel volume siano validi -perfino quelli maggiormente fatalisti e distruttivi- perché rendono credibile l'evoluzione delle vicende e toccanti le scene più emotive.

Per quanto mi riguarda, ritengo impossibile restare indifferenti di fronte allo stile sempre curato e piacevole di Waters, soprattutto quando arriva a toccare degli argomenti molto rilevanti e delicati, come l'emancipazione, il senso di colpa o l'aborto. In quest'ultimo caso, viene presentata una descrizione parecchio cruda nella sua verosimiglianza, che non escludo possa mettere a disagio il lettore. Allo stesso modo, il finale potrebbe lasciare interdetti dal momento che non fornisce una chiusura definitiva a tutte le sottotrame; non posso però dire che abbia infastidito me, perché l'ho trovato semplicemente perfetto per il tono della storia.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    19 Novembre, 2024
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Caccia all’uomo per Colter Shaw

Colter Shaw, il cacciatore di ricompense, è stato ingaggiato dalla Harmon Energy Products, una piccola società del Midwest che si appresta a lanciare sul mercato un nuovo tipo di reattore nucleare portatile (SMR). Pare che un dipendente infedele abbia sottratto uno dei componenti essenziali e innovativi del reattore e si appresti a venderlo a qualche potenza straniera. Il compito di Colter è quello di individuare il colpevole, recuperare il sistema sottratto e, possibilmente, scoprire chi siano i compratori.
Ma, non appena Colter ha compiuto la missione principale, il titolare della società, Marty Harmon, lo chiama allarmato. L’ex marito della sua ingegnere capo, un poliziotto condannato a tre anni di reclusione per violenza domestica ai danni della donna, è stato rilasciato sulla parola con oltre due anni di anticipo, ma sembra che, prima di uscire, abbia confidato ad altri due detenuti che ha intenzione di ritrovala al più presto per ucciderla.
Nel frattempo lei, Allison Parker, è scomparsa assieme alla figlia sedicenne, Hannah e, avendo pianificato la fuga da tempo, si sta muovendo con astuzia e preveggenza. Ritrovarne le tracce non sarà facile, né per Colter, né per Jon Merritt (l’ex), né per due killer professionisti che un boss della zona gli ha fornito come supporto.
Comincerà una caccia frenetica volta a individuare indizi e tracce che svelino dove si trova il nascondiglio delle due donne in fuga e una corsa disperata nella speranza, per chi vuole portare in salvo la donna, di ritrovarla prima di coloro che la vogliono morta.

Quarto romanzo che vede protagonista Colter Shaw, l’uomo, esperto survivalista, che si guadagna la vita con le ricompense offerte per ritrovare persone scomparse o rapite. Per chi ha ormai familiarità con il personaggio, un gradevole ritorno.
Ormai per l’Inquieto (come l’aveva soprannominato il padre Ashton) i fantasmi del passato, che per anni lo hanno assillato, sono sepolti: gli assassini del padre sono stati tutti catturati o uccisi, però lui continua nella vita di girovago sul suo camper Winnebago, andando ovunque si offrano premi, ma soprattutto gli si prospettino missioni che lui reputa interessanti e stimolanti per assecondare il suo istinto di cacciatore e cercatore di tracce.
Come consueto la storia è ben narrata, sfruttando, almeno per l’avvio, uno dei tanti mali che ammorbano l’America di oggi: dopo la ludopatia virtuale, il settarismo e la speculazione edilizia, ora di scena è l’inquinamento selvaggio. La narrazione scorre fluida sotto gli occhi del lettore. Come scenografia è stata scelta non l’assolata California delle prime storie, ma la provincia americana, cuore pulsante del passato manifatturiero del Paese e, ora, landa abbandonata e derelitta, devastata da contaminazioni chimiche o radioattive e degrado.
L’avventura, iniziata come una spy-story con tanto di furto di ritrovati tecnologici di punta, si trasforma in una ricerca angosciosa e snervante per salvare le due donne. Ma chi sono i veri nemici? Chi si deve guardare da chi?
I toni del romanzo si discostano abbastanza da quelli dei libri che lo hanno preceduto. Qui Colter ci appare più umano e meno supereroe un paio di passi avanti ai suoi antagonisti, che prevede sempre le loro mosse; che ha sempre una risposta per ogni incidente di percorso. Spesso, ora, lo vediamo incerto, in snervante attesa di fatti nuovi che lo aiutino della missione, a volte pure impacciato.
Dei due chi appare più previdente e veramente abile nel muoversi è Allison, la quale, abile nei calcoli come nelle strategie, sembra poter prevenire ogni manovra avversaria e, pure, le sventatezze della riottosa Hannah. Ma, ovviamente, per rendere avvincente la trama, colpi di scena e improvvisi rovesciamenti di fronte provvedono, con ottimo tempismo, a smuovere le acque e a togliere ogni certezza.
Sotto quest’ultimo aspetto, imprevedibile e sorprendente è il coup de theatre nel finale che, effettivamente, ribalta completamente le prospettive con cui tutta la vicenda era stata inquadrata sino a quel momento. La rivelazione che ci viene fatta è così poco prevedibile da far venire persino il sospetto che i fatti narrati precedentemente non siano tutti perfettamente e logicamente coerenti con quelli successivi. A mio avviso, tra l’altro, la storia poteva reggere benissimo anche senza questa inversione a U della trama. Ma è tipico della narrativa di Deaver cercare sempre l’occasione per spiazzare i suoi lettori e, in questo caso, il risultato è stato pienamente ottenuto, con l’aggiunta di un tocco di buonismo e di edulcorato happy end che contrasta con il resto della vicenda.
Ho trovato ben scelti e descritti i personaggi principali, a partire dalla muscolare e determinata Sonja Nilsson, responsabile della sicurezza della Harmon Energy, che affiancherà Colter nelle ricerche, per giungere ai due killer, con i loro chiaroscuri. Ma soprattutto spicca l’accurata personalizzazione della giovane Hannah, irrequieta, terribilmente reale adolescente. La ragazzina – presa in un gioco più grande di lei in cui si trova, suo malgrado, a ricoprire un ruolo essenziale che non le è proprio - avrà tutte le reazioni, contraddittorie e innocenti tipiche della sua “età di mezzo”, che la rendono, contemporaneamente, adorabile e irritante oltre ogni sopportazione. Perfetta!
Sempre meticolosa, poi, è la descrizione d’ambiente, anche se, come in questo caso, le località in cui si dipana la storia sono frutto della fantasia dell’A. piuttosto che luoghi topograficamente identificabili, ma ben epitomano tutte le periferie americane, abbandonate dalle grandi industrie del Novecento e ora, lasciate allo sbando lungo il pendio del loro mesto declino con gli stessi abitanti ormai depauperati pure della speranza di una redenzione.

In definitiva si tratta di un buon libro, divertente e intrigante, nel quale l’azione avvince e travolge con piacevole coinvolgimento.

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... e amato i tre romanzi della serie che precedono questo
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andrea70 Opinione inserita da andrea70    19 Novembre, 2024
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Stupendo

Joseph Roth potrebbe romanzare il verbale di un'assemblea condominiale e farlo con un lirismo e una profondità tale da renderlo appassionante.
L'autore austriaco è uno splendido cantore del crepuscolo , nella Cripta dei Cappuccini fu il crepuscolo di un regno, di una struttura sociale, nei Cento giorni, periodo che va dal ritorno di Napoleone Bonaparte dalla fuga dall'Elba all'esilio a Sant'Elena, si narra del crepuscolo di un imperatore ma anche di un sogno, il sogno di uomo e il sogno del suo popolo. Quell' imperatore che ha incarnato l'ambizione e la grandeur di conquista della Francia , la Francia stessa si è rispecchiata nella potenza e nella grandezza del suo imperatore in una sorta di scambio di sguardi in cui nessuna delle due parti accetta l'essenza dell'altra oltre la necessità .
Roth mette come sempre in secondo piano l'analisi accurata degli avvenimenti storici , lo scorrere tumultuoso degli eventi è il contesto nel quale avvengono i tumulti dell'anima dei protagonisti ,Napoleone Bonaparte ma anche una umile servetta segretamente innamorata della figura dell'imperatore oltre le miserie dell'uomo. E' proprio dei dubbi, dei tormenti e delle miserie dell'uomo Napoleone che si occupa Roth in un racconto che narra dei primi giorni dal rientro a corte in cui l'imperatore sembra silenziosamente consapevole che, per quanto sia temuto, gli stessi membri di un certo grado del suo esercito lo considerano semplicemente un uomo fortunato che ha raggiunto sua gloria grazie
a loro. Napoleone pare scivolare lentamente verso un declino che lui stesso sente ma a cui non riesce a dare forma quasi presago della sconfitta in arrivo.
Parallelamente alle sue vicende c'è la vita dei semplici, dei piccoli, di tutte quelle persone che vedono nell'imperatore colui che anima il loro orgoglio, una figura più grande dell'uomo che la porta sulle spalle forse troppo fragile e umano per un peso così grande.
Vediamo la vita della giovanissima Angelina Pietri, serva di corte, amante di un bifolco maresciallo dell'esercito, madre di un tamburino ma soprattutto donna sola, con la solitudine dei suoi sogni scritti sulla sabbia.
Nelle parole di un calzolaio polacco che ha servito l'imperatore e perso una gamba al fronte sta la grande verità che rimane a chi serve e ammira i grandi della storia :"Noi piccoli non dovremmo far dipendere la nostra vita dai grandi. Se vincono soffriamo e se perdono soffriamo anche di più."
Mentre a corte tra i domestici e la gente comune circolano voci più o meno infondate sulle gesta dell'imperatore in battaglia tutte sostenute da una indistruttibile fiducia nelle capacità di Bonaparte quasi che fosse un essere invincibile perchè parte dei loro sogni e i sogni non muoiono mai.
Negli stessi momenti sul campo di battaglia, l'Imperatore viene amaramente sconfitto dall'esercito nemico prima e dal destino poi, che gli nega anche l'agognata e secondo lui più dignitosa morte.
Napoleone Bonaparte rientra a Parigi affranto e stordito e si espone al giudizio di chi lo aveva sostenuto in nome della sua potenza.
A corte la giovane Angelina riceve la notizia di aver perso il figlio, giovanissimo tamburino dell'esercito, nella battaglia di Waterloo : "Il cuore era pesante, ma i suoi occhi rimasero asciutti.
Piangeva suo figlio, ma nello stesso tempo lo invidiava. Morto era, morto! Ma a seppellirlo erano state le mani dell'imperatore".
Roth descrive i giorni seguenti in cui la corte dell'imperatore, fatta di lacchè, militari, ministri e varia umanità che lo aveva sostenuto ed ora è più preoccupata dei propri privilegi o diritti
che della sorte della Francia . Bonaparte ha un ultimo impeto di orgoglio prima di capire che tutto è perduto e trovare conforto nella rassegnazione " L'ascoltavano, ma ascoltavano soltanto
la voce, il suono delle parole, non il loro significato. Anche l'imperatore sapeva benissimo che parlava invano. Di colpo si interruppe. Ogni parola era inutile. Non aveva nemmeno più voglia
di lottare per il trono. Per la prima volta nella sua vita, da quando era salito al potere, provava la beatitudine che viene dalla rinunzia. Così, nel bel mezzo del discorso, la grazia dell'umiltà scese su di lui.
Egli sentì di colpo il bene della sconfitta e una segreta, segretissima soddisfazione al pensiero che in ogni istante, purché volesse, poteva allontanare, imprigionare, persino far decapitare o fucilare i ministri ai quali adesso parlava,
quei parlamentari che aspettavano soltanto di rovesciarlo. Purché volesse!... Ma il fatto è che non voleva."
" ...Per la prima volta nella sua vita forte e superba intuiva la nobile letizia dei deboli, degli sconfitti, di coloro che rinunciano."
Dopo anni passati ad essere l'imperatore perchè fortte e potente ora, sconfitto e provato, si sente per la prima. volta imperatore di fronte alle grida di qualche cittadino che ancora lo
acclama in strada mentre Napoleone Bonaparte, di fronte al grande nemico Fouché firma la sua abdicazione e si accommiata così da un giovane domestico che piange "Ora finalmente
voglio tentare di vivere".
Di fronte alla possibilità di sfuggire al suo destino Bonaparte non si tira indietro "«Sei in pericolo» osservò il fratello. «Ti possono uccidere».«Vuol dire che perderò un'altra vita» rispose l'imperatore.
«Ne ho già perdute tante!». Per la prima volta la sua vita non vale un soldo di più di quella di uno dei suoi soldati.
La caduta dell'imperatore viene celebrata dalle parole recitate dal Papa in un sogno di Bonaparte : «Tu sei transeunte,» disse il vecchio «effimero come una cometa. Tu brilli di troppa luce.
La tua luce si consuma mentre brilla, il suo brillare la consuma. Tu vieni dal grembo di una madre terrena».
E mentre Bonaparte per evitare ritorsioni al suo popolo si consegna al nemico e va incontro alla sua fine chi , come la giovane Angelina, lo ha amato incontra a sua volta il proprio destino .
Roth è una di quelle penne toccate dal dono di saper raccontare l'anima dei personaggi e fargli rivivere attorno il loro tempo e i loro luoghi mentre la Storia gli scorre accanto lasciando
però ai loro umani tormenti il ruolo da protagonista. Semplicemente stupendo.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    17 Novembre, 2024
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Schiavone impegnato su due fronti.

Mi preme subito dire che si tratta di un giallo appassionante,, ben strutturato, avvincente sino all'ultima pagina, forse uno dei migliori di Antonio Manzini. E poi il suo protagonista, il vicequestore Rocco Schiavone, romano de Roma, trapiantato suo malgrado ad Aosta emerge a tutto tondo con il suo formidabile intuito e le sfaccettature di un carattere ombroso, non certo facile, tormentato da ricordi e delusioni di un passato tribolato.
Le storie raccontate sono due : quella di Paolo Sanna, un cinquantenne che vive di rendita, solitario, fratello di un medico proprietario di una clinica privata ad Ancona, giramondo, ciclista dilettante, e quella di Sandra Buccellato, giornalista, già legata sentimentalmente a Schiavone. La trama narrativa principale riguarda Sanna che, un brutto giorno, viene investito intenzionalmente, così chiariscono gli indizi trovati sulla macchina, mentre , pedalava su una strada di montagna e scaraventato in un burrone. Il delitto è palese, Schiavone ed i suoi (i ben noti agli affezionati lettori di gialli Deruta, D'Intino, Casella e il viceispettore Scipioni) iniziano le indagini, spulciando cellulare e agende del defunto. Dalle indagini sui dati emersi, si scopre che da tempo il ciclista investito viveva nel timore costante di un imminente pericolo e che altri amici di Sanna risultavano deceduti negli anni passati in circostanze mai chiarite, e che tutti, guarda caso, avevano prestato servizio militare in Friuli nel 1989: un filo lega le loro scomparse improvvise, su cosa capitò realmente in quel lontano anno Schiavone e i suoi iniziano ad indagare minuziosamente viaggiando per mezza Italia, incontrando risposte evasive, muri di silenzio, omertà anche ad alti livelli. Sapranno alla fine dipanare l'intricata matassa, portando alla luce colpevoli e moventi.
Il caso che riguarda invece la giornalista costringe Schiavone a perlustrare ben altri ambienti. Sandra è scomparsa da tempo, non dà notizie di sè, la famiglia, altolocata, non riesce o non può dare precise indicazioni, sembrando sotto ricatto. Schiavone scopre contatti di Sandra con un noto criminale, ex terrorista. Le speranze di ritrovare la giornalista sembrano affievolirsi, ma Schiavone saprà agire da par suo, questa volta con metodi più spicci e inconsueti, fino alla conclusione della vicenda, che lascia la povera Sandra sospesa tra la vita e la morte e porta alla luce segreti familiari insospettabili.
Dalla trama narrativa emerge, questa volta forse più di altre, il personaggio di Rocco Schiavone, figura enigmatica, tutta luci e ombre. Ad Aosta, dopo la scomparsa di Marina, vive solo, intristito dai ricordi, con la sola compagnia della fedelissima "cagnolona" Lupa, di pacchetti di sigarette e di qualche canna nei momenti più difficili. Se non ci fossero i colleghi, che lo stimano, e soprattutto il lavoro, sarebbe un uomo disperato, preda di ricordi non sempre cancellabili e di un passato denso di ombre e rimpianti. Al lavoro di indagine dedica caparbiamente tutto sè stesso, quasi fosse ogni volta l'ultima spiaggia, con il suo intuito formidabile che lo porta, quasi fosse un segugio, a stanare la preda con ogni mezzo, lecito o, talvolta, anche illecito, usando, quando occorre, metodi sbrigativi. Manzini ha creato un personaggio unico: capace anche di tenerezze commoventi, quando, in soliloqui disseminati nel romanzo, si confida con Marina, l'amore scomparso, traendone conforto e coraggio.
C'è anche altro, nelle pieghe della trama: riflessioni sulla condizione umana, sulle lacune della giustizia umana, su certi movimenti di ribellione giovanile che, pur originando da presupposti condivisibili, non di rado degenerano in atti violenti.
E il nostro Schiavone, con la sua filosofia di vita, della vita ha capito molte cose, dandone una definizione illuminante. "La vita" afferma "è un insegnante terribile: prima te fa l'esame, poi te spiega la lezione". Sembra proprio così: si è sempre impreparati agli eventi che la vita ci pone sul cammino, solo alla fine si riesce a capire (non sempre) il senso di tutto.



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Andre Avezzano Opinione inserita da Andre Avezzano    14 Novembre, 2024
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Direi piuttosto Scolosseum

ATTENZIONE: leggeri spoiler che comunque non influiscono sulla lettura del libro

Mai un libro era riuscito a ingannarmi in modo simile. L'autore si propone di romanzare la storia della costruzione dell'Anfiteatro Flavio seguendo le vicende di due uomini realmente esistiti, Verus e Priscus, gladiatori che combatterono nei giochi inaugurali del Colosseo nell'anno 80 d.C. come narrato dal poeta Marziale.

L'inizio parte bene, un po' banale, ma tutto sommato godibile, uno dei tanti emuli del successo di Scarrow. Ma con un dettaglio di quel "nomen omen" dato al protagonista che avrebbe dovuto mettermi in guardia su quello che stava per arrivare. I problemi iniziano all'incirca ad un terzo del libro, con, ed esattamente come, la Peste (che nella realtà era più probabilmente febbre tifoide e non Peste bubbonica): si nota l'insistenza delle descrizioni gratuitamente grafiche, una pornografia verbale del sordido che inizia a farsi prepotente a discapito della narrazione (e della verosimiglianza, quando descrive una latrina che mai un romano avrebbe tollerato esistere, men che meno in una scuola gladiatoria).
Inoltre diventa sempre più pesante lo stile di scrittura, con continui tentativi di frasi ad effetto, di chiose salomoniche e di frasi fatte degne del peggiore filmaccio noir poliziesco. Frasi tipo: "la lupa(Roma) dormiva dopo il pasto di sangue, benvenuto a Roma, bastardo!", vengono ripetute alla nausea, siamo a metà libro e praticamente ogni paragrafo finisce in questo modo.

Poi il "colpo di genio" dell'autore, inserire un triangolo amoroso forzato all'inverosimile in quello che poteva benissimo essere la storia di due uomini, e che anzi avrebbe beneficiato dell'essere unicamente incentrato sui due personaggi storici romanzati, simili e contrapposti, fratelli e tuttavia costretti a lottare fino alla morte, senza dover per forza inserire il solito love interest per cui il protagonista si strugge, non ricambiato, nel suo amore impossibile, fino a quando ovviamente non salverà la damigella in pericolo dai cattivi che vogliono abusare di lei.

Siamo al culmine del libro, l'originalità ha ormai abbandonato la scena da un pezzo, e fra l'uso sempre più pesante e palloso di aggettivi inutili e forzati per descrivere ogni cosa, come: "...l'elmo disegnò un arco saccente (un arco saccente?!?) nell'aria...", l'autore spinge al massimo sulla caratterizzazione molto sottilmente inculcata a martellate dei due personaggi: Verus, il toro scatenato, guerriero di fuoco, contro Priscus, il texano dagli occhi di ghiaccio, fino a descrivere minuziosamente come le armature dei due ricalchino il loro stereotipo. Non manca poi la descrizione fantasiosa dei giochi inaugurali del Colosseo, con assurdità incomprensibili (coccodrilli ammaestrati, ippopotami che nuotano sul dorso in figure improponibili e vele gonfiate dal vento che soffia dentro lo spazio chiuso del Colosseo) e descrizioni cruente e crude.
Quello che é importante é che questo libro ha anche un finale, e ovviamente il finale é il più scontato possibile, in cui la pietà e la forza dell'amore smuovono il cuore peccaminoso della giovane patrizia viziata, e in cui i due amici, dopo aver tentato senza esitazione di ammazzarsi con ogni mezzo, anche inverosimile (ridicolo inserire pugni di ferro e coltelli nello stivale in un combattimento fra gladiatori, che avevano arbitri e regole ferree), come nel più classico film di Hollywood, ritrovano la loro profonda unione, per poi sparire nelle trame della Storia.

Concludendo si può dire che senza dubbio gli elementi più pesanti di questo libro siano lo stile, troppo pesante, ridondante nella ricerca della frase ad effetto, pedantemente infarcito di allegorie, e troppo gratuitamente scabroso, tanto che a tratti sembra quasi l'autore ne trovi godimento, e davvero penso che di più sordido ci sia soltanto J.N. Schifano nelle sue Cronache Napoletane, e ho detto tutto.
Appare inoltre chiaro che per quanto l'autore si sia evidentemente documentato sugli avvenimenti e sui dettagli storici, non é riuscito a comprenderli a pieno, mostrando spesso una comprensione sommaria, o abbia preferito reinterpretarli, piegandoli alla narrazione invece di incentrare la narrazione su di essi, una mancanza che risalta agli occhi del lettore, soprattutto a quelli del lettore di romanzi storici.
Ma il suo maggior peccato a mio parere é quello di non aver saputo sfruttare neppure l'unica felice intuizione avuta, il complesso rapporto fra i due protagonisti, che poteva reggere da solo la trama del libro, e con maggiore rilevanza di un banale triangolo amoroso. Ma d'altronde, se l'autore stesso nei ringraziamenti parla della sua come di una "fantasia Hollywoodiana"...

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Consigliato se non altro agli amanti dello splatter, i lettori di MC Cullough o anche di Scarrow rimarranno delusi.
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    12 Novembre, 2024
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Raro esemplare di grimdarkromantasy

Confesso che "Mezzo mondo" aveva notevolmente raffreddato il mio entusiasmo verso la serie per ragazzi di Abercrombie. Ed a gettar acqua sul fuocherello delle mie aspettative c'era anche la media delle valutazione assegnate a "La mezza guerra", molto più bassa rispetto a quella del secondo capitolo. Però con un ribaltamento degno di Alessandro Borghese, vi informo che questo libro non solo mi è piaciuto, ma è riuscito perfino a diventare il mio preferito della trilogia.

La trama ci porta due anni in avanti e ad un totale di ben tre POV tra i quali destreggiarsi. Quello principale è affidato sicuramente a Skara, nipote ed erede di re Fynn, che all'inizio del romanzo vede il Throvenland cadere sotto l'attacco di Yilling lo Splendente; dopo aver chiesto l'aiuto dei sovrani vicini, la ragazza assume un ruolo di comando nella guerra contro il Gran Re con il fine di riscattare il suo regno. Fortemente collegato al suo, troviamo il punto di vista di Raith -un guerriero del Vansterland tormentato dalla sua stessa propensione per la violenza-, mentre la terza prospettiva ha una maggiore autonomia, oltre ad essere un gradito ritorno: si tratta di Koll, il giovane liberato dalla schiavitù per merito di Padre Yarvi, che ora lui sta addestrano per farne a sua volta un ministrante.

Chiaramente il conflitto contro il Gran Re e la sua ministrante Wexen rappresenta ancora una volta l'obiettivo finale della narrazione, ma questo non impedisce all'autore di dedicare ad ognuno dei protagonisti parecchio spazio; sia per esplorare i loro trascorsi, sia per crescere e superare le situazioni di stallo in cui si trovano imprigionati. Skara, Raith e Koll sono infatti combattuti tra una sorta di obbligo che sentono di dover rispettare e la propria indole personale, ed i loro percorsi individuali li portano a capire come potersi liberarsi delle pressioni esterne e scegliere in modo indipendente. Non tutte le risoluzioni sono però felici, perché il caro Joe ha ben pensato di donarci un finale dolceamaro, eppure molto soddisfacente.

