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UNO PSICO-THRILLER?
Un'interessante prima opera di un riconosciuto autore tedesco.
La storia si svolge in un ospedale psichiatrico dove Ellen, giovane e promettente dottoressa, verra' in contatto con una serie di inquietanti situazioni.
Come accennato da altri, l'autore definisce questo libro uno psico-thriller, io non penso sia una definizione pienamente calzante. Lo trovo un thriller piuttosto ben strutturato, a tratti un po' banale, ma mai pienamente scontato.
I personaggi sono ben delineati, anche se a volte rispecchiano delle strutture pre impostate troppe volte viste in libri di questo genere.
Interessante e' il costante dubbio che ti assale mentre scorri le pagine: sei tu pazzo o l'autore incapace di creare una suspance adeguata?
Si percepisce la spirale sempre piu' profonda che ci trascina nella follia, fino al culmine nelle ultime pagine.
Il libro non è particolarmente lungo, un aspetto che, a mio avviso, amplifica il senso di inesorabilità nella discesa verso la follia.
L'ho trovato un libro piacevole, certamente non credo rispecchi il grandissimo successo avuto.
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Universo di solitudini e silenzi
«Solo che… di recente mi chiedevo se avere tutti i bisogni materiali soddisfatti fin dalla nascita sia stata una cosa positiva, per noi. Ho l’impressione che ci sia mancato il desiderio, l’impulso verso le cose. Verso la ricerca, come mi piace chiamarla. Quando i genitori o i nonni hanno già cercato e conquistato, alle generazioni successive cosa resta da fare?»
Avvicinarsi a Liz Moore significa sempre intraprendere un viaggio non solo nella storia ma anche in noi stessi. Ogni sua narrazione è una storia unica ricca di emozioni, riflessioni e crescita. Tanti i temi che tratta, mai uguali, sempre diversamente introspettivi e magnetici. Ogni suo titolo è un viaggio all’interno di un differente mondo e con differenti prospettive.
Ne “Il dio dei boschi” ella ci propone un testo che già dalla sua struttura emerge per la complessità. In primis è composto da due spartizioni temporali, una prima ambientata nel 1961 e una seconda ambientata quattordici anni dopo e cioè nel 1975. Qui conosciamo un bambino, Bear, e una adolescente, Barbara, due fratelli, accomunati da un luogo e da una sparizione. Abbiamo ancora una madre, Alice, che vive nel dolore e che si anestetizza bevendo. Prima un bicchiere, poi due, poi chi più ne ha più ne metta. E se all’inizio questo concedersi un bicchiere è un modo per sopravvivere anche alle apparenze a cui si sente forzata per convivere con il marito e il suo mondo, poi diventa un modo per vincere il male che è dettato dalla perdita e la depressione. Ella deve conservare la reputazione della famiglia, non può far scomparire il contesto sociale in cui si ritrova.
D’altra parte, i Van Laar sono sempre vissuti tra privilegi e ricchezza. Tutti dipendono da loro e a loro si rivolgono sottovoce. Sono i fondatori del campo estivo di Camp Emerson, sono gente abbiente che frequenta locali e ambienti altolocati, famiglie più che benestanti di Manhattan e del New England, hanno un ruolo d’onore nella vita degli abitanti di Shattuk anche perché è grazie a loro che il paese ha una entrata economica.
Barbara Van Laar ha un carattere ribelle e sta attraversando una di quelle fasi della vita in cui accettare il cambiamento e comprendere il senso del vuoto, è difficile, per non dire impossibile. È l’estate del 1975 quando riesce a convincere i genitori a frequentare il campo estivo. Ed è sempre l’estate del 1975 quando il suo letto viene trovato vuoto. Di lei nessuna traccia, nessun segnale, nessuno motivo che possa far dedurre alcunché della sua sparizione. Tracy, che in quel periodo le è stata accanto, sa e non sa. Sa che ogni notte si alzava per un motivo specifico, sa che la ragazza nascondeva qualcosa ai più grandi. Ma sa anche che non può e non deve parlare. Un fatto che rimanda al 1961, alla scomparsa di Bear, il fratello. Al tempo le indagini si conclusero con un buco nell’acqua non portando a nulla.
Tocca a Judita Luptack far luce sul mistero. Perché per scoprire di quel che è successo nell’oggi è forse necessario tornare nello ieri, aprire il vaso di pandora, far luce su quella rete di intrecci, rancori, depistaggi, trame oscure, silenzi che regolano le dinamiche della società.
«Alice fece come le era stato detto. Certe volte aveva la sensazione che la sua vita consistesse nell’obbedire agli ordini di chi si trovava in una posizione superiore alla sua, o nell’impartirli ai suoi subordinati. Solo quello che aveva con suo figlio era un legame che esisteva al di fuori di qualunque gerarchia di potere. Lo amava e basta, senza condizioni o complessità. Ed era certa che lui la amasse allo stesso modo.»
“Il dio dei boschi” definisce e delinea un mondo fatto di solitudini e silenzi e dove il mistero del thriller ben si coniuga con l’aspetto più introspettivo ed emotivo. Al tutto si somma una perfetta caratterizzazione dei personaggi, e nello specifico di Barbara, TJ, Tracy, Judy, Bear, Alice, Louise etc, nonché temporale. Viene magistralmente descritta anche quella che è una società tipicamente maschilista e retrograda, una società dove spesso i destini sono già scritti senza possibilità alcuna di revisione.
Altro grande carattere degno di nota della Moore è dato dal fatto di essere riuscita a costruire una serie di microstorie in cui ciascuna ricompone un puzzle più grande. Ciascuna si interroga su un diverso aspetto e passo passo ricompone il quadro. Ci mostra un mondo dove verità scomode si fondono e intrecciano con altrettante verità scomode e con la consapevolezza che spesso nascendo ricchi si perde la passione, il desiderio, la conquista anche delle piccole cose. La propria reputazione diventa una ossessione vera e propria, una maschera imprescindibile a cui non ci si può sottrarre. E se si cerca di evadere? Di scappare da questa gabbia dorata, di ribellarsi a questa e a quel che essa determina e comporta? E se si decide di vivere il sentimento fregandosene della maschera, fregandosene di quel che viene imposto? Quali sono le conseguenze della propria ribellione a un mondo precostituito?
«Baciare qualcuno – qualcuno che vuoi baciare, intendo – è come vivere dentro la canzone più bella che tu abbia mai sentito. È la stessa sensazione.»
“Il dio dei boschi” si interroga su questo e molto altro ancora. Tra privilegi, potere, silenzio e soprattutto solitudini, si dipana un thriller psicologico che non delude le aspettative e che coinvolge e trattiene il lettore tra le sue pagine.
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UN THRILLER LEGGERO
"Come uccidono le brave ragazze" è il romanzo d'esordio della giovane autrice inglese Holly Jackson.
Il libro segue le indagini di Pippa Fitz-Amobi, una giovane studentessa determinata a scoprire la verità sull'omicidio di Andie, avvenuto cinque anni prima nella cittadina di Little Kilton, appena fuori Londra.
La narrazione e' per la maggior parte avvincente e ricca di suspense. Definirei questo romanzo particolarmente indicato per un pubblico di giovani adulti, grazie a uno stile che richiama i classici romanzi degli anni 2000, in cui i protagonisti spesso utilizzano diari per raccontare le loro esperienze.
Tutto sommato, e' un libro piacevole che non spicca per suspance o per originalità', ma che probabilmente ha trovato in me il target sbagliato.
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Realtà o fantascienza?
Kay Scarpetta, la protagonista di tanti romanzi della Cornwell, è impegnata questa volta, da ottima anatomopatologa forense quale è, nell'autopsia di una bimba, Luna, morta per un colpo di pistola partito accidentalmente mentre maneggiava l'arma del padre: verrà fuori un'altra verità, l'indagine necroscopica rivelerà come vero colpevole il padre, Ryder Briley, un riccone potentissimo, immanicato con mafie e politici di alto livello. Nel contempo Kay riceverà una pessima notizia: la morte di Sal Giordano, astrofisico di fama mondiale, premio Nobel, al quale era legata sentimentalmente decenni prima. Morte violenta: il cadavere viene ritrovato in un parco a tema, scaraventato nel vuoto da un oggetto volante non identificato. La vicenda coinvolge emotivamente Kay, che comincia ad indagare, unitamente alla nipote Lucy, impiegata nei servizi segreti ed abile elicotterista, il marito Benton e l'inossidabile agente in pensione, nonchè fedele amico, Marino. E ne scopre di belle: viene a sapere che Briley è il padrone del parco a tema, che l'eterna nemica Carrie Grethen, un tempo agente dei servizi segreti ed ex collega di Lucy, lavora per i russi ed è stata avvistata nel parco. Ma non basta: durante l'autopsia del povero Sal viene alla luce un indizio che porta gli investigatori ad un complesso di edifici dove viene lavorato uno strano materiale, la polvere lunare artificiale. Sal, grazie alle sue conoscenze in campo astrofisico, desiderava trattarla, per trasformarla e costruire uno straordinario telescopio addirittura sulla luna... Non aggiungo altro, se non un tentativo di uccidere una giornalista compromettente da parte della onnipresente Carrie, che getta una luce cupa sulla famiglia di Briley.
La trama, che si svolge in Virginia nei pressi di Langley, sede dei più importanti servizi segreti, è complessa, l'atmosfera sembra avvolta nel mistero anche per il continuo richiamo al possibile coinvolgimento di creature di altri mondi e ad un clima perennemente piovoso, con tanto di tuoni e lampi: ciò nonostante, la narrazione procede faticosamente, con un finale a tratti inverosimile, che mette a rischio la vita stessa di Kay Scarpetta.
L'autrice si dilunga poi per vari capitoli sulle procedure dell'esame autoptico del cadavere di Sal Giordano, con minuziosi, lunghi particolari ai quali gli affezionati lettori della Cornwell sono abituati: forse per mettere in risalto il coinvolgimento emotivo di Kay, un tempo legata sentimentalmente all'astrofisico, ma poco attinenti con le vicende narrate.
Un giallo particolare, non uno dei migliori dell'autrice. Il riferimento a veicoli alieni sembra avvalorare il concetto che qualcosa di vero ci possa essere (e la Cornwell sembra crederci), confermato anche dal riferimento ad aree segrete, non riportate sulle mappe, ove potrebbero essere custoditi reperti organici e rottami di origine sconosciuta.
Comunque, i consueti personaggi (Kay, Lucy, Marino, Benton e comprimari) se la cavano sempre egregiamente, ben caratterizzati anche in una trama ai limiti della fantascienza.
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Ma davvero repetita juvat?
Ernest Cunningham è diventato famoso. Dopo aver pubblicato un romanzo giallo tratto dalla truce storia di omicidi della quale, suo malgrado, si era trovato a essere tra i protagonisti e nella quale una buona parte della sua famiglia era restata vittima o autrice, è entrato nell’empireo degli scrittori polizieschi.
Proprio per tale motivo si trova a bordo dell’Afghan Express, più brevemente chiamato il “Ghan”, un lussuoso treno turistico che attraversa da nord a sud l’Australia centrale, da Darwin ad Adelaide. Infatti sul treno è stato organizzato il 50° Festival Australiano del Giallo e, assieme a lui, condividono gli scompartimenti dei vagoni riservati al Festival, un famoso autore scozzese di best sellers; una autrice di legal thriller, una di gialli psicologici e uno scrittore che basa le sue trame sulla patologia forense, oltre a un super-premiato scrittore di opere letterarie di alta levatura. Ognuno ha un ospite; inoltre una piccola comitiva di appassionati di letteratura poliziesca fa loro da contorno per assistere alle conferenze, ai dibattiti e alle tavole rotonde che si terranno nei quattro giorni di viaggio.
Purtroppo dove c’è Ern ci scappa sempre il morto e, così, dopo il primo giorno di viaggio in cui si sono avuti solo battibecchi e invidiose ripicche tra gli invitati, uno degli ospiti muore improvvisamente, la seconda mattina. Morte naturale o omicidio? Ern, che non riesce a trovare lo spunto per scrivere il suo secondo romanzo, punta sulla prima ipotesi, però chi è stato a commettere il crimine e, soprattutto, chi aveva il movente per farlo?
Toccherà a lui e ai colleghi giallisti (superstiti) scoprire il colpevole, tuttavia, su quel treno, tutti hanno un buon motivo per quell’omicidio e per quelli che seguiranno…
Il primo romanzo di Stevenson era stata una piacevole sorpresa, con uno stile leggero e scanzonato, l’A. era riuscito a scrivere una storia non banale che, ripigliando gli schemi dei gialli classici alla Christie, Conan Doyle, o Van Dyne, aveva ridato vita al filone del giallo investigativo/deduttivo, un po’ giocandoci sopra con discreto umorismo, un po’ provocando i lettori con continui interventi e riflessioni in prima persona rivolte direttamente a coloro che si trovano dall’altra parte del foglio di carta stampata.
Con questa seconda opera, però, l’A. ha erroneamente supposto che ripresentando il medesimo canovaccio e cambiando solo l’ambientazione e i personaggi coinvolti, l’alchimia avrebbe nuovamente funzionato. No, errato: certe invenzioni funzionano solo la prima volta, proprio perché è la novità a giocare il ruolo principale nel rendere piacevole la narrazione. Se non si hanno nuove idee e non si cercano nuove strade, il riproporre il medesimo schema diviene solo un riscaldare la stessa minestra; cambiare le spezie non è sufficiente a renderla più appetitosa.
La trama appare eccessivamente e artificiosamente arzigogolata e contorta e, a dispetto delle dichiarazioni iniziali dell’A. di essere totalmente onesto e trasparente coi lettori, sono decisamente troppe le trovate con cui viene infarcito il libro, i conigli estratti magicamente dal cappello al momento più opportuno, le scoperte spiazzanti stile soap opera; e non tutte, ahimè sono davvero plausibili. Lo stile continua a essere leggero e scanzonato, talvolta anche un po’ troppo, ma tocca le medesime corde che hanno fatto da sottofondo al primo libro, quindi, risulta ripetitivo e, alla lunga, stancante.
Poi, Ernest non perde occasione per ammiccare in modo che non è più goliardico, ma, direi, gigionesco, ricordandoci le regole per il giallo classico o, peggio, spoilerando i troppi colpi di scena che sono disseminati lungo la storia e che, alla fine, non risultano più tali.
Quanto a questi ultimi, si raggiunge l’apice; in questo romanzo non ci viene risparmiato nessuno dei luoghi comuni della letteratura di genere: agnizioni, disvelamenti di enigmi, segreti che vengono dissepolti, morti apparenti che ricompaiono improvvisamente, scambi di persone e personaggi che si celano dietro a pseudonimi o prestanome.
Tra le innumerevoli trovate di “spiritosa onestà” nei confronti del lettore ho trovato decisamente ostentato e sciocco aver precisato il numero delle volte in cui il nome dell’assassino sarebbe stato fatto prima della sua identificazione e il continuo aggiornamento del conteggio per ognuno dei sospetti, quasi ci si trovasse davanti al tavoliere di Cluedo o ad un Giallo-quiz televisivo.
Insomma il voler raccontare una vicenda di per sé seria e grave (com’è un omicidio) in modo burlesco può essere divertente come prima trovata, ma non può essere certo lo schema ideale da replicare all’infinito. Alla fine il romanzo non annoia, ma neppure diverte troppo e non si vede la fine di giungere all’epilogo che, in questo caso, è pure scivoloso a causa di una trovata finale che poteva pure essere evitata.
Poi, permettetemi una domanda conclusiva: ma l'A. doveva proprio scimmiottare e, sostanzialmente, burlarsi di uno dei romanzi più iconici della letteratura poliziesca (mi riferisco, ovviamente a "Assassinio sull'Orient Express") utilizzando la medesima ambientazione e, in sostanza, gli stessi ritmi?
Dalì si permise di sostituire al volto di Monna Lisa il suo ritratto con tanto di baffoni, ma era pur sempre un grandissimo della pittura mondiale, mr. Stevenson non è neppure lontanamente emulo di Agatha Christie e forse le deve un maggiore rispetto.
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Realtà o fiction?
Realtà e fiction nel nuovo romanzo di Jonathan Coe, un viaggio in un paese sopravvissuto alla Brexit, martoriato dall’ epidemia di Covid, in lutto per la scomparsa della regina Elisabetta II ( settembre 2022 ), guidato dal governo più breve della storia del paese, durato solo 44 giorni, con Liz Truss come primo ministro.
Nel cuore della nazione vige uno stato di precarietà, la contrapposizione tra boomer e generazione Z, una crisi economica sfociata nel tentativo estremo di detassazione, un sistema sanitario al collasso, giovani privati dei propri sogni, incarcerati in un paese aggrappato ai privilegi di una classe di settantenni senza risposte per il futuro.
In un contesto siffatto Phyl, la giovane protagonista, neo laureata in lettere con un lavoro precario al minimo salariale nella filiale di una catena di ristoranti giapponesi, ritornata a vivere dai genitori, spera di raggiungere il proprio sogno di scrittrice, fermando la realtà per dare spazio alla fantasia.
In un’ alternanza di pubblico e privato, realtà e fiction, più trame all’ interno dello stesso filo conduttore, l’ evoluzione e gli intrighi politici di una deriva conservatrice, ci si addentra in un giallo dalle tinte fosche, un’ indagine investigativa divisa in tre parti ciascuna rispondente a un preciso genere letterario.
Quanto i generi sperimentati, ( Cosy story, Dark Accademia e Autofiction ) sono opera di fantasia, appartengono ai propri giorni, quanto la penna di Phyl è sagace, arguta, ricca d’ immaginazione, o trattasi di semplice capacità narrativa?
Difficile dirlo considerando la realtà come una semplice percezione e trasposizione personale dei fatti, generata dalla mente di uno scrittore che mira a lasciare il segno nelle generazioni future, una realtà romanzata, discutibile, artefatta, anche se i morti di Covid, il decesso della regina e il governo di Liz Truss paiono quantomai reali e ogni racconto potrebbe esserlo.
Nell’ alternarsi di possibile e improbabile, di reale e immaginario, una parte del paese guarda con nostalgia agli anni ‘50, Phyl si rifugia costantemente nella leggerezza atemporale della serie Friends in fuga dall’ amarezza dei propri giorni, i suoi genitori faticano a riconoscersi nel presente mentre un gruppo di destra ( Processus Group ) fondato a Cambridge negli anni ‘80 e’ sempre più presente nella politica del paese, un misterioso incidente d’ auto coinvolge un caro amico di famiglia, riemergono frequentazioni scolastiche condivise, il suicidio di uno scrittore, un memoir scritto da un medico in fin di vita, una deriva conservatrice che condurrà il paese al di fuori della realtà per dare spazio alla fantasia.
La scrittura di un romanzo può riferirsi al reale non eccedendo in tratti autobiografici, rimane una storia da definire e una verità da svelare, la propria.
Il complesso intreccio narrativo insegue un assassino senza nome, ricerca il senso di un gesto estremo, ricostruisce l’ origine di un gruppo di pensiero, guarda agli indizi e agli indiziati, riflette su un messaggio da decodificare.
In questo giuoco di scatole chiuse all’ interno di un puzzle scomposto una vita che scorre nella storia tracciando la propria storia, una fine accertata, nuovi indizi e verità presunte, forse era solo fiction, la verità per il momento può attendere, un grosso dubbio rimane.
Un romanzo pensato e costruito inseguendo tracce vere e presunte, che si rinnova continuamente interrogandosi sul valore intrinseco della scrittura, sul suo rapporto con il reale, sul ruolo dello scrittore all’ interno di una vita vissuta in un determinato periodo storico.
L’ idea è lodevole, meno la rappresentazione, l’ omogeneità della narrazione, l’ incastro delle singole parti.
Che sia realtà o fiction, nella difficile definizione di un genere dominante e nella prolungata sperimentazione letteraria predomina una certa fragilità espositiva, presenza malinconica rivolta a un passato dissolto in una nazione tramontata, senza via d’ uscita, un mondo a parte difficile da definire, sempre lo stesso, e allora l’ idea di un romanzo generato dalla fantasia di uno spirito creativo in una parvenza di realtà è evasione dall’ invivibilita’ e non rappresentatività del presente.
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Ritrovarsi
«Alla fine avevo ceduto e Bambina e io avevamo cambiato casa.
Ci eravamo trasferite nel Quartiere Triste, dove, da quando erano andati in pensione, si erano trasferiti i miei genitori.
Un posto tranquillo, Chiara.
Pieno di verde.
Non sembra neanche di stare a Roma.»
Torna in libreria Chiara Gamberale, autrice amata dal grande pubblico, che con “Dimmi di te” (Einaudi, Stile Libero) ci fa destinatari di un racconto intimo e intimistico, un testo che ha anche tratti autobiografici e che conduce in quella che è una ricerca personale, sul proprio essere in costante divenire, in piccoli e grandi abissi che sono sinonimi di perdizione.