La presa di coscienza non è l'unica tematica del romanzo perché, in particolar modo attraverso la prospettiva di Skara, si affronta l'argomento delle responsabilità, delle quali la ragazza deve farsi carico in quanto sovrana. Sempre tramite il suo POV, ma anche quello di Raith, si parla del modo in cui elaborare un trauma subito; affrontare le consegue delle proprie azioni è invece il tema principale nel punto di vista di Koll. Tutti questi spunti non solo sono perfettamente adeguati per gli adolescenti che costituiscono il target di riferimento (sì, sto ancora rosicando per colpa di "Graceling"!), ma vengono anche declinati in diverse prospettive, portando a delle conclusioni per nulla scontate.

Tra i pregi del romanzo voglio includere anche i personaggi, senza troppe distinzioni: che si tratti di caratteri già presentati nei capitoli precedenti (e penso specialmente al burbero Jenner il Gramo) oppure figure del tutto nuove -come la protettiva Madre Owd-, tutti ottengono una caratterizzazione più che degna e coerente. L'unico aspetto negativo su questo frangete è rappresentato dalla rapidità, che incide sia sulla partenza in cui non si fa in tempo ad inquadrare bene i nuovi personaggi, sia su alcune morti molto affrettate a livello narrativo, seppur non pecchino di incisività emotiva.

Pur avendo apprezzato molto come l'autore ha portato a compimento la trilogia, voglio togliermi qualche altro sassolino dalla scarpa. Per i miei gusti, la componente romance è eccessiva: non dico andasse esclusa, ma di certo non avrei sentito la mancanza di un soapoperistico quadrangolo amoroso. Non posso dirmi un'entusiasta neppure delle scene di battaglia -che in alcuni casi risultano un po' noiose a causa della loro lunghezza- e della sinossi scelta dalla CE italiana, ancora una volta falsa come una moneta da tre euro ed incapace di rendere il contenuto del volume.

Concludiamo però su delle note positive, date in particolare dal world building e dal foreshadowing. Come nel secondo libro, sono presenti degli sviluppi del mondo immaginato da Abercrombie, ma in questo caso arriviamo a delle rivelazioni estremamente interessanti, che gettano un'ombra del tutto nuova sull'ambientazione; il tutto rimanendo allo stesso tempo fedeli a quanto mostrato finora. Mi è piaciuto molto anche il modo in cui tanti dettagli dei primi libri sono stati qui ripescati, diventando utili all'intreccio e mostrando un'evoluzione di storie e caratteri che farebbe una figura di tutto rispetto anche in una narrazione per lettori adulti.

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    11 Novembre, 2024
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IL CAPITOLO CONCLUSIVO DI UNA TRILOGIA

Questa storia, a mio avviso, è stata la più avvincente di tutta la trilogia, siamo a Stoccolma e ormai il Natale è alle porte, le luci illuminano un'atmosfera già magica, come solo i paesi nordici possiedono.

Da una parte il ministro della Giustizia che viene minacciato e gli rimangono solo quattordici giorni, un'ora e dodici minuti da vivere e dall'altra vengono ritrovate delle ossa umane in un tunnel della metropolitana ma non si fermeranno qui, perché verranno trovati altri resti.

Il caso che coinvolge Mina e Vincent sarà intricato e non così semplice, tra enigmi da risolvere e matasse da sbrogliare, seguiamo anche la vita privata dei protagonisti.

Nonostante il libro sia lungo circa seicento pagine, si legge molto velocemente e mi sembrava di aver ritrovato perfino la Läckberg che conoscevo e ammiravo anni fa, il suo stile così unico e coinvolgente che mi aveva fatto appassionare alla serie dedicata ai delitti di Fjällbacka.

Alcuni parti però erano noiose e alcuni personaggi e storie secondarie hanno fatto diminuire il ritmo della storia, per fortuna non erano così rilevanti e non hanno influito sulla narrazione, però a mio avviso potevano essere tranquillamente eliminate.

Alla fine c'è una sorpresa, non c'erano segnali per questo colpo di scena finale, da una parte può essere considerato geniale ma dall'altra può portare un po' di amarezza perché la trilogia è conclusa, pertanto non apporta nulla di più alla storia. Non mi aspettavo che finisse qui la serie ma evidentemente per l'autrice ci saranno dei nuovi progetti.

Vi consiglio di leggere i libri in ordine di uscita, in quanto si racconta anche la vita personale dei protagonisti e leggendoli in disordine non capireste fino in fondo né la storia né l'evoluzione dei personaggi.

Ho apprezzato molto il cambiamento che hanno avuto Mina e Vincent, sono stati scritti in maniera verosimile e sono credibili, non appaiono unidimensionali o statici, questo è sicuramente un aspetto positivo di quando si legge una serie.

Un buon thriller.

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    11 Novembre, 2024
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UN BUON DRAMA FAMIGLIARE

Liz Moore è un’autrice che conosce bene, ho già avuto il piacere di leggere alcuni dei suoi romanzi e mi hanno sempre colpito molto, in particolare il suo stile narrativo così coinvolgente e descrittivo, ero sicura che anche questa volta non mi sarei sbagliata su di lei.

Una ragazza di tredici anni di nome Barbara scompare dal campo estivo al quale stava partecipando, le ricerche partono subito anche per il fatto che lei non è una persona qualsiasi ma appartiene alla ricca famiglia dei Van Laar, proprietari del campo.

La cosa curiosa è che anni prima pure il fratello di Barbara, Bear, è scomparso all’età di otto anni e di lui non si è più saputo nulla.

Entrambi sono spariti in questa meravigliosa riserva naturale, dove è ambientata la vicenda, in questo caso il contesto e l'habitat in cui l'autrice ha sviluppato il dramma interagisce bene con la storia dei personaggi che ci vengono presentati.

"Alice guarda verso il lago. La verità è che non ha idea di dove possa essere Barbara. Tutti sembrano insinuare che probabilmente è scappata, ma Alice ha paura che possa trattarsi di qualcos'altro."(cit.)

I capitoli sono molto brevi e ci sono POV differenti con periodi temporali diversi, questo aiuta moltissimo il lettore a capire cosa fosse successo prima, a conoscere i vari personaggi e la loro storia.

Questo continuo andare avanti e indietro potrebbe essere rischioso se l’autore non sa dosare e inserire nei momenti giusti i vari punti di vista e salti temporali, qui però questo non succede, perché la Moore è molto abile e non perde mai il filo della narrazione.

La famiglia Van Laar è molto ricca e da generazioni cerca di tenere alta la reputazione e il loro onore, quando c’è da nascondere, insabbiare e celare delle scomode verità lo fa senza esitazione.

Alice è la madre di Bear e Barbara, cresciuta senza amore e costretta a sposare Peter Van Laar un uomo più grande di lei che non l’ha mai amata ma considerata sono come un mezzo per avere un erede. Alice è sempre stata criticata e giudicata per la sua giovane età e per la sua inesperienza, se prima lo facevano la sua famiglia poi lo fa il marito e lei cerca di accontentarlo e di arrivare al suo livello, ma non riuscirà mai a raggiungerlo.

Non è mai stata amata, si sente completamente sola ma anche impotente nel fare qualsiasi cosa. L’unica sua consolazione è il figlio Bear che ama più di ogni altra cosa, dopo la sua scomparsa non è più la stessa, non riesce a provare lo stesso amore per Barbara.

Alice è il personaggio che mi ha colpito di più si potrebbe scrivere molto su di lei, giudicarla, ma penso che dobbiamo considerare i fattori che l’hanno resa la persona che è nel 1975, cosa o chi l’ha spinta a diventare così, quale dolore ha subito, quante umiliazioni ha dovuto patire, in questo l’autrice la rende molto umana, anche nel suo lato più oscuro e buio, lascia sempre uno spiraglio di luce forse per riuscire a capirla per quanto sia possibile. Alice non si ribella alle varie situazioni che si trova ad affrontare, non è stata educata in quel modo e poi dobbiamo considerare che siamo negli anni settanta.

Peter non si cura dei figli né tantomeno della moglie, solo le apparenze contano, è quello che oggi definiremmo uno yes man, un uomo che obbedisce senza dire nulla, che cerca di ottenere da ogni persona e da ogni situazione il massimo del profitto, senza guardare in faccia a nessuno, né al rispetto, né alla dignità. E’ un uomo che non ha personalità, senza carattere.

"Più che un marito le sembrava di avere un allenatore: uno che cercava sempre di insegnarle qualcosa, di migliorarla, di portarla al suo livello. Non gliene voleva per questo; prima di conoscere Peter non sapeva mai che direzione prendere. Si ripeteva che doveva considerarlo una sorta di mentore."(cit.)


L’ispettore che si occupa del caso è una donna, leggiamo la continua lotta dell’ investigatrice di far capire il suo valore e il fatto che non sia un uomo non cambia nulla nella sua professionalità. E’ una battaglia difficile da vincere, il pregiudizio c'è ancora oggi figuriamoci per una giovane donna che vive negli anni settanta e che fa un lavoro che fino a poco prima era prerogativa maschile.

Barbara è un’adolescente che porta con sé dei grandi fardelli, in primis la famiglia in cui è nata e la scomparsa del fratello Bear, da subito si intuisce che c’è qualcosa che non sappiamo, come si comporta e come cerca ogni notte di andare via dal campo.

La trama è complessa e ben strutturata e si snoda lentamente facendoci conoscere i personaggi e la loro storia, in un continuo viaggio tra il passato e il presente ripercorrendo la storia dal 1951 al 1975, anno della scomparsa di Barbara.

Le tematiche che affronta l’autrice sono varie, i traumi infantili, le dipendenze, la criminalità, i conflitti sociali tra ricchi e poveri.

Quello che mi compisce sempre molto di questa autrice è la sua prosa così vivida e descrittiva, il lettore si immagina quello che legge come se vedesse una serie tv, dalle pagine si riesce a cogliere le varie sfumature della storia, le sensazioni, le emozioni, che provano i vari personaggi.

Il ritmo della storia è incalzante, questo mix tra dramma famigliare e noir mi attira sempre molto e ho trovato che l’ultimo quarto di libro volasse perché tanta era la curiosità di capire cosa sarebbe andato a finire.

Il finale è la parte che mi ha convinta di meno, l’ho trovato poco verosimile, un po’ forzato per essere credibile, un libro di fiction deve avere una componente realistica altrimenti parleremmo di una favola, o di un fantasy ma questo non è il caso. Inoltre non conosciamo come finisce la storia di alcuni personaggi e in particolare avrei avuto piacere di capire cosa succedesse a uno in particolare.

E' un libro che consiglio, un'ottima storia che riuscirà a emozionarvi.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    11 Novembre, 2024
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La vita è tutta un quiz

Clayton Stumper è un giovane di venticinque anni e ha sempre vissuto in una tenuta signorile nel Bedfordshire (Creighton Hall), con la madre adottiva, Philippa Allsbrook, e la sua famiglia “allargata”.
Questa famiglia, però, è tutt’altro che convenzionale: Philippa, ma per tutti Pippa, Pip o, addirittura Pipster, non è mai stata una donna comune. È stata la prima enigmista donna del Regno Unito, per importanza, e quella che, sotto lo pseudonimo di Squire, ha prodotto il maggior numero di schemi di parole crociate con definizioni criptiche: al suo attivo ci sono migliaia e migliaia di diagrammi pubblicati sul Times.
Proprio questa sua indubbia e rinomata abilità l’ha convinta, nel lontano 1979, a fondare quella che verrà chiamata la Compagnia degli enigmisti. In essa la donna, con caparbia tenacia, era riuscita a radunare attorno a sé le più brillanti menti britanniche nel campo: cruciverbisti, creatori di labirinti, quiz, puzzle, crittografie, giochi di parole, quesiti aritmetici, rompicapi in legno, vetro e metallo si erano, per la prima volta, riuniti e trovati tra simili, per confrontarsi, discutere e sviluppare sempre nuove idee.
Inizialmente questa variegata combriccola si era incontrata, una volta a settimana, in un pub londinese, poi, però, Pippa, messi insieme i risparmi, era riuscita a ricomprare Creighton Hall, la dimora avita in cui era cresciuta coi nonni. La vecchia casa s’era trasformata in una residenza comune dove i più assidui membri della Compagnia avevano cominciato a vivere assieme, aiutandosi e sorreggendosi tra loro nelle varie vicende della vita e, soprattutto, nella loro attività d’enigmisti, divenendo la società che produceva e vendeva più materiale in Inghilterra. I parti della loro fantasia e inventiva erano celebrati e apprezzati ovunque.
Davanti alla porta di Creighton Hall, in un mattino del 1991, Pippa aveva trovato una elegante cappelliera poggiata davanti all’ingresso dell’edificio. Dentro c’era un neonato, Clayton. Come a rispondere a un desiderio mai esaudito di Pippa, quel trovatello, era venuto a completarne l’esistenza.
Nei successivi venticinque anni Clayton era vissuto come il figlio di tutta la Compagnia, per la gioia dei suoi componenti.

Nel 2016, Pippa, dopo una breve malattia, viene a mancare all’età di 89 anni. A curare la cerimonia di esequie è Clayton, il quale, davanti al feretro della madre adottiva, sente esplodere in sé il desiderio, mai espresso a voce, di scoprire le sue origini, di sapere chi era la sua madre naturale. A Pippa non lo aveva mai rivelato, per non turbarla, ma questo desiderio, ora, è divenuto prepotente e assoluto. Ma Pippa non s’è dimenticata del suo ragazzo e, anche da morta, si prenderà cura di lui.
Così, nei giorni successivi, Clayton scoprirà che la madre gli ha preparato una sorta di caccia al tesoro, irta di difficoltà ed enigmi, seminati ovunque, che dovrebbero spingerlo a scoprire le sue origini e, soprattutto, a capire quale potrà essere il suo futuro. Ma, a differenza di tutti gli altri occupanti della casa, Clayton non è un enigmista. Così si dovrà impegnare con fatica e tenacia a risolvere cruciverba enigmatici, labirinti intricati, puzzle con pezzi mancanti, rompicapo letterari e così via.
Perciò, nel mentre al lettore viene raccontata l’incredibile avventura di Philippa Allsbrook e della Compagnia di cui era presidente, Clayton affronterà questi giochi che, per lui, sono anche un modo per scoprire la vita e sé stesso.

“La Compagnia degli enigmisti” è un romanzo che brilla per la sua straordinaria originalità. Infatti quasi in ogni capitolo al lettore sono proposti gli stessi giochi che debbono risolvere i protagonisti. Così, mentre assistiamo ai difficili inizi dell’iniziativa di Pippa o partecipiamo, assieme a Clayton, del dolore e dello smarrimento per la perdita appena subita, ci troviamo davanti schemi di parole crociate, sciarade, anagrammi, crittografie e ogni altro genere di giochi enigmistici.
La vicenda in sé è lieve e garbata, senza eccessi o emozionanti colpi di scena. La storia della Compagnia ci viene raccontata in modo lineare, con amabilità e pacatezza come una bella fiaba a lieto fine: l’avventura affascinante di un gruppo di menti geniali ed eccentriche che, nonostante le traversie personali o, forse, anche a causa di esse, riesce a trovare una propria posizione alternativa nel mondo che consenta loro di emergere e dimenticare gli strazi e i dolori patiti. La “caccia al tesoro” di Clayton si svolge con altrettanta linearità, senza particolari suspense o misteri: addirittura Claytom esasperato, ad un certo punto aprirà a martellate una Alphabetibox — una elegante scatola di legno con riposti segreti che si aprono solo alla soluzione di un piccolo enigma letterario, per vero non particolarmente complicato — giusto per trovare nuovi enigmi da risolvere.
Il ritmo, in generale è pacato e abbastanza lento, ma tra spunti umoristici e passaggi commoventi, si fa leggere con piacere.

Forse l’unico aspetto che non funziona totalmente è proprio la parte relativa ai giochi. Ovviamente questi, che sono per la maggior parte giochi di parole, enigmi letterari e cruciverba, sono stati pensati per la lingua inglese e la traduttrice avrà dovuto fare salti mortali per adattare gli stessi all’italiano. Quindi un plauso va all’impegno profuso, ma il risultato non è esaltante. Alcuni, nella nostra lingua, sono quiz abbastanza banali che un buon appassionato di enigmistica risolve in pochissimo tempo, altri, come lo schema di parole crociate iniziale, sono troppo legati alla lingua inglese (dove gli schemi sono tutti particolarmente “traforati”, ma le varie caselle consentono di inserire una e una sola soluzione compatibile con la definizione, spesso un intricato indovinello) per avere il medesimo appeal in italiano dove, invece, la risposta potrebbe non essere univoca e la stessa definizione appare non di rado ambigua e imprecisa. Altri, come il labirinto, si prestano a soluzioni multiple che non consentono di ottenere l’esito sperato dall’Autore.
Quindi, purtroppo, chi affronta il libro con la speranza di trarre divertimento anche dai singoli giochi offerti resta un po’ deluso e, alla fine, si accontenta di “pedinare” Clayton nella sua ricerca, senza essere stimolato a precederlo, impegnandosi, prima di lui, nelle singole soluzioni.

Però, a prescindere da questa pecca si tratta di un romanzo dai toni intimistici che si nutre delle emozioni dei singoli personaggi, ben ambientato e caratterizzato, che risulta amabilmente piacevole e distensivo; magari non un capolavoro, ma una lettura di sicuro relax.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    11 Novembre, 2024
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Lyra e Will in giro tra i mondi

Lyra — per inseguire suo padre, Lord Asriel, che ha aperto una voragine tra due mondi paralleli — imbocca un misterioso ponte di collegamento multidimensionale e si trova in un posto alieno, per molti aspetti simile al suo, ma con tante, troppe sostanziali differenze che la sconcertano e disorientano.
Ma la nostra attenzione, prima ancora di scoprire cosa accade all’intrepida ragazzina, è focalizzata sulle avventure di Will Parry, coetaneo di Lyra, ma che dovrebbe vivere nel nostro mondo. Abita vicino alla nostra Oxford e potrebbe condurre una vita per noi molto più familiare, se non fosse stato costretto, sin da quando era un bimbo di sette anni, a difendere sua madre e impedire che la internino. La donna spesso cade in ossessioni paranoidi che le fanno temere di essere sotto la cupa minaccia di nemici invisibili. Ma le sue sono solo suggestioni psicotiche, o c’è davvero qualcuno che li minaccia?
Purtroppo, di recente, la donna è stata fatta oggetto dell’attenzione di alcuni figuri che vorrebbero che consegnasse loro documenti in suo possesso appartenuti al marito scomparso misteriosamente durante una esplorazione scientifica in Canada, una decina di anni prima.
Per tal motivo Will, comincia a temere che i nemici di sua madre non siano solo nella sua mente ma siano persone reali e davvero pericolose. Per proteggerla l’accompagna dalla sua vecchia insegnante di musica. Purtroppo, quando torna a casa per recuperare i documenti misteriosi, si trova proprio questi uomini in casa. Nella convulsa fuga uno di loro cade dalle scale e muore. Ora Will è un ricercato e mentre cerca un rifugio dove nascondersi, scopre una misteriosa “finestra” vicino a uno svincolo stradale.
Vi si infila dentro e si ritrova in un mondo diverso, ignoto. Qui, nella bizzarra città di Ci’gazze, vuota di ogni abitante adulto, incontrerà Lyra e, con lei, farà coppia per cercare di risolvere i loro problemi, apparentemente assai diversi, ma, in effetti, strettamente interconnessi.
Da quel momento le vite dei due ragazzini saranno legate dallo stesso destino e minacciate sia dagli antichi nemici di Lyra (la signora Coulter, l’Intendenza per l’Oblazione, i Tartari), sia da quelli che Will s’è fatto nel suo mondo. Nel loro pellegrinare in uscita e in entrata tra i diversi universi scopriranno che sono in molti a dare la caccia a queste tecniche di spostamento ultradimensionale. Ma si accorgeranno anche dell’esistenza di esseri eterei, come gli spaventosi Spettri che spopolano Cì’gazze dagli adulti, portandoli in uno stato di totale, mortale indifferenza, o degli Angeli, incorporee essenze che sembrano parteggiare per loro ma per fini di vendetta che i ragazzini non comprendono. Faranno esperienza con misteriosi poteri, come quello che Lyra ormai padroneggia con aletiometro, che le pronostica con sorprendente precisione il futuro e i passi da compiere, o come quello che Will, impossessatosi della cosiddetta Lama sottile, sta cercando di apprendere per aprire nuove finestre di passaggio tra i mondi.
Personaggi vecchi e nuovi faranno la comparsa per ostacolare o agevolare la missione dei due ragazzi che, per parte loro, procederanno alla cieca, sperando solo di non commettere errori fatali.

Questo è il secondo capitolo della trilogia intitolata “Queste oscure materie” e, a differenza di quanto narrato ne “La bussola d’oro”, la trama si spezza in vari filoni narrativi connessi solo dal fluire generale della storia. Molti dei personaggi che hanno caratterizzato il primo romanzo qui non fanno neppure una breve apparizione e molti altri restano su un indistinto fondale. La storia di Lyra diviene quella di Will e di Lyra. Mentre nel primo romanzo la ragazzina ci appariva determinata e risoluta a perseguire le missioni che si era prefissa, in questo la vediamo spesso confusa e incerta, il più delle volte succube delle decisioni di Will che appare, invece, ben più deciso e determinato.
La trama, apparentemente, dovrebbe essere più lineare e con un minor numero di peripezie per i protagonisti, ma è anche meno appassionante. L’aspetto fantastico assume un ruolo predominante e di guida per il fluire delle varie vicende.
Sopra ogni cosa, comunque, ci appaiono chiari i fini dell’invenzione di Pullman: se ne “La bussola d’oro” era già risultato evidente che il nemico da battere fosse la religione, quantomeno quella coniugata secondo le regole ferree e controriformiste del Magisterium e dell’apparato ecclesiastico-politico che dominava il mondo di Lyra e vi imponeva regole asfissianti, qui l’A. palesa, senza più alcuna remora, che la sua trilogia è un progetto anti-religioso (in via principale anti-cattolico, ma in generale contrario a qualsiasi fede rivelata). L’avversario contro il quale Lord Asriel sta radunando un esercito, l’Autorità, altri non è che il Dio delle grandi religioni monoteistiche che, seppur attraverso l’opera dei suoi ministri del culto e dei vicari umani, ci appare come un cupo e tirannico essere autore solo di sopraffazioni e crudeltà verso le sue creature.
Se le Cronache di Narnia possono risultare, non di rado, tediose e vagamente stucchevoli per la continua, subliminale opera di evangelizzazione che viene ammannita in ognuno dei romanzi, in tutte le vicende narrate, qui ci troviamo di fronte a una aperta, a tratti violenta e cruda dichiarazione di guerra, una sorta di manifesto di sfida verso tutti i principi della religione cattolica. Gli stessi Angeli, che appaiono e scompaiono come deus ex machina nelle avventure di Will e Lyra, difficilmente li possiamo associare agli esseri benevoli a noi noti, ai vari Gabriele, Michele e Raffaele della nostra tradizione religiosa. Al contrario, anche per l’esplicita dichiarazione che la loro opera è motivata dal desiderio di vendetta contro l’Autorità, ci appaiono come incarnazioni dei vari Lucifero, Mammona e Belzebù protagonisti de “Il Paradiso perduto” di Milton. Insomma, siamo di fronte a un romanzo apertamente anti-religioso e, di per sé, ciò non sarebbe un crimine, neppure letterario, visto che ognuno è libero di esprimere le proprie convinzioni. Però il fatto che queste siano contrabbandate all’interno di una trilogia fantasy, ufficialmente rivolta a un pubblico giovane e, quindi, meno incline a una lettura critica e ragionata del testo, appare un’opera subdola e, sotto molti aspetti, biasimevole.

Dal punto di vista eminentemente narrativo, poi, questo secondo romanzo appare meno strutturato del primo che aveva, dalla sua, pure il pregio della novità dei temi trattati. Il fatto che si siano abbandonati non solo personaggi sostanziali, ma pure elaborate costruzioni ambientali e sociali, per crearne di nuovi tutti da definire fa sorgere più di un dubbio sulla coerenza narrativa. Il mondo di Ci’gazze è sostanzialmente vuoto, privo di alcuna caratterizzazione, e, perciò stesso, poco stimolante e interessante. I nuovi attori della storia, poi, sono decisamente meno incisivi e, tra l’altro, vengono spesso liquidati in modo spiccio durante lo svolgimento della stessa.
Insomma, anche chi aveva amato il primo romanzo, qui fatica a non restare sconcertato e deluso. Il fatto poi che il romanzo non abbia neppure una chiusura in senso proprio, ma che nell’epilogo, si trasformi nel prologo al terzo volume non aggiunge motivi di gradimento.
Per concludere, ho trovato questa seconda opera meno gradevole e interessante della prima e ho percepito un calo della tensione narrativa, con l’azione che, spesso, viene portata avanti in modo abbastanza stanco e senza soverchia convinzione.

_____________
Una postilla per l’angolo del pignolo. Nel libro si descrive il daimon di un personaggio (Stan Grumman, che avrà un ruolo chiave nello svolgimento della vicenda), come un grosso uccello rapace dalla testa bianca e viene chiamato, indifferentemente, o “procellaria” o “aquila pescatrice”. Si tratta di un colossale errore della traduzione italiana: le procellarie sono uccelli pelagici, dall’aspetto di grossi gabbiani (o piccoli albatros) con il piumaggio per lo più bruno o bianco giallastro uniforme. Mentre i rapaci con la testa bianca sono due o l’aquila pescatrice africana o l’aquila testabianca americana detta pure “calva”, nota per essere nello stemma degli Stati Uniti. Nessuno dei due ha a che fare con le procellarie, però. Una rapida consultazione di un almanacco sulle specie aviare avrebbe evitato questo clamoroso quiproquo.

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...il primo romanzo della trilogia "La bussola d'oro", per scoprire come si evolve la storia di Lyra.
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Stefano89 Opinione inserita da Stefano89    11 Novembre, 2024
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Una pantera...in gabbia

Ginevra 2 luglio 2022. Un gruppo di agenti della polizia è in agguato all'esterno di una prestigiosa gioielleria del centro: sanno che di lì a poco due uomini dovranno rapinarla e il loro compito è quello di incastrarli e consegnarli alla giustizia. Chi ha fatto la soffiata e chi sono i due ladri misteriosi? Per spiegarcelo Joel Dicker ci trascina immediatamente alle porte di una lussuosa villa dalle pareti di vetro, immersa nella foresta e abitata dall'invidiabile famiglia Braun: Arpad, Sophie e i loro bambini. Ricchi, belli e innamorati, conducono quella che, senza troppi giri di parole, potrebbe definirsi una vita da sogno in una casa da sogno. Poco distante da questa scintillante perfezione si staglia la dimora dei coniugi Liegean, un’abitazione più modesta e decisamente male inserita nel contesto delle eleganti case che la circondano, tanto da meritarsi il poco lusinghiero appellativo di “obbrobrio”. Karine e Greg, trasferiti di recente, si illudono di aver lasciato il passato nel precedente quartiere e di poter riscrivere la loro storia tra quelle mura, edificate a un passo dall'ambita elite della città. Eppure qualcosa sembra non andare. La loro quotidianità, scandita dai ripetitivi impegni lavorativi e familiari, disturba parecchio se confrontata con la dorata perfezione della famiglia Braun, con la quale, nonostante i diversi tenori di vita, stringono subito amicizia.
Come si amalgamano queste esistenze tanto diverse tra loro? Qual è il sentimento che fa da collante nei loro reciproci rapporti?
Non ci sono ancora abbastanza elementi per rispondere e allora l’autore ci fa scavare ancora più in profondità affondando gli artigli in un passato più remoto. Ecco che ci troviamo circa quindici anni prima a percorrere le strade si Saint Tropez a bordo di una Aston Martin rubata, che sfreccia a grande velocità sull'asfalto finendo poi la sua corsa sulle rocce. Il conducente è un ragazzo per bene che risponde al nome di Arpad Braun destinato ad una brillante carriera nel settore della finanza. Accusato di furto viene subito condotto in carcere ma con quell'ambiente losco ha ben poco a che fare. Tra le sbarre una nuova conoscenza (Fauve, tenete a mente questo nome!) cambierà le sorti di tutta la sua esistenza (nel bene o nel male non è dato saperlo al momento!).
A partire da questo episodio Joel Dicker ripercorre i trascorsi di ciascuno dei personaggi, srotolando una matassa di eventi che inesorabilmente riconduce a quel fatidico 2 luglio, giorno della rapina ed evento cruciale di tutta narrazione.
Non si poteva trovare un modo più esplicito per svelare le connessioni tra un passato e un presente che di continuo si intrecciano e si mescolano! La trama è ben sviluppata e molto accattivante. Gli avvenimenti raccontati da un narratore esterno onnisciente, sono credibili se valutati singolarmente tuttavia centrifugati nelle pagine del libro rischiano di sfiorare i confini dell’assurdo e di risultare nel complesso poco credibili. Troppi segreti da tacere, troppe bugie da nascondere. L’effetto sarebbe stato buono anche con una storia un po’ meno articolata e leggermente più realistica. In ogni caso se l’obiettivo era affascinare e coinvolgere il lettore direi che il romanzo riesce bene nell'intento. In compagnia di Joel Dicker non ci si annoia proprio! La suspense non manca, e il ritmo è incalzante tanto che nonostante le 440 pagine si fa difficoltà a staccare gli occhi dal testo e ad abbandonare la lettura. C’è chi, a malincuore, sostiene che il libro si discosti parecchio dai precedenti ed effettivamente non si ritrovano le accurate descrizioni psicologiche che ci hanno fatto amare Marcus Gold in “La verità sul caso Harry Quebert”: che la diversità sia ricercata e che lo scrittore abbia voluto segnare un confine con i suoi precedenti successi letterari è cosa evidente. A mio avviso il cambiamento è piacevole e apprezzabile, ma in ogni caso lo stile rimane inconfondibile: l’alternanza di piani temporali e i rimandi a un passato che si rivela lentamente non intralciano la godibilità di una trama dal finale imprevedibile. Più che leggere un libro si ha la sensazione di guardare un film poliziesco. Ossessioni, bugie, perversioni, delusioni si nascondono tra le righe tanto che il lettore sarà portato a dubitare persino della credibilità della stessa voce narrante. Nessuno è ciò che sembra e l’animale selvaggio, da cui il romanzo prende il titolo, diventa una metafora ben cucita su ciascuno dei personaggi. Addomesticare la pantera che cresce dentro di se equivale a indossare una maschera che nasconde agli altri la propria natura. Il messaggio è inequivocabile: alla fine il cucciolo richiamato dal ruggito della libertà ritorna predatore e quegli impulsi ferini, se ingabbiati in una esistenza patinata ma pur sempre ingannevole, finiscono in breve per ridurla in brandelli.
In fin dei conti chi tradisce chi? Chi è buono e chi è cattivo? Di chi ci si può fidare in questa foresta fatta di carta e di parole? Questo è il dubbio che rimane tale sino all'ultima pagina.
Per scoprirlo dovrete affondare anche voi gli artigli in queste pagine.

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La verità sul caso Harry Quebert
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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    09 Novembre, 2024
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La giustizia non esiste

Questo libro, un giallo-noir di natura psicologica si potrebbe definire, risulta essere sicuramente meno noto rispetto ai più grandi successi di Dürrenmatt (uno su tutti il celebre “Il Giudice e il suo boia”), Tuttavia anche se più contorto, grottesco e, a tratti, caotico nell’esposizione rispetto ad altre sue opere, ha l’indubbio pregio di cavalcare uno dei temi cardine che più stanno a cuore all’autore e drammaturgo svizzero: quello della “Giustizia”, che appunto fornisce il titolo al romanzo. Nella visione di Dürrenmatt si tratta di un concetto assolutamente soggettivo, ci si chiede infatti:

“A che serve la giustizia? Alla nostra società? Solo uno scandalo in più, solo materia di conversazione”.
Al tempo stesso la giustizia “si regola a seconda delle classi sociali di cui deve giudicare”.

Elementi che emergono nella loro comica tragicità (alla maniera di Dürrenmatt) nello sviluppo di una storia raccontata come sorta di confessione a posteriori dal protagonista di nome Spät. Avvocato penalista che accetta per pura venalità l’incarico di difendere un consigliere cantonale svizzero accusato di omicidio e già condannato in primo grado, per poi scoprire troppo tardi, pentendosene fortemente, di essere solo un ingranaggio utile al disegno criminale del potente accusato che ovviamente punta all’assoluzione sfruttando cavilli legislativi del sistema giudiziario elvetico.
In una Svizzera nella quale i poteri economici e politici si stagliano in primo piano, dove la corruzione e gli intrallazzi sono all’ordine del giorno, si evidenzia che la polizia e gli organi giudiziari soccombono al cospetto di forze più grandi.

Dürrenmatt costruisce un intreccio in cui l’amara conclusione è che “la giustizia può compiersi soltanto tra coloro che sono ugualmente colpevoli” perché non solo un accusato che riesce a sfangarla rimane tale quando è palesemente reo, ma anche un avvocato che contribuisce alla sua assoluzione nascondendosi dietro alla maschera dell’esercizio della professione non è certamente da meno. La galleria dei personaggi che compaiono come attori sul palcoscenico man mano che la narrazione procede sono caricature assolutamente realistiche che abbracciano tutti gli strati sociali possibili: prostitute, nani, controfigure, politici, avvocati, comandanti della polizia etc. A dimostrazione del fatto che l’intento dello scrittore svizzero è quello di tratteggiare un sottomondo che coinvolge ampie sfere dell’establishment in cui nessun soggetto è realmente innocente, nemmeno le vittime stesse (come si scoprirà proprio alla fine del romanzo).

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    07 Novembre, 2024
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Gioco di nervi

Questo libro fa parte della serie di Alex Cross, ed è articolato un po' a doppia voce, con il protagonista che racconta di sé in prima persona, cifra stilistica che trovo sempre alquanto interessante, mentre in modo alternato leggiamo anche capitoli raccontati dal punto di vista del serial killer che lo ha preso di mira. Trattasi di un doppio punto di vista senza dubbio intrigante per i lettori che amano la suspense. L’assassino prova un’ossessione morbosa per Alex, al punto da volerlo colpire nei suoi affetti più profondi, per volerlo spingere nel baratro e creare in lui un assassino anche se contro natura. Vive questa sfida come una commessa. Perché il mostro si costruisce distruggendo l’uomo ed è convinto, distruggendo l’uomo, di riuscire a creare tutto ciò che da un Alex Cross nessuno si sarebbe mai aspettato. Gli eroi però sono eroi. E l’integrità è una loro qualità essenziale ed imprescindibile. Non sarebbero personaggi di così tale caratura investigativa, umana ed anche letteraria.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    07 Novembre, 2024
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Che voglia di Kanelsnegle!

Circa un anno e mezzo fa ho scoperto la prosa di Engberg con il murder mystery "Il guardiano dei coccodrilli", un titolo che mi aveva decisamente stupito in positivo. Non ho però recuperato subito gli altri volumi di questa serie dedicata alla coppia di poliziotti danesi Jeppe ed Anette perché era stato tradotto il terzo ma non il secondo, ed ingenuamente speravo che si trattasse soltanto di un disguido riguardo all'ordine di pubblicazione. Dopo questa infruttuosa attesa posso dare per certo che non si tratta affatto di un disguido: la CE italiana ha chiaramente fatto suo l'errore di quella statunitense, ignorando "Blodmåne" e trasformando questa pentalogia in una tetralogia.

Dopo aver sventolato bandiera bianca di fronte a quest'inspiegabile scelta editoriale, sono quindi approdata ad "Ali di vetro", in cui lo sbalzo temporale di oltre un anno tra primo e terzo capitolo si nota soprattutto per la trasformazione di Anette Werner in neomamma di una bimba senza nome. Rimasto orfano della sua storica partner, l'assistente di polizia Jeppe Kørner si trova a dover indagare in autonomia su un nuovo caso bizzarro, quello del cadavere di una donna rinvenuto nell'isola pedonale di Strøget, in particolare nell'acqua della fontana al centro di Gammeltorv, la più antica piazza di Copenaghen. Oltre alle loro due prospettive, il volume può vantare un discreto numero di POV tra i quali quello dell'aspirante scrittrice Esther de Laurenti, già comparsa nel primo romanzo.

L'intera vicenda copre poco meno di una settimana nell'autunno danese, tanto cupo quanto suggestivo, che Engberg è estremamente capace nel rendere su carta: la sensazione di trovarsi al fianco dei suoi personaggi è palpabile. Personaggi che rappresentano parimenti uno dei punti a favore del volume, per merito di una caratterizzazione molto attenta e ben equilibrata all'interno di una storia in cui la trama la fa da padrona per ovvie ragioni. Rispetto al primo libro, sono poi riuscita ad apprezzare maggiormente i caratteri maschili, in particolare Jeppe sul quale è stato fatto un bel lavoro di maturazione personale e relazionale; ho trovato parecchio toccanti i suoi confronti nel finale con la madre e con Sara.

Seppur il suo punto di vista sia stato messo un po' da parte, mi è piaciuto anche il contributo di Anette alla risoluzione del mistero, ma soprattutto la sua presa di consapevolezza del nuovo ruolo che si trova a ricoprire ed i piccoli scorci sul suo rapporto con il marito Svend. La sottotrama dedicata ad Esther, per quanto sia altrettanto gradevole dal punto di vista emozionale, mi è sembrata invece troppo slegata dal resto della storia: vederla interagire con Gregers è sempre divertente, ma i pochi elementi che avrebbero potuto unire la sua vicenda all'indagine di Jeppe si dimostrano inconsistenti.

Un altro piccolo difetto -che comunque non inficia a mio avviso la godibilità della lettura- è rappresentato dall'accavallarsi di tanti POV all'interno di un solo capitolo; si rimane così un filino spiazzati dai frequenti cambi di scena, specialmente quando l'impaginazione fa in modo che non si riesca neppure a capire che un cambio c'è stato. In realtà a parte il problema relativo alla mancata pubblicazione del secondo capitolo, non ho particolari critiche verso l'edizione, che anzi merita una virtuale pacca sulla spalla per aver scelto di tradurre il testo dall'originale danese: visto com'era stato imitato l'errore della CE statunitense, temevo che la traduzione fosse passata attraverso l'inglese prima di approdare all'italiano!

I veri punti di forza di questa lettura sono però il suo intreccio e la gestione delle tematiche. Per quanto riguarda il primo, abbiamo una partenza in medias res molto coinvolgente che si sviluppa in un crescendo di misteri e prospettive non sempre attendibili; superficialmente sembrerebbe infatti facile individuare l'assassino come lettori, ma la cara Katrine è stata davvero brava nel bilanciare le rivelazioni, facendoci arrivare inconsapevoli al colpo di scena finale. Altrettanta bravura l'è servita per trattare un argomento delicato come quello della malattia mentale, un aspetto nel quale ha saputo evitare gli stereotipi senza per questo dipingere un contesto inverosimile nella sua positività. Un lavoro ben svolto, che raggiunge in suo apice nella scrittura dei personaggi di Isak e Marie.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    06 Novembre, 2024
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Un furto di carbone e due avvocati.

Siamo sempre a Bellano, lago di Como, dove Andrea Vitali ama ambientare le sue storie. Siamo anche negli anni '30 del secolo scorso, in piena era fascista. La trama è intrigante e piacevole, ben congegnata, con personaggi costruiti con la consueta ironia, pennellate che delineano un'epoca che ha segnato la nostra storia passata sottolineandone aspetti negativi e sussulti di speranza. Tutto inizia con un furto di carbone alla stazione ferroviaria: l'autore, accompagnato dal figlio Umilio, è tale Cincicato Graziano, marito di Giachina Scafandro. Si dà il caso che la Scafandro sia la sorella di un ben noto fascista del luogo, Caio, aspirante al posto di segretario del partito, occupato da un indolente e tiepido camerata, Aurelio Trovatore. E si dà pure il caso che il furto abbia un testimone, Pavanotti Ardengo, manovale delle ferrovie, che, prontamente farà debita denuncia all'autorità competente. Sconcerto del povero Caio: il cognato ladro, fervente fascista, deve essere salvato a tutti i costi : la Federazione di Como, interpellata, manderà a difenderlo in pretura un suo avvocato, ben nota camicia nera, con la speranza in un'improbabile assoluzione. Entra in gioco qui un altro personaggio: Valanga Mimmo, un giovane ricercato dalla polizia e in fuga con documenti falsi verso la vicina Svizzera, grazie all'aiuto di un tipografo (il Vivacchia del titolo!) e ad un suo ingegnoso sistema per eludere eventuali controlli.. Il Valanga diventa così l'avvocato Severo Notambulo, e, guarda caso, per una serie di fortuite coincidenze si trova inopinatamente a difendere il ladro di carbone. Riuscirà a farlo assolvere, ma l'arrivo del vero avvocato, quello inviato da Como, scompaginerà i piani dando luogo ad una serie di malintesi e di imprevisti.
Non manca naturalmente il maresciallo Maccadò, che vigila sempre su tutto e tutti, concedendosi qualche gustosa rivincita sui caporioni locali, presi bellamente in giro. Riuscirà anche ad accontentare la moglie Maristella, promettendole l'acquisto della novità tecnologica di quei tempi, la radio, già in possesso dell'appuntato Misfatti.
Il racconto fila via, sempre sul filo ironico che Andrea Vitali sa sfruttare magistralmente presentandoci personaggi credibili, costantemente in bilico tra l'ossequio al regime sgangherato dei tempi e la voglia impellente di farsi i propri affari.
C'è sempre lo spasso dei nomi, come in tanti altri romanzi di Vitali: qui abbiamo, tra i più sorprendenti, Beduina, Abatoio, Bigamo, Miserina, Velocina, Gesuetta, Gattarola e Purissima... Sono documentati e reali: sarò ripetitivo, ma, oltre a stupirmi, mi incantano sempre.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Novembre, 2024
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DI CANI, SVASTICHE E SPAVENTAPASSERI

“C'era una volta un cane, si chiamava Perkun e apparteneva a un garzone mugnaio lituano che aveva trovato da lavorare nell'estuario della Vistola. Perkun sopravvisse al garzone mugnaio e generò Senta. La cagna Senta, che apparteneva a un mugnaio di Nickelswalde, partorì Harras. Il cane da monta, che apparteneva a un padrone falegname di Danzica–Langfuhr, coprì la cagna Thekla, la quale apparteneva a un certo signor Leeb, che morì nei primi mesi del quarantadue, poco dopo la cagna Thekla. Il cane Prinz tuttavia, generato dal cane da monta Harras e dalla cagna Thekla, fece storia: fu regalato al Führer e cancelliere per il suo compleanno e finì, quale cane prediletto, nelle attualità cinematografiche.”