Un figlio è sempre un qualcosa di potente e sconvolgente nella vita di una persona. Cambia i ritmi delle giornate, cambia le abitudini, cambia il punto di prospettiva da cui si osserva; una prospettiva che non è più focalizzata solo sull’io individuale bensì sul “noi/lui/lei”. La figlia, Bambina, di anni sei, è capitata ed è una nuova responsabilità per Chiara. Quest’ultima ha adesso bisogno però di uscire dal guscio, di ritrovare il proprio io donna. Sente la collisione tra ciò che era prima e ciò che è adesso. Per uscire da questa fase che può definirsi ristagnante, decide di ricostruire una mappa affettiva delle sue “stelle polari”. Come fare? Ripartendo da quel che era un tempo, da quegli amici che durante gli anni della sua adolescenza considerava essere colonne portanti imprescindibili.
«Come hai fatto a crescere? Ho chiesto in questi mesi alle mie stelle polari di quel tempo andato che non se ne andrà mai».
Ed è necessario ripartire da piccole cose, da piccole grandi domande per ricostruire un ponte tra lo ieri e l’oggi. “Dimmi di te”. È questa la domanda che ella pone a Raffaello, Riccarda, Stefano, Ivan. Un registratore alla mano, una domanda e le orecchie e la testa pronte all’ascolto. È troppo presto però per sentirsi rivolgere ella stessa delle domande, ecco allora che queste sono a lei impossibili da fare. Nessuna domanda sulla sua vita personale è ammessa. Questo non è il suo momento, è il loro. Se vuole davvero crescere, il primo passo da fare è affrontare il confronto. Lo sa bene. Deve mettersi in gioco con realtà diverse, far proprie le confidenze, imparare dal vissuto altrui, correggersi ove necessario, interrogarsi ove occorre.
«Mi dispiace. Riuscivo a ripetere solo mi dispiace, ma avevo la sensazione che Cate non avesse bisogno di troppe altre parole, dentro di sé, dove c’era la sua frana, rispetto a quelle che si sforzava di trovare da sola.»
Chiara Gamberale si mette a nudo in “Dimmi di te”. Scrive un romanzo in cui parla di emozioni, legami, sensazioni. Parla d’amore, parla d’amicizia, parla di sogni, parla di illusioni, parla di disillusioni e parla ancora di storie di vita. Perché la vita è così, uno spartiacque tra lo ieri e l’oggi, tra un vivere in costante crescere e vivere, tra sogni realizzati e sogni non realizzati, tra obiettivi raggiunti, cadute, rialzate e fallimenti.
Alla soglia dei quarant’anni, con un futuro ancora da vivere, con un futuro ancora da scrivere e con un passato già scritto, Chiara butta giù il suo bilancio personale. La scrittura è piana, piatta. Lo stile è quello noto ai lettori.
Siamo davanti, con “Dimmi di te”, a un romanzo introspettivo che oscilla tra dovere e necessità, che riflette ruotando sulla sua essenza e che per questo o si ama o non arriva. Occorre cioè essere nel momento giusto per leggerlo ed apprezzarlo, altrimenti rischia di restare fine a se stesso.
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Una melodia in tre movimenti
Ultimo romanzo di Tondelli scritto nel 1989 (l’autore è scomparso nel 1991), si può sicuramente definire il romanzo della maturità, nel quale la componente autobiografica emerge chiaramente nel protagonista Leo. Lo scrittore emiliano infatti costruisce attorno a lui una storia architettata in tre movimenti, con l’intento di fare un parallelismo tra il romanzo ed una melodia musicale classica.
Se il primo movimento (Verso il silenzio) introduce il tema dell’amore tra Leo e Thomas, della passione che progressivamente fiorisce per poi terminare tragicamente con la morte di Thomas, il secondo (Il mondo di Leo) è una discesa agli inferi nella realtà avvelenata di Leo, nel dolore e nella solitudine che prendono il sopravvento, oltre che nel ricordo della propria adolescenza, vista come origine del suo malessere esistenziale. Il crescendo sta tutto nel terzo movimento però, in quel “Camere Separate” che fornisce il titolo del libro e sintetizza la dimensione dell’amore viscerale tra Leo e Thomas: un amore totalizzante si, ma che Leo sente necessario vivere a distanza prendendosi la propria libertà per essere padrone del proprio tempo e della propria vita. Leo “Voleva continuare a essere un amante separato, voleva continuare a sognare il suo amore e a non permettergli di infangarsi nella quotidianità”. Una visione che inevitabilmente conduce a incomprensioni, tensioni, in quanto le esigenze di Leo non sono certamente quelle di Thomas che invece desidera una vita di coppia completa.
Dalla combinazione dei tre movimenti, “la melodia” che ne scaturisce è un suono di solitudine necessaria che ha una valenza positiva però, a dispetto del concetto di solitudine generalmente espresso, in quanto “sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio”. La solitudine infine è il mezzo che conduce alla catarsi, alla rinascita che per Leo-Tondelli è tutta definita dal potere salvifico della scrittura, “che questa sola cosa gli importa ed è questa, non lui, a dirigere gli spostamenti interiori della sua vita”.
Tondelli non amava definire “Camere Separate” un libro che narra di amore omosessuale in quanto non c’è assolutamente bisogno di questa etichettatura (talvolta invece sottolineata dalla critica), considerato che in sostanza il romanzo rappresenta la narrazione di una storia d’amore, di vita, di solitudini che si incontrano e poi si perdono.
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Una tigre celata
«Una cosa però è vera, quando si riesce a parlare di trauma, vuol dire che si è già un po’ salvi. Ciò non significa che siano la parola o la letteratura a costituire la terapia. Al contrario, la scrittura può avvenire solo quando il lavoro, una parte del lavoro, è stato fatto, quel pezzetto di lavoro che consiste nell’uscire dal tunnel. […] Se si riesce a parlarne, scrive Virginia Woolf, è perché l’evento è staccato dalla sofferenza pura, che viene vissuta nella modalità dell’irreale.»
Neige Sinno, francese di origine e trapiantata in Messico, dona ai suoi lettori uno scritto forte e duro che nulla cela. “Triste tigre” diventa sin da subito un caso editoriale in Francia e in tanti altri paesi. Vince il Premio Strega Europeo 2024 e in 230 pagine di testo delinea la storia di una bambina che viene abusata dal patrigno sin dall’età di circa sette/nove anni e sino all’adolescenza.
Non è solo una testimonianza, ancor meno solo un memoir. È un testo che muove da frammenti autobiografici, di memorie, di ricordi, di riflessioni a posteriori, di riferimenti letterari e tante tante altre tematiche sottese.
È bene dire sin da subito che non si tratta di una lettura semplice e ancor meno è caratterizzata da una scrittura leggera. È un testo che mette a nudo e si mette a nudo, con tutte le sue caratteristiche più intime. Uno dei più grandi meriti di Sinno è quello di riuscire a trattare il tema in modo oggettivo, distaccato, ben focalizzato. Non cade mai nel vittimismo, parla sempre con cognizione di causa e giusta riflessione.
«Camminare come funamboli sul filo dei nostri destini. Inciampare, ma ancora una volta non cadere. Non cadere, non cadere.»
Ancora, l’opera di Neige Sinno non è una ricerca di giustizia personale. Al contrario, il suo è un tentativo per salvare e mettere in guardia altre persone che possono, per qualsivoglia motivo, trovarsi nella stessa situazione.
Ed è questa la forza ennesima della letteratura, delle parole: riuscire a parlare del dolore, riuscire a sensibilizzare anche quando le tematiche trattate toccano aspetti di grande intensità e personalità, come i più piccoli, delicate.
Quale può essere la cura per far fronte al male? Come combatterlo? Come vincerlo? Come comportarsi davanti a un dolore indescrivibile? Probabilmente rispondendo al male con il bene, con la dolcezza, con la voglia e il coraggio di ricominciare e andare avanti una volta per tutte.
“Triste tigre” è un messaggio corale in cui i confini tra vittima e carnefice sono labili e associati alla propria unicità. Non vi è un verdetto finale, vi è al contrario il desiderio di trovare un modus operandi per ripartire, muoversi, agire. Ricominciare davvero dopo un mondo che è crollato in pezzi.
«Io ho voluto crederci, ho voluto sognare che il regno della letteratura mi avrebbe accolta come una delle tante orfane che vi trovano rifugio, ma neppure attraverso l’arte si può uscire vincitori dall’abiezione. La letteratura non mi ha salvata. Io non sono salva. […] L’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi.»
E noi vogliamo crederci con te, Neige. Vogliamo credere che ci sia un rifugio, che l’arte possa salvare, che la letteratura salvi. Anche se forse non saremo salvi nell’oggi, anche e forse siamo tutti un po’ orfani, anche se forse la letteratura non ci salverà, anche se forse la strada sarà un continuo di ricerca e crescita nei corpi che scorrono e vagano.
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Un'opera magistrale degna dei migliori maestri
"Perché hai paura" è una gemma imperdibile, frutto della penna di un autore che può essere accostato ai grandi maestri del genere.
La storia ruota attorno a Sandrine, una giovane donna che, alla notizia della morte della nonna, ritorna sull’isola dove quest’ultima risiedeva per reclamare la propria parte di eredità.
Il romanzo è un’opera complessa e intensa, che non teme di mettere a nudo il lato più oscuro e crudo dell’animo umano. Pur evitando descrizioni eccessivamente grafiche, l’autore non si tira indietro nel rappresentare scene forti e di grande impatto emotivo, mantenendo sempre un equilibrio narrativo.
Lo stile, intriso di eleganza e raffinatezza, richiama in pieno la tradizione letteraria francese, con un linguaggio ricercato e un lessico impeccabile.
La trama è orchestrata magistralmente, con sapienti salti temporali e colpi di scena che tengono il lettore avvinto fino all’ultima pagina.
Ho davvero apprezzato la scorrevolezza e la profondità dei dialoghi, la magistrale creazione dell'ambientazione gotica e le descrizioni piene dei personaggi principali.
Un libro da non perdere!
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CENTRO DI GRAVITA’ IMPERMANENTE
Ho approcciato questo libro, con impressa nella memoria una vignetta che apparve anni fa su un noto quotidiano nazionale: Emmanuel Carrère seduto al bancone di un bar chiedeva al barman “dammi qualcosa di forte”.
Sorrisi, pensando che il vignettista con poche, semplici, parole aveva colpito nel segno. La specialità dei libri di Carrère, in effetti, è rappresentata proprio dalle storie forti e Yoga, ad un primo sguardo, sembrava discostarsi da questo filone.
La mia predisposizione alla lettura ha così seguito il doppio binario della curiosità per la variazione sul tema e dell’aspettativa di una storia comunque a tinte forti. E dato che i binari sono rette parallele che non si incontrano mai, mi sono chiesta se alla fine avrebbe prevalso l’una (la variazione su un tema zen) o l’altra (la storia a tinte forti), ritenendo che le due tematiche non si potessero incontrare e accordare.
E invece, alla fine, mi sono dovuta ricredere almeno per ciò che concerne l’accordo. Perché sì, un’altra specialità di Carrère è quella di riuscire a fare sintesi tra le tante contraddizioni delle storie, delle idee, della vita, anche e soprattutto della sua.
Una sintesi, tuttavia, irrisolta, nel senso che non rappresenta una unità, una fusione di due poli contrapposti, bensì ha la forma di un pendolo che oscilla da un capo all’altro del proprio campo di azione, in uno stato di equilibrio stabilmente instabile che trova la propria summa nel disturbo bipolare che affligge l‘autore e che solo nella scrittura sembra trovare un centro di gravità permanente.
In tal senso, appaiono sintomatiche le tante definizioni congegnate attorno alla disciplina dello Yoga, ognuna con una sua verità originale e intrinseca e che pure Carrère nello scorrere del libro sembra tradire e scartare a una a una, come se nessuna di esse fosse mai quella assoluta, definitiva.
Emblematico, ad esempio, è lo stare qui e ora, che Carrère prima professa e poco dopo smentisce. Nel bel mezzo di un ritiro presso un centro di meditazione, difatti, il nostro d'un tratto leva le chiappe e corre a Parigi in soccorso a una sua amica colpita negli affetti dall’attentato terroristico a Charlie Hebdo. Da quel momento in poi, lo Yoga, seppur continui a innervare la narrazione, diviene meno pregnante e lascia il campo al divagare erratico della penna di Carrère e alla precarietà della sua condizione.
E così ci troviamo di fronte ad un continuo oscillare tra un intellettuale affermato, risolto, grato alla vita, e un uomo sull’orlo del baratro, in procinto di perdere tutto per puro spirito di auto sabotaggio. Uno scrittore sincero, disarmato e nudo di fronte al lettore, e altresì un personaggio un po’ costruito, che presta la propria storia all’utilità della narrazione.
Una storia a tinte forti, si sa, come non poteva essere altrimenti.
Un'eroina "sporca"
La storia narra di Mallory, ragazza dal passato turbolento ed ex-tossicodipendente e della famiglia di Teddy, bambino taciturno e solitario di cui la ragazza diventera' babysitter per un'estate.
Riponevo molte aspettative in questo libro vista l'enorme spinta commerciale che ha avuto negli scorsi mesi e, devo ammettere, non mi ha deluso.
Il libro, primo dell'autore, gode di una trama lineare e abbastanza semplice da seguire, in cui i colpi di scena si susseguono fino al grandissimo ribaltamento finale. Mi sono davvero goduto la storia, in cui i pochi personaggi presenti (al massimo 7/8) sono sufficientemente descritti ed approfonditi.
Certamente punto focale della narrazione e' la protagonista, un'eroina "sporca", non certamente senza macchie.
Sicuramente mi ha tratto di sorpresa l'uso grafico di disegni e schemi fra le pagine del libro, che simpatica scoperta! In questo modo il lettore e' aiutato nel capire le particolari descrizioni di situazioni altrimenti complesse da figurare.
Un ottimo thriller, senza pretese, che puo' aiutarvi ad apprezzare i libri di questo genere.
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Un piacevole esordio per Teresa Battaglia
Un nuovo commissario e' in città' ed il suo nome e' Teresa Battaglia.
Partiamo da Traveni, un piccolo paese incastonato fra le montagne del nord-est Italia. Macabri omicidi e terribili sparizioni dilagano in una, altrimenti, pacifica comunità'.
Lo sviluppo del libro segue il percorso naturale di tutti i grandi gialli che vanno per la maggiore al momento: protagonisti forti, ambientazioni suggestive e casi sconcertanti.
Ho trovato il personaggio di Teresa ben studiato, a tratti reale, e adoro la sua tragica condizione di persona affetta da morbo di Alzheimer. Certamente l'autrice pensava a libri successivi al primo, perché' e' evidente che mancano dei tratti descrittivi importanti a quasi tutti i personaggi principali, mostrando l'intenzione (nemmeno troppo nascosta) di creare una collana di libri relativi a questo commissario.
Il libro l'ho divorato in meno di una settimana, la lettura e' stata davvero piacevole anche se lo stilo e' leggermente elementare. Si riconosce la mano inesperta della scrittrice, sia per il lessico poco sviluppato che per la sintassi davvero semplice, a prova di adolescente.
Non ho dato il massimo al contenuto, in quanto ho trovato la trama un pochino spinta e contorta in alcuni punti, elementi narrativi i macchinosi per giustificare situazioni altrimenti impossibili da costruire.
Tutto sommato, per essere il libro d'esordio l'ho trovato piacevole e un ottimo thriller.
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Ancora postmoderno
Due scienziati, il Professore (chiamato semplicemente così nel corso del racconto) e il suo collega Pesumai, diretti ad un convegno dove dovrebbero presentare la loro ricerca: il loro soggiorno forzato a causa del maltempo presso il castello in cui vive un erudito esperto in lirica provenzale, Osmoc, asserragliato tra i suoi cinquantamila libri (anticipazione dell’io narrante di Locus desperatus, l’ultimo romanzo di Michele Mari): queste le premesse da cui prende l'avvio la prima, giovanile opera dell’autore. Siamo in piena ambientazione gotica (scene notturne intrise di mistero, strane creature che battono alle finestre, castelli secolari, entità sovrannaturali che sembrano aleggiare su tutto). Fuori, una tempesta di neve interminabile, tale da meritarsi anch'essa per la sua eccezionalità un neologismo, “Tarasso” o “Taratto”, non diversamente dall'argomento oggetto della scoperta: “deltatibioresi degli isopropattoni” (termini inesistenti, che fanno balenare sin dalle prime battute l’impressione di un gioco e di una esibita finzione…). Dentro, tra cunicoli, segrete, sotterranei, incombe la presenza di Osac, gemello di Osmoc, demente, bestiale, suo apparente rovescio.
Si delinea così una contrapposizione, un dualismo, un meccanismo binario che presiede all’intera struttura narrativa: da una parte la cultura, dall'altra la natura. In entrambi c’è però un eccesso, un’esagerazione letale: la cultura, nel primo, ha prodotto una totale sublimazione degli istinti materiali e del desiderio sessuale, in una scriteriata pretesa di obbedire ai canoni della diletta poesia provenzale; nel secondo, la natura, priva di qualsiasi forma di controllo e di affinamento, si configura come forza selvaggia e rovinosa. L’episodio centrale di tale dualismo è la trovata di Osmoc di delegare al fratello il compito di adempiere ai propri doveri coniugali, abbandonando la moglie Emilia, inconsapevole dello scambio di persona, alla furia incontrollata del mostro.
Si citava il romanzo gotico. Viene in mente anche il tema del doppio presente in Dottor Jekyll e mr. Hyde, mentre proliferano i richiami alle storie di Frankstein o di Dracula: i riferimenti letterari, la cosiddetta intertestualità, sono la caratteristica principale del romanzo. Essa, unita ad un lavoro costante sul linguaggio, determina una presa di distanza dalle orride atmosfere descritte: il lettore viene come distratto da un vero coinvolgimento emotivo nella storia, dalla piena immersione nella classica suspense fatta di attese, di ansia, di paura e di piacere dell’aver paura. Come anche nei romanzi dell’età matura e nello stesso Locus desperatus, il lettore non si cala completamente in una vicenda che potenzialmente dovrebbe far nascere in lui spavento e senso di orrore, ma in realtà è “divertito” (nel significato letterale e in quello proprio) dalle citazioni continue, dalla parodia letteraria, dalle invenzioni linguistiche. E’ preda insomma più del gioco letterario che della vicenda narrata, chiamato ad un impegno di decodifica basato sull'intelletto e sulla cultura più che sul cuore e sulle emozioni. E perfino in un momento tragico, mentre Osmac affronta un rischio mortale, Mari gli fa pronunciare un elenco di saluti che i sopravvissuti dovranno portare da parte sua alle persone che ha conosciuto nel corso della sua esistenza di studioso e che gli hanno fornito la loro collaborazione: “Un’ultima cosa: in patria ho lasciato molti conoscenti, amici veri nessuno,ma tutte brave persone, benemeriti degli studi tassiani, editori del Folengo e del Trístino (sic), studiosi di vaglia… Vorrei che porgeste loro i miei saluti…Anche il professor Chiarmo, Luigi Ettore Chiarmo, se passate da C**** andate a salutare per me, che non ho mai scordato la liberal cortesia con che a disposizione me mise le carte Bastrozzi-Vagheggi…e il professor Grolla, sì, Mascheroni-Grolla, direttore della sezione di Patristica della Civica Raccolta di C**** e succeduto da poco al Rummigliano nella direzione della…un ringraziamento particolare vada al professor Rantoli e ai pazienti amici Giordano Capcaudatase e Vanni Trighi, che mi hanno benevolmente assistito nella mia fatica…”. Un uomo in pericolo di vita non pensa e non parla così! Il romanzo rivela, qui come altrove, la sua assenza, voluta, di realismo e questo contrasto tra la tragicità della situazione e la compitezza tutta formale e accademica di quelli che sembrano le note e i ringraziamenti finali che un autore appone al suo libro, genera un effetto comico anziché drammatico. Il linguaggio è dunque anch'esso, a sua volta, un grande tema del romanzo: l’erudito Osmoc parla con le parole, le frasi, i versi dei libri, che ha raccolto, letto, assimilato e mandato a memoria, pronti per essere adoperati e adattati a qualsiasi contesto. E questa cura della parola, propria di un filologo quale Mari è nella vita reale, consente una padronanza e produce un’inventiva di prim'ordine, una raffinatezza lessicale, un preziosismo sintattico che si rinnoveranno in tutte le opere successive dello scrittore. Tra le creazioni linguistiche, un posto di rilievo spetta anche alla lingua parlata dal fedele servitore dell’ipercolto bibliomane, Epeo, un misto tra quella che il suo padrone e maestro gli ha insegnato e le parlate locali, di cui viene fornito un assaggio nelle primissime pagine del libro. Di tali parlate è unica esperta Ebeblechei, la segretaria del Professore, stranamente somigliante ad Emilia (un altro doppio, affidato al luogo ricorrente del quadro dietro il quale si cela un mistero: Dorian Gray docet).
Questo continuo citare, riferirsi ad altri testi, parlare attraverso le parole degli altri, spaziando attraverso una smisurata enciclopedia senza confini, questo giocare con la letteratura, con i suoi generi e i suoi topoi, ci ricordano che Di bestia in bestia (prima edizione nel !989, ma testo originale, poi rielaborato, del 1980) è praticamente contemporaneo di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979) e de Il nome della rosa di Umberto Eco (1980). Si può quindi considerare un frutto non trascurabile della fase più alta del postmoderno italiano. Non all'altezza degli altri due capolavori, ma ricco di spunti e di invenzioni interessanti ed efficaci, che inducono a consigliarne la pur impegnativa lettura.
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Un libro di difficile lettura, prolisso e lento
La storia di Lisey e' un romanzo diverso dai soliti libri di Stephen King, sia per stile che per contenuto.
Purtroppo, non posso dire che il titolo sia all'altezza di altre opere dell'autore.
La trama narra di Lisey, vedova di un famoso scrittore, che si strugge fra il lutto ed il ricordo del perduto amante. Alla questo intreccio, si legano altre storie secondarie che aggiungono del mistero e del soprannaturale alla narrazione.
Innanzitutto, devo ammettere che ho trovato quasi sempre forzato l'uso del soprannaturale in questo libro. Non e' ben collegato alla storia principale e, a tratti, mi sono chiesto se avessi capito bene quello che stavo leggendo.
Un libro di 600 pagine deve avere molto da raccontare... beh non e' questo il caso. L'autore spende pagine e pagine in descrizioni semi-inutili di situazioni e pensieri irrilevanti. I dialoghi sono prolissi, le pagine scorrono davvero lentamente in certi punti. Per la prima volta in tanti anni di lettura, ad oltre meta' romanzo ancora non avevo ben chiaro cosa l'autore volesse raccontare.
Credo che lo scopo di SK fosse quello di riavvicinarsi a lavori come Carrie, in cui l'aspetto principale era l'orrore della vita quotidiana. Purtroppo il tentativo e' tremendamente fallito.
Mi e' dispiaciuto molto assistere ad un lavoro cosi approssimativo, difficile da leggere e da godersi.
Purtroppo per ora e' decisamente il peggior libro che abbia letto nell'ultimo anno. Se amate l'autore, risparmiatevi questo titolo.
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Ritorno a casa
Il mistero della morte di zia Colette, avvenuta due volte a distanza di tre anni, nel 2007 e nel 2010, ha dell’ incredibile, dell’ improbabile, dell’ impossibile, semplicemente segna l’ inizio di un’ altra storia.
In se’ l’ eco di una vita dedita al proprio lavoro di calzolaia, una donna nubile, fine, senza figli, con un bel portamento, poco loquace, solitaria, la passione per la locale squadra di calcio del Gueugnon che segue da sempre, amante dei gialli di Agatha Christie e di Simenon.
Agnes Dugain, sua nipote, trentottenne cineasta di fama, emigrata in America, oggi sola, svuotata della propria arte, separata da un marito attore che continua ad amare, ritorna a Gueugnon per le sue esequie e si confronta con la voce della zia registrata su cassette a lei destinate, frequenta vecchi amici di infanzia, cerca di scoprirne il vero volto e chi è stata per l’ amato fratello Jean, suo padre, grande talento musicale prematuramente scomparso, a cui aveva sacrificato la propria giovinezza, per la piccola comunità di Gueugnon, per le poche conoscenze fidate, per se stessa, per l’ enigmatica Blanche.
Tata’ e’ un corposo romanzo di matrice famigliare che scorre piacevolmente all’ interno di una suspance crescente, percorso da ripetuti colpi di scena, con tratti di profondità e di intimità che ricordano gli intricati e turbolenti grovigli umani di Fredrik Backman, meno humour e medesima brillantezza, sbalzi temporali, un microcosmo inaspettato e cangiante, segreti conservati gelosamente, verità celate, una giostra imprevedibile e bizzarra che annulla le proprie certezze svelando porzioni di altro.
E allora la vita di Colette ripropone ad Agnes gli anni della propria infanzia e giovinezza, le consente di ricostruire pezzi di vite altrui, piccoli grandi misteri irrisolti, volti sconosciuti, l’ eco della diversità, passioni insospettabili, amori celati, addentrandosi nelle persecuzioni belliche, ripercorrendo episodi di violenza domestica, segreti famigliari, relazioni impossibili, frequentazioni durature, tradimenti, abbandonandosi all’ idea che ciò che sembrava estraneo e ripugnante possa appartenerci, smascherando origini lontane.
La voce di Colette si apre lentamente alla propria essenza più vera, una semplicità corredata da indiscutibili doti umane, da una forza dirompente, archetipo e collante di tante altre storie, sovente parallele, simbiotiche, multiformi, dolorose, una donna che conquista con il proprio entusiasmo, i prolungati silenzi, la bella voce, i suoi due sorrisi, uno triste e uno gioioso.
Una donna diversa da quello che Agnes aveva sempre creduto, il ritorno nella sua casa vuota la riavvicina a se stessa e a Colette immergendola in un universo sorprendente, sconosciuto, sommerso, voci, volti, speranze inattese, traumi, dolori vissuti dentro, resilienza, passioni, sentimenti, esternando una dimensione personale di incertezza e fragilità, uno stato di attesa e di non ritorno.
Grazie a lei Agnes rivisita passato e presente, uniti da una dimensione atemporale di vicinanza emotiva, accarezza la propria ombra, assalita dai dubbi, riconsidera una famiglia ristretta, l’ amore per il fratello, riflettendo sul fatto che c’è chi mai si riprende da una separazione amorosa, scopre di non essere mai stata bene come in quei giorni, una parentesi indimenticabile conclusa con il funerale della zia.
Grazie alla sua seconda morte Colette è ritornata alla vita, una vita in cui è ancora presente, …
…nascosta nell’ urna come in una lampada magica…
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Illegibile per me
Se avessi potuto, avrei messo zero a ogni voto.
Di questo autore ho letto il bellissimo "Ma gli androidi sognano pecore elettriche" da cui è stato tratto uno dei più grandiosi capolavori della storia del cinema, con le struggenti composizioni di quel genio che fu Vangelis.
Poi leggendo varie recensioni in giro, mi sono fatto prendere dalla curiosità su questo Ubik e mi sono preso la nuova versione con una copertina molto bella di cartone in stile retro.
Iniziando a leggere la premessa mi sono cominciati a venire dei dubbi, in quando si parla dell' LSD e come questa sostanza tanti decenni fa aiutasse gli artisti a tirare fuori il meglio di se nel creare arte, ma allo stesso tempo li lasciasse in uno stato diciamo così psichedelico arruffato.....
Per esempio avevo letto altrove che nella scena finale dell'immenso "Odissea nello Spazio" di Kubrik tutte le visioni di flash colorote dell'astronauta, fossero state il risultato dell'utilizzo di sostanze del regista prima di filmare le sequenze.
Ubik è un libro incomprensibile, perchè l'autore da per scontato che noi sappiamo cosa siano dei termini da lui inventati e che sono solamente nella sua mente.
Quindi il lettore leggerà delle sequenze di frasi apparentemente senza senso che dovrebbero avere un significato compiuto nella narrazione.
E come quando andate a una collezione di arte contemporanea e magari all'angolo di un sala museale trovate un secchio di vernice e dentro il pupazzo di plastica di un oca macchiata....uno si chiede e mo sta cosa cos'è?? che ci vuol dire l'autore?? allora andate a leggere la didascalia e trovate scritto: "passaggio del tempo con sacrificio animale-naturale".....lo rileggete e non capite nuovamente.....vabbè passate oltre, magari l'opera appresso sarà più facilmente recepibile.
Purtroppo con Ubik la cosa non funziona, tralasciate alcune parti incomprensibili di un paragrafo pensando che magari leggendo avanti ne uscirà fuori un significato che ci è sfuggito e invece no, la cosa diventa ancora più oscura, confusa, contorta.
Una serie di idee, immagini, termini, uso di verbi, aggettivi, salti di tempo, donne conturbanti, gente che mette i soldi dentro a un armadio per farlo aprire, persona che parlano con gente morta che sta ancora morendo di più....il morto non morto che dopo muore.....l'amico del morto che torna in vita e vuole sfogarsi perchè si sente solo, la ragazzetta bella e conturbante, Ubik che può essere un oggetto di utilizzo quotidiano come una delle più grandi scoperte dell'umanità. La Luna che a sto punto l'autore decide di chiamare confidenzialmente Luna. La moglie morta, congelata, scongelata e poi nuovamente ricongelata, ma prima di ciò il protagonista gli chiede come migliorare le finanza dell'azienda anche se lei fluttua in una non morte che presto diventerà morte, poichè ogni volta che viene svegliata le forse si dissolvono.....boh
Poi arriva un'altra ragazza, che entra dentro casa di uno e vuol farsi la doccia. Questo le dice, si vieni quando ti pare.....
Sono arrivato alla fine del libro facendo sforzi enormi per non abbandonare il tutto e mi sono chiesto: "ma che ho letto? e quindi?? ma non mi potevo prendere un hamburgher con una Guinness al pub irlandese, invece che spendere sti soldi per sto accrocchio??"
Poi magari io non lo ho capito, però sono dell'idea che come in un pasticcio di carne, più cose ci ficchi dentro e più diventa una matassa immangiabile invece di deliziare il palato.
Poi ripeto è un opinione mia, tanti ci leggeranno un capolavoro, lo apprezzeranno, bene per loro, per me va oltre la mia comprensione attuale e forse futura.
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Più una matrioska che un labirinto
Nel 2023 "Il manoscritto" era riuscito a stupirmi ed intrattenermi, ma questa primavera "C'era due volte" non è stato in grado di replicare la magia del primo libro, per quanto rimanga un titolo apprezzabile sotto diversi aspetti. Per capire se la serie stesse davvero prendendo una brutta china, ho deciso di recuperare entro l'anno "Labirinti", un capitolo conclusivo in cui ritornano con ancor più forza tutti gli elementi caratteristici della trilogia: persone affette da amnesia, ragazzine rapite, bande di criminali sociopatici e forze dell'ordine non proprio competenti.
La prima scena è ambientata all'interno di un ospedale, dov'è stata ricoverata una donna non ancora identificata dopo che le autorità l'hanno trovata sulla scena di un delitto bizzarro. Veniamo subito introdotti alla prospettiva della poliziotta Camille Nijnski, che interroga il dottor Marc Fibonacci a riguardo; l'uomo spiega che la paziente ha perso la memoria, ma non prima di avergli confidato tutto. Per illustrare al meglio gli eventi, si passa alla narrazione alternata di tre storie: quella della giornalista freelance Lysine, della psichiatra elettroipersensibile Véra e dell'adolescente rapita Julie. A queste si aggiungiono poi altre figure femminili, ed ovviamente ritorna anche lo scrittore Caleb Traskman.
Il tutto si delinea all'interno di una struttura narrativa solida e mai noiosa: il rapido passaggio da un POV all'altro potrebbe lasciare frustrati a volte -quando si è in prossimità di una rivelazione importante, ad esempio- ma permette al volume di mantenere un ritmo ed un dinamismo eccellenti. Il lettore viene letteralmente trascinato verso un finale sorprendente ma non incredibile; e lo dico in senso positivo, perché gli indizi nel corso della lettura vengono forniti, quindi per quanto ci si muova in un contesto inusuale i colpi di scena non sono mai campati per aria. Tutto considerato, mi è sembrata una conclusione soddisfacente anche nell'ottica della serie, perché mantiene una nota agrodolce in linea con le vicende raccontate.
Come già accennato, nel volume abbondano i rimandi ai due capitoli precedenti, che per quanto possa sembrare un escamotage paraculo è una decisione autoriale valida e coerente, tesa a tracciare un filo conduttore all'interno della trilogia, elemento che personalmente ho molto apprezzato. Allo stesso modo mi è piaciuta la scelta di presentare ai lettori parecchi quesiti di tipo etico e morale, primo fra tutti la legittimità del delitto con cui si apre la storia, che in un primo momento sembra il risultato del raptus di una squilibrata per poi assumere i contorni di una vendetta forse più che giusta.
La presenza di questi livelli introspettivi è resa possibile grazie all'approfondimento psicologico relativo non tanto ai singoli caratteri quanto ad un'analisi più ampia della mente umana e dei suoi meccanismi. Purtroppo questo svilisce i personaggi, che non vengono caratterizzati in modo adeguato ma rimangono un'incarnazione della loro condizione psicologica, la quale ne influenza la personalità nonché qualunque azione compiano. Sembra un paradosso, ma per quanto la condizione mentale dei personaggi sia attenta e rilevante, non sono riuscita ad individuare carisma o emotività in nessuno di loro, e questo mi ha tenuto distaccata dalle vicende pur reputando intrigante l'intreccio.
Tra i punti a sfavore del romanzo troviamo inoltre l'elemento horror, un po' eccessivo e ridondante a mio avviso: personalmente non mi faccio alcun problema con le scene splatter, però leggerne così tante le priva di rilevanza ed impatto. In modo simile, penso che il caro Franck si sia giocato una buona fetta della tensione a causa della premessa iniziale, perché anticipando la conclusione ha reso impossibile per il lettore preoccuparsi della sorte di alcuni personaggi. Non ho gradito poi le numerose convenienze di trama, sicuramente utili a far progredire la storia, ma al contempo capaci di depotenziarne la credibilità.
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Ritrovare sé stessi tramite gli altri
Chiara si è lasciata col padre di sua figlia, vive la sua vita di madre single mettendo la figlia al centro di tutto e dimenticandosi di sé stessa. Tutto però cambia quando casualmente incontra un vecchio compagno di liceo, Raffaello, che inevitabilmente la porta indietro negli anni.
Il titolo del romanzo #dimmidite è la classica frase che diciamo quando incrociamo qualcuno che non vediamo da molto tempo. Da qui Chiara decide di cercare quei compagni, quegli amici, che hanno contribuito a formare la sua persona e chiedere di loro, indagare sulla loro vita, sapere cosa sono diventati, chi sono ora. Conosciamo Riccarda, la ragazza perfetta e inarrivabile, corteggiata da Stefano, in arte, Terence, l'amore segreto di Chiara ai tempi del liceo. Marcolino e Gabriele, due ragazzi troppo religiosi, Ivan il rappresentante di istituto così rivoluzionario e affascinante, Paloma, conosciuta durante una vacanza in Irlanda...
Tante figure, tante storie che negli anni non sono più le stesse, ma che fanno bene a Chiara, alla sua crescita personale, a quel lato triste che l'accompagna e soprattutto alla sua riscoperta personale.
Ho incontrato Chiara Gamberale durante la presentazione di questo romanzo, ho capito mentre lo leggevo quanto è stato importante per lei aver trasposto su carta questo racconto:, il bisogno di incontrare qualcuno pet scoprirsi e autocapirsi.
#dimmidite è un romanzo molto introspettivo che guarda al presente traendo spunto dal passato, un viaggio doveroso per ritrovare sé stessi.
Chiara Gamberale, persona estremamente interessante e vivace, mi sarebbe piaciuto che mi avesse rivolto la domanda : dimmi di te ... avremmo chiacchierato a lungo.
Leggetelo!
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Eccesso di disgrazie
“Certi soprannomi ti trovano e tu gli corri incontro come un cane, fino al giorno della tua morte, e te li scrivono persino sui documenti accanto al nome vero che nessuno ricorda più”.
“Essere un bambino è una cosa tremenda, non puoi decidere niente. Se superi quella fase e diventi adulto, è più facile dimenticare quel periodo miserabile e fingere di avere sempre saputo cosa stavi facendo. Sempre che tu sia diventato qualcuno di cui andare fiero.”
“Eppure avevo cominciato come qualsiasi ragazzino per bene, dicevo grazie e per favore, facevo i compiti a casa e cercavo di guadagnarmi un sorriso da tutti. Giocavo per vincere con tutto il mio minuscolo orgoglio e i miei piccoli sogni. Che importava se erano sogni da seconda squadra.”
Una vita di sfortune quella del protagonista di questo romanzo premio Pulitzer 2023 che annovererei proprio fra i libri ai cui protagonisti non manca nessuna delle sfortune del mondo. L’ispirazione dichiarata è al David Copperfield che nel raccontare le sventure del protagonista è in realtà un romanzo di denuncia sociale.
Lo stesso vuole essere questo Demon Copperhead che richiama vagamente il romanzo di Dickens anche nel titolo. Qui la denuncia è alla società americana di fine anni 90 che ha lasciato che la diffusione di oppiacei proposti come antidolorifici e che creavano invece dipendenza si sia fatta strada nelle provincie povere del paese (qui siamo nella regione degli Appalachi, depredata dallo Stato e poi abbandonata a degrado e povertà). Questo ha generato morti e conseguenti stuoli di ragazzi orfani seguiti in maniera discutibile dai servizi sociali, sfruttati da chi li ospitava solo per ricevere il sussidio dallo Stato.
Il protagonista è Demon Copperhead, che nelle disgrazie non si lascia abbattere e attraversa con una discreta leggerezza le terribili situazioni che la vita lo costringe ad affrontare. Una delle sue valvole di sfogo è il disegno: racconta infatti le situazioni della sua vita ed i personaggi che incontra in fumetti fantasiosi.
Demon Copperhead, che è il suo soprannome, è dovuto ai suoi capelli rosso intensi ereditati da suo padre defunto (copperhead = testa di rame), nasce in casa da una madre diciottenne alcolizzata e drogata aiutata per caso a partorire. Vive tra una madre in perenne tentativo di disintossicazione e parenti vicini di casa che gli offrono scampoli di vita normale e si pongono come i nonni che Demon pensa di non avere.
La madre si sposa con un uomo violento, Stoner, che la porterà a riavvicinarsi ad alcol e oppioidi fino a venire ricoverata e, alla fine, a morire. Demon viene quindi affidato ai servizi sociali in quanto orfano e passerà da diverse famiglie affidatarie interessate solo al contributo che ricevono per tenerlo con loro e che lo faranno vivere in ambienti sporchi e degradati oltre a costringerlo a lavorare nonostante sia ancora un bambino.
Stufo di questa alternanza di famiglie impossibili Demon decide di fuggire per cercare la nonna e per sapere qualcosa di quel padre del quale non gli è stato lasciato neanche il nome perché la madre gli ha dato il suo.
Riuscirà fortunosamente a raggiungerla e verrà da lei affidato al coach delle più famosa squadra di football del paese.
La sua vita sembra avere finalmente svoltato la curva giusta: la casa è molto bella, i soldi non mancano, il cibo è finalmente più che sufficiente e Demon trova perfino una “sorella”, la figlia del coach rimasta orfana di madre piccolissima. La nonna veglia da lontano su di lui.
Il coach vede in Demon doti sportive e ben presto entra a far parte della squadra dei riservisti e riprende con profitto la scuola.
Tutto bene? Ovviamente se il romanzo vuole collezionare disgrazie no e Demon conoscerà il baratro delle dipendenze, degli affetti persi, e di quanto di peggio si può pensare.
Saranno di sostegno i pochi punti fermi della sua vita.
Il romanzo è lungo, circa 700 pagine, forse per descrivere quanto il libro racconta si sarebbe potuto tagliare almeno in parte senza nuocere all’impianto complessivo.
Ho trovato (e non ho apprezzato) la quantità di problemi che Demon deve affrontare e che pare tirarsi addosso direttamente, almeno talvolta. Non mi spiego anche come una persona in quella situazione e con il suo spirito non possa afferrare subito le braccia tese per aiutarlo che spesso si vede proporre.
Poco mi sono anche spiegata la leggerezza con la quale Demon affronta quando di peggio gli avviene, benché sia ciò che alla fine lo salva tenendolo in piedi.
Ho trovato alla fine ripetitivo nel susseguirsi di disgrazie la storia che alla fine ha un unico tema e filo conduttore. Tenerlo per 700 pagine senza aggiungere altri elementi è sì, forse un po’ troppo.
Sicuramente le pagine scorrono e si leggono facilmente pur risultando un po’ monotematiche. Alla lunga la storia mi ha un po’ annoiato e la figura del protagonista non mi ha completamente coinvolto e convinto.
Una luce invece sulla figura dell’amico Tommy che è riuscito in quel percorso di uscita dalla disgrazia per forza nella quale l’autore invischia il protagonista.
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I retelling non (mi) hanno ancora stancato
Quando tutti sembrano star leggendo un determinato romanzo, quello è proprio il momento in cui la sottoscritta decide di evitarlo. In seguito, le strade percorribili sono due: mi intestardisco nel non voler recuperare il libro in questione mai e poi mai (com'è capitato negli anni con i famosissimi "Eragon", "Il cacciatore di aquiloni" o "I sette mariti di Evelyn Hugo", solo per nominarne alcuni) oppure capitolo dopo aver lasciato scemare l'hype rimanendo quasi sempre delusa dal risultato. Entrambe le alternative non sono il massimo, quindi quando ho ricevuto in regalo una copia di "Demon Copperhead" per il mio ultimo compleanno ho preso la saggia decisione di leggerlo entro la fine di questo poco soddisfacente 2024 letterario.