Il brano riportato in esergo, che ricorda vagamente le genealogie di biblica memoria, è a mio parere perfettamente rappresentativo del modo in cui Gunter Grass ha concepito quel ciclopico, smisurato e ambiziosissimo romanzo che è “Anni di cani”. Così come, in maniera apparentemente impassibile e anodina, da personaggi del tutto marginali (addirittura dei normalissimi cani, appartenenti a mugnai e falegnami) si arriva direttamente, saltando a pie’ pari ogni barriera logica, alla più alta carica della nazione, quella del Fuhrer in persona, allo stesso modo la storia comune e la Storia con la iniziale maiuscola si intrecciano senza soluzione di continuità, e il racconto di amicizia e tradimento di Amsel e Matern nell’arco di tre decenni diventa l’occasione per narrare, in maniera intenzionalmente allegorica, l’epopea di un’intera generazione. Simbolico è ad esempio il personaggio di Amsel, la cui natura cristologica si rivela in occasione della sua “risurrezione” dal pupazzo di neve in cui lo hanno imprigionato le SA e della sua nuova vita nei panni del non più goffo e pingue, bensì affascinante e carismatico, Haselof alias Brauxel alias Boccadoro. Simbolico è anche Matern, il quale incarna l’uomo comune, che cambia fede e bandiera a seconda delle circostanze (“Ero rosso, ho vestito bruno, passai al nero”), vittima in buona fede del fascino manipolatorio delle ideologie. Perfino il cane Prinz può essere visto come l’emblema del popolo tedesco, pronto ad abbandonare opportunisticamente il nazismo poco prima del suo tracollo per cercare un nuovo padrone da servire con cieca fedeltà. In “Anni di cani” Grass è capace di passare dalla ordinaria quotidianità ai grandi avvenimenti della Storia in pochissime righe, come quando una banale scommessa fatta per vincere la noia porta alla scoperta che la maleodorante montagnola vicino alla postazione della contraerea, circondata dal filo spinato, è fatta di ossa umane, svelando all’improvviso l’indicibile orrore di un campo di sterminio, dove la gente scompare senza lasciare traccia di sé. Il nazismo è sempre sullo sfondo, defilato e quasi inghiottito dal vorticoso avvicendarsi delle vicende individuali, ma esso è nondimeno l’inesorabile convitato di pietra con cui tutti, prima e dopo la fine della guerra, si trovano costretti a fare i conti. Quella del romanzo di Grass è infatti un’analisi implacabile e spietata della rimozione collettiva che la società tedesca del dopoguerra ha operato nei confronti dell’esperienza nazionalsocialista. Matern dopo la fine del conflitto gira in lungo e in largo la Germania, con il proposito di “denazificarla” e di vendicarsi di tutti coloro che lo hanno ingannato, umiliato e tradito negli anni precedenti, ma trova solo gente che si è scrollata di dosso tutte le responsabilità e i sensi di colpa, che vuole solo dimenticare e nascondere negli armadi gli scheletri del passato, cosicché la sua caccia rancorosa ai colpevoli diventa una donchisciottesca lotta contro i mulini al vento (“A cosa gli serve la testa fatta di ferro battuto se le pareti da sfondare sono state costruite con la precauzione di renderle permeabili? E’ una professione: spingere porte girevoli? Fare buchi nel formaggio svizzero? Fare a pugni con le ombre? Piantare chiodi dentro nemici di gommapiuma?”), e l’unica meschina soddisfazione che alla fine riesce a togliersi, nel nuovo Stato “lardellato di vecchi nazisti”, è quella di spargere intenzionalmente lo scolo tra le loro mogli. Il fatto è che egli stesso è compromesso con il nazismo non meno che gli altri ex membri del partito o ex ufficiali della Wehrmacht, e la sua voglia furiosa, manifestata con il suo irrefrenabile digrignamento dei denti, di regolare i conti con loro nasce più dal tentativo di cancellare la vergogna per avere egli stesso partecipato anni prima al feroce pestaggio dell’amico Amsel, colpevole solo di essere ebreo da parte di madre, che da un reale intento palingenetico. Ad un certo punto, verso la metà degli anni Cinquanta, vengono immessi sul mercato dei fantomatici “occhiali della conoscenza” i quali, una volta indossati dalle nuove generazioni, permettono loro di smascherare il passato dei loro genitori (“Nella doppia lente degli occhiali per l'identificazione del padre, si ripetono gli atti di violenza, commessi tollerati provocati undici dodici tredici anni fa: omicidi, spesso a centinaia. Complicità con. Fumare sigarette e stare a guardare mentre. Assassini approvati decorati acclamati. I motivi di omicidio diventano leit-motiv. […] Ogni padre ne ha almeno uno da nascondere”). Nonostante ciò, non avviene nessuna rivolta dei figli contro i loro genitori, come si sarebbe potuto supporre: come prima i padri e le madri avevano conservato i loro segreti fin dentro i sogni, così i figli continuano, chi per pudore, chi per paura di vedere associata la propria figura a quella del familiare, a mantenere la più totale discrezione. “Questo comportamento diventa sempre più la principale regola di vita di tutti gli interessati: dimenticare! Sui fazzoletti, sugli asciugamani, sulle federe dei cuscini e nelle fodere dei cappelli vengono ricamati motti: Ogni uomo deve saper dimenticare. L'oblio è qualcosa di naturale. La memoria dovrebbe essere abitata da ricordi piacevoli e non da insopportabili fetori. Perciò ognuno deve avere qualcosa in cui credere: per esempio Dio; o chi non può in lui, creda nella bellezza, nel progresso, nella bontà dell'uomo o in qualche altra idea. "Noi, qui, in Occidente, crediamo fermamente nella libertà, da sempre." E allora: attività! L'oblio come operosità produttiva.” La satira di Grass è feroce e non risparmia neppure il “wirtschaftswunder” il miracolo economico tedesco, visto come un processo nato dalla necessità di cancellare le ignominiose responsabilità dei potentati economici e finanziari per essersi rassegnati con stolida acquiescenza all’ascesa di Hitler al potere. Lo scrittore tedesco lancia a più riprese le sue frecciatine contro le varie Krupp, Siemens, Bayer e Mercedes, i cui successi vengono beffardamente attribuiti ai magici vaticini dei vermi della farina del mugnaio Matern, al cui cospetto si recano i loro dirigenti per avere anticipazioni sulla congiuntura economica e consigli sulle politiche industriali da intraprendere, così come contro il filosofo Martin Heidegger, l’autore di “Essere e tempo”, il cui filo-nazismo e il cui nichilismo metafisico vengono apertamente presi in giro nel personaggio di Stortebeker, che parla un linguaggio ridicolmente filosofico anche nelle occasioni più prosaiche della vita quotidiana (come quando commenta la cattura di un topo affermando: “Il topo si fa essenza anche senza il topico, ma non può esserci topico senza il topo”). L’ironia dissacratoria di Grass, che non risparmia niente e nessuno, è tanto più spietata quanto più imbocca la strada del surrealismo. Nel finale, ad esempio, si scopre in cosa consiste l’industria messa in piedi da Amsel-Brauxel nelle viscere di una vecchia miniera di plutonio: la creazione di un universo sotterraneo di spaventapasseri automatizzati che riproducono tutte le emozioni umane e tutti gli aspetti, anche quelli più inquietanti e controversi, della società del tempo. Questi spauracchi sono lo specchio deformato, ma intimamente fedele, di un mondo che, mentre si atteggia a evoluto, libero e democratico, continua ad essere impastato di autoritarismo, di opportunismo e di crudeltà, tanto è vero che Matern, condotto a visitare la miniera dall’amico, esclama a più riprese: “Ma è l’inferno, qua dentro!”. Questi spaventapasseri, come spiega Brauxel con dovizia di particolari, vengono venduti in grandi quantità in tutto il mondo, e la loro inesorabile diffusione sembra quasi un morbo esiziale impossibile da arginare. L’amara morale di Grass è che, se è vero che gli spaventapasseri sono fatti a immagine e somiglianza dell’uomo, è altrettanto vero che molti uomini sembrano vivere e comportarsi come gli spaventapasseri animati di Brauxel, mere marionette senza anima e senza coscienza, in balia delle fluttuazioni e delle circostanze della Storia.
“Anni di cani” è la terza parte della cosiddetta “Trilogia di Danzica”, comprendente anche “Il tamburo di latta” e “Gatto e topo”, da cui riemergono alcuni personaggi indimenticabili, come il piccolo Oskar Matzerath, che in una scena è scoperto ad ascoltare insieme ad Amsel il suono della neve che cade sul suo tamburo, oppure Tulla Pokriefke, che ricordavamo dal romanzo precedente come “una specie di sgorbio con le gambe storte”, “fatta di pelle, ossa e curiosità” e che “puzzava di colla di falegname”, e che qui è invece oggetto dell’infatuazione amorosa del cugino Harry Liebenau, o ancora l’ausiliario della Luftwaffe Stortebeker, affascinato dalla filosofia di Heidegger, che diventerà il capo della “banda dei conciatori” descritta nel libro di esordio. Mentre “Gatto e topo” era, a conti fatti, un’opera minore, poco più che un racconto, con “Anni di cani” Grass torna a respirare l’aria rarefatta delle vette letterarie raggiunte quattro anni prima con “Il tamburo di latta”. A paragone dell’Everest rappresentato dal romanzo d’esordio, “Anni di cani” è un K2 molto più impervio, ostico e disagevole da scalare. E’ ad esempio difficile trovare un vero e proprio centro nevralgico che permetta al lettore di orientarsi, dal momento che il racconto è affidato a una triade di narratori, in uno strano, ibrido meccanismo di scrittura collettiva che alterna esperienze, umori e stili molto differenti tra loro e che ricorda a tratti negli esiti l’”Ulisse” di Joyce. Nelle oltre cinquecento pagine di questo romanzo eccessivo, sproporzionato e fluviale (uso non a caso questo termine, dal momento che la Vistola, il fiume che sfocia nella baia di Danzica, assume un’importanza determinante nella prima parte del libro) c’è dentro di tutto: la mitologia nordica (gli dei Perkunos, Pikollos e Potrimpos) e le leggende (i dodici cavalieri e le dodici monache senza testa, il gigante Miligedo), le tradizioni popolari e le favole (l’espressione “c’era una volta” ricorre ben 34 volte), la letteratura epistolare romantica (le lettere di Harry a Tulla) e il teatro brechtiano (la discussione pubblica radiofonica), la cronaca quotidiana e l’affresco storico, in un pastiche che lo apparenta in qualche modo alla coeva letteratura postmoderna (Matern sembra quasi un alter ego teutonico di Benny Profane, mentre la fabbrica di spaventapasseri di Brauxel ricorda l’Università-mondo di “Giles ragazzo-capra”). La caratteristica più pregnante di “Anni di cani” è però la sua visionarietà, che sconfina sovente in una sorta di realismo magico. Ci sono pagine, come quelle dell’incendio che divampa nella birreria ma che risparmia il bancone dove i due amici, incuranti del fuoco, continuano a rievocare il passato comune, o quelle degli spaventapasseri che, come in una staffetta, corrono accanto al treno di Matern per portare ad Amsel la notizia del ritorno dell’amico, o ancora quelle di Amsel e Jenny che escono letteralmente trasformati dai pupazzi di neve in cui erano stati intrappolati, come farfalle da una crisalide, pagine di un surrealismo fantasioso ed esuberante che non sfigurerebbero di fronte ai romanzi di un Garcia Marquez o – perché no? – di un Cartarescu, e che pure non tolgono nulla alla forza derisoria e polemica del pamphlet grassiano. Così come non la tolgono tutti quei personaggi eccentrici, bislacchi o altrimenti memorabili, che paiono usciti dai racconti di Bruno Schulz, come la nonna Matern, immobilizzata da nove anni in soffitta su una sedia, in grado di muovere soltanto i bulbi oculari, che ritrova all’improvviso movimento e parola per scendere in cucina e salvare l’oca che sta bruciando sul fuoco, oppure il mugnaio Matern, capace di predire il futuro con strabiliante precisione grazie alle informazioni suggeritegli dai vermi contenuti nel sacco di farina che tiene costantemente sulla spalla, o ancora il professor Brunies, ossessionato dai minerali, che raccoglie instancabilmente durante le passeggiate con la sua scolaresca, e dalle caramelle al malto, che autoproduce e mangia compulsivamente. Certo, non tutto è a fuoco in “Anni di cani”, e men che meno perfetto. Alcune parti sono innegabilmente ridondanti e prolisse, altre si leggono a fatica per la loro complessità sintattica. Eppure, se solo si riesce ad andare oltre le frasi prismatiche, piene di digressioni ed incisi, oltretutto lasciate spesso a metà (un po’ come se l’autore volesse dimostrare che, quasi che il non detto fosse ritenuto preferibile a, insomma cose così), si può riuscire a intravedere in trasparenza, dietro la satira esagerata e bulimica di Grass, quelle che sono le sue emozioni più intime e profonde, e in particolare la nostalgia, sperimentata dal suo alter ego Amsel (l’artista che crea gli spaventapasseri con tutto quello che gli capita tra le mani, come le assicelle, le frasche e gli stracci portati dalla corrente del fiume) quando cerca a tutti i costi di ritrovare il coltellino regalato all’amico e da questi gettato con noncuranza nella Vistola, la nostalgia – dicevo – di una purezza perduta. “Niente è puro. Neanche la neve è pura. Nessuna vergine è pura […] L'idea, rimane pura? Neanche all'inizio è pura. Gesù Cristo non è puro. Marx Engels non puri. La cenere non pura. E l'ostia non pura. Nessun pensiero si mantiene puro. Neanche l'arte fiorisce pura. E il sole ha le sue macchie. Tutti i geni hanno le loro mestruazioni. Sul dolore nuota la risata. In fondo al gran gridare indugia il silenzio.”

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Gunter Grass: "Il tamburo di latta" e "Gatto e topo"
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andrea70 Opinione inserita da andrea70    05 Novembre, 2024
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Adrenalinico

Ennesima variante sul tema di un gruppo eterogeneo di individui bloccati in un luogo angusto in balia di un killer.
Nello specifico 6 ragazzi devono recarsi ad un evento scolastico in un parco montano e decidono di rendere più avventurosa l'escursione arrivandoci con un camper preso in prestito dallo zio di uno di loro, ma la situazione prende una brutta piega quando il navigatore satellitare perde la connessione e chi guida sbaglia strada finendo in una piccola radura costeggiata da boschi.
Mentre manovrano per fare inversione e cercare di recuperare la strada corretta bucano una gomma e la cambiano ma in breve scopriranno che non era stata una foratura casuale e si ritroveranno bloccati all'interno del camper mentre all'esterno un misterioso killer armato di fucile impedisce loro di allontanarsi sparando sul camper e su chiunque tenti la fuga. Il killer li contatta e chiede una semplice cosa : uno di loro ha un segreto, deve rivelarglielo e lui lascerà andare gli altri.
Iniziano le discussioni innanzituto sulla opportunità di tentare ugualmente la fuga in qualche modo e non cedere supinamente alla richiesta.
Mentre i vari tentativi si dimostrano o irrealizzabili o falliscono alla prova pratica i ragazzi cominciano a tirare fuori i loro segreti, o almeno quelli che possano essere i fatti oscuri del loro passato che in qualche modo possano essere considerati una ragione plausibile per arrivare a minacciarli di morte. Inizia un involontario gioco in cui le cose non dette non sono necessariamente limitate al segreto che vuole scoprire il killer, tra i ragazzi ed il killer c'è una partita a scacchi in cui lui sembra sempre una mossa avanti, forse qualcuno di loro non è chi dice di essere e tra reciproche accuse e sospetti ogni presunto segreto che viene alla luce non è quello giusto.
Le vicende personali passate di alcuni dei ragazzi si intrecciano pericolosamente e dolorosamente fino a scoprire a cosa si riferisce il killer, il "segreto" non più tale apre ad un domino di nuovi interrogativi e bugie smascherate che portano ad una verità inimmaginabile all'inizio e ad uno sconvolgente epilogo.
Caratterizzazione dei personaggi un pò frettolosa ma ritmo serrato e buona gestione dei colpi di scena pur concedendo qualcosa ad un certo numero di clichè sul genere di thriller, da metà in poi non riesci più a chiudere il libro.

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68 Opinione inserita da 68    05 Novembre, 2024
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Dolore onnipresente

Le vittime di violenze in età minorile sostano in una zona d’ ombra all’ interno dei rispettivi giorni, presenti e futuri, macchiate da una fragilità persistente, indelebile, scolpita dentro, la sensazione che nulla sarà come prima, impossibilitate a riscrivere i fatti, il vissuto personale fissato per sempre, un’ essenza intrisa di assenza, una buio prorogato in una solitudine imperscrutabile e accusatoria.
Come descrivere il proprio carnefice, a sua volta probabile vittima, un perverso narcisista manipolatore con tendenze sadiche, un predatore sessuale alla ricerca di un amore impossibile, un poveraccio intriso di supponenza?
A questa stregua il testo di Neige Sinno non ricerca un senso salvifico e di giustizia personale, non è diario, confessione, semplice letteratura, testimonia un significato più ampio, una voce che abbraccia una comunità nel contingente per tingersi d’ altro, il tentativo di una giovane donna di salvare le vite che le stanno accanto, i suoi fratelli, il desiderio di esprimere una verità personale.
Non si tratta di contestualizzare vittime e carnefici, colpevoli e innocenti, gia’ noti, di consegnare il mostro alla dannazione eterna, di salvare l’ insalvabile, di parlare di un se’ oggetto di abusi reiterati denunciati a distanza.
Non conta il fatto di cronaca, la morbosa curiosità dell’ opinione pubblica, ci sono impressioni soggettive, nessuna verità possibile, nessuna bugia, uno spazio personale che esiste solo dentro di se’.
I ricordi dovrebbero combaciare con una oggettività sfuggente, una bambina la cui innocenza è stata distrutta, un misto di profondità e disagio davanti a una violenza senza violenza, una tragedia vissuta all’ interno del proprio corpo pur essendo al di fuori di se’, una presenza costante, adesso, da sopravvissuta senza alcun senso di estraneità.
L’ unica pena da scontare è di chi è stato violato durante l’ infanzia, quando un giorno ci si sentirà liberi non lo si sarà mai, accompagnati dalla parte buia e dall’ ombra di chi ci ha violati. Le conseguenze dello stupro oltrepassano l’ ambito circoscritto della sessualità, minano tutto, la possibilità di abitare il proprio corpo e la propria vita, di sentirsi capaci di, semplicemente di essere.
Quale persona sopravviverebbe a cotanto dolore, quali qualità provengono da quella sostanza, il coraggio, la permeabilità, il carattere, la difficoltà di esistere, il farsi invadere facilmente dagli altri, un’ infinita vita interiore totalmente propria, il potere della menzogna e della dissimulazione, un mondo a cui non potere rivelare chi si era realmente.

….” quando si è vittime una volta si è vittime per sempre”…

Oltre una vicenda privata, autobiografica, oltre il blando potere salvifico della letteratura e della scrittura, oltre quell’ io da declinare in noi, oltre una verità indefinibile, oltre il concetto di resilienza che prevederebbe l’ accettazione di una normalità anormale, oltre una sostanza interiore forgiata per sempre, rimane un crimine sistemico, un’ ignominia generale e generalizzata che è nostra, di tutti noi,

…” un esercito di ombre”…

E allora come trascendere il male con la dolcezza e non attraverso un nuovo male, come trattenere questa dolcezza nel cuore? C’ è una dimensione invisibile, un altro mondo che è amore, bontà segreta e c’è un paese limitrofo, una sorta di quarta dimensione, dal quale, finitoci dentro, non si esce più, un mondo di bene e di male, di tenebre, in cui vittima e carnefice esistono vicini.
La sfida è imparare a stare sul ciglio di quel mondo

…”.camminare come funamboli sul filo dei nostri destini. Inciampare, ma ancora una volta non cadere. Non cadere, non cadere”…

‘“ Triste tigre” è uno scritto che esula da qualsiasi genere letterario, è una riflessione composita di una donna violata nella propria intimità che non ricerca verità note, consensi, compromessi, che non esprime odio ne’ desiderio di vendetta. È una voce che si tinge di coralità in un senso collettivo di appartenenza, in un respiro più ampio, una reale dimensione personale.
Laddove i confini sono labili, vittima e carnefice associati dalla propria unicità, laddove non vi è traccia di equivoco ma un verdetto unanime, l’ interesse verte su un respiro più ampio e stratificato, il respiro della propria essenza, di una creatura che sa quello di cui sta parlando avendolo vissuto sulla propria pelle, che conosce il respiro di quello che ha dentro.
È questo il grande pregio del testo, un’ esposizione dettagliata di un se’ complicato e complesso, esito del proprio passato, che vive il presente, rivolto al futuro, non interpretabile e trasformabile dalla soggettività nel respiro più ampio di una vita segnata per sempre.













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Stefano89 Opinione inserita da Stefano89    04 Novembre, 2024
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UN KILLER INSOLITO

E’ uno spettacolo insolito quello che va in scena al laboratorio dei costumi del Teatro di Roma. A sorprendere non è tanto la nuova edizione della Traviata (originale si, ma poco convincente!) quanto l’insieme di eventi che accompagnano la cena successiva. Tito Cannelli, il titolare della famosa maison di moda che ha curato gli abiti dell’opera lirica, si accascia al suolo e muore. Alla rappresentazione poteva forse mancare Manrico Spinori, Pubblico Ministero dai gusti raffinati e dall'intuito formidabile? Questa volta, suo malgrado, si ritrova addirittura spettatore diretto del dramma. Pare che il killer sia però piuttosto insolito: il de cuius è stato freddato dalla puntura di un calabrone (Vespa Mandarina) proveniente nientemeno che dal Giappone. Tra l’altro il bizzarro assassino è stato messo a tappeto in tempi record dalla mano spietata dello stesso PM. Caso chiuso dunque! Non esattamente! Il procuratore Generale, Gaspare Melchiorre, gli affida subito le indagini se non altro per mettere a tacere la stampa che già dopo poche ore è in pieno fermento. Potrebbe sembrare il caso più semplice e banale della storia, eppure il ritrovamento di due cadaveri, non costituisce di certo un incentivo all'archiviazione delle indagini, soprattutto perché i due malcapitati appartengono alla cerchia di conoscenze del defunto Cannelli. Possibile che si tratti di una tragica fatalità? A Manrico non resta altra scelta che andare avanti e lasciarsi condurre nel mondo eccentrico dell’alta moda, tra avvocati che vanno a braccetto con la criminalità organizzata, stilisti eccentrici, modelli arrivisti e acquirenti competitivi e pronti a tutto. Sarà accompagnato, anche questa volta, dalla sua squadra tutta al femminile e in particolare dall'ispettrice Deborah Cianchetti che, con i suoi metodi pratici e risolutivi, oltre a strappare più di un sorriso, sarà determinante nella risoluzione del caso. Ma a guidarlo nei meandri di questo universo sconosciuto sarà la misteriosa Vera Grant, direttrice del canale telematico Absolute Fashion. Intrigante, colta e affascinante riesce da subito a catturare la sua attenzione e chissà, magari, a ritagliarsi anche un posto di tutto rispetto nel suo cuore?
Insieme a loro sarete catapultati anche voi nel mondo luminoso della moda. Prestate attenzione a fronzoli e ornamenti dai colori sgargianti perché potreste restare abbagliati: guardando a luci spente troverete un microcosmo intriso di gelosia, corruzione e invidia. Come accompagnamento a una prosa essenziale ma decisa e incalzante ritroverete la solita musicalità che fa da sottofondo alle indagini del PM melomane. D'altronde si sa che l’opera e la vita quotidiana si scambiano spesso gli abiti di scena e difatti anche stavolta sarà un’opera lirica a fornire la chiave di lettura del delitto puntando i riflettori sulla vera protagonista, nascosta dietro le quinte: la vendetta, fredda lenta e spietata.
Le parole scorrono pagina dopo pagina, i personaggi sfilano sul palco edificato dalla penna di Giancarlo De Cataldo come fossero attori reali, intenti a recitare e cantare un trama ben congegnata che non esime da una attenta riflessione sulla dimensione umana e personale. Una conferma per gli appassionati del genere, una scoperta per i nuovi lettori.
Mettevi comodi lo spettacolo inizia!

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Stefano89 Opinione inserita da Stefano89    04 Novembre, 2024
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Curioso e divertente

Cosa potrebbe succedere se nel laghetto di una tenuta vitivinicola della Maremma venisse rinvenuto il motocarro Ape di un noto produttore di vino, tale Crisanti Olivieri Frangipane, proprietario della tenuta adiacente peraltro scomparso ben dieci anni fa? Potrebbe essere un caso che proprio il giorno della misteriosa sparizione entrambe le aziende fossero impegnate nei festeggiamenti per la vittoria di un importante riconoscimento (i Tre Bicchieri della rivista specializzata “Gambero Rosso”)? Chissà poi se è rilevante il fatto che proprietari e amministratori delle due tenute limitrofe fossero notoriamente in pessimi rapporti tra loro? Effettivamente a sentire le premesse, qualche motivo per storcere il naso ci sarebbe pure. Sinora pare che gli ingredienti per un buon giallo siano tutti presenti. Servirebbe a questo punto una buona dose di acume e un fiuto sopraffino, qualità che non mancano rispettivamente alle due protagoniste della vicenda: Corinna Stelea, sovrintendente di origini rumene, un metro e novanta di intuito sbirresco e Serena Martini, chimica casalinga, nonché moglie e madre a tempo pieno ed esperta sommelier. Tanto brusca e ruvida la prima quanto solare e impetuosa la seconda. Seppur con caratteri diametralmente opposti la loro sarà un’accoppiata vincente e insieme riusciranno a mettere a posto i pezzi di questo puzzle.
La trama di per se è abbastanza semplice e non voglio anticipare altro anche perché già dopo poche pagine si può intuire quale sarà lo sviluppo della vicenda. Tuttavia il libro a mio parere è davvero singolare. A renderlo speciale è sicuramente l’ambientazione. Le descrizioni sono talmente accurate che durante la lettura si ha l’impressione di veder sfilare davanti agli occhi gli indimenticabili paesaggi della Maremma. Oltre a questo viaggio così suggestivo nelle campagne toscane è particolarmente piacevole l’esplorazione del mondo dell’enologia: tra bottiglie, annate, temperature e processi produttivi, tappi e degustazioni c’è davvero da imparare, sia per chi qualche conoscenza già la possiede, sia per chi è assolutamente estraneo alla materia. Non mancano poi svariate digressioni (dalla famiglia al rapporto di coppia, dalla società alla vita lavorativa e più in generale alle difficoltà quotidiane) insaporite con un pizzico di ironia e sarcasmo che conferiscono un gusto unico alla scrittura e lasciano il lettore a metà strada tra il comico e il paradossale, indeciso se orientarsi verso la riflessione o lasciarsi andare alla risata. Si legge, si impara, si riflette e ci si diverte. Cosa affatto scontata direi! La sintonia tra narrazione e dialoghi rende il libro perfettamente equilibrato, sintomo di una capacità espositiva fuori dal comune. Originale anche la scelta di alternare capitoli esposti in prima persona femminile da Serena, a capitoli scritti in terza persona da un narratore maschile esterno che viene presentato come il senso del dovere di Corinna. Questa fusione dei punti di vista di genere è un altro elemento di forza che rende la lettura ancora più intrigante.
“La regina dei sentieri” si cela tra le pagine e gioca con i lettori, insegnando che ogni mappa disegnata intorno a noi è un labirinto, fatto di percorsi più o meno impervi e pericolosi, tra i quali si nasconde sicuramente la via che può renderci liberi: una libertà che, alla consapevolezza di se, unisce quella forza necessaria per raggiungere ogni meta. E’ il primo libro che leggo firmato a quattro mani da Marco Malvaldi e Samantha Bruzzone e sicuramente non sarà l’ultimo. Il consiglio che posso darvi è di fare altrettanto.
Sorseggiate ogni pagina come fareste con un buon vino!