Ispirandosi per il titolo e non solo al "David Copperfield" di Dickens, Kingsolver racconta la vita di Damon Fields, nato sul finire degli anni Ottanta nella Lee Country in Virginia, da una madre tossicodipendente ed un padre morto diversi mesi prima. Narrato dal protagonista stesso, il romanzo ripercorre la vita del cosiddetto Demon Copperhead, dalla difficile nascita alla troppo breve infanzia, fino ad un'età adulta raggiunta ben prima di aver compiuto diciott'anni. Nel mentre vediamo l'alternarsi di fortune e sciagure, con il desiderio di far parte di una famiglia senza vincoli o date di scadenza sempre sullo sfondo.
Un altro cardine dell'intreccio è la dipendenza da sostanze, analizzata dall'autrice nei giusti tempi e dando ai risvolti più tragici il peso che meritano. La tematica della tossicodipendenza si collega bene agli altri argomenti toccati nel testo -come l'inadeguatezza dei servizi sanitario ed assistenziale, la dispersione scolastica, le disparità sociali- e riesce al tempo stesso a farsi allegoria di quella necessità trascendentale di affetto che caratterizza l'intera esistenza di Demon. Un bisogno che lo porta a compiere gesti tanto eclatanti quanto autodistruttivi, incapace di vedere delle vere alternative al suo declino.
Il tutto è convogliato tramite la prosa curata ed incalzante della cara Barbara, una narratrice capace di donare al lettore delle metafore dalla rara potenza letteraria. Le sue descrizioni genuine e particolareggiate rendono poi l'ambientazione un membro a pieno titolo del cast, permettendo una facile immedesimazione nelle vite dei personaggi. Tra tante esistenze disgraziate, a spiccare è ovviamente la figura di Demon, con la sua voce disinvolta e sagace ci accompagna attraverso dei momenti genuinamente emozionanti, ma privi di quella retorica e di quel patetismo che un po' temevo sarebbero stati presenti.
Una spinta empatica non indifferente verso il protagonista, che si conferma il più grande punto di forza del titolo. A differenza del personaggio dickensiano medio, Demon risulta estremamente sfaccettato sul fronte caratteriale: capace tanto di impegnarsi in risoluzione positive, quanto di cedere alla tentazione delle scorciatoie e di farsi abbindolare dal prossimo. Una personalità molto più adatta ad un contesto contemporaneo -in cui la linea tra giusto e sbagliato non è mai netta-. resa ancor più incisiva dalla sua spigliata ed autocritica voce interiore, che si percepisce con chiarezza nelle sue battutine rivolte ai lettori.
Le stesse lodi non si possono però estendere ad una buona fetta dei comprimari, e penso specialmente ai personaggi adulti. C'è ben poca sottigliezza nella loro caratterizzazione: Mrs Peggot è buona e cara e tale rimane a prescindere da quante disgrazie le capitino, mentre Porta-Qui viene descritto come viscido ed infido sempre, non tenendo in considerazione che per la maggior parte del tempo lui ignora del tutto Demon. Tra i più giovani c'è un maggiore approfondimento, merito del percorso di crescita nel quale li vediamo impegnati; anche così non mancano comunque gli stereotipi indice di pigrizia narrativa, come quello del ragazzo emo-goth autolesionista.
In generale, questo libro non ha tanto degli evidenti difetti, quanto delle mancanze minori: il ritmo non è abbastanza incalzante, i commenti di Demon non sono abbastanza presenti, il comportamento del protagonista non è abbastanza in linea con la sua età anagrafica. La grande assente è però la trama, dal momento che la narrazione si limita ad essere una versione più attuale del romanzo di Dickens, con qualche piccola variazione; sono inoltre presenti diverse svolte all'apparenza molto importanti, ma nei fatti di ben poco conto tanto da venire riprese solo parecchi capitoli più avanti. Ed è così che difficoltà presentate come insormontabili vengono superate con grande facilità, incidendo sulla tensione narrativa.
Il problema dietro queste scelte autoriali poco convincenti è dato senza dubbio dalla volontà di rimanere fedele al materiale di partenza, un difetto comune a molte rivisitazioni di leggende mitologiche e di romanzi classici. In questo modo risultano depotenziati, ad esempio, l'antagonismo con Porta-Qui (che pur avendo libertà d'azione e molte leve a sua disposizione, agisce in modo caotico) o le relazioni romantiche che Demon intreccia nel corso della storia: prive di una solida base sentimentale, si concretizzano soltanto perché la sua controparte dickensiana aveva quei medesimi interessi amorosi. Per questo aspetto, un po' di coraggio narrativo in più non sarebbe affatto guastato.
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"Che decadenza..."
Lorenzo Marone torna con il suo Cesare Annunziata, nove anni dopo La Tentazione di Essere Felici.
Cesare Annunziata è anziano, schivo, apparentemente cinico e asociale. E’ vedovo con due figli adulti e un nipote adolescente che soffre la separazione dei genitori.
Questo pezzo della sua vita è ambientato a Napoli, al Vomero, nel periodo caldo e afoso del sole di pieno agosto.
La città si spopola e spesso accade che gli anziani rimangano soli, come Cesare , il suo amico Marino, vedovo come lui e con cui gioca interminabili partite a scacchi e la sua dirimpettaia Eleonora, la “gattara”.
Sua figlia deve partire col suo nuovo compagno e gli lascia il suo cane Batman.
Cesare è poco propenso a tenerlo con sé, non è capace di gesti affettuosi e non sa neanche come coccolare un animale, ma poi acconsente.
Con la città che si svuota e l’inevitabile solitudine, che si fa sentire ancor di più in questo periodo, Cesare ha modo di riflettere sul suo passato, sui suoi errori e i suoi amori, la sua vita con Caterina, sua moglie, morta da un anno, e sull’amore per i suoi figli probabilmente mai esternato abbastanza. Solo ora ormai ottantenne trova spazio per i sensi di colpa e i rimorsi, d’altronde arriva sempre il momento di fare i conti con la vita.
“Nessun peggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Ma poi, ero felice allora? Posso dire di esserlo stato mai? Sì, certo, a pensarci oggi lo ero, ma la felicità è una filibustiera, nel presente si degrada in nostalgia, che tra le tante forme di tristezza è la più sleale.”
Ma l’incontro fortuito con Iris, la ragazza dai capelli viola, gli darà una nuova speranza, e riempirà quel vuoto che si crea quando ci si sente ormai inutili.
Quel senso di inutilità tipico della vecchiaia, quando nessuno ha più bisogno di te, e quando si percepisce invece di essere spesso un peso per i propri cari, a causa delle proprie fragilità, e degli acciacchi dell’età.
“..non riesco a convivere con l'idea del niente, la mancanza di obiettivi mi sembra la maggior pena da sopportare”
Per la prima volta dopo anni, con Iris, Cesare riscopre il piacere di prendersi cura degli altri, e sente che la vita lo può ancora sorprendere.
Un libro ironico e commovente, pieno di riflessioni sulla vita , sulla società moderna, sull’amore, sulla morte, sul senso di genitorialità e immancabilmente sulla nostalgia della gioventù, su tutto quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto,
“E poi a volte giunge improvvisa come adesso la malinconia e mi sembra di essere travolto da un’onda, impazza in me la voglia di ritornare indietro, per provare ad aggiustare le cose, per essere diverso da quel che sono stato.”
Un romanzo che è un inno alla vita, colmo di pensieri profondi che fanno riflettere sul senso del nostro passaggio in questo mondo, di quanto sia precario tutto questo, perchè la fine è proprio dietro l’angolo, e vale la pena allora cogliere ogni più piccola opportunità quando si presenta, anzichè annegare nei rimpianti quando ormai si può fare ben poco per cambiare.
“A volte il significato profondo dell’aver vissuto sfugge, altre volte sembra così facile: te lo trovi davanti e ti chiedi come facevi a non vederlo. A volte basta un’altalena arrugginita, basta avere il coraggio di coltivare la memoria e di non arrendersi, Di continuare a credere nei miracoli, intestardirsi a cercare qualcosa di nuovo, aver voglia di imparare ancora. La vita è un’ubriacatura, una lunga trasformazione. La vita semplicemente a volte capita e non bisogna farsela scappare”.
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Innocenti in carcere.
"Dove è un tribunale, è l' iniquità", così diceva Platon Karataev in "Guerra e pace" di Tolstoj, e così viene amaramente confermato in questo interessante libro di John Grisham, il famoso autore americano di gialli a sfondo legale, e del coautore Jim McCloskey, scrittore con dottorato in Teologia, fondatore di Centurion Ministries, una benemerita associazione per la scarcerazione di presunti colpevoli condannati ingiustamente (già settanta liberati sino ad oggi).
L'opera illustra dettagliatamente dieci casi giudiziari, cinque descritti da Grisham e cinque da Mc Closkey: tutti riportati nei minimi particolari, dalla descrizione del caso alle indagini preliminari, e successivamente all'imputazione del presunto colpevole , al dibattimento processuale ed alla condanna finale, condanna che comporterà in quasi tutti i casi la pena capitale. Sono tutti casi di omicidio, avvenuti nelle più varie circostanze: donne, anche anziane, stuprate e uccise selvaggiamente, rapine terminate con l'eliminazione della vittima, delitti tra coniugi o amanti, fino al caso che fece più scalpore a livello nazionale e mediatico riguardante un padre sospettato di aver ucciso tre figlie in tenera età appiccando il fuoco all'appartamento.
Gli autori riescono a dimostrare e portare coraggiosamente alla luce, esaminando minuziosamente caso per caso in tutte le fasi processuali, errori procedurali inimmaginabili: false testimonianze con promesse di denaro o riduzione di pena, necessità di trovare a tutti i costi un colpevole per placare i media e l'opinione pubblica, priorità alla presunzione di colpevolezza, indagini mal condotte, caratterizzate da insufficienza di prove convincenti o da esami errati, male interpretati o addirittura falsati da negligenze, corruzione o documentazioni ritenute, con il progredire della ricerca scientifica, non più attendibili. Ci sono dentro tutti: investigatori superficiali, esperti poco aggiornati, pubblici ministeri condizionati, avvocati d'ufficio svogliati o corrotti. Ne esce, come appare dalla lettura dei casi discussi nel libro, un quadro della giustizia che lascia l'amaro in bocca, mettendo anche in conto il serpeggiante razzismo, soprattutto negli Stati del sud, evidenziato da una costante maggiore severità nei confronti dei neri. Mi ha anche colpito, se non altro per motivi professionali, il capitolo nel quale viene discussa l'attività di un famoso medico legale ("Giocare all'autopsia" di Grisham), il dr. Haynes, autore di migliaia di autopsie, senza rispetto delle regole e zeppe di errori, a partire dal 1941: chiamato a prestare la sua opera nei tribunali di molti Stati, passava incessantemente da un cadavere all'altro, fornendo risultati fasulli e contribuendo ad avvalorare la presunta colpevolezza di molti innocenti.
In sostanza, emerge una verità, come sostengono gli autori, e cioè che "è molto più facile condannare un innocente che farlo uscire dal carcere". Nonostante ciò, l'associazione di McCloskey, sostenuta da uno stuolo di avvocati e di esperti, è riuscita nell'intento di annullare alcune condanne, dopo anni di ricorsi e tentativi respinti: alcuni ingiustamente condannati hanno ottenuto la libertà, pur dopo decenni di prigione, altri invece attendono ancora nel braccio della morte, con la speranza di un annullamento della condanna.
Da notare che, negli Stati Uniti, la pena di morte, dopo quattro anni di moratoria, è stata reintrodotta nel 1976 nei 35 Stati che la praticavano, e che da allora nel solo Texas sono state condannate 586 persone, almeno 20 delle quali innocenti. Il libro di Grisham e McCloskey si pone come coraggiosa e non inutile testimonianza che si può sempre sperare di salvare vittime innocenti, anche quando apparentemente ogni speranza sembra perduta.
Ovviamente il libro non è uno dei consueti gialli avvincenti di Grisham, ma una revisione dettagliata di casi giudiziari. La lettura può rivelarsi difficoltosa, consistendo essenzialmente nell'esposizione di resoconti di dibattiti processuali, testimonianze, arringhe di pubblici ministeri e difensori, con uno stile narrativo prettamente giornalistico da parte del coautore McCloskey e qualche spunto di riflessione in più da parte di Grisham. Non mancano commenti puntuali degli autori sulle situazioni più deprecabili nè, in alcuni casi, i lodevoli difficilissimi tentativi di salvare persone erroneamente sospettate di crimini. La lettura sarà molto apprezzata da cultori della materia, o più semplicemente da curiosi di questioni e problemi legali. Offre anche uno spaccato dell'America più profonda, con i suoi pregiudizi e certe convinzioni radicate, e può essere utile per comprendere quanto sia difficile giudicare serenamente e senza pregiudizi.
Apprezzabili, alla fine del libro, alcune "note sulle fonti" da parte degli autori: Grisham, arrivato alle vicende narrate attraverso giornali, riviste, atti processuali, McCloskey invece più direttamente "sceso in trincea", per le strade, nei vicoli, nelle prigioni e nei tribunali, soprattutto tramite la sua associazione ed il continuo confronto con i protagonisti delle vicende.
Un inserto fotografico finale ci mostra i volti di quasi tutti i presunti incriminati per crimini non commessi: molti hanno passato in prigione decenni della loro vita, alcuni colpevoli solo di essersi trovati nel luogo sbagliato in un momento sbagliato. Testimoni viventi della affermazione tolstojana : "Dove è un tribunale, è l'iniquità".
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Cadute, traumi, contusioni
Come è noto, questo è il romanzo vincitore del prestigioso Premio Strega 2024. Chapeau, nulla da eccepire, si tratta in effetti di una lettura piacevole.
Una discreta prova di una autrice che ha già avuto modo in precedenza, con i suoi lavori, di farsi apprezzare da molti, sia in termini di critica che di vendite.
Un testo scritto con uno stile tutto suo, inconfondibile, leggibile in breve, mai i suoi libri contano troppe pagine. Una scrittura essenziale, un linguaggio asciutto, preciso. Donatella Di Pietrantonio va subito al dunque, magari anche in modo spiccio, forse eccessivamente sintetico, qualcuno direbbe una prosa scabra, però efficace, e anche efficiente per il suo voler dire. Tuttavia, a mio modesto parere, il premio più che a questo libro in sé, è stato dato, come dire, alla carriera, al complesso dei suoi elaborati e non specificamente a “L’età fragile”. Un premio meritato sì, ma alla scrittrice, al complesso della sua produzione. “L’età fragile”, in sé e per sé, non mi convince in pieno; per esempio “ L’Arminuta”, colei che ritorna, la riportata a forza, partita e rimandata indietro quasi fosse un campione deteriorato, che è il suo testo forse più noto e di buon successo, e a ragione, mi piacque tantissimo, molto di più dell’ “Età fragile”, era veramente un piccolo gioiello. Una storia di abbandono, molto incisiva, commovente ma terribilmente reale, raccontava un ritorno coatto che però si tramutava in una occasione, una opportunità di riscoperta delle proprie radici, e di un affetto unico, quello che solo una sorella può darti. Anche il sequel di questo, “Borgo sud”, mi è parso di una spanna superiore all’”Età fragile”, e dire che è appunto una continuazione, e si sa, la puntata successiva, l’opera seconda, non riesce mai bene come quello che lo ha preceduto, sarà perché il lettore si aspetta inconsciamente il “già visto”, il rischio di deluderlo è alto. Insomma, finanche i più datati “Mia madre è un fiume”, storia di una anziana che si perde nella nebbia dei suoi ricordi che svaniscono e di una figlia che se ne prende cura aiutandola a ricostruirli, o “Bella mia”, un testo attualissimo, non tanto perché ambientato all’epoca del terremoto all’ Aquila, ma per il tema, quella della maternità per interposta persona, mi sono apparsi, come dire, superiori. Di molto superiori. Intendiamoci, la penna è la sua, pregevole; però a mio parere, “L’età fragile” è appunto fragile, si ferma in superficie, non incrina la linea piatta delle acque, si limite alla trasparenza anziché tuffarsi per esplorare, e descrivere, al meglio i fondali. Che pure sembrerebbero meritevoli di più accurata osservazione: per me, non è la sua opera meglio riuscita. Detto questo, Donatella Di Pietrantonio prende spunto per questo suo ultimo da un tragico episodio di cronaca nera realmente avvenuto sulle pendici boscose della Maiella anni fa. Vittime, povere ragazze, giovani turiste, un femminicidio commesso a scopo di libidine da un individuo in cui erano incappate del tutto casualmente. L’assassinio, un giovane slavo, era un pastore confinato in estrema solitudine nell’assolvere il suo miserabile servizio, davvero in assoluto isolamento, mal retribuito e in condizioni miserevoli, uno schiavo, letteralmente, che l’esistenza di stenti e privazioni aveva desensibilizzato di ogni umanità regredendolo ancor di più alla condizione di bestia selvaggia. Ancora più bestia erano da etichettare però coloro che, persone cosiddette “civili”, avevano pensato bene, tra l’altro, di provvedere certosinamente ai propri meschini interessi, e cioè di armare la bestia perché meglio custodisse le greggi affidategli, infischiandosene delle conseguenze, salvo poi negare ogni responsabilità, scaricando tutte le colpe su quel disgraziato, ancora più colpevole perché un bruto, un diverso, una bestia selvatica, giustappunto. Ecco, tutto questo è preso a pretesto, sullo sfondo agisce il vero protagonista di questo romanzo, la terra natale della scrittrice, l’Abruzzo, il luogo vero protagonista, il personaggio principe e ambivalente, il solo che ha una grande età ma non è per niente fragile, reso a perfezione, e con orgoglio, nei suoi due aspetti precipui: la durezza e la magnificenza. Questa la location, e il pretesto narrativo: poi il romanzo è una storia di famiglia, un rapporto madre figlia. La madre, Lucia, che quel tragico evento che abbiamo detto lo ha vissuto, e la figlia Amanda che, tra un lockdown da covid e accidenti vari, ritorna alla casa natale abbandonando improvvisamente gli studi, e si rinchiude in se stessa, oltre che nella sua camera. In ambedue i casi è una storia di dolori, di cadute, di traumi, ma così è la vita, né più né meno, è quanto succede a tutti, a tanti, a molti, quello che differenzia gli uni dagli altri è il modo come reagisci al dolore, ti rialzi dalla caduta, ricomponi i traumi. Quello che non ti uccide, non è detto che necessariamente ti rafforzi: ma certamente ti insegna che, se vuoi vivere, sarai pure fragile per età o per altro, ma devi darti una mossa, in qualche modo, devi raccogliere almeno i cocci più grandi, e ricostruire un manufatto più o meno funzionante, almeno alla meno peggio. Qualcuno ci riesce, spesso più di uno, e talora davvero bene proprio quelli insospettabili, creduti meno capaci, che al momento utile sanno tirare fuori tutto quello che hanno, capacità volitive ignote finanche a se stessi, e bene o male ce la fanno. Perché è così che si fa, siamo tutti fragili, e forti a un tempo, se solo lo vogliamo. Il che significa che possiamo farcela tutti, a volerlo. Serve però…parlarne.
Ecco, è questo che non funziona. È un romanzo di silenzi, d'interruzione delle comunicazioni, quelle tra madre e figlia protagoniste, ma anche tra coppie, tra amici, tra le vittime di eventi tragici. Un libro che dice, non a parole, con i silenzi, troppi però. I vuoti silenzi non sono utili a indurci alla riflessione, resta un distacco tra libro e lettore, le emozioni ci sono, ma appena accennate, in superficie.
Così però non ti coinvolgono, non evolvi, resti fragile, a prescindere dall’età.
Libro compreso.
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Ada & David
«[…] Ada percepì una tensione tra David e Liston. Anche se era giovane, ne conosceva la causa: il desiderio di Liston di proteggerla con l’onestà, il desiderio di David di proteggere lei da se stesso, con ottimismo, speranza e un po’ di beata ignoranza del destino che lo attendeva.»