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I romanzi del Bar Lume
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Novembre, 2024
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Ritorno al bel tempo antico

L’ultimo romanzo di Antonio Manzini, avente a protagonista il suo personaggio più noto, certamente quello più amato dai fedeli lettori, il vicequestore Rocco Schiavone, in servizio permanente effettivo presso la questura di Aosta, rappresenta un gradito ritorno in libreria, dopo una lunga assenza. Intendiamoci bene, però, il poliziotto romano Schiavone è stato sì assoluto protagonista dei più recenti lavori di Manzini a lui dedicati, ricordiamo ad esempio “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?”. Oppure “ELP”, e però a più di un lettore è parso quasi di non incontrare in queste pagine proprio lui in carne e ossa, il Rocco Schiavone come abbiamo imparato a conoscere, e ad amare, dal suo primo apparire in “La pista nera”, oppure “La costola di Adamo”, o ancora “Non è stagione”, ecc. Perché negli ultimi lavori lo spot è sì sempre focalizzato sul nostro particolare segugio investigativo, in particolare sull’etica squisitamente umana che ne guida le operazioni. Schiavone è sempre il noto verace “romano de’Roma”, trasferito ad Aosta, città rispettabilissima, ma quanto di più lontano dalla sua amata città natale, per clima, ambienti, paesaggi e modi di vivere. Il vicequestore per di più è stato sradicato a forza dal suo habitat imprescindibile di luoghi, amici, sapori, trasferito al nord coattivamente, per motivi disciplinari, sanzione in verità immeritata. Ma tant’è, Rocco è personaggio molto sopra le righe, tosto, testardo, cocciuto, applica la legge non a modo suo, non è un giustiziere né si arroga di essere sopra le parti, tutt’altro. Lui per primo sbaglia, sapendo di sbagliare, usa metodi d'indagine poco ortodossi, che non contemplano la certosina applicazione delle regole d'investigazione secondo manuale di legge. Si rilassa spinellando, che non è il massimo per un poliziotto, frequenta gli amici di una vita, i fedeli compagni, o meglio assai di più, i fratelli sodali della sua infanzia e giovinezza nel quartiere natale. Amici fraterni che però, a differenza sua che ha studiato ed ha superato il concorso in polizia, non sono persone rispettabili e dalla fedina penale immacolata, cosa che non si conviene opportuna per un dirigente della Polizia di Stato. Il vicequestore di tutto ciò non se ne dà per inteso, non per sufficienza o meno che mai per alterigia. Semplicemente Rocco Schiavone è fedele a se stesso, si ostina a ragionare con la sua testa e il suo cuore, ha studiato giurisprudenza ma la sua prima laurea l’ha conseguita summa cum laude per natali e vissuto. Sa perfettamente come vanno le cose nella vita, quanto la legge stabilisca netto e preciso il confine tra bene o male; ma sa altrettanto bene, lo ha vissuto sulla sua pelle, che più spesso il varcare la linea in un senso o nell’altro sia una necessità esistenziale per molti presunti cattivi, e una precisa volontà di nuocere per molti tra i presunti buoni, fidando nel commettere i reati più abietti sull’impunità che deriva dal loro ruolo sociale, acquisito spesso anche quello in maniera disonesta. Questo il Rocco Schiavone che abbiamo imparato ad amare: e che però di recente avevamo perso di vista. Questa volta invece Antonio Manzini è felicemente tornato all’antico, avrebbe potuto benissimo intitolare questo suo lavoro come ”Rocco Schiavone: il ritorno”, lo scrittore ha compiuto un salto nel passato, letteralmente, con questa storia, un bel romanzo corposo, che in oltre cinquecento pagine, tutte scorrevoli e leggibilissime, ci offre una indagine, anzi più di una, personaggi ottimamente descritti, vecchi e nuovi, quelli più datati anche arricchiti, aggiornati, rivitalizzati, un romanzo che è una bella sorpresa, un ritorno all’antico, direi di più, al bel tempo antico. Manzini, infatti, non si dilunga più particolarmente in ulteriori capitoli centrati sulle dolorose vicissitudini strettamente personali del vicequestore, legate cioè più alla persona che non alla sua professione, che vanno dal rievocare il passato del personaggio, dall’assassinio dell’amatissima moglie Marina, il successivo delitto della compagna del miglior amico di Schiavone, la ricerca del colpevole e traversie varie che, in un certo qual modo, illustrano i trascorsi del personaggio, indugiando sui motivi fondanti dell’amara solitudine, annichilimento e disperazione, che albergano nell’animo sconfortato del vicequestore, a onta di uno spessore umano di tutto rispetto. Antonio Manzini con i romanzi appena prima di questo ha chiuso la parentesi, Schiavone ha risolto in qualche modo i fatti relativi all’assassinio dell’adorata moglie e al tradimento dell’amico del cuore Sebastiano Cecchetti, e torna a essere “unus sed leo”, uno solo ma leone, si riprende in pieno le luci della ribalta. Capisce, e finalmente, che il passato è morto, esiste solo se lo facciamo vivere noi. Non è più distratto e abulico, sono tornati alla grande ambedue, Manzini e Schiavone. La vita va accettata, abbracciata, anche a costo di farsi male: rifiutarla, nascondersi è da vigliacchi, e quindi non da Schiavone. Tutto inizia, come un normale giallo, con un cadavere, un ciclista morto in quello che a prima vista appare come l’ennesima vittima di un pirata della strada, ed è invece un omicidio premeditato. Come tutti i mistery, il punto di partenza è il morto, si cerca di capire la vittima, e il suo passato, per scoprire i motivi e i moventi dell’assassinio, e da qui al colpevole. Solo che questa volta l’indagine si dipana all’infinito, rivela una catena di fatti e personaggi che risalgono indietro nel tempo, tutto avvolto in un mistero teso e intrigante da leggere, come può esserlo un morto ammazzato sì, ma senza cadavere. Una ricerca del colpevole che smuove le acque di uno stagno putrido che cela eventi dimenticati da anni. Una storia, e tanti fatti, che coinvolgono in toto, ciascuno a suo modo portando le loro storie nella storia, Schiavone e la sua squadra, il viceispettore Antonio Scipioni, gli agenti Ugo Casella, Michele Deruta, Mimmo D’Intino, e poi il magistrato Maurizio Baldi, il questore Costa e via via tutti i personaggi che sappiamo. Compresa Sandra Buccellato, la giornalista che, dopo tanto tempo dalla scomparsa della moglie Marina, sembra l’unica donna in grado d'interessare Schiavone. La sola a fargli capire che vivere nella memoria impedisce di vivere, perché i morti sono morti, con loro non ci puoi parlare, i vivi invece sono accanto a te, e richiedono il tuo amore. Possono anche spaventarti, i vivi, farti paura: Rocco Schiavone baldo e audace, accusa la paura, al solo pensiero di poter perdere anche Sandra. Anche i vicequestori forti e gagliardi hanno un’anima, sapete. Bentornato, Rocco.

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Antonio Manzini
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    03 Novembre, 2024
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Fragili arcobaleni

"Il rombo della cascata (...) era così forte che ti entrava dentro (...). Avevi la sensazione che un solo battito del cuore ti separasse dall'essenza primordiale della vita" .

Una giovane coppia in viaggio di nozze alle Cascate del Niagara. Accade un'irreparabile disgrazia. Chi rimane deve riconsiderare il proprio futuro.

Una lettura abbastanza bella. L'autrice sa scrivere e sa farsi leggere.
Si tratta di un romanzo che dal 1950 procede incalzante per alcuni decenni.
L'asse portante della vicenda è per così dire di vita privata. Nella seconda parte però gli orizzonti si ampliano e alcuni aspetti della vita pubblica americana vengono a intersecarsi : emergono le tematiche dell'inquinamento e della speculazione edilizia. Compaiono poi il tema della corruzione e quello della violenza nell'ambito della polizia.
Questi temi 'sociali' risultano ben amalgamati alle vicende di carattere privato. Casomai è proprio qualche momento riguardante quest'ultimo aspetto ad apparire un po' forzato, non abbastanza verosimile, o almeno non abbastanza 'giustificato' , pur in una struttura narrativa, nell'insieme, architettata con perizia.

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letteratura contemporanea
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68 Opinione inserita da 68    03 Novembre, 2024
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Coppie scoppiate

California, primi anni cinquanta, piena ricostruzione post-bellica, Roger e Virginia, coppia in crisi che gestisce un negozio di elettrodomestici a Los Angeles, cercano di liberarsi del figlio Greg iscrivendolo in una scuola privata situata a centinaia di chilometri da casa.
Una scelta travagliata ( solo economicamente) che segnerà l’ incontro con un’ altra coppia, Chic e Liz Bonner, lui noioso uomo d’ affari, lei primadonna svampita, con i quali intrattenere dapprima rapporti di cortesia e di vicinanza, poi un’ intricata relazione sentimentale e lavorativa deragliata nell’ inverosimile.
I quattro protagonisti, accomunati dalla frequentazione scolastica dei rispettivi figli, rincorrono prosperità e gratificazione personale, ciascuno esito di un passato complicato, deragliato, artefatto, il presente la somma di errori e desideri inevasi.
Roger è un uomo immaturo e malleabile vissuto da sempre di sogni impossibili, alla ricerca di un rifugio gratificante, alle spalle un matrimonio fallimentare, Virginia una donna ambiziosa ed egocentrica che non vuole sottrarsi ai propri privilegi matrimoniali, Chic un piccolo imprenditore in balia degli eventi che si è costruito da se’, Liz una primadonna superficiale e artificiosa sempre al centro del proscenio per nascondere insicurezze e fragilità.
Strada facendo esplode un’ esilarante quanto sconcertante recita individuale, flusso di schizofrenica noncuranza, maschere individuali al centro del nulla, nascondendo l’ ovvio, relazioni famigliari sepolte, bugie reiterate, silenzi parlanti, pensieri dissociati e poco gratificanti.
Che cosa rimane oltre uno spot autocelebrativo di macroscopiche assenze, di illusioni negate, di tradimenti pruriginosi, di orgogli feriti, di noncuranza, con il desiderio di essere altrove, immersi in un senso insensato e fallimentare, in una fragilità sentimentale condita da scarsa profondità e sensibilità?
E allora nel cuore di una vita da tempo implosa, che ripercorre giovinezze speranzose declinate in una versione bugiarda di se’, si nascondono segreti inconfessabili, verità negate, colpe evidenti, impegnati in un’ auto celebrazione che sa di commedia degli errori e degli orrori rinviandone ogni volta l’ esito nefasto.
Relazioni insufficienti, inesistenti, perdute, ciascuno testimonia una vita insoddisfacente e la propria immaturità, una versione di se’ che è parte ed evasione da se’.
In questa tormentata e godibile commedia di Philip K. Dick, che esula dalle opere più note dell’ autore, emerge una porzione di America in cui le relazioni famigliari scandiscono tempi e modi all’ ombra di un individualismo poco gratificante e di una nazione che cerca faticosamente di ricostruirsi rigettando paure e dolori recenti.
In un contesto siffatto, con un linguaggio costruito su frasi fatte e luoghi comuni tratti dai film, dalla tv, dai libri, c’è sempre qualcosa che manca, un microcosmo a parte, sordi a se stessi e agli altri, non amando nessuno autenticamente, respirando un fallimento generalizzato, menzogna evidente per chi è destinato a partire o è già partito, per chi vive l’ attesa di un’ unione sentimentale riconosciuta, per chi si ritiene ancora vincente e protagonista, per chi è stato e tuttora è tenuto all’ oscuro della realtà dei fatti.

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68 Opinione inserita da 68    03 Novembre, 2024
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Destino nefasto

Una valle tetra e maledetta tra i monti Appalachi incastonata nel grigiore di infiniti giorni di pioggia, una casa e un capanno nella fitta vegetazione di un bosco, due orfani uniti dalla solitudine lavorativa nella fattoria di famiglia. Laurel e Hank, lei invisa alla comunità che le attribuisce poteri nefasti per una voglia che porta sul corpo, lui reduce di guerra senza una mano, lunghi anni di isolamento in attesa di un cambiamento, per Laurel un inizio che si manifesti dal nulla.
Che sia una triste figura emersa dal bosco, sola, ferita, silente, con un’ armonica in bocca, il cui mutismo ne assolve la presenza enigmatica, la musica somma espressione di se’, un uomo perso, apolide, di cui si ignora la provenienza?
Un legame alimentato dalla condivisione dei giorni, dal lavoro, dalla fatica, dai pasti, cura vicendevole per chi è stato abbandonato e respinto, un’ unione che alimenta speranze, calata nel silenzio intenso di sguardi, immaginazione, sogni, desideri, per nascondere e confondere un passato nebuloso e triste.
La solitudine si fa comunanza, la speranza genera aspettative, costruzioni mentali, desiderio, fidarsi è confidarsi e consegnarsi, mostrando il vero volto, dubbi, ansie, debolezze, auspicando fedeltà, sincerità, lealtà.
Laurel sa di essere sola al mondo, imprigionata in un luogo non luogo, destinata al niente, presto abbandonata da Hank, promesso sposo destinato a una vita altrove, la comunità l’ ha sempre ignorata, trattata con sufficienza, allontanata, considerandola una strega, Walter la sua unica speranza, per questo cerca di capirne e interpretarne il mondo, ma come comunicare l’ incomunicabile a chi non parla, non legge, non scrive, anche confrontati a sguardi che non mentono e a lunghi silenzi parlanti?
Esposti al desiderio di amare, figli fragili di una solitudine protratta, non resta che fidarsi e affidarsi all’ altro, disposti a superare l’ insuperabile, a perdonare, a nascondere, a ricominciare, alternativa ultima alla solitudine più estrema, uno stato di morte in vita e di morte certa.
Purtroppo permane e incalza la crudeltà di una guerra tuttora in corso e di una comunità arrogante, bigotta, impaurita, violenta, l’ odio generalizzato per un nemico immaginato e riconosciuto in un volto e in parole ritenute pericolose, cavalcando una retorica fuorviante e una violenza cieca indirizzata alla crudeltà più molesta, che richiama altra violenza, imbrattando di morte tutto quello che incontra .
Ron Rash, grazie a una prosa cruda, dura, reale, accompagnata per contro da una dolce poetica dell’ amore e del desiderio, dipinge con indubbia maestria un’ angolo sperduto di America dove la vita pare spegnersi indegnamente ma dove rimangono anime che ancora inseguono speranze e desideri.
Il respiro della guerra pare lontano ma la sua eco mai così presente, una natura inclemente trasmette la propria magnificenza condannando i protagonisti all’ interno della propria zona d’ ombra.
Permane un intenso paesaggio interiore riflesso di armoniosa presenza, un viaggio stanziale per il mondo laddove il desiderio riempie giorni difficili e pericolosi, sospinti dal dolce richiamo di poesia, musica, letteratura, da gentilezza, condivisione, fratellanza, prima che la furia cieca di un’ umanità disadorna azzeri presente e futuro mostrando il volto inespressivo e silente della solitudine più nera.

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ROBERTA63 Opinione inserita da ROBERTA63    03 Novembre, 2024
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Ancora amore, nonostante tutto.

Dopo aver letto il “Pianto dell’alba” mi chiedevo come De Giovanni avrebbe raccontato la perdita ed il dolore del nostro commissario Luigi Alfredo, rimasto vedovo dell’amore della sua vita. Con Caminito si riprende il racconto, dopo cinque anni, delle storie di ognuno degli ormai "cari e amati" personaggi della bella Napoli. Ancora bella sì, ma con un clima sociale ostile, freddo e guardingo. Gli anni non sono passati senza lasciare tracce, i “nostri eroi” sono invecchiati, un po’ cupi e soggiogati da un opprimente “clima politico”. Il commissario e tutti gli altri sono ancora impegnati a vivere degnamente la propria vita e a scoprire la verità su di un efferato delitto. Ricciardi ha trovato un suo equilibrio interiore continuando a mantenere una stretta comunicazione di parole ed immagini, con la sua amatissima Enrica ed ha una venerazione incondizionata per il frutto del loro amore: Marta. La piccola che ormai ha 5 anni, vive felicemente tra le attenzioni amorevoli dei due “angeli custodi”: la fedele Nelide e la contessa Bianca. Scopriremo come, a dispetto dei timori del padre, la piccola ha qualcosa di "speciale" che l’amore dei genitori le hanno donato e che sarà di aiuto e consolazione per molti. Bellissima e ricca di speranza la storia parallela, in Argentina, della nostra " inconsolabile " Livia. Ci sono sviluppi interessanti per tutti, anche per chi nel passato è stato un po’ in ombra, come ad esempio il capo della polizia Garzo. Il risultato finale è veramente piacevole ed interessante, De Giovanni si dimostra ancora una volta di essere un autore sensibile e ricco di umanità, le sue descrizioni sono sempre esaustive e poetiche. Sa esprimere molto bene l’animo umano ed ognuno ci si può " ritrovare".

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I libri del Commissario Ricciardi.
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    01 Novembre, 2024
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Scontro finale tra due acerrimi nemici.

Romanzo rocambolesco, pieno di colpi di scena, imperniato sullo scontro tra due acerrimi nemici, il detective tetraplegico Lincoln Rhyme e il fantomatico Orologiaio (è finalmente noto il vero nome, Charles Vespasian Hale), che ha fatto di Manhattan il teatro dei suoi atti criminosi. La città è sotto scacco, a causa di un messaggio firmato Kommunalka Project, sedicente ente no-profit: contiene una grave minaccia, il sabotaggio di una gru ogni 24 ore se l'amministrazione cittadina non convertirà grattacieli di lusso in alloggi popolari a prezzi accessibili. L'Orologiaio, assoldato per la bisogna, sa già come provvedere: userà l'acido fluoridrico, potente veleno corrosivo, che sarà la causa del crollo della prima gru. Rhyme e la moglie Amelia Sachs, consulente scientifico, entrano in azione, mentre gli eventi si susseguono incalzanti : Hale viene in possesso di documenti riservati fornitigli da un poliziotto doppiogiochista, entra in scena un'amica del criminale, Simone, crolla la seconda gru e Amelia rischia la vita per porre in salvo pazienti ricoverati nel grattacielo colpito dalla caduta. Si scopre anche, primo colpo di scena, che l'attacco alle gru era solo un modo per sviare da ben altre intenzioni: nuovi personaggi compaiono sulla scena, immobiliaristi avidi di guadagni, politici di alto livello e addirittura due candidati alle elezioni presidenziali. L'Orologiaio trama sempre nell'ombra, giungendo perfino a mettere fuori gioco il principale aiuto di Rhyme, Ron Pulaski, il "caregiver", cioè il principale addetto alla sua cura personale. secondo la definizione di Rhyme stesso. Dopo una serie complessa di intrighi e di sospetti, si giungerà finalmente allo scontro finale tra i due rivali, nemici da sempre: uno scontro atteso da tempo, che, ovviamente, finirà con un colpo di scena.
La struttura del romanzo è molto intricata, non facile da seguire. I trucchi per depistare le indagini sembra non abbiano fine, ci sono sempre sorprese e nuovi indizi che attestano l'abilità dell'Orologiaio nel celare le proprie tracce e nell'assumere nuove identità. Riuscirà a fuggirsene lontano, magari in Venezuela, a godersi la vita e i soldi incassati? Riuscirà
ad incontrarsi con quella Simone che gli è stata d'aiuto e che sembra avergli dato appuntamento a Praga?
Molte risposte le darà il romanzo, ma non tutto verrà svelato. Jeffery Deaver riesce sempre a tenere il lettore sulla corda, con il suo stile lucido e brillante ed una trama narrativa incalzante, priva di pause e di inutili divagazioni. A parte quelle scientifiche, che sono, come sempre, una caratteristica della scrittura di Deaver, cominciando da quelle relative agli orologi: ad esempio, negli orologi tradizionali si chiamano "ruote" e non ingranaggi i meccanismi che li fanno funzionare, e "ruotismo" il funzionamento stesso. E poi, il fatto che l'orologio atomico sgarri di un secondo ogni 300 milioni di anni non mi ha meravigliato tanto quanto l'esistenza, da me ignorata, che esistesse un Network Time Protocol (NTP) che invia l'ora atomica alle reti che regolano gli orologi di computer, cellulari, GPS, etc. Per non parlare del complicato meccanismo di funzionamento delle gru e dei segreti che nasconde la crittografia collegata al cosiddetto "hashing" (un esempio già nella prefazione del libro)..
Il romanzo si legge con qualche difficoltà nel collegare momenti e personaggi, insomma proibito perdere il filo del racconto: i lettori capiranno anche se la speranza dell'orologiaio di rivedere la sua amica a Praga o di rifugiarsi in Venezuela potrà tradursi in realtà o sarà solo un sogno irrealizzabile.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Novembre, 2024
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Luciana e Domenico

«Più veniamo spazzati come bianche carcasse di pesci morti dalla mano titanica e nuda dell'amore, più vediamo aree verdeggianti di noi, boschi mai esplorati, popolati di strane creature, affamate e dolcissime. […] L'anima che non parla, esprime con il corpo le sue urla.»

Maria Grazia Calandrone ci ha abituati con “Dove non mi hai portata” a un linguaggio poetico ed emozionale che ci conduce per mano e ci trasporta in universo fatto di legami e sentimenti che si intersecano con quelli che sono i bisogni, desideri e le aspettative di una figlia che mai ha conosciuto la madre. Con “Magnifico e tremendo stava l’amore” torna in libreria con un testo ben diverso, a metà tra il reportage e il memoir. Per la precisione ella ci riporta al 2004, anno in cui un fatto di cronaca sconvolse il grande pubblico: Luciana Cristallo, sposata giovanissima per scelta, per amore e per inesperienza, con un giovane uomo calabrese di nome, Domenico Bruno, più grande di lei e anche più scaltro, nonché divenuta da lui madre di quattro figli, si macchia del reato più grave; l’omicidio ai danni proprio del marito. Dopo anni e anni di vessazioni, violenze, soprusi e chi più ne ha, più ne metta, la donna a seguito di una discussione spropositata, lo uccide. Non conta il fatto che si fossero separati ormai da tempo, non conta il fatto che le loro vite ormai proseguissero su binari paralleli. Talvolta una miccia è tale da riportare a galla tutto il malessere vissuto e provato in anni e anni di vessazioni. Luciana Cristallo sarà assolta sia in primo che in secondo grado con la formula “il fatto non costituisce reato” ed è proprio nei due gradi di giudizio che narrerà la sua storia dall’inizio della relazione con Bruno sino alla conclusione della medesima. Ma perché Luciana è rimasta al fianco di Domenico? Cosa l’ha spinta a perdonare, a sopportare, a restare a casa o a tornarvi anche dopo gli allontanamenti che si erano resi necessari?

«Così l'amore, questione di frammenti che trasformano il caso in destino.»

Maria Grazia Caladrone narra la vicenda in modo molto minuzioso. Ricostruisce poco alla volta il vivere dei protagonisti, ricerca le sue fonti, si immerge negli atti processuali, rivive la vicenda anche per quelli che sono stati i più importanti servizi televisivi e da qui offre al suo lettore un testo maturo e capace di suscitare empatia. Cosa non facile quest’ultima se si considera che il testo è proprio strutturato come se si fosse davanti a un reportage con tanto di intervista, domande e ricerca di risposte dall’autrice verso la donna. Altra grande sua virtù è quella di saper tenere l’attenzione del conoscitore sempre vivida e attiva, soprattutto se si considera che si è davanti a uno scritto di cui l’epilogo è noto sin dal principio.
Non da meno sono anche le analisi che vengono poste in essere sulla figura di Domenico Bruno e il suo passato. Egli è figlio illegittimo di un padre notabile ed è nato dalla relazione di questo con la domestica stante che la moglie non sembra essere fertile. Il bambino cresce tra le attenzioni della domestica, le respingenze della madre “adottiva” e l’anaffettività del padre per il quale egli è invisibile. Alla morte della moglie il padre sposerà la domestica ma in ogni caso Domenico resterà il figlio illegittimo.

«[…] Quanta morte è nascosta nell'amore che crediamo di provare, quanta lotta di bestie preistoriche, che urlo primigenio dentro il sorriso che rivolgiamo a un uomo, il giorno stesso in cui lo scegliamo?»

La prosa della Calandrone è pulita, minuziosa e ricercata. Non vi è volontà giustificativa all’interno delle sue parole, né per Luciana, né per Domenico. A far da sfondo alla vicenda vi è la dimensione sociale del nostro Paese tra gli anni ’80 e gli anni ’90.
Per avvicinarsi a “Magnifico e tremendo stava l’amore” la prima cosa da fare è dimenticarsi di “Dove non mi hai portata” perché tanto a livello emozionale che stilistico siamo su due piani nettamente diversi così come lo sono le aspettative. Se si legge l’ultimo lavoro aspettandosi di ritrovarsi nella stessa dimensione del precedente, le aspettative saranno disattese e anche malamente. Qui si è davanti a un testo quasi giornalistico e per questo volontariamente “asettico” in alcuni passaggi.
Non solo. La scrittura della scrittrice, naturalmente poetessa, tende a collidere con il narrato e a risultare dissonante. Nulla osta sul fatto che ella abbia una buona padronanza della parola ma in queste pagine il suo scrivere è un po’ uno stridere. Forse, semplicemente, non era il tipo di scrittura adatto all’impostazione data al testo e questo incide sulla piacevolezza.
Una prosa narrativa poetica ed evocativa si confà a un testo dedicato alla madre, alla ricerca, alla speranza di trovare le risposte alle tante domande su perdita e abbandono. Tuttavia, cozza e si scozza con una storia vera, ove a tenere le fila è la morte, il sopruso e la forma del reportage.
Una prova riuscita soltanto a metà.

«Ci sono persone il cui respiro è commovente, perché si vede come in trasparenza la volontà di vivere del loro corpo.»

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    31 Ottobre, 2024
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Ma voglia di volare (o strangolare)

Dopo aver completato miracolosamente un'epopea di puntini lunga quasi settecento pagine, non capisco perché il karma debba infierire sulla sottoscritta con un altro libro composto da una quantità indegna di frasi lasciate in sospeso. Per lo meno il celebre titolo del duo composto da Pierre Boileau e Thomas Narcejac è parecchio più compatto rispetto a "La torre dell'alba"! Questo non mi ha impedito di alzare più volte gli occhi al cielo durante la lettura de "La donna che visse due volte", un romanzo con tante qualità, una buona parte delle quali non rientra purtroppo nei miei gusti.

La narrazione ci trasporta inizialmente nella Parigi della strana guerra, con la popolazione francese che affronta in modi molto diversi la minaccia dell'invasione nazista: c'è chi lascia la città in preda al panico e chi continua ad ignorare gli allarmi notturni. È in questo momento storico che si ritrovano due vecchi amici, ovvero l'imprenditore di successo Paul Gévigne e l'ex poliziotto diventato avvocato Roger Flavières; il primo incarica il secondo di avviare un'indagine nei confronti di sua moglie Madeleine, che da qualche tempo si comporta in modo bizzarro. Flavières inizia così a pedinare la donna, scoprendo il suo inspiegabile interesse nei confronti della bisnonna Pauline Lagerlac, e diventandone a sua volta ossessionato.

L'intreccio mystery si può già indovinare da queste poche righe, ma nei fatti lo sviluppo della trama è ben più ampio ed intricato, mescolando con attenzione tocchi di noir, thriller ed horror fino ad arrivare alla rivelazione finale. Una rivelazione che ammetto sia riuscita a stupirmi, nonostante i suoi settant'anni! un po' per merito della poca affidabilità del POV scelto, un po' perché non ho mai avuto l'occasione di vedere l'adattamento diretto da Hitchcock. La narrazione è stata inoltre supportata in maniera efficacie dai suoi protagonisti, a dispetto dei loro caratteri poco definiti.

Tra i pregi del volume posso far poi rientrare l'ambientazione, sia a livello storico (perché i periodi scelti riflettono bene lo stato d'animo dei personaggi in scena) sia nelle descrizioni dei singoli ambienti o paesaggi: il duo Boileau-Narcejac dimostra un vero talento nel delineare delle immagini evocative nella loro semplicità, nonché capaci di adattarsi bene all'atmosfera greve che permea l'intero romanzo. Il senso di disagio provato dal protagonista si estende infatti al lettore, che allo stesso modo non è più certo di quanto ci sia di reale nelle vicende descritte, né quale genere di sentimenti gli trasmetta il comportamento di Flavières.

Per mia preferenza, questo è stato invece un punto non propriamente a favore: la prospettiva del protagonista mi è risultata davvero spiacevole da seguire; inoltre non sono una grande fan delle narrazioni in cui la chiarezza si fa desiderare. E se è vero che l'epilogo fornisce una risposta al mistero in generale, alcuni aspetti specifici continuano a sembrarmi forzati ed approssimativi. Un difetto un po' più soggettivo è individuabile verso il finale, dove sono presenti diversi confronti molto importanti, per i quali non viene fornita poi una conclusione soddisfacente: ho avuto quasi la sensazione di essermi persa delle scene, tanto da dover tornare indietro a controllare e rileggere! In fondo, chi mai passerebbe dal rifiutare le avances di uno sconosciuto al frequentarlo stabilmente da una pagina all'altra?

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Storia e biografie
 
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MCF Opinione inserita da MCF    30 Ottobre, 2024
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Vera poesia

Era il mio sogno che qualcuno leggesse la Divina Commedia al mio posto e me la spiegasse; quindi, ho comprato al volo questo libretto scritto in modo fluido e avvincente. Avevo studiato e letto l’opera a scuola senza entusiasmo e non ricordavo come fosse tutta in rima, né la musicalità e il significato delle scene che l’hanno resa immortale. Nei cerchi iniziali dell’inferno, ci sono coloro che hanno peccato senza cattiveria, come Paolo e Francesca, rei di un amore adulterino; c’è il grande maestro di Dante, che il poeta stima profondamente, reo di essere omosessuale, autore di vari scritti, tra cui uno simile alla Divina Commedia e che ha poi ispirato il suo allievo. Man mano che si scende nei gironi dell’inferno, i peccatori sono sempre più tormentati perché i loro peccati sono sempre più gravi e imperdonabili. Era il mio sogno che qualcuno leggesse la Divina Commedia al mio posto e me la spiegasse; quindi, ho comprato al volo questo libretto scritto in modo fluido e avvincente. Avevo studiato e letto l’opera a scuola senza entusiasmo e non ricordavo come fosse tutta in rima, né la musicalità e il significato delle scene che l’hanno resa immortale. Nei cerchi iniziali dell’inferno, ci sono coloro che hanno peccato senza cattiveria, come Paolo e Francesca, rei di un amore adulterino; c’è il grande maestro di Dante, che il poeta stima profondamente, reo di essere omosessuale, autore di vari scritti, tra cui uno simile alla Divina Commedia e che ha poi ispirato il suo allievo. Man mano che si scende nei gironi dell’inferno, i peccatori sono sempre più tormentati perché i loro peccati sono sempre più gravi e imperdonabili. Era il mio sogno che qualcuno leggesse la Divina Commedia al mio posto e me la spiegasse; quindi, ho comprato al volo questo libretto scritto in modo fluido e avvincente. Avevo studiato e letto l’opera a scuola senza entusiasmo e non ricordavo come fosse tutta in rima, né la musicalità e il significato delle scene che l’hanno resa immortale. Nei cerchi iniziali dell’inferno, ci sono coloro che hanno peccato senza cattiveria, come Paolo e Francesca, rei di un amore adulterino; c’è il grande maestro di Dante, che il poeta stima profondamente, reo di essere omosessuale, autore di vari scritti, tra cui uno simile alla Divina Commedia e che ha poi ispirato il suo allievo. Man mano che si scende nei gironi dell’inferno, i peccatori sono sempre più tormentati perché i loro peccati sono sempre più gravi e imperdonabili.

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68 Opinione inserita da 68    30 Ottobre, 2024
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Destino scontato

Uno scritto che non è una biografia ne’ un ritratto psicologico, forse il racconto romanzato di una vita caduta in disgrazia, il mistero di un morto senza nome che prende forma, omicidio o suicidio apparente, un testo che qualcun altro avrebbe voluto scrivere, che stava scrivendo, che porta il titolo scelto per il proprio romanzo, Leviatano, forma e contenuto appartenenti a Peter Aaron, la voce del racconto.
Benjamin Sachs e’ scomparso da tempo, uno scrittore di talento che ha inghiottito la vita e che ha viaggiato da un capo all’ altro di se stesso fino a non sapere più chi fosse.
La notizia del ritrovamento in Wisconsin di un cadavere vittima di un’ esplosione farebbe pensare a un suicidio, un mistero irrisolto che riporta a Sachs, Peter decide di ricostruirne la trama dettagliatamente, riesumando accadimenti che solo lui conosce.
Una vita caratterizzata da una certa dose di casualità e dalla propria influenza, nelle figure femminili, negli incastri e nelle relazioni che avrebbero potuto non esserci.
Chi è Sachs, che cosa ha rappresentato per Peter, un esempio, uno scrittore di talento di cui provare invidia, ammirazione, nostalgia, un compagno di intelletto, un amico con cui condividere esperienze, amori, amicizie?
Di certo ne ha apprezzato vivacità, astuzia, imprevedibilità, sicurezza, assenza di timidezza, la precisione nella scrittura, per contro una certa goffaggine nei movimenti, accessi d’ ira nei confronti del mondo, un eloquio piuttosto sciatto.
Il romanzo che si va costruendo può non rispondere al vero ma essere una versione soggettivata, un ‘ invenzione letteraria, dettata dal senso di colpa, da una certa gelosia, da una ricostruzione presunta, desunta, non corroborata dalla certezza dei fatti.
E così la vita di Sachs si apre a segreti sepolti, la storia di un’ amicizia precoce che ha condiviso anni scolastici, un amore impossibile, amicizie, conoscenze, l’ importanza della scrittura, incastri di un puzzle che riporta avvenimenti finora inespressi, relazioni scomposte, un’ influenza reciproca indiretta, trame, intrighi, porzioni di relazioni e sentimenti.
Oltre al caos apparente e a un destino che poteva essere altro, vittima di un incidente al quale è sopravvissuto miracolosamente, che ne ha cambiato la vita radicalmente, dettato dal caso e dalla sfortuna ma di cui si ritiene complice, catapultato in un bagno di sangue di cui ne ignora l’ essenza, Sachs incarnerà un ideale di bontà che cambi radicalmente il proprio rapporto con se stesso, perso e ritrovato il viaggio nella scrittura, nella sua fine il suo principio e viceversa, non è dato saperlo con esattezza, un corposo manoscritto a testimoniarne l’ esistenza.
Leviatano percorre spazi e tempi paralleli, intrecciati, discordanti, pezzi di storie per raccontare un’ unica storia, il viaggio nella mente di un uomo scosso dagli eventi e percosso da un senso doloroso e fallimentare. Sensazioni, desideri, sentimenti solo un’ ipotesi, una vita caotica priva di reali punti di riferimento, lo sviluppo del romanzo un percorso postdatato all’ interno di uno scritto che è pura e semplice cronaca, intrecci costruiti ad arte, priva di un’ anima definente e di una credibile rappresentazione storica, tensione e costruzione narrativa racchiuse e rinchiuse in un viaggio che si riduce all’ inseguimento di un improbabile senso insensato.

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AndCor Opinione inserita da AndCor    29 Ottobre, 2024
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L'insanabile,ingannevole malignità del cuore umano

Ci troviamo in una città non ben definita della penisola iberica, fuori da una locanda frequentata da scapestrati e reietti dimenticati da Dio: Pedro Pires e Ricardo Rodrigues stanno discutendo del valore di un orologio d'oro dalla dubbia provenienza e della possibilità di ricavare qualcosa dalla sua vendita altrettanto lontana dai canali legali.
Inizia così un romanzo un po' thriller un po' noir un po' psicologico nel quale tre protagonisti apparentemente slegati ed eterogenei saranno costretti, loro malgrado, a intersecare le proprie strade più e più volte con corrieri per la droga, due strane annotazioni numeriche, pastiglie che sembrano comuni aspirine, un ambizioso imprenditore che punta alla scalata parlamentare, un carillon che divide il tempo della pace da quello della strage e fondi speculativi nascosti dietro una delle più grandi aziende chimiche del paese.

Con uno stile informale, un ritmo andante e numerosi riferimenti western, il testo non ricerca particolari finezze estetiche nel focalizzare l'attenzione del lettore su svariati intrallazzi che accomunano appalti, carriere, banche, Antiterrorismo e Servizi Segreti deviati.
Sono tanti i personaggi misteriosi e tenebrosi, "anelli di uno degli innumerevoli tentacoli di una piovra che stritolava e succhiava l'anima dei malcapitati", che si muovono in luoghi non troppo dissimili dai primi, vittime della loro stessa sete di potere e che non possono 'permettersi di diventare lo zimbello di nemici e avversari': l'imperativo, tra il romantico e il decadente, è nascondere il proprio essere dietro una facciata lontana dalla Realtà.

Un giallo d'esordio di tutto rispetto per lo scrittore crotoniate, che racconta in modo diverso "la solita storia: chi ha il potere lo esercita come meglio crede, corrompendo, minacciando, speculando sulle miserie e sull'ignoranza, e così, a volte, dietro la facciata perbenista dei potenti di turno, si nasconde il malaffare più scellerato.".

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Romanzi storici
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    28 Ottobre, 2024
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La Storia nella storia

L’ultimo romanzo di Fabiano Massimi è, semmai ce ne fosse ancora bisogno, una conferma ulteriore, l’ennesima direi, dello straordinario talento dello scrittore modenese nello scrivere una storia nella Storia. Massimi non è uno storico, solo un bibliotecario, un bibliofilo, uno studioso esperto, appassionato e curioso, per cui la Storia, almeno di un preciso lasso di tempo, la conosce benissimo, finanche nei suoi particolari meno noti al grande pubblico. E lo scrittore soprattutto di questo si fa forza, e insiste soprattutto, lavorandoci con talento e abilità, offrendoci una versione abilmente romanzata di fatti storici realmente avvenuti. Solo di alcuni, minimi però essenziali, che si incastrano mirabilmente nell’affresco più grande dei fatti noti, spulciando e insistendo perciò nei risvolti storici insoliti e sorprendenti, veri, non veritieri, fatti non ipotizzati, sussurrati, suggeriti, ma effettivamente accaduti. Scrive di particolari, insistendo più sui personaggi che sugli eventi di cui sono stati protagonisti loro malgrado. Trattasi di uomini, e donne, queste ultime in particolare, orbitanti a vario titolo nel vissuto dei Grandi Protagonisti dell’ultimo conflitto mondiale, la cui esistenza veniva abilmente celata dagli stessi e dal loro entourage, per motivi d'immagine, di opportunità, di decenza. Sono persone poste al limite delle luci della ribalta in cui si crogiolavano i presunti Grandi, e però depositari di verità e di ruoli molto delicati, importanti, che se portati alla giusta luce all’epoca, svelati all’opinione pubblica illusa e osannante, altrettanto repentinamente in caso di grave disillusione avrebbero influito nel cambiare il consenso truffaldinamente estorto. Se gestiti diversamente, e con onestà e rettitudine, da coloro che ne erano conoscenza, che tacquero perché complici, avrebbero potuto letteralmente riscrivere il corso della Storia, così come la conosciamo, orientandola diversamente, forse con un prosieguo meno tragico e doloroso. Questo è quanto ha fatto Massimi nei suoi precedenti lavori, per esempio ne “L’angelo di Monaco”, e poi il suo sequel “I demoni di Berlino”, lo studioso e ricercatore, il bibliotecario modenese prestato e prestatosi alla letteratura, aveva dato validissima prova di sé, narrando a modo suo l’ascesa al potere di Hitler e del nazismo romanzando con arte aspetti meno noti della storiografia ufficiale, e però reali, documentati, storicamente innegabili. In particolare, insistendo sulla figura di Angelika “Geli” Raubal, la nipote di Adolf Hitler, a lui affidata in qualità di tutore trattandosi di una giovanissima orfana. Aveva 20 anni meno di zio Hitler, ma ciò non impedì all’ astro nascente della politica tedesca d'instaurare un torbido rapporto incestuoso con la giovinetta. La natura incestuosa, la differenza di età, i capricci e le richieste pressanti della giovane di maggiore autonomia e visibilità destarono scandalo e preoccupazione nei vertici del partito nazionalsocialista, per il deleterio ritorno d’immagine che avrebbe indebolito il carisma del futuro Führer. Fin quanto un giorno la sventurata Geli fu trovata morta nell’appartamento di Hitler, si era nel 1931. La ragazza giaceva in camera da letto: apparentemente si era tolta la vita, usando però la pistola dello zio/amante, probabilmente fu invece uccisa perché ormai scomoda, allestendo una rapida messa in scena per sviare le indagini. Se solo si fosse avanzato il sospetto che fosse stato Hitler a ucciderla o a farla uccidere, certamente lo scandalo avrebbe nuociuto alla popolarità di Hitler con conseguente smacco alle imminenti elezioni e chissà, magari il corso della Storia sarebbe stata diverso. Su questa falsariga si svolge anche “Le Furie di Venezia”, questa volta siamo nel 1934 non più in Germania, ma nella città lagunare, Hitler è ancora sulla scena anche stavolta, e insieme a lui Mussolini. Ma il Führer qui è solo una comparsa, l’attenzione è tutta per il Duce, e per il suo comportamento misterioso e clandestino, ai margini dell’incontro di Stato tra i due dittatori. Il particolare insolito, il risvolto misterioso, che, se reso noto, avrebbe rappresentato il granello di sabbia in un meccanismo di consenso e propaganda finemente organizzato, stavolta è duplice: dapprima l’ esistenza di una donna, Ida Dalser, che afferma con forza e convinzione di essere la presunta prima moglie segreta di Benito Mussolini. Con tanto di presunte prove e riferimenti precisi al comportamento sospetto, di chi sa di essere colpevole ed è preda di paura e rimorso, del Duce, che appare effettivamente più ambiguo, guardingo e preoccupato del solito. Ma come se non bastasse, la Dalser rivela espressamente che Mussolini, all’epoca non ancora il Duce, e nemmeno in Parlamento, ma umile giornalista d’assalto, è il padre di suo figlio, quindi l’effettivo primogenito del Duce, di nome Benito Albino Dalser Mussolini, la cui esistenza pure viene tenuta volutamente celata con vari artifizi. Stiamo leggendo un romanzo, certo: ma i due sono realmente esistiti.
“…Mussolini non sopravvivrebbe a uno scandalo del genere…Un primo ministro non può concedersi certe libertà, nemmeno se è il Duce mandato dal Cielo…Esistono regole anche per lui…”
Ambedue sostengono, con forza, e per varie vie, di essere esattamente quello che dicono di essere, e certamente tutto quanto fece Mussolini per nascondere, negare e celare alla maggioranza questa storia, depone per una forte veridicità. Fatto sta che, se reso nota, questa storia avrebbe danneggiato gravemente l’immagine pubblica del Duce agli occhi degli italiani, sarebbe apparso come un miserabile bigamo, essendo già sposato con donna Rachele e padre di famiglia, ma soprattutto sarebbe apparso come in effetti era, falso, bugiardo, egoista e millantatore.
“…qui la forma è tutto, e il matrimonio, i figli, i giuramenti solenni sono sacri. Sacri. Un politico in privato può fare quello che vuole, combinare gli stessi guai di chiunque altro, ma se viene beccato è la fine.”
Un effetto dirompente, alla Matteotti, per dirla tutta; ma dato il gran numero di potenziali testimoni, e tutte persone perbene, non compromesse con il fascismo, stavolta non si poteva ricorrere a un Amerigo Dumini o un sicario prezzolato, la cosa migliore era fare tacere madre e figlio sì, ma senza ucciderli, per non creare troppo clamore, e però rendendoli inoffensivi, seppure in modo atroce: rinchiudendoli in manicomio, il che depone a favore della bella indole del dittatore italiano. Ma è davvero così? Se per una volta, Mussolini fosse stato veramente innocente, solo per questa volta una vittima, che nulla ha a che fare con due truffatori, che sono veramente due poveri mentecatti fuori di testa, millantatori comunque sgraditi al potere, perché magari, senza neanche volerlo, potevano essere a loro volta manovrati dalla Resistenza ai fini di propaganda antifascista? Infatti:
“…Uno scandalo ben piazzato potrebbe fare al caso nostro quasi quanto un attentato riuscito…si accorse che in tanti avevano sperato la stessa cosa per il caso Raubal, tre anni prima.”
Ecco, Massimi con questo romanzo dimostra la sua raggiunta maturità di storico e di romanziere, lascia in qualche modo la questione irrisolta, offre una ricostruzione rigorosa, ben scritta, come suo solito, gradevole e scorrevole poi però come ogni buon scrittore mostra, e non dice, l’interpretazione la lascia al lettore, a suo gradimento. Fabiano Massimi lo sa bene, la Storia è maestra di vita, ma la storia nella Storia è una delizia dell’esistenza, appartiene al lettore, a lui va lasciata, perché la gestisca come meglio crede: è il bello della lettura. Lui si limita a suggerire: leggiamo, e raccontiamo storie. Perché una certa Storia, non accada mai più.

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Fabiano Massimi
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andrea70 Opinione inserita da andrea70    28 Ottobre, 2024
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La ringhiera sul cortile

Un romanzo che è composto da una serie di rimandi, omaggi o chiamateli come volete a varie opere di fiction che sia letteraria o presa dalla TV.
Abbiamo quindi la banda scalcagnata di improbabili rapinatori di un caveau apparentemente inespugnabile i cui componenti si danno nomi inventati per non essere immediatamente riconoscibili , peccato che la maggior parte di essi abitino nella stessa casa di ringhiera a Milano.
Gli spostamenti ed i comportamenti dei vari componenti diventano presto diversi dalle loro abitudini e quindi sospetti per gli altri condomìni i quali finiscono per voler curiosare dove non dovrebbero e inguaiare ulteriormente gli autori del colpo che già di loro non brillano per efficacia e iniziativa.
Storiella abbastanza esile in cui la parte più interessante è riconoscere nella trama e nelle vicende i film o i romanzi da cui traggono ispirazione le vicende e la particolare scrittura dell'autore che instaura una sorta di dialogo parallelo tra i personaggi e la sua figura un pò come fece Camilleri nel suo romanzo postumo "Riccardino" , quello che in quel romanzo veniva esplicitamente chiamato come l'Autore , in questo racconto rimane una figura mai precisata, quasi un componente esterno alla banda di delinquenti improvvisati, colui che può al fine decidere del loro destino. I personaggi dialogano tra di loro parlando dell'evolversi della trama e manifestando le loro perplessità in proposito come se si trattasse del copione di una recita o di un film e loro fossero degli attori.
Alla fine non si capisce bene cosa dovessero rubare e perchè , rimane una lettura curiosa ma abbastanza banale.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    28 Ottobre, 2024
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Spigoli vivi

E’ una storia di incontri e scontri generazionali, che prende vita da un fatto di cronaca e, liberamente, ne viene costruita attorno una storia, di una mamma e di una figlia, di una mamma che è anche figlia e di una figlia che è anche nipote. Al centro c’è una terra, fatta di semplicità, di umiltà e di buoni valori e sullo sfondo c’è una città, fatta di luci che possono abbagliare e far brillare gli occhi, ma che possono anche ferire e lasciare segni. Ci sono parole che possono fare male, ma anche silenzi che possono essere ancora più taglienti. Come gli spigoli vivi che fanno attrito fra queste tre generazioni così diverse e così altrettanto fragili, perchè le età fragili sono tre. Tutte e tre. Spigoli vivi che è la realtà poi a rompere o a smussare. I personaggi sono molto belli, soprattutto la protagonista. E’ bello il vissuto che si portano dentro, la gestione dei loro rapporti. Perchè il destino delle madri è non poter più proteggere i figli, a un certo punto. Ma esserci sempre se i figli tornano da loro. E vedere, vivere questa donna anche nel suo ruolo di moglie e, soprattutto, di figlia, mi ha fatto riflettere. Romanzo moderno, molto ben scritto, profondo, sincero, schietto, anche un po' crudo, ma molto vero.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Ottobre, 2024
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Madre o non madre

«[…] Ho imparato che la speranza quando è troppa diventa certezza. Che non è verde e nemmeno gialla. La speranza è nera, perché ti distrugge.»

“Cose che non si raccontano” è un romanzo dalle tinte autobiografiche che arriva al lettore per la naturalezza e autenticità dei contenuti. Da ammirare anche il coraggio dell’autrice che si mette a nudo, e ci mette a nudo, su una tematica non semplice e non scontata che riguarda la difficoltà delle gravidanze passando dal desiderio della maternità e arrivando a quelle che sono le complicanze mediche ivi correlate.
Ed è proprio partendo da questo presupposto che arriva sin da subito la schiettezza dolorosa della penna di una persona che ha tanti dubbi, paure, quesiti. Ha anche un compagno, Andrea, tanti amici affezionati, ma pochi sono coloro a cui davvero può confidarsi e/o aprirsi. Tanti, ancora, i sensi di colpa, le speranze che accompagnano nel viaggio. Perché oggi come oggi è un po’ come se si fosse “incompiuti” senza una prole al seguito, ma è anche vero che la maternità non è una scelta di tutti e per tutti. Ed è ancora più vero quel senso di colpa che sopraggiunge per due aborti compiuti in una giovane età dove figli non erano possibili rispetto a una età adulta dove non sembrano proprio voler arrivare.
Un desiderio di maternità che viene osteggiato anche dalle circostanze lavorative, dal Covid e tante piccole cose che sembrano sommarsi per complicare ulteriormente il proposito.

«[…] Che ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non sono mai esistite. E se non le dico non esistono.»

Tra queste pagine tanto è rimandato al passato con la consapevolezza di un presente e di scelte prese e su cui si riflette a posteriori. Ci rivolge al passato in modo lento e talvolta discontinuo per poi tornare a sognare verso un futuro ancora ignoto. C’è un desiderio latente di condivisione, c’è un desiderio latente di espressione del proprio sogno e del proprio vissuto. Come un memoir, come un frammento da ricostruire e dove nulla è lasciato al caso o è per caso.

«Le persone non sanno mai quello che fai per loro. E tu non sai mai quello che fanno per te.»