Il rapporto tra Ada e suo padre David non è come il normale rapporto tra un padre e una figlia. Loro prima di essere una famiglia sono una coppia intesa come una squadra. David Sibelius è un uomo di grande spicco, lavora in uno dei più importanti e all’avanguardia laboratori di informatica nella Boston degli anni Ottanta e lavora a un programma dal nome Elixir, un programma che anticipa un po’ quello che sarà il progresso dell’intelligenza artificiale e che porta a replicare il linguaggio umano. Per Ada il programma rappresenta una sorta di diario segreto, di amico informatico con cui dialogare e che costantemente aggiorna. Il programma replica tutto quello che Ada dice, acquisendo vocaboli, struttura, dialogo. La dodicenne è cresciuta con costanti stimoli dal padre, quest’ultimo la porta con sé in laboratorio, le ha fornito una serie di codici da decrittare, le ha trasmesso il suo sapere. Per Ada lui è tutto. Liston e tutti gli altri membri del laboratorio ne sono appendici. È abituata a frequentare adulti ma non anche ragazzi, vede il mondo con gli occhi del genitore. Tuttavia qualcosa di inaspettato accade: David scompare. Si tratta di una scomparsa temporanea, dopo quarantotto ore tornerà a casa ma attorno a questo gesto si nasconde una più grande verità che porterà allo stravolgimento totale e completo del mondo di Ada. Una serie di circostanze la porteranno a vivere da Liston, a conoscere i suoi figli, a dividere uno spazio comune, a staccarsi da quel che è sempre stato. Tante saranno le crepe che si manifesteranno nel passato di David e scoprire quella che ne è la verità sarà uno dei più grandi obiettivi di Ada non solo da adolescente ma anche da adulta quando avrà un ruolo importante in una azienda della Silicon Valley.
«Decrittare la rinfrancava sempre: era una maniera semplice di restituire ordine all’universo, di raddrizzare qualcosa di storto, di rimettere il latte versato nella bottiglia. Era un’operazione che implicava giustizia.»
“Il mondo invisibile” di Liz Moore è un romanzo molto particolare per struttura e storia in sé. Lo sviluppo è ben cadenzato, il ritmo narrativo ben distribuito in un accelerare e rallentare costante. Lo stile è fluido, ben articolato. Ben strutturati anche i salti temporali che si alternano con maestria e senza difficoltà in quella che è una narrazione che porta il lettore a entrare a far parte di un mondo completamente sconosciuto ma intenso.
Tante le peculiarità che colpiscono e che vanno dal legame tra il padre con questa figlia al mistero che si cela nel loro passato e che riporta la protagonista al bisogno incessante di ritrovare le proprie radici.
«[…] Immaginava che per accettare la mano tesa di Liston avrebbe prima dovuto lasciare quella di David. E che, se l’avesse fatto, lui sarebbe precipitato a picco nell’abisso che si apriva sotto i suoi piedi.»
“Il mondo invisibile” è uno scritto in cui Liz Moore sviluppa in modo consistente le vicende e dove i personaggi sono vividi. Pagina dopo pagina il lettore è sempre più incuriosito da quel che legge e brama di sapere ancora e ancora. Non si è davanti a un elaborato scontato, anzi. È un componimento appagante e corposo, ricco di spunti di riflessione e magnetico. Un libro da non perdere, uno dei migliori dell’autrice. Un libro letto oltre un anno fa ma che resta indimenticabile.
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Teatro antico
Se non fosse stato per un Gruppo di Lettura a cui ho preso parte nei mesi scorsi, a me non sarebbe neanche lontanamente passata per la testa l’idea di rispolverare il buon vecchio T. Maccio Plauto. È stata, in definitiva, una lettura interessante che mi ha rievocato gli anni della scuola, quando questo autore si studiava per letteratura latina.
È da allora, infatti, che mi è rimasta impressa la grande vivacità linguistica (dai neologismi ai doppi sensi, senza tralasciare le battute ben colorite) come caratteristica distintiva del teatro plautina, e infatti nelle “Bacchidi” se ne trova ampia conferma. Il plurale del titolo si riferisce a due sorelle etère, le quali tuttavia non sembrano essere le protagoniste dell’opera in quanto la scena viene presto dominata da personaggi maschili ben precisi, anzitutto i due giovani innamorati e il servo scaltrissimo. L’inizio vero e proprio della commedia risulta perduto e di esso la tradizione ha conservato una trentina di versi piuttosto mutili. Il modello è indubbiamente greco: il “Dis exapatòn” di Menandro, a cui il testo di Plauto, in generale, si mantiene fedele, non rinunciando però a una rielaborazione a tratti contraddistinta da grandi libertà (si pensi anche alla mancanza del coro, elemento invece fondamentale nel teatro greco).
Da un certo punto in poi, forse a partire dal terzo atto, i ritmi divengono più veloci e pressanti e la trama, con il suo intreccio certo complesso, entra nel vivo; la figura dello schiavo furbo e ingannatore (una costante della commedia plautina) non può non andare a segno, rivelandosi molto apprezzata nonché abbastanza divertente: nel suo significativo monologo all’interno del quarto atto Crisalo (o Rubaloro, a seconda delle edizioni in traduzione) paragona se stesso addirittura a Ulisse (e non solo) e la sua impresa truffaldina all’espugnazione di Troia. Molto importante anche il personaggio del pedagogo che, ovviamente, finisce per ammonire a vuoto e il quinto e ultimo atto dimostra che giovani e anziani (in questo caso, figli e padri), alla fin fine, non si discostano affatto nei loro comportamenti. La questione educativa, pertanto, emerge in modo chiaro da questo testo.
Lettura scorrevole e piacevole, forse non sempre pienamente spassosa; sebbene forse non si tratti di una delle migliori opere di Plauto, induce a leggere (o rileggere) anche altro di questo autore.
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Una favola tra mondo greco e latino
Ricordo di aver letto ai tempi del liceo, e forse anche tradotto dal latino, qualche brano tratto da questa favola contenuta ne "Le metamorfosi o l'asino d'oro" di Lucio Apuleio, autore di lingua latina nato e morto in Africa tra i territoti delle attuali Algeria e Tunisia nel corso del II secolo d. C.
Si tratta di una favola a tutti gli effetti, tradotta e celebre nel mondo, che offre una lettura molto piacevole e scorrevole; sono felice di averla finalmente letta nella sua interezza. Le peripezie della povera Psiche, la cui vicenda sottolinea quanto possa essere pericolosa per i mortali la proverbiale invidia degli dei, risultano coinvolgenti, mentre non stona la scrittura spesso squisitamente ironica di Apuleio, il quale non manca, man mano che procede la narrazione, di riportare osservazioni che appunto strappano un sorriso pur nella drammaticità degli eventi in cui precipita la bellissima ma ingenua protagonista; così come sparsi qua e là nel testo, nonostante la chiara ambientazione greca, compaiono riferimenti alla realtà giuridica del mondo romano (si veda, per esempio, il richiamo alla legge che a Roma vietava di dare accoglienza agli schiavi fuggiti dai loro padroni o alla ben nota Lex Iulia sull'adulterio), curiosamente applicata a un mondo di immortali con le virtù e soprattutto tutti i vizi di quello degli uomini.
Epilogo, dunque, che non poteva tradire le aspettative, con il trionfo dell'amore che ha superato qualsiasi infelice prova e la benedizione ufficiale da parte degli inquilini del sacro Olimpo riuniti al gran completo! Voto complessivo: quattro stelle!
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Un noir a dir poco geniale
Questo è un testo a tratti davvero complesso da seguire: le vicende sono spesso raccontate in maniera molto veloce, sincopata, con lo scopo di dare al noir un ritmo davvero incalzante; il "contro" di questo approccio è che sono dovuto tornare spesso indietro di qualche pagina per capire dove fossimo finiti.
La trama è geniale e le ultime pagine volano!
Consigliatissimo
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Ritratti di signora
Bellissimo! Fra i libri più belli della mia non breve esperienza di assiduo lettore.
La scrittura è splendida, atta a cogliere ed esplorare caratteri e relazioni con intensa profondità : vite e destini che s'intrecciano nello spazio di una località inglese.. Giovani donne soprattutto, nei momenti salienti della vita di ragazze, poi di mogli.
Tra queste, la bellissima Dorothea. "Si diceva che fosse di un'intelligenza fuori del comune, ma con la postilla che sua sorella Clelia aveva più buon senso" ; "signore di rango", benché non propriamente aristocratiche.
Poi c'è Rosamund : "recitava il proprio personaggio così bene che non sapeva se fosse precisamente il proprio". Del giovane medico venuto in paese, pensava che fosse "un uomo di talento (...) che sarebbe stato particolarmente piacevole sottomettere" .
Uno stile fatto di eleganza, intelligenza e sensibilità, con brillanti tocchi di umorismo lieve e profondo.
Un libro magnifico insomma, ricco di fascino, che fa pensare a come possa essere gradevole e fruttuosa anche la rilettura.
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classici della letteratura
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sotto un cielo di rami e foglie
Sulle pendici dell’Etna esiste un posto incantato, un’oasi verde dove è custodito l’albero più famoso e maestoso d’Italia: il Castagno dei cento cavalli, monumento arboreo plurimillenario di inestimabile valore naturalistico e storico. In quel “tempio naturale” sotto “un soffitto di rami intrecciati e foglie” viene ritrovato il corpo di una donna, strozzata e mutilata con una brutalità spaventosa. La scena del crimine è a dir poco agghiacciante e l’indagine si prospetta da subito ardua, soprattutto per la totale assenza di informazioni sulla vittima: nessuna traccia che possa aiutare a identificarla. E’ nuda e priva di documenti. Il suo passato è oscuro e nebuloso quasi quanto il presente: neanche l’ombra di legami familiari, amicizie o conoscenze di sorta, che possano portare luce nel buio di una esistenza apparentemente anonima. In paese la chiamano “Boscaiola” e dai pochi che, accidentalmente, hanno incrociato la sua strada viene descritta come solitaria, schiva, e silenziosa. Insomma: pochi indizi e troppi misteri. Ormai dovremmo saperlo... quando c’è di mezzo il vicequestore Vanina Guarrasi “non c’è caso in cui la morta non si trovi in qualche posto strano”. I delitti più rognosi… nei posti più inaspettati! “Pare che se li va a cercare con il lanternino” osservano i suoi stessi colleghi! Vanina, caparbia e testarda come solo lei sa essere, non si lascia intimorire. Al contrario.. un caso per le mani è sempre un toccasana, soprattutto quando ansie e cattivi pensieri sono pronti ad “attenderla al varco di una notte insonne” e gettarsi a capofitto nell'indagine è l’unico modo per anestetizzarli. Con l’aiuto della sua fidata squadra riuscirà a sciogliere tutti i nodi di questa matassa (e noi su questo non avevamo il minimo dubbio!) che più aggrovigliata non potrebbe essere e che sembra sfidare ogni logica.
La vicenda è ben architettata e accende l’interesse del lettore riuscendo a mantenerlo vivo sino all'ultima pagina e garantendo suspense, tensioni e colpi di scena degni di un perfetto giallo. Agli eventi incalzanti propri dell’indagine si frappongono le avventure private dei vari personaggi, tutti ben delineati e talmente vivi e concreti da diventare per noi lettori, veri e propri amici e compagni di viaggio che dispiacerà lasciar andare alla fine. Ritornano le pene d’amore del dottor Adriano Calì; le tresche amorose dell’ispettore Spanò diventato amante della sua ex moglie ufficialmente ancora compagna dell’uomo per cui a suo tempo lo lasciò (insomma un bel pasticcio!); i tormenti e le disavventure di Costanza che manda all'aria il suo matrimonio e che in queste pagine trova finalmente si ritaglia uno spazio accanto alla sorellastra; le gelosie e i comportamenti sospetti e preoccupanti di Angelina la moglie del commissario in pensione Biagio Patanè. Sarà proprio l’intervento di quest’ultimo a dare una svolta decisiva al caso. Grazie al suo contributo, metodi di indagine tradizionali e “mavarie”moderne diventano tra loro complementari e creano un giusto equilibrio tra recente e antico: le capacità investigative di questa squadra non possono che uscirne rafforzate. Un modo, forse neanche troppo velato, di rimarcare l’importanza dell’esperienza e della saggezza, e di valorizzare il vissuto e la memoria storica di cui Patanè si fa orgogliosamente portavoce. C’è poi l’ispettore Marta Bonazzoli con le sue diete vegane e le sue abitudini salutiste diametralmente opposte a quelle di Vanina e l’ingombrante e impacciato sovrintendente Domenico Nunnari che strapperà qualche sorriso e più di una risata. Ciascuno di loro impreziosisce questa trama, già di per se ricca di colori e sfumature. Le loro avventure riescono a trasformare la vicenda principale della Boscaiola in un contorno, lasciando spazio, al momento opportuno, a sentimenti ed emozioni nei quali possiamo specchiarci.
In questa combriccola, divertente e originale, si distingue poi la vera eroina, Vanina. Tenace e intuitiva, deve ancora imparare a dividersi tra un lavoro che ama e svolge con rara e ammirabile passione, e una vita privata tumultuosa. Amante delle Gauloises, appassionata dei film italiani d’autore, divoratrice di cioccolata e buona forchetta, nasconde, dietro una corazza impenetrabile, le fragilità di un passato che non si dimentica: il dolore per la morte del padre (ucciso da clan mafiosi davanti ai suoi occhi) e il tormentato amore per il magistrato Paolo Malfitano (amore che ha cercato di combattere a lungo ma con scarsi risultati). Vorremmo poterla accompagnare a quei pranzi luculliani alla trattoria di Nino o essere coinvolti anche noi in una di quelle serate a base di film e buon cibo. Dettagli, passioni e piccolezze che in apparenza possono sembrare irrilevanti ,ma sui quali la scrittrice ritorna spesso, perché proprio tra le pieghe di queste abitudini quotidiane si nasconde l’autenticità di un personaggio che ad oggi è tra i più interessanti del giallo italiano.
Emerge nel racconto un amore viscerale per la terra siciliana, per le sue tradizioni (soprattutto quelle culinarie a cui viene dato grande rilievo) e per i suoi panorami selvaggi e incontaminati. Le descrizioni vivide trasportano il lettore in posti unici e spettacolari, cui l’Etna fa sempre da sfondo. Ma non solo.. la scrittrice conferisce un senso di magia, incanto e, oserei direi, sacralità, a un luogo che si è fatto testimone involontario di un delitto cruento e brutale. Con la sua imponenza il Castagno diventa, non solo elemento scenografico, ma personaggio a tutti gli effetti: simbolo del mistero (del delitto) e memoria di un passato mistico e incantato.
Le espressioni dialettali sono frequenti ma non intralciano la godibilità del romanzo, al contrario, rafforzano lo stile e aiutano il lettore a sentirsi parte di questa grande famiglia allargata.
Il castagno dei cento cavalli è un bellissimo romanzo che definirei imperdibile. Porta inequivocabilmente la firma Cristina Cassar Scalia, nel suo stile incalzante, essenziale e rapido. La trama inizialmente sembra procedere lentamente per dare spazio alle vicende personali dei vari soggetti coinvolti ma accelera drasticamente sul finale con un carico aggiuntivo di suspense. La tensione narrativa nelle ultime pagine cresce parecchio e renderà difficile chiudere il libro e dedicarsi ad altro fino a quando il colpevole non verrà assicurato alla giustizia.
Sorellanza, amore filiale, amicizia, senso di protezione, dolore, ansia, complicità.. tutti sentimenti tangibili che si intrecciano come i rami secolari di quell'albero che, dalle pendici dell’Etna, dirige e manovra i fili di una storia che toglie il fiato.
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A conti fatti
Maurizio De Giovanni con “Volver” torna a incantare i lettori con il suo inconfondibile stile di novelliere, con penna agile, snella, potente e intensa, variabile secondo i fatti. La sua è scrittura inconfondibile, unica, tanto semplice e raffinata, intima ed elegante, comica e appassionata, deliziosa per ogni sentimento, azione e considerazione che descrive. Ci offre ogni volta un prodotto che sembra identico ai precedenti, un format consolidato e consueto, ma invece è sempre nuovo, lo rinnova e lo ricicla, non lo modifica mai nei caratteri essenziali. Ci invita invece all’osservazione di nuovi profili, ci incanta con storie sempre diverse e dai finali sorprendenti e imprevedibili. Come è noto ai lettori che lo seguono da anni con fedeltà e passione, e sono tantissimi, fidatevi, il particolare che meglio caratterizza l’agire di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario di polizia in servizio presso la Regia Questura di Napoli durante il ventennio fascista, è il “fatto”. Il giovane è provvisto, suo malgrado, di una spiccata sensitività e percettività, tali che avverte distintamente, e lui solo, un’aura, una luminescenza, lo spirito degli ultimi momenti di vita delle vittime di atti violenti, siano queste accidentali o compiute per mano criminale. In più, recependo distintamente, anche qui solo lui tra tanti che gli sono d’intorno, le ultime parole pronunciate dalla disgraziata vittima, l’ultimo pensiero non sconnesso prima dell’esito fatale. Come sempre accade quando si è destinatario di simili poteri non richiesti, non è un dono, ma una maledizione, di cui avrebbe volentieri fatto a meno, e che almeno agli inizi lo ha fatto più volte dubitare della propria sanità mentale. Tutta l’esistenza del giovane commissario ne è stata influenzata, nel bene e nel male, nel lavoro e negli affetti, fin dal suo primo manifestarsi quando era appena un bimbetto di pochi anni. Ricciardi se ne è fatta, durante il trascorrere di anni angoscianti, laceranti e dolorosi, se non una ragione, almeno una tolleranza, a conti fatti, con il “fatto” viene a una specie di tregua, di accondiscendenza, di paziente per quanto dolente sopportazione. Ad accettarlo no, è una pena a cui non si abituerà mai, non sarebbe umanamente possibile; tuttavia, anche con le inevitabili difficoltà e i tormenti che un simile “fatto” comporta, Ricciardi non può volgere lo sguardo da un’altra parte, non può ignorare la stortura che come un film ininterrotto si snoda continuamente davanti ai suoi occhi, non gli è possibile passare oltre, deve raddrizzare la scena, ricostruire quanto successo perché la vittima in qualche modo ritrovi la propria pace incrinata con violenza, riceva giustizia, e il suo spettro gradualmente affievolirsi. Luigi Alfredo Ricciardi è quello che diremmo un eroe positivo, ma non un uomo eccezionale; è persona buona, aperta, disponibile, comprende come pochi le difficoltà, i giri tortuosi e maligni, e le spirali in cui spesso, troppo spesso, l’animo umano finisce per involversi per i motivi eterni, sempre gli stessi, della fame, della miseria, e poi per il motore più potente di tutti, l’Amore. L’Amore che è un “fatto”, quello sì, assurdo, per cui si vive, si sopravvive, ci si salva, e ci si ammazza. Ricciardi in “Volver” è al termine di un cammino che, iniziato all’alba del giorno dopo il dolore più grande della sua vita, si snoda attraverso un trio di titoli, prima “Caminito”, poi “Soledad” e infine in questo il cui titolo significa ritornare. L’ormai ex commissario ha dato una svolta alle sue abitudini e alla sua esistenza, ha lasciato Napoli per trasferirsi nei suoi possedimenti nel Cilento, il suo è un viaggio a ritroso, anche nel tempo, se vogliamo, un ritorno che lo riporta alle sue origini, si sveste dei panni di poliziotto, indossa quelli che erano già del suo papà, di ricco nobile dell’epoca, agiato possidente di beni e poderi, un gentiluomo di campagna. Il ritornare, il “Volver”, è decisione forse sofferta, e però resasi indispensabile dallo sconcio dei tempi: prima l’abominio delle leggi razziali, poi l’entrata in guerra dell’Italia, il fascismo dilagante con le sue violenze e le sue efferatezze. Ed è un “Volver” alla grande, sono ritornati tutti, sono qui tutti presenti, come in un grande affresco su uno sfondo rurale, i soliti protagonisti di questa azzeccata e deliziosa saga di De Giovanni, tutti insieme appassionatamente: dal Brigadiere Raffaele Maione, che in combutta con l’ umanissimo Bambinella, il “femminiello” arguto, comico, brioso e divertente, si industria a modo suo per salvare la pelle al dottor Bruno Modo, tanto valente come medico competente ed empatico, quanto romantico e impacciato oppositore al regime, militante nelle file dell’antifascismo dalla prima ora. Poi le donne: certo, il suo cuore batte esclusivamente per l’eternità per l’incantevole Ernica Colombo; tuttavia, è sempre nei sogni e nei pensieri dell’ex cantante e diva del regime Livia Lucani vedova Vezzi, ora riciclatasi come Laura, affascinante cantante delle melodie argentine. Nonché la nobildonna Bianca Borgati dei Marchesi di Zisa, contessa Palmieri di Roccaspina, che ha allevato come, più e meglio di una figlia propria la piccola Marta, la deliziosa figlioletta di Ricciardi. Poi i Vaglio, le donne colonne portanti e reggenti dell’immensa tenuta cilentana, zia Rosa e l’ineffabile nipote Nelide seguita da presso da Scuotto Gaetano detto Tonino o’ Sarracino, il suo spasimante, splendido e bellissimo giovane, martire e tribolante, perso dietro il suo incredibile amore per una donna di cui tutto si può dire, tranne che è bella e aggraziata. Ancora, i suoceri di Ricciardi, Giulio Colombo e la moglie Maria, fanno la loro comparsa finanche gli scomparsi genitori di Luigi Alfredo, Marta e Giovanni. E tutta la varia umanità napoletana, sempre presente nei suoi libri, De Giovanni non dimentica mai di citare la sua città e i suoi abitanti, il popolo verace dei vicoli e dei quartieri, sofferente e tribolante per le folle decisioni di Mussolini. Insieme a loro, altri personaggi nuovi, altrettanto intriganti e funzionali alla storia. L’ex commissario si imbatte in quello che oggi diremmo un cold case, un omicidio avvenuto proprio nei luoghi dove bimbetto ebbe diretta rivelazione per la prima volta della sua ambigua e sconcertante capacità. Luigi Alfredo non vuole ombre sul suo passato, inizia a indagare, incontra perciò strada facendo Teodoro Angrisani, maniscalco, fedele fittavolo, preciso e puntuale nei pagamenti, dedito al lavoro e ai figli; la sua sventurata madre Annina, massacrata di botte dal marito per motivi di onore e presunto adulterio, l’ex medico amico di famiglia Pasquale Persico, la maestra Giovanna, l’incredibile vecchissima zia Filomena, sordomuta, che in splendida sintonia comunicativa, si intrattiene in lunghi, logorroici racconti con la piccola, ineffabile Marta. “Volver” è un ritorno all’antico, Luigi Alfredo Ricciardi torna da dove era partito, perché vedete, fa parte di quei personaggi talmente riusciti, di tanta felice intuizione, che oramai vivono di luce propria, non si fanno più raccontare, raccontano loro in prima persona. Perché quello che li muove, è l’Amore: l’amore di chi li scrive, di chi li legge, di chi li segue, di chi li ama. L’amore che quando arriva, arriva: non guarda in faccia a nessuno. Per cui, chissà, anche Luigi Alfredo Ricciardi nel suo ritornare ha ritrovato l’Amore. Per una donna, certo, anche se con altre sembianze. È un fatto.