“Cose che non si raccontano” di Antonella Lattanzi non è un libro per tutti. Tratta un tema presente ma spesso taciuto e lo fa impostando il testo come un lungo soliloquio condotto con se stessa. Se da un lato la scrittura è dolorosa e intima, dall’altro suscita un effetto respingente che fatica a trattenere. Alcuni caratteri sono maggiormente approfonditi rispetto ad altri che, al contrario, sono vissuti in modo più superficiale (volontariamente). Non di tutte le voci è presente una caratterizzazione specifica e questo può suscitare un senso di mancanza.
Una lettura che si pone e ci pone molte domande ma che non ha la pretesa di trovare anche le risposte a queste.

«La vita è quello che succede mentre combatti contro la paura? Oppure sono tutti gli attimi di gioia e inconsapevolezza che riesci a ricavarti per non farti prendere dalla paura?»

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Romanzi
 
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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    26 Ottobre, 2024
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La Strigossa

"Fu proprio allora che la bambina si guadagnó il nome di Fumana, che poi nella bassa vuol dire appunto nebbia".

Nell’ultimo libro di Paolo Malaguti la storia di Fumana nata “vestita”, e quindi secondo le credenze popolari dotata di un talento non comune che si manifesta nella capacità di “sapere segnare” certe malattie, si riesce a comprendere a pieno solamente legandola al territorio in cui vive. La provincia di Rovigo ed il basso Veneto, quella terra di confine “dove non sai dire con certezza cosa è terra, cosa mare e cosa fiume perché tutto è impastato e confuso”, abitata da agricoltori e pescatori di anguille che frequentano “Il Canal Bianco” e le golene. Un territorio immobile in cui “le nebbie levano ogni prospettiva, che non sai più dove vai”, nel quale lo spazio si mescola con il tempo e la storia di Provincia si trasforma progressivamente nella storia d’Italia di fine ‘800 e metà ‘900, quando le vicende nazionali come l'avvento del fascismo prima e la Seconda Guerra Mondiale dopo, permeano e condizionano le vicende personali. In questo humus si colloca la storia di formazione di Fumana, allevata dal nonno Petrolio, pescatore di anguille, poi cresciuta dalla Lena, la “Strigossa” della zona che la inizia ai segreti delle erbe e della Natura con l’intento di curare la gente. Fumana a sua volta ne prenderà il posto, ma sta proprio in questa dimensione che Malaguti riesce a mostrare ai nostri occhi di lettori del XXI° secolo, l’arretratezza di un mondo contadino in fin dei conti non così lontano, nel quale essere guaritrice, diventare una "Striga" significa anche essere considerata un’emarginata, una diversa, una donna temuta ed odiata al tempo stesso, ad esempio dalla suocera che non le perdonerà mai di avere addescato e sedotto il proprio figlio.

Partendo da questi elementi il romanzo acquisisce un valore aggiunto perché si manifesta come una storia di ribellione, di emancipazione femminile. Fumana non teme le etichette affibiatele, ed orgogliosamente si costruisce il proprio futuro, decide di dare speranza ad una bambina rimasta orfana, soffre ed a denti stretti continua a progredire in quanto comprende “di essere in grado di fare del bene, e di avere quindi un senso, un ruolo preciso in quella fetta di mondo nella quale era nata”. Il tutto viene altresì raccontato avvalendosi di uno stile ibrido, in quanto il Malaguti veneto riesce ad alternare il registro della lingua italiana agli idiomi dialettali e popolari, con l'effetto di rendere la narrazione più realistica e piacevole.

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Avventura
 
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andrea70 Opinione inserita da andrea70    25 Ottobre, 2024
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AVvincente

L'autore cambia registro rispetto al precedente romanzo "Le sette morti di Evelyn Hardcastle", non più una vicenda che si ripete ossessivamente,
vissuta da una moltitudine di punti vista ognuno dei quali dovrebbe aggiungere un tassello per completare il puzzle che risolva il mistero.
Qui torniamo su canoni più classici: una nave parte dalle Indie olandesi alal volta di Amsterdam con un carico che si dice preziosissimo ma altrettanto
misterioso nella sua natura, tra personaggi potenti e altri che aspirano a diventarlo, intrallazzi di corte, intrighi e una maledizione lanciata alla nave
prima che salpi. A bordo si verificano fatti gravi ed inquietanti e l'unico che potrebbe avere le abilità per dipanare la matassa è un famosissimo
investigatore, Samuel Pipps, che viene però tenuto prigioniero in una angusta cella per un motivo non specificato.
La vicenda si sviluppa in un contesto storico fatto di superstizione e particolare suggestione verso la magia e l'occulto e ben presto l'equipaggio si convince
che quanto accade sulla nave sia opera del diavolo o abbia a che fare con la maledizione lanciata prima della partenza.
La guardia del corpo di Pipps indaga, aiutato da una nobildonna poco inline a seguire i dettami di bon ton dell'epoca riservati ad una signora.
Si fatica un pò ad entrare nel vivo della vicenza anche per la mole di personaggi che la popolano, molti dei quali rivestono ruoli importanti ai fini della trama,
rendendola di fatto parecchio complessa e intricata con alcuni colpi di scena che scombussolano le carte in tavola quando al lettore pareva di aver capito
qualcosa di fondamentale. Bella descrizione storica e dell'ambiente e degli usi e costumi marinareschi, da metà in poi ci si ambienta e la lettura diventa
parecchio intrigante fino al finale che spiega tutto e riporta i fatti in una dimensione assolutamente razionale e spiegabile con la scienza e non
con l'esoterismo e la magia.

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Fantasy
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    25 Ottobre, 2024
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Cagna-regina spuntafuoco non si può sentire

Nonostante io sia ormai entrata nel vivo della saga, ammetto che portare a termine la lettura di "Regina delle ombre" non è stata un'impresa da poco. E non solo perché si tratta di un tomo parecchio corposo, ma in particolar modo per la dispersività dell'intreccio, che mai come in questo quarto (o quinto, a seconda dei punto di vista) capitolo dimostra il talento della cara Sarah a raccontare in trecento pagine degli avvenimenti che qualunque altro autore avrebbe saputo condensare in cinquanta al massimo. Andiamo quindi a vedere quali sono gli spunti principali della trama.

In questo volume il continente di Erilea torna ad essere la sola ambientazione, e più in particolare si rimane all'interno dei confini del regno di Adarlan. Per quanto riguarda Aelin e la sua neonata corte, i loro obiettivi nell'immediato riguardano il ritrovamento dell'Amuleto di Orinto e la restaurazione della magia bandita dal re; questa linea di trama va ad includere un corposo numero di POV già visti nei libri precedenti, ma ciò non allontana mai di molto l'azione dal filone principale, al massimo vengono incluse delle quest collaterali per salvare determinati personaggi. Gli altri capitoli sono riservati quasi interamente a Manon ed alla neo-arrivata Elide, che dalla fortezza di Morath continuano a fornire al lettore un focus sui piani degli antagonisti.

A differenza di quanto successo ne "La corona di fuoco", queste vicende finiscono poi per collimare, tanto che l'intervento di Manon risulta decisivo al momento della resa dei conti con il re di Adarlan. Ovviamente ho apprezzato molto questa convergenza, perché contribuisce a dare un maggior senso di concretezza alla storia. Le vicende di Morath risultano piacevoli anche per l'introduzione di Elide (prima menzionata di sfuggita nei flashback), che si rivela un personaggio molto più interessante e combattivo di quanto la sua presentazione lasci intendere.

Rimanendo nell'ambito dei personaggi, Lysandra conquista a mani basse la mia preferenza in questo romanzo: già l'avevo apprezzata nella sua prima apparizione (avvenuta ne "La lama dell'assassina"), ma qui la sua caratterizzazione ha fatto passi da gigante, portando a termine un emozionante percorso personale e stringendo dei credibili rapporti di amicizia. Più in generale, mi sono piaciute quasi tutte le interazioni all'interno del cast; un paio rimangono ad un livello superficiale, ma la maggior parte dimostra una buona solidità e porta a diversi confronti significativi.

Non tutti i personaggi si meritano però le mie lodi! Aelin dimostra di avere ancora parecchia strada da fare nel suo nuovo ruolo di leader vista la sua mentalità molto orientata all'individualismo; Aedion e Dorian per motivi diversi sono spesso tagliati fuori dall'azione vera e propria, mentre Chaol parte con dei buoni spunti in mente per poi combinare poco o nulla: per la maggior parte del volume risulta quasi un comprimario. Ancora una volta sono però gli antagonisti a deludere, in parte perché la loro fama fa sperare in qualcosa di meglio (specie nel caso di Arobynn, infatti la stessa Aelin ammette di non aver capito a cosa mirasse alla fine dei conti) ed in parte perché la loro volontà di dimostrarsi malvagi ad ogni costo prevale sul buon senso.

Come già menzionato, il grosso difetto di questo libro rimane il ritmo fiacco della prima parte, che tra allungamenti e ripetizioni copre ben 400 pagine. Tra i punti a sfavore troviamo ancora una volta la traduzione poco scorrevole e le piccole contraddizioni interne, che in più scene lasciano interdetti. Ed un po' interdetti lascia anche il finale, il quale arriva a chiudere tante linee di trama, forse troppe se consideriamo i tre (gargantueschi!) volumi che ancora mi attendono in questa serie.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    24 Ottobre, 2024
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Un'isola e i suoi segreti.

E' il quinto romanzo di Paula Hawkins, scrittrice e giornalista britannica, ben nota per il famoso best seller del 2015 "La ragazza del treno" . Ambientato in Scozia, narra le vicende di un'artista famosa, Vanessa Chapman, della sua amica Grace e di una facoltosa famiglia, quella di David Lennox, filantropo e mercante d'arte, titolare della Fondazione Fairburn, responsabile della raccolta e conservazione delle opere di Vanessa. Vanessa vive ad Eris, un'isola deserta, una sola casa, una sola via d'uscita, irraggiungibile dalla terraferma per l'alta marea che si alterna a periodi in cui una strada è percorribile. Vanessa ha un carattere bizzarro, è scontrosa, testarda, suscettibile, è sposata con Julian, un viveur spensierato, che va e viene, amato e odiato, sempre in caccia di soldi. Grace è l'amica inseparabile: un medico ormai in pensione, non bella, piccola, dal carattere tenace, piena di complessi, diventata nel tempo curatrice delle creazioni di Vanessa ( sculture, ceramiche, quadri , composizioni passate nel tempo dal figurativo all'astratto) e poi, dopo la morte per cancro dell'artista, esecutrice testamentaria per conto della Fondazione. Fondazione con personaggi forti, incisivi nella narrazione: David Lennox, già amante di Vanessa, fatto fuori dalla moglie, un'acida nobildonna, in un "incidente" di caccia, il figlio Sebastian, un bellimbusto superficiale fidanzato di quella che poi, d'improvviso, preferirà sposare Becker, l'amministratore della Fondazione, un personaggio di spicco del giallo, incaricato di tenere i contatti con Vanessa e di organizzare mostre e convegni. Queste le figure principali, che si muovono e agiscono in un'atmosfera quasi surreale, carica di veleni e sospetti, tra terraferma e la casa di Vanessa su Eris, battuta dai venti e dalle onde, dove l'artista cerca nuove ispirazioni e trascrive i suoi tormenti interiori su un diario, non datato, che la Hawkins riporta tra un capitolo e l'altro del libro. Il fatto decisivo del racconto è dato da una scoperta sensazionale: un osso riportato da Vanessa in una sua composizione non è di cervo, come descritto, ma umano, scoperta avvalorata da validazione scientifica. Vanessa ormai non c'è più, distrutta da un male incurabile, le indagini, portate avanti da Becker, coinvolgono Grace, che si chiude in ostinati silenzi. Ma altri misteri rendono inquietante l'atmosfera di tutta la vicenda: la scomparsa nel nulla di Julian, il marito di Vanessa, e di un altro giovane, amico di lunga data di Grace. E poi: quale potrebbe essere la provenienza dell'osso umano contenuto nell'opera d'arte?
I misteri si risolveranno negli ultimi capitoli, con un crescendo di colpi di scena emozionanti e magistrali, in un'atmosfera cupa e inquietante: la Hawkins ci dà in queste pagine il meglio del suo stile narrativo, elegante ed incisivo, sempre sospeso tra mistero e realtà dolorose e sofferte.
Raramente in un romanzo classificato "giallo" si evidenzia una così marcata e minuziosa introspezione psicologica dei personaggi principali. Vanessa e Grace emergono su tutti con i loro caratteri ed inclinazioni. Vanessa, tormentata e insicura, desiderosa di amore e nel contempo di solitudine per meglio affrontare le sue sperimentazioni artistiche, trova in Grace una compagna fidata, non l'anima gemella, ma una presenza sicura alla quale confidarsi nei momenti bui ma anche disposta ad essere accantonata ed insultata. Grace sopporta, si accontenta di vivere nell'ombra, apparentemente felice quando capisce di essere a volte indispensabile: dentro di lei però ribollono insoddisfazione e complessi di inferiorità, una sorta di pericoloso crinale che la condurrà a conseguenze inimmaginabili.
Nel romanzo, infine, c'è una definizione dell'arte che Vanessa cita in un'intervista, e che mi piace riportare : " L'arte è eredità, è conforto. Calma, consola, stimola. E' lavoro. E' quello che fai tutto il giorno. E' come risolvi le cose, come capisci il mondo. E' l'occasione per ricominciare, per cambiare pelle, per vendicarsi. Per essere buoni, per vivere a lungo".

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Altri gialli dell'autrice.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.3
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lapis Opinione inserita da lapis    24 Ottobre, 2024
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Perdere e ritrovare

Thriller, romanzo fantapolitico, ucronia, non so quale sia la definizione più calzante, sicuramente Fatherland è un’opera che non lascia indifferenti e stimola riflessioni sulla società attuale. Poco importa che parli di un mondo che non esiste, è proprio la cecità di quel mondo a imporre al lettore di interrogarsi sul proprio.

"- Cosa si può fare se si dedica tutta la vita a smascherare i criminali e a poco a poco ci si accorge che i veri criminali sono quelli per cui si lavora? […]
- Immagino che si perda la ragione.
- Oppure può succedere di peggio. La si può ritrovare".

L'autore parte da uno scenario già sperimentato in letteratura: un corso alternativo della storia. La Germania ha vinto il secondo conflitto mondiale e, nel 1965, si appresta a festeggiare il 75mo compleanno di Hitler. Berlino si è ridisegnata ergendo colossali monumenti a testimonianza della propria supremazia. Il resto del mondo si è piegato: l’Europa pullula di paesi fantoccio filonazisti, la Russia cerca di resistere con gli ultimi fuochi di ribellione e persino gli Stati Uniti sono ormai pronti a un accordo.

Nel potente e prospero Terzo Reich non si può parlare, tantomeno dissentire, perché le SS hanno orecchie ovunque e non perdonano. Eppure qualche voce sussurrata sfugge al silenzio. Cosa succede davvero a est? Dove sono finiti milioni di ebrei? Nel corso dell’indagine per omicidio di un gerarca nazista, l’integerrimo poliziotto Xavier March si imbatterà in indizi e sospetti che allargheranno la prospettiva verso interrogativi scomodi e pericolosissimi. March non potrà fare altro che lanciarsi all’inseguimento di una verità terrificante capace di sconvolgere tutto ciò in cui credeva.

"Parlano di fosse comuni, di esperimenti medici, di campi dove la gente entrava e non usciva più. Parlano di milioni di morti. Ma poi arriva l'ambasciatore tedesco tutto elegante e racconta che si tratta soltanto di propaganda comunista. E così nessuno sa cosa è vero e cosa non lo è. E posso aggiungere che alla maggior parte della gente non importa nulla".

Lo storico Robert Harris compone un romanzo in cui fatti documentati e veri personaggi storici si miscelano in modo davvero convincente alla fantasia dell’autore riuscendo, grazie all’espediente del giallo, a bilanciare il gusto per il dettaglio storico e la precisione descrittiva a una narrazione dal ritmo incalzante. Quello che sconvolge il lettore è rendersi conto di non trovarsi al cospetto di un’inconcepibile allucinazione ma di un mondo dalle sembianze credibili, di un potere che si insinua nella mente, di persone normali, concentrate sul proprio benessere, che vivono la propria quotidianità senza farsi troppe domande. Tutto ciò lo rende un romanzo interessantissimo, ieri come oggi.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    23 Ottobre, 2024
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Potevo rimanere offeso!

La passione di Christie per il mondo della recitazione è indiscutibile, e "Tragedia in tre atti" risulta essere uno dei migliori esempi di come l'autrice abbia saputo intrecciare una solida trama mystery attorno alla tematica. In questo romanzo infatti non solo tra i personaggi troviamo attori e sceneggiatori, ma la struttura stessa del volume richiama quella di un'opera teatrale. E proprio per questo mi ha meravigliato realizzare quanto poco fosse presente un personaggio tanto plateale come il buon Hercule!

Richiamando (o meglio, anticipando) una vicenda simile a quella di "Assassinio allo specchio", veniamo trasportati nella località costiera cornica di Loomouth, dove da qualche tempo risiede il noto attore teatrale Sir Charles Cartwright. Nei primissimi capitoli del libro, il baronetto organizza una festicciola per amici e conoscenti, durante la quale il reverendo Stephen Babbington muore in circostanze poco chiare. Il tutto viene però archiviato, fino a quando una nuova morte sospetta spinge i personaggi a tracciare dei collegamenti ed a cercare un possibile movente per l'omicidio del mite pastore.

A portare avanti un'indagine parallela a quella delle forze dell'ordine non è però l'immodesto detective belga, bensì lo stesso Sir Charles; a supportarlo durante perquisizioni ed interrogatori troviamo la sua giovane innamorata Hermione "Hermi" Lytton Gore e l'amico di vecchia data Satter. Quest'ultimo è nei fatti il POV più ricorrente nel romanzo, oltre a rappresentare l'ennesimo caso di crossover all'interno dell'universo narrativo di Christie: personalmente l'avevo già incontrato in un racconto presente nell'antologia "Tre topolini ciechi" (del quale ammetto di non avere un ricordo granché positivo), ma la sua prima apparizione ufficiale risale alla raccolta del 1930 "Il misterioso signor Quin". È giusto precisare che in entrambi i casi veniva chiamato con il cognome esteso Satterthwaite, quindi non riconoscerlo immediatamente è del tutto comprensibile.

La prospettiva di Satter rientra per me tra i pregi del volume, perché lo reputo un personaggio affascinante e divertente; e questo nonostante il suo contegno sia molto lontano dalla frivolezza di Hastings, qui del tutto assente (sarà tornato in Argentina?). Ho trovato molto simpatici anche i tanti cenni metaletterari ed i commenti sopra le righe fatti dai protagonisti mentre portano avanti la loro indagine in modo decisamente amatoriale, e proprio per questo a tratti esilarante.

Come accennato il tema del teatro, ricorrente nelle opere christieane, rientra parimenti tra i punti di forza del libro. Il vero pregio a mio avviso è però da individuare ancora una volta nell'arguzia dell'intreccio narrativo: la cara Agatha è abilissima nel portare il lettore lontano dalla verità, fornendogli al contempo tutti i mezzi per decriptarla. E pur avendo già letto colpi di scena simili (ma in pubblicazione successive!), devo dire che la risoluzione mi è sembrata del tutto coerente e molto soddisfacente.

Ed i piccoli difetti, tra i quali la scarsa presenza di Poirot in scena, non riescono più di tanto ad offuscare la piacevolezza della lettura. L'unico aspetto sul quale ho davvero da ridire è l'eccessiva rapidità, che ho individuato ironicamente sia nelle prime pagine -nelle quali non viene concesso al lettore il tempo sufficiente per fare la conoscenza dei personaggi- sia nell'epilogo, dove l'aggiunta di un breve capitolo a parte per concludere la sottotrama romantica avrebbe reso il tutto meno forzato e di cattivo gusto.

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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    22 Ottobre, 2024
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Vita destino

Frank Bascombe, oggi settantaquattrenne, una vita tra mille peripezie con un certo grado di soddisfazione, mentre riflette su ciò che ha attraversato e a cui è sopravvissuto ( due matrimoni, la morte del primogenito, della prima moglie moglie, dei genitori, un tumore, una ferita da arma da fuoco) , sul senso di una felicità che ritiene essergli appartenuta, è costretto ad aprire l’ ennesimo capitolo doloroso della propria esistenza occupandosi del figlio quarantasettenne Paul colpito dai sintomi della SLA, uno stato di precarietà al quale concedere ancora una parte di se’.
Frank e Paul, visioni inconciliabili all’ interno di differenze caratteriali, da una parte fierezza ed egocentrismo, dall’ altra introversione e precarietà, due pianeti allineati dal viaggio in un luogo dove Paul non vorrebbe andare, diretti al più nazionale dei monumenti nazionali, quel monte Rushmore con suoi presidenti rincorrendo uno spirito condiviso che non c’è mai stato.
Paul si mostra in una condizione di apparente normalità, in fuga da una clinica e da cure inefficaci, in realtà colpito dalla perdita progressiva di sensibilità, forza, autonomia, per Frank è complicato prendersi cura di lui, da sempre avvezzo solo a badare a se stesso.
È il momento di farlo, interrogandosi sulla propria finitezza prima che cali definitivamente il sipario, sondando vita e felicità’, uno stato di convivenza tra un recluso e un vecchio nostalgico, il senso riabilitato dalla propria presenza prima della morte dell’ altro e di una parte di se’, scongiurando la fine e affermando la vita in quel mentre, una meta turistica che non è il fine ne’ la fine del viaggio.
Frank e Paul vivono il presente, incontri eccentrici, battute sagaci, racconti surreali, una giostra di maschere e colori di un’ America roboante e paradossale, sovente in disaccordo tra loro, con visioni difformi, separati da lutti e affetti lontani, poco tempo condiviso, il sense of humor a stemperare una tensione latente, quella malattia che avanza inesorabile confrontandoli con l’ attualità.
Paul è da sempre emarginato, aveva un lavoro, una moglie, frequentava una piccola schiera di amici singolari quanti lui, una vita all’ insegna dell’ insuccesso.
La lunghezza del viaggio sembra inasprire la lontananza tra padre e figlio acuendo la paura di mettersi a nudo, l’ uno di fronte all’ altro, pensieri difformi, visioni egocentriche, immersi e sommersi dalla propria concezione dell’ esistenza, per aprirsi gradatamente alla condivisione e alla conoscenza, alla morte e al senso della vita, visualizzando la fine prossima, domandandosi cosa significa sopravvivere al proprio figlio.
C’è un momento in cui ci si trova al cospetto della morte, Paul impreparato ad affrontarla, lui che non è mai stato in grado di vivere la vita seriamente, che non ha avuto abbastanza esperienze.
Guardandolo Frank prova un’ innegabile senso di paura e di negligenza, per non averlo trattato da adulto, per averlo sottovalutato, dimenticato, un quarantasettenne pingue, mezzo pelato, poco pratico e propenso all’ ascolto, a volte noioso, un trombone, questi i pensieri di un padre al cospetto del proprio figlio.
Si confronta con la propria maturazione e invecchiamento, in se’ una certa somiglianza tra salute e malattia, sogno e veglia, contentezza e dispiacere, stupore e indifferenza.
Nel momento in cui ci si sta occupando di un figlio morente tutto il resto perde di senso, il lungo viaggio, metafora della vita, è condivisione di un qualcosa che non si sarebbe fatto insieme, mentre una voce risuona dentro di se’….


…”La verità è che non so cosa fare con te. E nemmeno se so fare qualcosa per te.”…

Frank sta vivendo qualcosa al di sopra delle proprie forze, lui e Paul accomunati da un certo conformismo e da uno scarso senso di avventura, gli basta guardarlo mentre dorme per certificarne la presenza, si commuove in questo crocevia dell’ esistenza colto dall’ inevitabile sconfitta di un padre percosso da un dolore così grande.
Eppure in lui c’è e si mantiene un se’ che ancora inneggia alla vita, che non si arrende al dolore della perdita, allineato a una felicità che abbia un senso, un soffio vitale che lo spinge a guardarsi dentro, a ritenere la morte in relazione con la vita, che lo spinge a condividere esperienze, conoscenze, passioni, desideri, azioni quotidiane ripetute, evitando un doloroso stato di isolamento, come desidererebbe il figlio Paul.
Giusto o sbagliato che sia questo è Frank Bascombe, a suo modo innamorato della vita.

…” che in fondo è il motivo per cui siamo qui. Rendere giustizia alla vita, a prescindere dal tipo di persona che siamo. O sbaglio?”…

“ Per sempre “ è una riflessione prolungata su vita e destino, sul senso di una felicità infranta da uno stato di precarietà, dal respiro futuro di una morte che si sente imminente, è un legame costruito all’ interno di questo stato, un viaggio che esula dal proprio senso primario.
Frank Bascombe tira le fila del proprio esistere, eccessivo, dissoluto, turbolento, scopre una porzione di se’ e tratti ignoti anche a se stesso, riconsidera il passato in funzione del presente, laddove la dolorosa e inspiegabile perdita di un figlio parrebbe arrestare ogni desiderio possibile.





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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    22 Ottobre, 2024
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Il dolore che non si vede

La neve in fondo al mare è qualcosa che non ti aspetti. Così come non ti aspetti che un figlio, nel pieno della sua giovinezza, che dovrebbe essere una fase di esplosione di vita e di vivacità, si senta fuori posto nel mondo e anche in famiglia. Questa è la storia di un figlio e di un padre, che, insieme, si ritrovano a combattere il senso di estraneità del figlio nei confronti della vita. Così come succede a tanti altri figli e a tanti altri genitori. Non a caso, tanta parte della storia è ambientata in un particolare reparto dell’ospedale e i dialoghi fra i genitori ci fanno capire quanto non si tratti di un caso isolato. Fra di loro c’è un analogo spaesamento, una comune sensazione di impotenza e la sofferenza condivisa funziona da cemento per le relazioni umane, tanto che fra questi genitori si creano legami, sinergie, comprensione, condivisione. Sono genitori con i lividi della battaglia quotidiana con i figli, uomini e donne che, a volte, si sentono una fotocopia sbiadita di quella che una volta era la loro vita, ma che non smettono di cercare un dialogo. E quando succede che un figlio apre, anche solo timidamente, un piccolo spiraglio per il dialogo, a loro non si apre solo una porta, ma un mondo intero e si apre il loro cuore, perché il dolore che si era visto era la spia di quel dolore profondo e molto più grande che non si vedeva.

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andrea70 Opinione inserita da andrea70    21 Ottobre, 2024
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Fermata senza viaggio

Uno scrittore di successo ha abbandonato la ribalta da alcuni anni, non ha più pubblicato alcun romanzo e si è silenziosamente eclissato dal suo pubblico.
Una sera tre uomini si introducono nella sua villa per quella che sembrerebbe una rapina ma uno dei rapinatori ha qualcosa di molto personale da rinfacciare allo scrittore e finisce per ucciderlo. I rapinatori fuggono con un bottino composto da denaro contante e da un certo numero di taccuini su cui lo scrittore avrebbe preso appunti per futuri romanzi .
Ma non riusciranno a godersi il malloppo, due di loro ci lasciano la pelle e l'unico sopravvissuto viene arrestato per un altro crimine e condannato all'ergastolo.
La valigia col bottino rimane sepolta per trent'anni in un bosco fino a che un ragazzino con problemi familiari non la ritrova casualmente , dapprima usa i soldi per aiutare la famiglia poi, crescendo si appassiona di letteratura, in particolare dell'autore di tre romanzi di grande successo assassinato
trent'anni prima durante una rapina finita male, ci metterà a questo punto molto poco a capire l'importanza dei taccuini che dapprima lo affascinano dal punto di vista letterario, immaginate di poter leggere i nuovi romanzi mai pubblicati del vostro autore preferito, poi protraendosi i problemi finanziari dei suoi ed essendo terminati i contanti nella valigia, decide di far fruttare i preziosi taccuini cercando di venderli sul mercato delle opere letterarie rare ma commette un'imprudenza che lo mette in serio pericolo. Nel frattempo il ladro dei taccuini ha scontato gli anni minimi previsti dalla legge americana come ergastolo e una volta uscito l'unica sua ragione di vita è tornare in possesso di quanto aveva rubato e accuratamente nascosto in un bosco, è disposto a tutto pur di tornarne in possesso accecato da una rabbia covata per oltre trent'anni.
La situazione per il giovane protagonista diventerà rapidamente drammatica ma troverà degli insospettabili ed inattesi alleati.
Tornano temi cari al Re come il rapporto a volte malato tra l'autore e i suoi lettori (Misery) , l'adolescenza con le sue difficoltà nel crescere e nel rapportarsi con il mondo degli adulti e via discorrendo .
King si avventura nel genere poliziesco portandosi appresso la consuetà capacità di raccontare storie e personaggi ma fuori dal suo territorio in cui il fantastico ed ilsoprannaturale trasfigurano la realtà o servono da espediente per descrivere le paure che ci portiamo dentro, alle prese con incubi totalmente reali senza ombre e sussuri, perde un pò di smalto e scrive una storia che scorre anche bene ma non da brividi, manca clamorosamente di pathos nonostante la drammaticità delle situazioni .
Ti sembra di stare guardando un telefilm alla TV in cui sai che i buoni alla fine la scamperanno (la scamperanno ? Non dico nulla) e in fondo non riesci ad entrare in quel mondo alternativo che di solito crea King perchè quello di questo romanzo assomiglia troppo alla nostra realtà quotidiana, non ti fa "viaggiare".
Un King in tono minore come ha giustamente sottolineato qualcuno, godibile ma che non rimane nel cuore e per un affezionato lettore del Maestro è una pecca enorme.

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andrea70 Opinione inserita da andrea70    21 Ottobre, 2024
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I qui assenti

Un ragazzo un pò scapestrato, Oscar, reduce da problemi di droga ha come fidanzata una giovane di buona famiglia, studiosa e tranquilla, insomma due anime diverse che si sono però trovate e comprese più di quanto abbia fatto con loro il resto dell'umanità.
Una sera dopo l'ennesima notte brava, alla ricerca di un posto sicuro dove smaltire gli eccessi, Oscar va a dormire a casa della giovane .
Al mattino quando i ragazzi si svegliano si trovano di fronte uno spettacolo fantascientifico : il mondo è una immensa distesa di colore bianco, senza altri colori senza suoni, nulla.
I luoghi sono un nulla candido, le persone sono scomparse.
Oscar scopre che lui e lui solo, ha la capacità di far ricomparire parti di mondo semplicemente toccando quel bianco irreale, come se il suo tocco cancellasse il bianco che si è impossessato di tutto.
E facendo ricomparire parti di città ritornano anche altre persone, come loro smarrite in quella realtà alternativa.
Si scopre che sono tutte anime in qualche modo tormentate o irrisolte, la stessa fidanzata dietro la maschera di ragazza quasi perfetta nasconde una frustrazione di fondo data dalla convinzione di stare vivendo la vita che i suoi genitori vorrebbero per lei non quella che lei desidererebbe.
La TV e i telefoni cellulari funzionano ma la Tv proietta immagini di un mondo che non è quello dove stanno vivendo i ragazzi , una sorta di universo parallelo, quello dove a quanto pare le
loro persone continuano la loro esistenza inconsapevoli di questo doppio che si è creato : la vita va avanti lo stesso senza accorgersi della loro assenza.
Anzi, sui telefoni arrivano continuamente messaggi da amici e parenti diretti agli altri LORO che rispondono e interagiscono come se non se ne fossero mai andati.
E allora scopriamo le difficoltà dietro le vite di ogni singolo protagonista e il desiderio quasi inconfesabile di poter scegliere finalmente quali parti della propria vita far ricomparire e
quali eliminare o lasciare nell'oblio in questo racconto molto surreale.
Fabio Bartolomei ci regala una storia fantastica in cui la dimensione parallela in cui vivono i protagonisti diventa una sorta di realtà alternativa dove far approdare i desideri più
profondi e sentirsi finalmente liberi di vivere le proprie scelte e ambire alle proprie aspirazioni.
Meno immediato nella comprensione rispetto ad opere precedenti dell'autore ma sempre assolutamente originalissimo anche nello stile con cui vengono descritti i vari protagonisti
a cominciare dal linguaggio con cui si esprimono.

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andrea70 Opinione inserita da andrea70    21 Ottobre, 2024
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Ispirato a Dickens

Libro fresco vincitore del Premio Pulitzer e descritto come un omaggio al famoso romanzo David Copperfield, di cui dovrebbe essere una trasposizione in chiave moderna liberamente ispirata appunto al racconto di Dickens.
Il primo motivo non mi ha intrigato più di tanto ma ho amato il racconto di David Copperfield da ragazzo e volevo vedere come l'autrice gli avesse reso omaggio.
Il tema era piuttosto interessante già dall'opera originale : una feroce e dissacrante critica ad uno stato incapace di prendersi cura dei soggetti più deboli in particolar modo questa incapacità si rifletteva nelle condizioni di vita spesso miserevoli dei bambini orfani o figli della povera gente.
Peccato che Dickens fosse un Gigante (con la maiuscola non a caso) e la Kingsolver una buonissima scrittrice : c'è tutta la differenza del mondo per quanto questo Demon Copperhead si faccia leggere con scorrevolezza e proponga qualche riflessione decisamente ben riuscita, dove Dickens diventava appassionante, ironico, creava apprensione nella quotidianità della miseria umana dei vari personaggi la Kinsolver da metà in poi perde brillantezza e il libro diventa noiosetto per riprendersi molto bene nelle ultime pagine.
Il racconto è presto fatto, Demon nasce da una madre single e drogata, non ha che notizie frammentarie del padre morto appena prima che luivenisse al mondo, e nonostante un carattere solare e piuttosto resiliente subisce le angherie di una madre sbarellata e del nuovo martito della madre, Stoner, che lo vede come un intralcio alla sua felicità coniugale comunque fragilissima data l'incapacità della donna di stare lontana dalle dipendenze fino ad arrivare a morire molto giovane .
Stoner non ha alcuna intenzione di farsi carico di quelle che sarebbero le responsabiliotà di padre, per quanto adottivo, e Demon si ritrova a fare i conti con l'inadeguatezza del sistema sociale americano in tema di affido e supporto agli orfani, passando dapprima per la fattoria di un vecchio iroso preoccupato più di portare a casa l'assegno mensile garantito dal fatto di avere in affido uno o più orfani che del loro benessere, infatti spesso neanche li manda a scuola pur di farsi aiutare nel duro lavoro della fattoria.
Qui Demon conosce Fast Forward, così chiamato per la sua rapidità sul campo da Football, e nella vita dove sembra avere una marcia in più degli altri infatti vivrà di un rapido quanto effimero successo sportivo. Fast Forward rappresenterà l'anima nera del romanzo colui che affascina ma corrompe e sfrutta chi si lascia abbagliare dalla superficie , da questo ragazzo brillante, bello, entusiasta ma fondamentalmente miserabile nell'animo.
Sarà poi la volta dell'affido presso una squinternata famiglia con quattro figli, sempre alle prese con l'incapacità del capofamiglia di trovare un'occupazione stabile che possa garantire una vita dignitosa .
Demon riuscirà a barcamenarsi in questi anni grazie all'appoggio di una famiglia di fatto, i Peggot, dei vicini di casa della madre anch'essi alle prese con una serie di disgrazie familiari ma di buon cuore e tutto sommato solidi che accolgono Demon per brevi periodi permettendogli di avere un rifugio nei momenti peggiori mentre Demon stringe amicizia con un nipote dei Peggot , Maggot, e con lui condivide le prime angosce adolescenziali .
Insoddisfatto delle prospettive che gli da la vita in affido Demon decide di andare all'avventura recandosi nella cittadina dalle quale la madre le aveva raccontato provenisse il suo defunto
padre, sperando di trovare sua nonna che , prima della sua nascita aveva cercato di allacciare un qualche rapporto con la mamma di Demon venendo allontanata maalamente da quest'ultima .
Come in David Copperfield il destino dopo tante sfortune da al protagonista un'opportunità favorevole: la nonna esiste e lo riconosce all'istante per via dei capelli color rame come quelli del defunto figlio.
La nonna si è sempre occupata di dare un'istruzione e una possibilità di una vita serena a ragazze in difficoltà ma per un suo preconcetto non vuole occuparsi di un maschio che reputa più problematico, così lo affida, dietro compenso, alle cure del marito di una sua ex assistita e li Demon vivrà il periodo più sereno della sua vita. L'uomo è addirittura il coach della squadra di football più famosa della contea ed ha una figlia quasi coetanea di Demon. Il ragazzo cresce e verrà iniziato al football e ai campionati universitari trovando anche qualche scampolo di gloria fino al giorno in cui durante una partita si infortuna gravemente al ginocchio. Da li inizierà un rapido declino dapprima sportivo, il ginocchio non guarirà mai completamente di fatto stroncadogli la carriera agonistica, ma soprattutto sociale, il periodo della convalescenza verrà infatti affrontato con una quantità irresponsabile di antidolorifici a base di oppiacei creando in Demon una dipendenza da Oxicodone.
Gli anni successivi saranno un lento scivolare nel mondo della dipendenza da Oxi, con tutti i traffici loschi e sotterfugi che contraddistinguono le dipendenze, l'unica luce sarà rappresentata da Dori, una bellissima ragazza, figlia del proprietario di un emporio locale , che si prende cura del padre e tra medicinali e reciproco supporto intreccia col protagonista una dolorosa e tragica storia di amore e reciproca distruzione per mezzo delle droghe.
Sarà il carattere forte di Demon e la mano sempre tesa di alcuni amici ad aiutarlo ad uscire dal tunnel mentre tutte le anime nere del racconto avranno una loro particolare resa dei conti col destino e la giustizia.
Tanti sono i punti in cui la Kingsolver ha preso spunto da David Copperfield, non si può non percepire l'aperta critica sociale ad un sistema di gestione degli orfani e dell'assistenza ai più deboli lasciato molto al caso e all'intraprendenza delle singole persone, dove gli assitenti sociali rappresentano addirittura uno dei gradini più bassi della scala sociale per quanto riguarda l'importanza e la remunerazione di un impiego, formidabili le righe in cui la giovane assistente sociale che aiutava Demon si dice felice di aver trovato finalmente un lavoro come maestra elementare !!.
Per non parlare delle famiglie affidatarie, spesso veri crogioli di problemi su larga scala che usano a loro volta gli orfani presi in custodia come fonte di reddito per via del sussidio statale, in pratica questi bambini passano da una miseria solitaria ad una in ottima compagnia dove non si condivide amore ma i bisogni più elementari puntualmente disattesi.
Questa leggerezza nell'affidare la vita di un bambino nelle mani di chiunque fa quasi amaramente sorridere o rabbia se paragonato alla trafila estenuante di adempimenti e controlli a cui si sottopone da noi chi vorrebbe un bambino in affido.
Nel complesso un bel racconto che avrebbe giovato di qualche spunto narrativo un pò più brillante o del taglio di un centinaio di pagine.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    21 Ottobre, 2024
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Crepuscolare

Cavalli Selvaggi fa parte della "Trilogia della Frontiera" insieme ad altri due libri.
La vicenda è ambientata al confine tra Stati Uniti e Messico, con libero uso della lingua spagnola, non tradotta per rendere più avvincente e aderente alla realtà il romanzo.
Per chi parla decentemente l'idioma iberico è anche piacevole imbattersi in questi termini stranieri, per chi non conosce tale lingua può risultare antipatico.
Mc Charty è un autore che adora narrare le vicende di reietti e dimenticati, che si aggirano in lande desolate o comunque in terre dure e spietate.
In questo romanzo, che a mio avviso è minore, rispetto ai suo capolavori come Non è un paese per vecchi, l'azione è incentrata su due ragazzi vagabondi, che cercano in ogni maniera di sopravvivere alla spietatezza della povertà e dell'animo umano.
Il crepuscolo è l'immagine ricorrente che avvolge l'azione avvolge il pensiero dei protagonisti, la loro azione il loro incedere tra lande desolate e paesaggi spettrali.
Nessuno vuole nessuno, ognuno e nemico del suo prossimo. La dove si erge uno spiraglio di salvezza nel impossibile amore fra due giovani, arriva subito la scure del dolore a separarli.
La vita non vale nulla, la si baratta per un cassa di birra, i cavalli sono piegati al volere dell'uomo sono sfiniti nel percorrere terre immense e senza confine.
L'autore conosce bene fino a che punto si annidi la tenebra nel cuore di chi sopravvive alla violenza e alla corruzione dei costumi.
E' un libro che per come si sviluppa sin dall'inizio fa intuire che il cammino dei protagonisti sarà segnato dalle privazioni, dal freddo, dalle albe implacabile, dalla natura insensibile alle disperazioni umane.
Un pellegrinaggio lungo un confine invisibile che segna il passaggio dalla spensieratezza giovanile al dramma dell'età adulta. Non adatto ai malinconici e ai sognatori.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    20 Ottobre, 2024
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Diventare grande tra solitudine e abbandono

«Non essere mai meschino in nulla, non essere mai falso, non essere mai crudele. Io potrò sempre sperare in te.»
Charles Dickens, “David Copperfield”.

L’ultimo romanzo che ho finito di leggere è stato “Demon Copperhead” di Barbara Kingsolver, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa 2023 e edito da Neri Pozza. Vi si racconta, attraverso la sua stessa voce, la vita di un giovane orfano originario della Lee County sui monti Appalachi, Virginia.
Il modello letterario di riferimento espressamente dichiarato dall’autrice è il “David Copperfield” di Charles Dickens: anche qui il protagonista racconta la propria difficile esistenza, a partire dalla nascita. Fin dalle prime pagine la voce di Demon riesce a catturare il lettore e trascinarlo in una storia tanto drammatica quanto coinvolgente. Il suo racconto ci parla di un ragazzino abbandonato e solo, che ha dovuto lottare fin da piccolo per affermare il suo diritto a esistere, a essere accudito, protetto, rassicurato, amato. Ha dovuto combattere per conquistarsi questi diritti, che chiamiamo inalienabili, che ogni bambino dovrebbe avere garantiti solo per il fatto di essere al mondo.
Ma Demon è nato già orfano del padre e la bionda madre adolescente, anch’essa con una storia di abbandono e solitudine alle spalle, è tossicodipendente. Si prospetta una strada completamente in salita per questo bambino.

I pregi più elevati di questo ricco romanzo, secondo il mio modesto parere, sono sostanzialmente due: il primo è che tratta tematiche abbastanza note in modo però originale. Mi spiego meglio. È presente il tema del disagio sociale, dei diritti negati agli individui più fragili e alle comunità più in difficoltà, molto presente di solito nella letteratura americana. Ma qui si parla di individui e comunità che non ti aspetteresti di incontrare nella realtà degli Stati Uniti degli anni Duemila: bambini orfani sfruttati che vengono fatti lavorare, maltrattati, abbandonati; bianchi poveri, montanari e campagnoli, ex minatori o coltivatori di tabacco, i Melungeon, una popolazione diffusa nel Sud Est degli Stati Uniti, probabilmente discendente da colonizzatori spagnoli e portoghesi mescolata a tribù di nativi, di cui ignoravo l’esistenza. Di solito, pensando all’America vengono in mente altri scenari, invece questo romanzo ci offre uno spaccato su una comunità rurale poco considerata e un po’ disprezzata dagli stessi americani.

«Mostratemi quell’universo al cinema o alla tv. Montanari, gente di campagna e delle fattorie, noi non ci siamo mai, da nessuna parte. È un fatto, siamo invisibili. Arrivi al punto che cerchi di fare più rumore possibile solo per vedere se sei ancora vivo.»

È presente anche il tema della tossicodipendenza, soprattutto nella seconda parte del romanzo, quando alcune atmosfere mi hanno ricordato “I cieli di Philadelphia” di Liz Moore. Il contesto è però diversissimo, qui siamo di fronte a frotte di persone che hanno iniziato a drogarsi prendendo antidolorifici dati inizialmente su prescrizione medica, a ragazzi lasciati da soli, indifesi davanti alla complessità della vita, senza gli strumenti per poter crescere in modo sano e equilibrato.

«Se non conoscete il drago al quale davamo la caccia, le parole non bastano. La gente parla dello sballo, della botta che ti arriva, ma non è tanto quello che provi quanto quello che non provi più: la tristezza e il terrore viscerale, tutta la gente che ti ha giudicato inutile. Il dolore di un ginocchio esploso. Quel laccio che dovrebbe farti sentire attaccato a qualcosa per tutta la vita, che sia una casa o i genitori o la sicurezza, che ti ha lasciato sventolare attorno, sciolto, per tutto il tempo, strattonando le radici del cervello, frustando l’aria con tanta forza da rischiare di cavarti un occhio. E poi di colpo quel laccio si blocca a terra, e sei tranquillo.»

L’altro grande pregio di questo romanzo è lo stile, che dà vita a una narrazione ricca e complessa ma allo stesso tempo vivace e coinvolgente. La voce di Demon è una voce lucida nei confronti della propria realtà e della propria responsabilità, critica verso le ingiustizie che ha dovuto subire, compassionevole verso se stesso. Una storia che riesce a uscire dalle pagine di carta e arriva diretta a sfiorare il cuore di chi la legge.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    19 Ottobre, 2024
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Due vittime eccellenti.

Ennesima opera della premiata fabbrica pattersoniana, ambientata questa volta prevalentemente a Washington e in Alabama: opera che si diversifica, con molte emozioni in più, dai consueti cliché dei gialli dell'autore con protagonista il bravo Alex Cross, poliziotto a fine carriera e psicoterapeuta di ottima fama. Siamo nel 2020: la storia comincia con il ritrovamento di due ben noti personaggi ammazzati di notte in macchina, ferma nei pressi di una scuola, mentre amoreggiavano. Il fattaccio desta grande clamore per i nomi delle vittime: lei, Kay Willingham, ex moglie del vicepresidente degli Stati Uniti, lui, Randall Christopher, notissimo e rispettabile preside di una scuola del posto. Cross, aiutato dall'amico e collega Sampson, inizia le indagini, non certo semplici per l'identità dei personaggi coinvolti e i loro precedenti, soprattutto quelli di lei, di famiglia facoltosa, più volte ricoverata in ospedali psichiatrici per gravi crisi depressive e vecchia conoscenza di Cross, testimoniata anche da alcune foto compromettenti. Si indaga sulla vita delle due vittime, setacciando ogni ambiente e interrogando addirittura il vicepresidente, ex marito, e la moglie del preside ucciso, resasi irreperibile, che, dopo lunghe ricerche e intricati depistaggi verrà incriminata con l'aiuto di una dubbia perizia balistica.
Ma altre due vicende si intersecano con quella principale. La prima, molto marginale, riguarda una serie di attentati e sommosse cittadine contro i ricchi e l'aumento delle tasse, sommosse che includono sparatorie senza veri e propri incidenti mortali. I responsabili saranno comunque individuati. La seconda, più incisiva, ha punti di contatto con la storia principale: si dà la caccia ad uno stupratore seriale che rapisce e uccide ragazze seminando il terrore. Alex Cross indaga anche qui da par suo e scopre l'assassino dopo ricerche rocambolesche. Il finale è caratterizzato da un gran colpo di scena risolutore: indica anche chi doveva essere la vera vittima predestinata tra i due uccisi in macchina, contrariamente a tutti i sospetti e le previsioni.
Tutta la narrazione è ben congegnata e intrigante: se si eccettua qualche lungaggine soprattutto nei riguardi delle vicende private più o meno torbide, ospedaliere e legali, della ex moglie del vicepresidente che obbligherà gli investigatori ad inseguire la verità fino in Alabama, tutta la storia scorre riservando motivi di interesse ad ogni capitolo, oscillando sempre tra apparenti certezze e novità che aprono a nuove più approfondite indagini. Insomma, non è il solito Patterson che propina vicende prevedibili e dal finale scontato: in "Morte in Alabama" ci sono emozioni inattese e imprevedibili, una storia a tratti commovente ( ad esempio il sopralluogo di Cross nella tenuta patriarcale della famiglia di Kay, con la scoperta, accanto alla tomba della vittima, di una serie ordinata di tumuli di ex schiavi della piantagione di cotone), con personaggi credibili e convincenti.
Lo stile narrativo è incisivo, diretto, senza inutili divagazioni. Naturalmente non mancano brevi momenti di pausa dedicati alla ben nota famiglia di Alex Cross: Nanà, la nonna novantenne, la moglie Bree e i tre figli. Con loro Alex ritrova pace, serenità e gli stimoli giusti per proseguire nel suo lavoro. Un inno, sempre presente nei romanzi di Patterson, ad una tanto agognata "way of life" tanto americana quanto non sempre agevole da perseguire.

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