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DISTOPIA ENIGMISTICA E METANARRATIVA
“Un mondo sinistro” può essere a pieno titolo iscritto al genere distopico, da Nabokov già frequentato una decina di anni prima nel romanzo “Invito a una decapitazione”. Lo scrittore russo inventa infatti uno stato (Padukgrad, retto dal sanguinario tiranno Paduk), una ideologia politica (l’ekwilismo) e persino una nuova lingua (come in “Fuoco pallido”), ma, sebbene la società descritta sia oppressiva e disumana al massimo grado, “Un mondo sinistro” non si può considerare un romanzo politico di denuncia, tipo “1984” di Orwell (da lui non a caso definito sarcasticamente nella prefazione un “mediocre scrittore inglese”). Nabokov è sempre stato molto chiaro in proposito: “Non mi ha mai interessato la cosiddetta letteratura di carattere sociale. […] La politica e l’economia, le bombe atomiche, le espressioni d’arte primitiva e astratta, l’intero Oriente, accenni di «disgelo» nella Russia sovietica, il Futuro dell’Umanità, e così via, mi lasciano supremamente Indifferente”. Anche se alla fin fine l’ekwilismo risulta molto simile al comunismo dell’Unione Sovietica, sostituendo tutt’al più alla mera uguaglianza economica tra tutti gli uomini una non meglio specificata uniformità spirituale, e anche se lo scrittore che aveva dovuto abbandonare l’amata patria pochi anni prima avrebbe avuto più di un sassolino da togliersi dalla scarpa, egli appare qui molto più coinvolto dai risvolti individuali della vicenda. Il protagonista Adam Krug, un famoso filosofo, è non a caso una persona totalmente apolitica, dal momento che rifiuta recisamente tanto di firmare la petizione dei suoi colleghi accademici al Presidente, il quale ha recentemente chiuso l’Università, quanto di aderire alle lusinghe del regime, che aspira ad averlo dalla propria parte al fine di riuscire ad accreditarsi, in virtù dell’appoggio di una personalità insigne dello Stato, forse addirittura la più insigne, di fronte ai sospettosi governi stranieri. Egli è il classico intellettuale che ama vivere nella sua solipsistica torre d’avorio, circondato dai suoi libri e dai piccoli agi borghesi, e in più è un uomo arrogante, sprezzante, egoista e sicuro di essere invulnerabile, al di sopra di tutto e di tutti (del resto non è certo il primo dei personaggi nabokoviani ad avere connotazioni decisamente negative). In controtendenza con questi atteggiamenti, e nascosto sotto la sua burbera facciata, c’è però il sentimento dolcissimo per la moglie Olga recentemente scomparsa, che gli fa sorgere incontrollabili impeti di commozione (oltre a riaffiorare più volte, sotto forma di sogno o di ricordo, come nella tenera sequenza onirica in cui un’Olga quindicenne cammina con circospezione portando tra le mani chiuse a coppa una falena), e per il figlio David, che fa di tutto per proteggere dall’atroce verità della morte della madre e dalle subdole pressioni della dittatura, la quale ha infine capito che per far cedere Krug bisogna minacciarlo nei suoi affetti più cari. Il romanzo non è però, lo ripeto, una presa di posizione sulla necessità per l’intellettuale di schierarsi, di prendere posizione, vincendo la sua superbia o la sua pavidità. La presa di coscienza di Krug non è quella del Pereira di Tabucchi, ma al contrario ha qualcosa di kafkiano, nel senso che il potere che il protagonista si trova ad affrontare è qualcosa di irragionevole e insensato, con cui non è possibile confrontarsi, neppure in una veste antagonistica, e in definitiva sfuggente e inaccessibile come il Castello dell’autore boemo. Il regime di Paduk è per certi versi addirittura ridicolo, caricaturale. I funzionari venuti ad arrestare Ember sono una coppia ambigua e lasciva, che lascia palesemente trasparire il desiderio di copulare sul letto dell’elegante appartamento del padrone di casa, mentre il poliziotto in borghese che controlla Krug si trasforma addirittura, per camuffare la sua identità, nel buffo manichino esposto nella vetrina di una sartoria. Quando poi Krug, novello Josef K., si reca al Ministero della Giustizia per chiedere un colloquio in relazione all’arresto dei suoi amici, non si accorge che l’edificio è stato da poco trasformato in albergo, e l’individuo da lui scambiato per un alto funzionario altri non è che il capocameriere. Tutto ha l’aspetto di una farsa sgangherata e grottesca, come quando a Krug, che si è alfine dichiarato disposto a collaborare col Governo a patto che gli venga riconsegnato suo figlio, sequestrato nottempo per poterlo meglio ricattare, viene condotto un ragazzo che non è David, ma il figlio dodicenne di un suo omonimo; oppure come nella scena in cui lo stesso dittatore si camuffa da carcerato e, recitando goffamente la parte come un guitto da quattro soldi, cerca di convincere Krug ad accettare l’ultimatum del Governo. Eppure, nonostante che in certi momenti tutto sembri una messinscena di cartapesta, bislacca e traballante, fanno capolino qua e là certi orrori in grado di fare accapponare la pelle al lettore. Si pensi a quell’Istituto per bambini anormali, che sembra richiamare certe aberrazioni naziste, il quale dà gli orfani, considerati creature di nessun valore per la collettività, in pasto a criminali ordinari per fare loro sfogare gli istinti più violenti e repressi, in un orripilante esperimento palingenetico volto a sradicare la malvagità insita in loro e trasformarli così in bravi cittadini! La violenza belluina, cieca, volgare e ignorante della dittatura, non avendo nessun contrappeso che la regoli, men che meno la ragione ed il buon senso comune, è destinata fatalmente a travolgere tutto quanto sotto i cingoli implacabili del suo meccanismo inarrestabile. Nabokov viene mosso però da una sorta di compassione per il suo protagonista e gli concede in extremis, pietosamente, la pazzia, un po’ come Pirandello al suo Enrico IV. Il riferimento all’autore siciliano non è casuale, perché “Un mondo sinistro” ha una forte connotazione metaletteraria. Krug ha infatti spesso l’impressione, nel corso del romanzo, che vi sia una presenza che lo osserva e lo agisce. Egli, ad esempio, non sa perché sia ritenuto un filosofo eminente dai suoi contemporanei: “Era una situazione assai simile a quella che può facilmente verificarsi nei romanzi quando l’autore afferma che l’eroe è un «artista eminente» o un «grande poeta» senza tuttavia fornirne le prove; anzi, badando bene a non fornire tali prove poiché qualunque esempio deluderebbe sicuramente le aspettative e la fantasia del lettore”. Il fatto è che Krug è effettivamente un personaggio letterario, il quale sembra prendere coscienza del fatto che ci sia da qualche parte un autore di questo genere, che non si sente di deludere il lettore fornendo le prove della sua importanza intellettuale tra gli uomini del tempo. Il misterioso raggio di luce che penetra nella buia cella dove Krug è recluso in un certo senso prelude alla caduta del velo di Maya e al disvelamento della presenza dell’autore deus ex machina. La pozzanghera che, all’inizio del romanzo, Krug osserva dalla finestra dell’ospedale, in cui si riflette una porzione di pallido azzurro del cielo, è la stessa pozzanghera che il narratore guarda dal suo appartamento dopo aver scritto la parola “fine” del suo manoscritto: l’una è in fondo lo specchio dell’altra, come se il suo fragile e traslucido elemento liquido fosse l’unico, impalpabile diaframma di separazione tra il mondo della finzione e quello della realtà.
“Un mondo sinistro” esibisce la tipica, prodigiosa abilità stilistica di tutte le opere nabokoviane. Si pensi alla sensibilità vibratile con cui lo scrittore riesce a descrivere perfino le minime differenze nella visione della realtà durante un semplice battito di ciglia, oppure il tour de force stilistico nella chiusura del quarto capitolo, dove Nabokov, descrivendo una ragazza che sale di corsa le scale di casa, passa dalle stelle cucite nel suo scialle svolazzante alle costellazioni dai nomi mitici, a Pascal e al suo “effroi” per “il silenzio eterno di questi spazi infiniti”, e ancora alla mitologia che fa un po’ da rete di sicurezza per il pensiero il quale, con una ardita similitudine, viene paragonato a un acrobata che esegue davanti al pubblico il suo numero da circo. E che dire poi del capitolo 7, in cui la trama arcinota dell’Amleto viene letteralmente destrutturata, smontata e rimontata a piacimento, con il risultato di portare ad esiti stravaganti pur di perseguire intenti apologetici filo-governativi (l’esegesi artatamente proposta dal professor Hamm, il quale sembra prefigurare la celebre figura del Charles Kinbote di “Fuoco pallido”, secondo cui il vero protagonista dell’opera non è Amleto bensì Fortebraccio), o oscure velleità pseudo cinematografiche, o ancora ingegnosi giochetti enigmistici (gli anagrammi con cui Ofelia e Amleto vengono ricondotti a personaggi della mitologia, come nel caso del principe di Elsinore che diventa Telmah, ossia Telemaco, il figlio di Ulisse che uccide gli amanti della madre)? “Un mondo sinistro” abbonda di giochi di parole, anagrammi, paronimi, palindromi, ecc., con cui Nabokov sembra voler dare sfoggio di una sfrenata e virtuosistica fantasia verbale, la quale trova la sua più compiuta realizzazione nell’invenzione di una neo-lingua, che è quella parlata a Padukgrad e di cui ci vengono offerti numerosi esempi nel corso della narrazione. Tali e tanti sono i motivi di interesse del romanzo che molti autori successivi sono stati da esso, in maniera più o meno diretta, più o meno consapevole, influenzati: tra i tanti esempi che mi vengono in mente posso citare “Smarrimento” di Richard Powers (per il delicato, amorevole rapporto che lega padre e figlio, dopo che quest’ultimo è diventato orfano, e per l’analogo, triste destino del piccolo protagonista), “La fortezza” di Jennifer Egan e “Quichotte” di Salman Rushdie (entrambi per il palesamento esplicito dell’autore nel mondo di finzione dei personaggi). Insomma, in “Un mondo sinistro” vi sono innumerevoli, sovrabbondanti pagine in grado di deliziare il lettore, e anche se alla fine dei conti il libro risulta più confuso e meno risolto di altre opere dell’autore, si tratta pur sempre di un Nabokov riconoscibilissimo, ossia di uno scrittore che anche nei suoi lavori “minori” è in grado di accreditare la sua figura artistica come una delle più affascinanti, se non addirittura la più affascinante, del secolo scorso.
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Arriverà la primavera, Bandini!
Primo romanzo della saga di Arturo Bandini, cronologicamente parlando, che permette di fare la conoscenza della famiglia Bandini ed in particolare di Arturo e del padre Svevo, muratore di professione, sullo sfondo di una cittadina del Colorado dove è ambientata la vicenda. Per capire a fondo la figura di Arturo Bandini, i suoi tormenti interiori, la ricerca di riscatto e del successo come scrittore, i sensi di colpa di un cattolico osservante (tutti aspetti ben evidenti nel celebre “Chiedi alla polvere”), occorre sicuramente affrontare questo romanzo della saga nel quale si fa la conoscenza con il giovane Arturo-Fante (“Lui era Arturo e aveva quattordici anni. Era suo padre in miniatura ma senza baffi...Era il maggiore e pensava di essere un duro”).
Tra queste pagine si respirano affanni e atmosfere di una famiglia italo americana, le difficoltà del vivere quotidiano magistralmente rappresentate dalla madre Maria, moglie di Svevo, ferita, tradita, arrabbiata a causa della scappatella di Svevo con un’altra donna. Se Arturo è appunto l’alter ego di Fante, Svevo lo è di Nick, il vero padre dell’autore: figurata temuta, ammirata, modello per lo stesso figlio nonostante i comportamenti sui generis, i problemi con l’alcol e la lotta quotidiana per sbarcare il lunario. Un amore che verrà riconosciuto in un altro celebre libro di Fante tutto dedicato alla figura paterna “La confraternita dell’uva”.
Nell’emblematico titolo di questo romanzo, l’unico della saga raccontato in terza persona da un Fante non ancora pienamente maturo e pronto al passaggio di stile in prima, si racchiude il senso di un’attesa. L’attesa di una primavera, dopo il rigido inverno del Colorado, che per Arturo saprà di riscatto, di sfogo alla rabbia repressa a causa della sua natura di italo americano non pienamente accettato se non addirittura disprezzato dai compagni di classe, ma anche a causa dell’amor non ricambiato da Rosa, la sua prima grande passione giovanile. Ma prima ancora che in Arturo questi elementi, questo desiderio di riscatto sociale, è ben visibile in Svevo e risulta evidente nel capitolo tutto dedicato alla parentesi con la ricca vedova invaghita alla quale fa da contrappeso la sofferenza di una Maria, moglie tradita, che cerca conforto nella preghiera. In sintesi, ritratti d’autore che Fante ha tratteggiato splendidamente nella loro dimensione autobiografica.
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Romanzi che sentono la necessità di morire giovani
Mi chiedo da giorni: come si può parlare di un personaggio letterario, se quel personaggio letterario uccide le convenzioni semantiche del linguaggio.
I lettori dovrebbero leggere questo romanzo, forse, consapevoli di dover accettare di possedere una misera porzione di libera interpretazione, che esaurisce il suo spazio nel momento in cui Modesta sigilla la scelta di trasformarsi in libera. Farebbe bene il lettore a riconoscere e abbracciare subito l’oracolo che viene pronunciato dentro il convento dal giardiniere Mimmo, che dichiara alla protagonista le seguenti parole: “principessa per capriccio di natura, che a volte si diverte a dare gambe storte a una principessa di sangue”.
In effetti, solo se si accoglie Modesta nei panni di una principessa, si entra perfettamente nel doppio inganno: l’uno appartenente all’arte del narrare, l’altro alla costruzione architettonica e sottile della protagonista.
La libertà, penso possa essere considerata, non solo il grande tema centrale del romanzo, non solo l’unico principio motore, capace di far avanzare la trama, ma anche il fine stesso della storia e, soprattutto, il senso ultimo della sua unità. Bisogna però prepararsi alla libertà che viene raccontata, perché non ha nulla a che fare con la libertà ideologica, la libertà di genere, la libertà individuale o parcellizzata in una qualche conquista e vittoria sociale.
Il romanzo si divide in quattro parti, eppure, dal mio punto di vista solo le prime due possono definirsi e vantarsi di una certa complessità, le rimanenti, invece, dal mio punto di vista, si reggono in un traballante equilibrio che vive di rendita.
La sottile creazione di un personaggio che crea se stesso a partire dall’infanzia fino alla giovinezza, si vuole forzatamente far entrare anche nella sfera adulta, attribuendole, addirittura, una sorta di modello sociale e politico. Ma ci sono romanzi che possono durare per una lunga vita e romanzi che sentono la necessità di morire giovani, e questo, sempre dal mio punto di vista, rientra in questa seconda categoria.
La rivendicazione politica e di lotta che viene attribuita al personaggio di Modesta, sinceramente rimane per me un breve accenno, raccontato come una sfumatura di cui se ne potrebbe fare a meno, e che, proprio per questa leggerezza, parrebbe un accidente ma non una categoria sostanziale, e invece questa rivendicazione diventa pilastro per attribuire a Modesta, la mastodontica virtù di coraggio per aver dato asilo politico e un riconoscimento tale da onorarla di una candidatura politica a Roma (che fortunatamente Modesta rifiuterà). L’unico “atto politico” che compie Modesta è un atto di vendetta, togliendo di mezzo, tramite l’aiuto del fidato Pietro, i tre assassini di Carlo. Non saranno di certo i finanziamenti segreti che invia al partito a renderla un’eroina (denominazione che fortunatamente Modesta rigetterà), ed una buona contraddizione a favore di questa tesi, secondo me doverosa, ma non so se voluta dall’autrice in questi termini, dal momento che sminuirebbe la sua protagonista, è la presenza e il personaggio di Nina, una donna del popolo che spicca per visibile contrasto accanto alla principessa e per cui il carcere si rivela nella sua crudele natura d’inferno, un luogo in cui gli interrogatori non si limitano ad essere logiche e funzionali chiacchierate, ma vere e proprie violenze e aggressioni fisiche.
Questo titolo da paladina di giustizia viene, dunque, inculcato a Modesta, attraverso l’arrivo di Joyce, psichiatra tedesca, che, per me, rimane un aleatorio mistero, non solo perchè non riesco a trovare la sua funzione all’interno della storia, ma rimane incerto anche ciò che porta con sé, come, per esempio, una conoscenza ben approfondita di Freud, di cui, in un primo momento, Modesta, è vero, rimane affascinata, ma successivamenta rigetta. Il suo rifiuto, però, come descritto dal romanzo, forse a ragione, forse a torto, non è incline ad una debolezza data dall’ammissione di non poter comprendere le sottili tesi psicologiche, insomma, non è una sana sconfitta da parte di Modesta e non è neanche una dispersione di dubbio personale, ma sono solo sporche chiacchiere di “un vecchio medico stanco, malato da anni di cancro alla bocca” che la protagonista riflette e condanna per intero come una debolezza intellettuale del personaggio di Joyce. Mi sono chiesta, allora, forzando un po’ la mano, se fosse possibile reinterpretare in un senso altro la presenza di Freud e, soprattutto, trovare un modo per giustificarla, in una qualche maniera, rispetto al testo. Sarebbe possibile vedere un appena percepibile foro della quarta parete in cui la scrittrice, consapevole di non poter addomesticare il suo personaggio, tenta segretamente di mettersi in contatto diretto con il lettore, fornendogli un suggerimento e una chiave di lettura psicoanalitica per l’intera vita di Modesta? All’interno del testo, sembra esserci, in effetti, un alterco continuo tra la scrittrice, Goliarda Sapienza e la protagonista Modesta. Goliarda sembra voler far rientrare il personaggio di Modesta in una dimensione più umana, nel momento in cui capisce di aver creato un “monstrum” e tenta, attraverso alcune scene sovrapposte tra passato e presente, con alcuni personaggi, quali Tuzzu o Mimmo, che le rimangono accanto e invisibili, come amici fidati e fantasmi con cui confrontarsi per tutta la vita, o alcune parole tattiche, come per esempio “nostalgia”, che si presenta, in realtà come un ricordo vuoto e quindi una nostalgia ancora più profonda, perché cerca ciò che non ha mai vissuto, o ancora la riproposizione di una domanda innocente che Modesta ripete fin da bambina (“come facevo a saperlo, se nessuno me lo diceva?”), (tenta) di riportare il personaggio verso un passato che Modesta ha deciso di eliminare. La scrittrice, sembra, quindi, ogni tanto vestire i panni di una madre disperata, colpevole dei propri errori, che prova a tenere il personaggio per le corde con i pochi e deboli nodi del flusso di coscienza, ma Modesta, che, fortunatamente, sfugge a quello che sarebbe un gravissimo errore, tenta di vivere la sua intera esistenza come personaggio epico, la cui vita è fatta di movimento, azione e mai vera introspezione, e questo lo si può notare non solo nella posizione frontale con cui Modesta accetta qualsiasi tipo di morte pur di riuscire nei suoi obiettivi, ma anche nel tono stilistico del dialogo, prepotente nel romanzo e che ha, per sua natura, la necessità di un fine immediato. Il difetto di Goliarda Sapienza, qui, come a molti scrittori può capitare, è quello di essere troppo innamorata del suo personaggio.
La complessità del testo comincia fin dal titolo, “l’arte della gioia”, che rappresenta, in realtà il punto d’arrivo di tutto un percorso concepito da un seme fertile d’odio, piantato come atto volontario, auto-erotico, da cui sboccia, con una forza propulsiva ed erculea, un corpo femminile nudo, in una pratica di esplorazione sensoriale, sessuale e corporea, che, a poco a poco, lungo tutto il romanzo, comincia ad oscillare da una dimensione strettamente fisica a un potente lavoro di astrazione, per cui non si potrà parlare unicamente di sesso, ma per la maggior parte del testo, si dovrà ragionare di sessualità, come se ci fosse un filtro, in grado di riflettere un potente effetto di straniamento, ciò è chiaro fin dalle prime pagine del romanzo, in cui verrà subito svelato che il primo e unico atto di fede nella vita di Modesta è la masturbazione.
Le prime pagine del romanzo sono tempestate dalla parola “urlo”. Ma che cos’è l’urlo? Nella seconda metà del ‘700, un filosofo tedesco Johann Herder, affrontò il tema dell’origine del linguaggio, sostenendo che per comprendere la progressione della lingua è bene fare un passo indietro e riallacciarsi alla dimensione primitiva dell’homo sapiens, una specie nomade che si misurava con i pericoli della foresta e dal quale tentava di proteggersi. La prima reazione di difesa da parte di questi uomini è rappresentata proprio dall’urlo, un suono che è l’effetto prodotto dal pericolo che viene incontro e anche una dichiarazione della propria esistenza. Una volta che il suono primordiale viene memorizzato e registrato nella mente degli individui come l’oggetto del pericolo, ecco che l’emissione sonora, nella sua forma originaria si trasforma in qualcosa di più raffinato che è rappresentato, per l’appunto, dal linguaggio. Nella dimensione del romanzo, l’urlo si presenta come l’unica espressione linguistica adottata nelle primissime pagine dell’infanzia del personaggio: la madre “o taceva o urlava”, la sorella Tina, affetta da disabilità, taceva inerme a contatto con la madre, la sua unica garanzia di sopravvivenza, mentre, quelle rare volte, che veniva sottratta alla sua compagnia, scatenava urla implacabili dietro la porta del bagno. Proprio la porta del bagno simboleggia un confine spaziale e nettamente divisorio tra le due sorelle, partorite dalla stessa madre, ma che si presentano come due figure estremamente antitetiche. Ciò che permette un collegamento tra questi due personaggi è proprio l’urlo, nella sua sensibilità primordiale, che denota per entrambe una rivendicazione d’esistenza, ma che viene connotato, però, in due poli totalmente opposti. Se l’urlo di Tina è un urlo che appartiene alla dimensione del dolore, l’urlo di Modesta si affaccia alla dimensione del piacere, ma non è un piacere di per sé, in quanto eccitato dall’urlo di Tina ed esposto alle fantasticherie nell’immaginare che la sorella, dietro la porta, si stia auto-infliggendo comportamenti violenti e pericolosi. Un urlo, quindi, quello di Modesta, introiettato come disprezzo impietoso. Un ansimare di piacere, questo, che si registrerà nella sua mente, inconsapevolmente, come una forma d’odio, ma che agirà consapevolmente, nel suo unico linguaggio ufficiale, come volontà ad odiare. Questo seme dell’odio, nutrito da un piacere scaturito dal dolore, si apre nella prima pagina del romanzo come un atto di nascita, per poi essere ripreso circolarmente nell’ultima pagine del testo, in cui Modesta, che è un personaggio, a mio avviso, epico, e dunque statico e irremovibile ai più profondi cambiamenti, appunto, immaginerà che anche la morte non sia altro che una manifestazione d’orgasmo puro, puro perchè crede illusoriamente, o deve credere per necessità, che questo piacere, ottenuto come una conquista, e questa volta, davvero rivendicato come un diritto dopo una visibile lotta, debba essere incontaminato.
Questa è la forma iniziale della complessità del personaggio di Modesta, che riflette, per l'appunto, un cammino di separazione dal gruppo familiare, in cui il primo nemico della sua vita è proprio la sorella Tina.
Ma che cos’è l’odio? Nelle prime pagine del racconto un istinto di sopravvivenza e di resistenza, subito dopo un fertilizzante, una linfa vitale di cui Modesta si nutre. E allora, si potrebbe pensare in maniera, forse, anche un po’ scontata, che l’odio, in quanto cibo quotidiano, consumi anche il personaggio stesso. Ma riguardo a questo dubbio, la risposta è negativa, perché il personaggio subisce uno sdoppiamento in una prima e in una terza persona, che per l’appunto, sono funzionali a cibarsi d’odio, ma non ad odiarsi.
Lo sdoppiamento del personaggio, causato da un trauma a seguito di una violenza subita, da parte di un uomo, che si rivelerà essere suo padre, diventa una spaccatura incolmabile che trova agio, nel momento in cui viene eliminata la possibilità di una qualsiasi rielaborazione e addirittura un obbligo, da parte di Madre Leonora, a dimenticare. Ma sarà proprio questa invocazione all’oblio a trasformare l’odio in un inno. E qual è, dunque, il concetto originario di questo stato di ambiguità che resterà immortale nella vita di Modesta? La sua piena consapevolezza di essere stata innocente. L’innocenza, diventa per Modesta, immacolata autorizzazione e garanzia di poter agire sempre secondo le proprie necessità finalistiche, adoperando, senza alcun discrimine, qualsiasi forma di potere, proprio perché sgravata dal peso di una qualsiasi forma di analisi interiore.
Il primo potere e il più forte strumento che utilizzerà è la libertà. Una libertà assolutamente non convenzionale, che Modesta educherà secondo i dettami di una rigorosissima disciplina, che, escludendo i tre ostacoli più grandi nella vita di ogni uomo: “paura, umiliazione e dolore”, riuscirà a raggiungere, come una principessa merita, ogni suo desiderio, attraverso un metodo selettivo, munito di “forza dell’odio”, considerato da lei come un “esercizio di salute”, e un’ “astuzia di prudenza”, un’attenta e controllante vigilanza rivestita di “un ammasso di nervi e vene”, grazie al quale “in virtù di queste conquiste ora sapevo la fragilità della mia natura e di tutte le nature”.
Nello schema narrativo, quindi, la terza persona, questo strumento di governo che agisce, muove la prima persona, che, al contrario, agisce subendo, al fine di assorbire tutti gli insegnamenti da parte di quei personaggi, di cui la protagonista prova sentimenti ambivalenti di odio e ammirazione, ma, che una volta derubati delle loro personalità, verranno eliminati anche fisicamente. Si attua in questo modo un meccanismo di associazione e identificazione con le persone più pericolose della sua esistenza: Tina, madre Leonora, Gaia, lo zio Jacopo e, infine, Carmine. A loro ruberà atteggiamenti e parole che imparerà ad esercitare come proprie, “cercando in me o negli altri la chiave per non soccombermi”, affinché possa costruire architettonicamente una propria armatura, un modo d’essere, un indole artificiale che non le appartiene, ma che a tutti i costi dovrà risultare originale per poter praticare, con una tecnica disciplina, l’arte della gioia.
Uno dei pochi momenti in cui Modesta vive il terrore, in quanto potrebbe rivelarsi fatale per la sua stessa esistenza, è il il momento del parto, che viene vissuto dalla madre, come un’altra forma di violenza che il corpo è costretto a subire, e una guerra che non finirà finché uno dei due non sarà sconfitto. Ma è proprio questa violenza che permette a Modesta, in quanto personaggio epico, di ammirare come l’individuo, per natura, sia geneticamente pronto ad uccidere, pur di risvegliarsi alla vita. Modesta prova una forte paura perché conosce quella violenta auto-affermazione di vita e sarà invidiosa di essere l’unica, tra i due guerrieri, a sapere dell’esistenza dell’altro, perché nella lotta tra la madre e il figlio, il tentativo di difesa da parte di Modesta si rivela essere una misera sopravvivenza, rispetto al bambino, che, invece, spietato e indifferente al grembo materno, lacererà il corpo e vivrà, attraverso l’atto della separazione, fin da subito come un essere libero e senza macchia, perché se vincitore o sconfitto, sarà comunque innocente. Sopravvissuta Modesta a questa ulteriore violenza, memorizzerà questo schema di nascita, separazione e libertà, tutte le volte che vorrà rinascere, partorita da se stessa, passando per una “grande onda del dolore carnale”.
Possedere questo tipo di libertà significa per Modesta decidere autonomamente quando ha inizio la vita, ma soprattutto quando comincia il passato, perché il destino “è una volontà inconsapevole di continuare, quella che per anni, ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere l’unica strada da seguire” e la vita non ha alcun valore se non educata alla libertà.
Un altro tema presente nel romanzo, è una totale distorsione dell’apparato sentimentale, un organo logorato e monopolizzato dall’istinto e dall’intenzione. Alla domanda “quante volte hai amato?”, Modesta risponde “tutte le volte che era necessario”, ma Modesta crescendo, impara di star sovrapponendo, in questa risposta, l’amore con il desiderio. Infatti, il concetto stesso di necessità, per sua natura, crea una prigione, una dipendenza che Modesta sa di subire con gli uomini e di esercitare con le donne. Che cosa c’è quindi di necessario nei suoi legami? La fama di essere desiderata e la fame di desiderare. Che cos’è il desiderio per Modesta? Un suo raffinatissimo oggetto di lavoro intellettuale, manipolato ad arte, che rallenta e indebolisce il reflusso del sangue, vissuto come un sogno, capace di risvegliare il corpo ai suoi cinque sensi. Ma Modesta rischia di subire un momento di sconfitta assoluta e di umiliazione, tramite il personaggio di Carmine, da cui subirà un inaspettato abbandono, vissuto da lei come un profondo pericolo e potenziale auto-annientamento, quando dirà che “le sue parole si sono impadronite di vivere senza il permesso della mia intelligenza”, proprio perché corre il rischio di sgretolare quel raffinatissimo oggetto di lavoro intellettuale, che assume la funzione erotica solo se partorito da un’affermazione mentale. Modesta impara con Carmine a godere dell’ atto sessuale, che seppur intenso, non è e non sarà mai un atto condiviso. Solo in questo caso, quindi, la dimensione astratta della sessualità diventa concreta e fisica, al punto che Modesta, nella sua fase di giovinezza, invece, non sa di scambiare e sovrapporre l’amore a questa profonda esperienza del corpo. Il desiderio di Modesta per Carmine è profondo tanto quanto “le fessure buie” della sorella Tina o il “pozzo” del convento dentro il quale voleva morire. Carmine è un personaggio negativo nella vita di Modesta, perchè da una parte, in un’inconsapevolezza che si risveglia dall’infanzia, avviene la riproposizione di un transfert che incolla sulle spalle di Carmine la figura del padre di Modesta, un chiarimento, questo, che puo’ forse legittimare questa tremenda debolezza che la donna non è in grado di controllare, dall’altro perché nella Modesta ventenne, Carmine incarna tutti i vecchi valori generazionali che lei detesta e cercherà di cancellare, dice di odiarlo, e lo odia veramente, ma quasi obbligandolo, gli chiederà di ripetergli più volte di amarla, perché, in una spiegazione molto complessa, qui resa spicciola, difficilmente un ideale, che pur si difende con ardore, con la vita e con la morte, potrà essere più forte di un durissimo trauma non ancora risolto.
Però esiste un momento, un solo momento d’amore nella vita di Modesta, e sarà tracciato da un filo che collegherà gli uomini della sua vita al mare, l’unico desiderio dolce e infantile, che la protagonista ha imparato dalle parole di Tuzzu e ha conosciuto e attraversato insieme a Carlo, l’unico ragazzo che, forse, non a caso, proponendole “nuove favole” da raccontare per far sorgere un nuovo mondo, sarebbe stato capace di accogliere quella parte bambina della protagonista; ma innamorarsi, significherebbe abbandonarsi all’amore, quindi allentare la presa del controllo e perdersi in un sé sconosciuto, un assoluto divieto che non è possibile permettersi.
Una domanda, però, a cui non so ancora rispondere è questa: ma in fin dei conti Modesta è colpevole o è innocente?
Quale ricerca?
Un piccolo mondo di solitudini non condivise, rabbia, costrizioni, silenzi normalizzati, costruito su schemi standardizzati in una normalità apparente percorsa da troppo denaro e parecchie ombre.
Due sparizioni separate da quattordici anni ( 1961 e 1975 ), un bambino e un’ adolescente, Bear e Barbara, fratelli, nel mezzo un silenzio prolungato a nascondere misteri irrisolti, il dolore di una madre ( Alice ) sfociato nell’ alcool e in uno stato depressivo destinato alla follia, una famiglia impegnata a conservare la propria reputazione.
I Van Laar, vissuti tra ricchezza e privilegi, di cui tutti parlano sottovoce e da cui tutti dipendono, fondatori del campo estivo di Camp Emerson, frequentato dalle famiglie ricche di Manhattan e del New England, da sempre occupano un posto di privilegio nella vita degli abitanti di Shattuk, costituendone la principale fonte di reddito.
Corre l’ estate del 1975, improvvisamente il letto di Barbara Van Laar vuoto, di lei nessuna traccia se non nella testimonianza di un carattere vivace e ribelle da parte di chi l’ ha amata e le è stata accanto ( Tracy). Anni prima ( 1961 ) anche il fratello Bear era scomparso in misteriose circostanze, allora le indagini non portarono a nulla, depistaggi, fretta, noncuranza, una cappa di silenzio nel brusio della comunità.
Oggi una giovane investigatrice ( Judita Luptack ) è chiamata a fare luce sull’ irrisolto, ritornando a un passato doloroso, a una rete di intrecci, depistaggi, trame famigliari, rancori, due sparizioni costruite su un complesso sistema relazionale e sociale.
Il Dio dei boschi, che potremmo accostare ai Cieli di Philadelphia nella propria trama definente , nel contenuto e nei tratti di alcuni personaggi, è un thriller psicologico ben scritto, dettagliato, tutto è come non pare, il mistero infittisce una trama ovvia quanto sorprendente, i tratti intimisti tanto cari all’ autrice sottendono significati auto definenti in una trama con poco da rivelare ma molto da raccontare.
E allora ci si concentra sulla definizione dei personaggi, Barbara, Bear, i Van Lear, Tracy, Judy, T. J. Alice, Louise in un percorso tortuoso che viaggia nel tempo ( tra il 1961 e il 1975 ), protagoniste prevalentemente al femminile, una società maschilista e retrograda che conserva privilegi acquisiti, difende la famiglia, disinteressata a tutto ciò che non la riguarda.
I nomi dei protagonisti titolano ciascun capitolo, un mondo totalmente diverso, una comunità chiusa e ristretta che ha tralasciato e omesso quello che tutti sanno.
Ci sono delitti impuniti alimentati dal silenzio della dimenticanza, dalla connivenza, da un’ indifferenza comoda e accomodante, sofferenze taciute in nome di un destino già scritto, qualcuno sprovvisto di un alibi, un capro espiatorio da incastrare per sempre, qualcosa da nascondere, recriminare, vendicare, farsi perdonare, qualcuno da amare incondizionatamente, da proteggere, imitare, forse non resta che sparire nel nulla.
La verità scoperchia microstorie, uniche, intrecciate, diverse, che cosa significa nascere ricchi, respirare l’ assenza di passioni e desideri, ossessionati dalla propria reputazione, come indossare una colpa, sopravvivere a un matrimonio di non amore, rifiutare l’ educazione ricevuta, conservare dei pensieri propri, ignorare le parole della gente?
E ancora come essere adulti prematuramente, affermare i propri desideri, riconoscersi nell’ altro, apprezzare chi non si conosce realmente?
Tutto questo tra le pagine del romanzo, un thriller psicologico che si interroga su potere, ricchezza, privilegi, contraddizioni evidenti, che scava nel mistero della vicinanza relazionale, nel silenzio famigliare, nel potere dei desideri, nella capacità di cambiare rotta, affrontando l’ inverosimile.
In questo contesto le protagoniste sfuggono a qualsiasi schema definito, definente, definitivo, riunite per un istante da una lontananza vicina in cui specchiarsi e riconoscersi.
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Cose della vita
I fatti accadono, le cose della vita succedono, e si susseguono senza interruzione, servono le parole per dirle. Anche i silenzi, però, sanno essere eloquenti, talora finanche assordanti. Ecco, in questo romanzo il titolo è quanto mai espressivo, c’è chi dice, e chi no: e però, a mio parere, resta qualcosa d'incompiuto, d'irrisolto, controverso. Può capitare: sono cose della vita, ciascuno la vive a suo modo. A me lettore le intenzioni di chi narra non sono state del tutto evidenti, nell’ultimo romanzo di Chiara Valerio, sia per quello che dice, e per come lo dice, sia per quello sottinteso, perciò silenzioso, tra le righe. Parere personale, naturalmente, però davvero mi è riuscito difficile capirlo: leggerlo no, a modo suo, e molto a modo suo, è un romanzo ben scritto, anche facile da stargli dietro. Diverso nei dialoghi, nei colloqui, nel pensiero espresso in prima persona, ma si può seguire tranquillamente. Ha un intreccio simile a un giallo sui generis, ma l’enigma non sta tanto nello scoprire un potenziale assassino, quanto piuttosto nel capire chi è, o chi era, in effetti, la vittima. In un poliziesco che si rispetti, è vero, si parte sempre dal morto, l’esistenza della vittima sembra iniziare allorché la si rinviene defunta. Tutti i fatti, le cose della vita che la riguardano, vengono riesumati e sviscerati a fondo, si indaga su chi fosse la vittima da viva, perché è nelle cose della sua esistenza che si rinvengono i moventi che muovono la mano dell’omicida. Fino a qua ci siamo, è tutto il resto che non dice abbastanza, e che tace anche troppo. Perché è come se ci fosse tanta carne sul fuoco: per prima cosa la location, un contesto provinciale, Scauri, che è un piccolo centro in provincia di Latina, riconvertitosi nel tempo a località balneare, quindi con una certa frenesia di vita solo nel periodo estivo. Perché in sintesi, negli altri mesi, fuori stagione, si rivela invece un paese piccolo, con molto meno abitanti, solo quelli stanziali, dalla mentalità piccola, ristretti in un microcosmo chiuso e retrivo, pur essendo situato a pochi chilometri dalla metropoli moderna. Pare vigere ancora nel paese una visione patriarcale dell’esistenza, un divario incolmabile tra generazioni, dove ancora è celato e foriero di scandalo e pettegolezzi, per esempio, la banalità di un amore saffico. Vi impera l’egoismo legato al possesso, all’esibizione più che all’essere, e alla personale convenienza. Non esiste, se non per finto disinteresse, la privacy o la discrezione, tutt’altro, impera una curiosità morbosa, manca del tutto il rispetto per l’altrui modo di essere e di concepire l’esistenza. Tant’è vero che, sempre ad esempio, una donna medico, lì trasferitasi in fuga da un vissuto lussuoso ma opaco e deludente, per non dare adito a troppe chiacchiere, si cela dietro una meno appariscente veste di commessa esperta di piante e medicine. E una volta svelatosi l’arcano, Vittoria rappresenta per Lea, l’avvocatessa protagonista voce narrante, non tanto un motivo di curiosità per le motivazioni probanti della sua scelta di vita, una rinuncia radicale al passato pur godendo di agi, prestigio, matrimonio e tenore di vita elevato d’intellettualità, ma un motivo di personale rammarico. La mortificazione di Vittoria in Lea instilla dubbi, l’avvocatessa protagonista si chiede, e ci rimugina per tutto il libro, se il corso dato alla propria, di esistenza, non fosse invece stato guidato non tanto dal proprio arbitrio, ma piuttosto da giudizi e pregiudizi, conformismo e perbenismo di facciata che sembrano regolare imperituri il destino della comunità locale, malgrado studi, presunta apertura mentale e libertà di giudizio. Per questo credo che Chiara Valerio in questo suo lavoro parli soprattutto di donne, e di libertà; di quanto sia difficile tuttora, in certe realtà piccole sì, ma che rappresentano uno specchio fedele di quanto accade in quelle più grandi, l’essere donna malgrado i tempi, le lotte, l’ascesa delle donne nella società civile. Certi preconcetti sono duri a morire, sembra quasi che non spariranno mai: tuttavia, il romanzo è anche l’affermazione non tanto di una ipotetica speranza, ma di una certezza concreta, granitica, che sì, il cambiamento è in atto, si realizza, si concretizzerà, a dispetto di chi dice alle spalle, e sono quasi sempre uomini, e chi tace disapprovando, e disgraziatamente, sorprendentemente, sono quasi sempre donne. Quindi un romanzo con tante, molte chiavi di lettura, dicevamo con tanta carne al fuoco: risulta perciò difficile una cottura omogenea, non si fa in tempo a girarla tutta, può capitare che qualcuna si bruci, qualche altra venga troppo al sangue, quasi cruda. O forse no, forse vengono tutti i pezzi ben cotti, dopotutto il romanzo è stato finalista in uno dei premi letterari più prestigiosi, qualcosa significherà. Personalmente, mi dice poco, e tace troppo: capita, sono cose della vita.
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Una storia, una vita.
Ritorna Daniel Pennac, uno dei miei autori preferiti, con uno strano romanzo, "Il mio assassino", diviso in 64 brevi capitoli, in cui narra alternativamente la storia dei personaggi del libro e quella dei protagonisti dei suoi romanzi, in particolare quelli del celebre Ciclo Malaussène, Benjamin in primis, capro espiatorio di professione, con la sua chiassosa famiglia multietnica allargata. Il principale personaggio del libro è un ragazzino, Lassalve, di quattordici anni, smaliziato e sicuro di sè : è quello che diventerà poi Nonnino, il ricattatore criminale di Capolinea Malaussène, e che è qui all'inizio della sua lunga carriera di malfattore. Il ragazzino, nel corso dei capitoli, riesce ad assoldare due finti genitori con i quali organizza e pianifica magistralmente il rapimento di sè stesso, inducendo i genitori veri a pagare un riscatto. Riesce anche a sottrarre un grosso anello, con un'affilatissima lama incorporata, con la quale darà trionfalmente inizio alla sua carriera delittuosa. La storia è ben architettata in tutti i suoi particolari, con brio ed eleganza, ed è alternata ad episodi della vita di Pennac, gli incontri, le amicizie, i ricordi di una lunga carriera di scrittore e di docente: una sorta di autobiografia dove amici e conoscenti rivivranno poi nei personaggi che animano i romanzi dello scrittore, iniziando dal lontano 1985, quando fu dato alle stampe "Il paradiso degli orchi", l'inizio della famosa saga. Ed a rivivere non sono solo i ricordi personali, ma è un intero quartiere, quello di Belleville, della periferia parigina: un quartiere dove si mescolano popolazioni e razze diverse, diverse età, un quartiere che rappresenta, nel bene e nel male, uno spaccato della vita stessa.
Pennac descrive il tutto con nostalgia e commozione: è passato tanto tempo, ma lui sembra essere sempre lì, tra i ricordi più struggenti della sua vita: e non dimentica neppure di ammonire, con messaggi che inducono a riflettere sul passato e sui pericoli del presente. E' bene leggere a tal proposito il capitolo 33: vi si accenna alle distruzioni che una guerra comporta, alle ragioni stesse dell'ultima guerra ("il secondo suicidio mondiale nell'arco di vent'anni"), cercando anche di capire altre cause, quelle della "frenesia nazionalista, del cannibalismo nazista, dell'autodivoramento sovietico" e, non ultime, quelle della progressiva "uccisione dello stato di Diritto". Pur non essendo, se si riflette sul capitolo accennato, un romanzo politico, Pennac sembra sottolineare i pericoli che incombono nel momento storico in cui viviamo, momento di guerre locali in corso, momento in cui solo "il Grande Capitale se la caverà benissimo": Pennac va a ruota libera, senza peli sulla lingua. E' accusato, dagli amici che lo ascoltano, di eccedere in "scenate di terrorismo senile". Ma, forse, fa riflettere quella che l'autore chiama la "saggezza dell'antenato", con qualcosa, come afferma, dentro sè stesso che "piangeva lacrime vecchie come l'umanità". Ognuno, poi, leggendo il capitolo in questione è libero di interpretare il pensiero di Pennac come meglio crede. Terrorismo senile o saggezza dell'antenato?
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Disgregazione aggregante
“ Ciò a cui lei aveva rinunciato era la vita stessa che il suo corpo rappresentava “
Una giovane donna, Yeong-Hye, rifiuta improvvisamente di mangiare carne tralasciando un corpo che non le appartiene e da cui si sente violata per uno stato immateriale che la ricongiunga a se’ stessa.
Parenti e conoscenti la guardano con sospetto, inorriditi, increduli, giudicanti, lei sempre più magra, zigomi sporgenti, fattezze scheletriche, uno stato invalidante, perché ha deciso di rifiutare la carne, quale il significato del proprio gesto, in fondo è qualcosa che non li riguarda, che non comprendono, in qualche modo responsabili, ma quanto è difficile leggersi dentro.
Yeong-Hye e’ vissuta in un matrimonio di non amore, di invisibilità, di indifferenza, in lei i resti di una gioventù violata, oscuri recessi portati dentro, segreti insospettabili, una trama nascosta, nessuno può salvarla, aiutarla, farla respirare, la scelta vegetariana è un grido silente, accompagnata da un sogno in una neo dimensione appuntita e trafiggente.
Nei tre capitoli del romanzo, cosparsi di un sentimento apparentemente gelido, stantio, inquietante, si accede a un canto che abbandona l’ impercettibile per assumere una nuova forma, una trasformazione e migrazione che riallinei Yeong-Hye a se stessa avvicinandola alla terra nella propria essenza più vera.
Il marito, il cognato, la sorella cercano di interpretarne la mutazione corporale in riferimento a se stessi, all’ impossibilità di capire e amare una donna siffatta, osservando la sua macchia mongolica sulla pelle per asservirla alla propria arte, rispondendo al dolore fraterno per non poterla allontanare da una condizione siffatta.
Di fronte a se’ il corpo di una bella ragazza sottratto al superfluo, a tutto quello che esso rappresenta, in primis il desiderio e la vita stessa, un corpo parlante essendo soltanto se stesso. Quando tutto questo è iniziato, quando Yeong-Hye è caduta a pezzi in uno stato di prolungato silenzio, il sogno di un viso, un gesto estremo di lontananza nell’ attesa di un ricongiungimento armonioso e definitivo?
E allora la carne è il simbolo di quella corporeità a cui si è sottratta, di una sofferenza presente e negata nel tentativo di ricongiungersi a tutti gli alberi del mondo, un corpo smaterializzato che oggi necessita solo di un po’ d’ acqua e di sole, il resto si scioglie sotto la pioggia.
Un dubbio finale insorge, che Yeong-Hye, sin dall’ inizio, abbia cercato la morte e
“ perché è così terribile morire?”
Di certo ha assorbito tutta la sofferenza dentro se stessa, fino al midollo, una ferita nera e profonda che la risucchia in una vita che non le è mai appartenuta realmente,
“ che è solo uno spettrale, sfiancante sfoggio di resistenza”
accompagnandosi verso una morte che le è famigliare come un parente ritrovato dopo una lunga separazione, un corpo che le appartiene nel sacrosanto diritto di farne ciò che vuole.
Uno splendido romanzo nel cuore di una sofferenza, un grido silente e inascoltato, un canto poetico indirizzato a un’ essenza suprema che ricongiunga il proprio se’ al mondo.
Identità, arte, amore, la fluidità della materia, una natura parlante, sogni in cui dissolversi, l’ attesa di una risposta inevasa in uno sguardo cupo e insistente.
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Questo è il mio commento?
Solitamente l'annuncio di un adattamento letterario non mi trasmette particolari emozioni, ma quando ho visto il cast scelto per portare sullo schermo la storia de "Il Club dei delitti del giovedì" sono rimasta senza parole: sono semplicemente perfetti per i loro ruoli! Inoltre da un po' speravo traessero un film oppure una serie da quel romanzo, vista anche la recente moda dei cozy mystery. Con questo rinnovato entusiasmo per la tetralogia mi sono quindi approcciata a "L'uomo che morì due volte", un secondo capitolo leggibile e comprensibile in modo indipendente, tenendo però conto che spoilera in parte le rivelazioni del precedente romanzo.
Sulla scena tornano i membri del Club che dà il titolo alla serie: gli ultra settantenni Elizabeth, Joyce, Ibrahim e Ron; oltre al tuttofare Bogdan, agli agenti di polizia Chris e Donna, e ad un nutrito gruppo di nuovi caratteri che danno il via alla seconda indagine. Nella residenza per anziani di Coopers Chase arriva infatti Marcus Carmichael, una vecchia conoscenza di Elizabeth: si tratta di uno pseudonimo utilizzato dal suo ex marito Douglas Middlemiss, che cerca un nascondiglio sicuro dopo aver rubato venti milioni in diamanti ad un criminale locale. Mentre il Club si attrezza per proteggere l'uomo, vengono portate avanti in parallelo un'indagine a carico della narcotrafficante Connie Johnson e la vendetta contro il teppista Ryan Baird.
Un bel po' di grattacapi in quel di Fairhaven! a mio avviso troppi per analizzare tutti nel modo migliore. Infatti, la linea di trama collegata a Douglas occupa la maggior parte della narrazione, e le altre sono costrette a convergervi a forza. Questo incide soprattutto sulla sottotrama dedicata ad Ibrahim, che per l'appunto ottiene solo una manciata di scene di sviluppo ed una risoluzione fuori pagina a dir poco frustrante, specie perché si dovrebbe parlare con più cognizione di PTSD. La stessa frettolosità superficiale ricade anche sui flashback di Bodgan e la (presumo) depressione di Donna: tutto sistemato tra una battuta e l'altra.
Anche a livello di trama avrei alcune note non proprio positive. In linea generale, ho trovato l'intreccio meno coinvolgente e misterioso del previsto; memore della complessità e dell'inventiva dimostrate dal caro Richard nel suo debutto, mi sarei aspettata un giallo più articolato, e sicuramente meno ripetitivo nelle dinamiche. Per quanto mi riguarda, la ricerca dei diamanti rubati non mi è sembrata un innesco abbastanza convincente -in fin dei conti i protagonisti non sono i derubati e per loro ritrovare il maltolto significa ben poco-, mentre lo smascheramento dell'assassino sarebbe stato entusiasmante se le vittime non fossero state tanto ambigue per buona parte del volume.
In compenso, trovo che il finale sia stato decisamente soddisfacente, sia per l'escamotage che viene ideato da Ron per far giustizia, sia per come viene spiegato il piano del colpevole. Mi è piaciuta parecchio anche la conclusione data alla romance di Chris: una relazione credibile e dolce senza sfociare in un'eccessiva zuccherosità. Tra i pregi finisce ovviamente la caratterizzazione sopra le righe dei personaggi che rende la lettura piacevolmente esilarante, si tratti dell'adorabile svampitaggine di Joyce o delle priorità tutte sfasate di Lomax.
Tra un'avventura e l'altra, Osman riesce ad includere anche qualche parentesi di serietà, infatti in questo libro si torna a parlare di Alzheimer, di confronto generazionale e dei diversi modi in cui le persone anziane si pongono rispetto al mondo contemporaneo. Si tratta di parentesi molto ridotte ma assai gradite, perché riescono a fornire un quadro abbastanza verosimile nel quale racchiudere delle vicende che spesso non lo sono neanche lontanamente.
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il prezzo della libertà
Rosetta ha lo sguardo fiero di chi non vuole piegarsi ad angherie e soprusi. Nel suo paese la considerano una poco di buono perché è bella, indipendente e rifiuta di “sposarsi e figliare”. Coraggiosa e determinata si oppone con le sue sole forze alla prepotenza di chi vorrebbe portarle via ciò che le spetta di diritto: la terra che ha ereditato da suo nonno.
Raechel vive in un villaggio della Russia dove alle donne è proibito leggere. Quel cespuglio di ricci scuri e crespi che le incorniciano il viso nascondono due occhi vispi disposti a tutto pur di realizzare il suo sogno: diventare una libraia.
Rocco porta sulle spalle la colpa di essere stato cresciuto da un uomo d’onore. Il suo destino è già scritto. La strada tracciata per lui ha un’unica direzione, quella della totale obbedienza al suo “benefattore”, Don Mimì. Ma nelle sue vene scorre il sangue della ribellione. In un paese come il suo, la libertà di poter scegliere quale guerra combattere non è un diritto da difendere ma un privilegio da conquistare.
Tre storie che nascono in punti geografici differenti e si sfiorano su una nave diretta a Buenos Aires: sulla stiva bagagli di sogni e speranze, valigie di promesse e illusioni, bauli di aspettative e desideri.
Tre vite in apparenza molto diverse eppure accomunate dalla stesa voglia di ritagliarsi il proprio spazio nel mondo e disegnare un futuro con nuovi colori.
Tre destini che inevitabilmente dovranno convergere, intrecciarsi e mescolarsi in una Buenos Aires che agli inizi del Novecento è tutt'altro che materna, accogliente e benevole.
Ad attenderli c’è una realtà fatta di soprusi e sopraffazione. Ancora una volta è la logica del più forte a dettare legge e a pagare pegno sono le donne e i bambini. Quel carico di speranza, che viaggiava sulla stiva della nave, si è perso nel blu di un oceano senza confini. Inizia così un’avventura che sintetizzare nello spazio di poche righe sarebbe impossibile. Corse a perdifiato, travestimenti originali, traffici loschi e complotti illeciti. Seguendo le loro prodezze e fronteggiando gli imprevisti che si presentano sulla loro strada, l’attenzione del lettore resta accesa dall'inizio sino alla fine. E’ un’avventura in cui realtà e finzione travalicano i rispettivi confini: nelle pieghe di questo intreccio magico risiede l’incanto di una vicenda che sa emozionare e toccare il cuore. C’è da sorridere per i modi impensabili in cui Rocco riesce a tirarsi fuori dai guai; c’è da commuoversi per la dolcezza di quel sentimento che scalda il cuore di Rosetta quando ritrova il suo amore; c’è da riflettere quando il registro cambia, e a occupare la scena sono la miseria e l’oppressione.
La condizione della donna, concepita come un oggetto, violata e usata come merce di scambio, diventa centrale e la paura e la sottomissione sono palpabili. I temi della schiavitù e del libero arbitrio sono affrontati con grande cura e meritano davvero la nostra attenzione perché sebbene si parli di una Buenos Aires che appartiene al passato, leggendo queste pagine si ha la sensazione che queste tematiche per quanto brutali e scomode, siano purtroppo ancora attuali, resistenti e concrete.
La capacità di dare spazio anche a temi crudi e abietti della realtà è merito di una scrittura autentica e trasparente che sa andare dritta al bersaglio. Luca di Fulvio non si perde in giri di parole, qualunque sia il sentimento che deve arrivare al lettore. Anche quando la violenza e la sopraffazione tiranneggiano e esigono il loro spazio, lo scrittore non si tira indietro, nulla nasconde e nulla addolcisce e questo ci trasporta inevitabilmente dentro il racconto, a fare il tifo per i personaggi, a sperare per la loro sopravvivenza, a esultare per i loro successi e.. talvolta anche ad arrabbiarci per questa realtà che sa essere spietata.
Il racconto è scritto in terza persona con punti di vista alternati, si ha quasi l’impressione di assistere a una sceneggiatura in più atti e grazie allo stile incalzante e avventuroso si fa difficoltà a interrompere la lettura. Ogni vicenda richiama inevitabilmente la successiva, ogni capitolo che si conclude è un invito ad iniziare il successivo. Nonostante le 630 pagine la lettura è scorrevole e la narrazione procede spedita. I personaggi sono descritti con dovizia di particolari; le loro personalità curate nei minimi dettagli. Al viaggio fisico che li ha portati in una terra straniera si accompagna un cammino di crescita interiore e di cambiamento: i ragazzi pieni illusioni che incontriamo nelle prime pagine diventano alla fine del racconto adulti responsabili e consapevoli. La sensazione sarà quella di averli visti in carne e ossa percorre i vicoli del barrio e destreggiarsi tra le urla e richiami del porto, in una città che ferisce, a volte tradisce ma non si dimentica.
Un romanzo febbrile, intenso, indimenticabile. Una storia di ingiustizie e prepotenze ma anche di riscatto e speranza che ci mette davanti a un quesito antico ma sempre attuale: qual è il prezzo che siamo disposti a pagare per essere anche noi figli della libertà?
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ascoltare la pioggia
A Pizzofalcone è arrivata la pioggia. In un martedì di novembre come tanti. Inesorabile. Spietata. Implacabile.
E’ pioggia per il vicequestore Luigi Palma, che annega in un mare di solitudine, costretto a vivere il suo amore nell'ombra. Come un ladro e un criminale.
E’ pioggia per l’ispettore Giuseppe Lojacono, sommerso dalla disperazione che allega gli occhi di sua figlia.
E’ pioggia per l’assistente capo Francesco Romano, braccato da un nuovo demone: l’amore che “arriva e butta tutto all'aria come la rabbia”.
E’ pioggia per la vicesovrintendente Ottavia Calabrese che, rinchiusa nella sua gabbia familiare, affoga in un mare di sogni e di sensi di colpa.
E’ pioggia per l’agente assistente Alex Di Nardo, che si trova a remare contro corrente per salvare gli affetti e la famiglia.
E’ pioggia per un’intera città, straziata da un delitto incomprensibile: l’avvocato penalista Leonida Brancato, ribattezzato “re del cavillo”- ormai in pensione per la gioia dei suoi avversari - è stato strangolato nel suo appartamento. L’assassino si è accanito su quel vecchio corpo malandato con una crudeltà che parla di rancore e vendetta. E’ un caso che scotta perché l’importanza del defunto richiama da subito l’interesse delle alte sfere, che vorrebbero affidare l’indagine a personale più qualificato affidabile, con conseguente capitolazione di quella squadra di reietti “cacciati dalle varie strutture per un sacco di ottimi motivi” e che il commissariato di Pizzofalcone ha riunito sotto un unico tetto. Nonostante le malelingue che li reputano inadeguati, i Bastardi proseguono per la loro strada con determinazione e caparbietà, riuscendo, non solo a mettere insiemi i pezzi del puzzle, ma anche ad incastrarli alla perfezione.
La vicenda è accattivante e ben costruita. La risoluzione del caso cattura l’attenzione immediatamente e invita a divorare ogni pagina, con la smania di guardare in faccia il colpevole quanto prima. Se ogni giallo che si rispetti esige un finale imprevisto e imprevedibile allora il romanzo non deluderà nessuno. Tuttavia, a far sospirare il lettore e a tenerlo con il fiato sospeso, sono soprattutto le vicende private di questa squadra sgangherata e fuori dalle righe. Ormai il team si è trasformato in una vera e propria famiglia, legata non da vincoli di sangue e lignaggio, ma da rispetto e fiducia reciproci. Lo stile limpido, pulito e fluido rende la lettura ancora più apprezzabile, unitamente alla scelta di raccontare le motivazioni di un delitto, apparentemente incomprensibile, tramite la voce dello stesso assassino: attraverso questo fiume di parole è più semplice accettare che spesso, oltre i confini del male, si nasconde un cuore che sanguina.
Come pioggia travolgente, poesia e musica impregnano ogni pagina del romanzo, conferendo alla scrittura di Maurizio de Giovanni una connotazione magica e originale. Con grande sensibilità e sorprendente audacia riesce a trasformare una perturbazione climatica, incessante e devastante, nella vera protagonista della storia. Prepotente ed egocentrica, influenza ogni decisione e sommerge tutti i sensi. La vista: è una pioggia fatta di luce. Il tatto: è una pioggia che accarezza la pelle. L’udito: è una pioggia che con il suo stillicidio segna il tempo della vita e della morte. Si insinua nelle pieghe dell’anima rimestando con cieca furia, rancori, turbamenti, paure e rimpianti che si pensava fossero annegati per sempre. Diventa colonna sonora di un delitto e poesia della vita privata, non solo dei protagonisti, ma anche di ogni lettore che, di fronte a questa pagine di dilagante realtà, non ha altra scelta se non quella di lasciarci portare alla deriva, perché la pioggia si sa.. non lascia scampo, martella, incalza ma alla fine se si ha la forza di ascoltarla e di accoglierla può regalare attimi di speranza, conforto e redenzione.
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Vicina lontananza
Dublino e dintorni, Ivan e Peter, fratelli diversi al cospetto di una vita contraddittoria, compulsiva, rassegnata, fallimentare, inconcludente, il presente collassato al funerale del padre, morto dopo lunga malattia, da quel momento un onnipresente dolore corrosivo.
La maturità letteraria di Sally Rooney si traduce in un romanzo dalla trama scarna, un concentrato di realismo, intimità, vita vissuta, ma anche di riferimenti letterari ( Shakespeare, Joyce, Keats, Wordsworth, Hardy, Henry James) e filosofici ( Wittgenstein, Russell) adeguando forma e contenuto all’ unicità dei protagonisti.
Storie immerse in un frizzante microcosmo sentimentale, nel quotidiano, gesti ripetuti, soliloqui parlanti, dialoghi aperti, esperienze rivisitate, il vicendevole raccontarsi, la forza di un sentimento condiviso, la disperazione di un dolore sempre più grande, il rimpianto della perdita, la constatazione del fallimento.
Quale l’ origine del proprio dolore, separati da un lutto evidente, dove collocare la rabbia, il proprio senso di solitudine, smarriti, non amati, persi, più o meno consapevolmente.
Peter e Ivan, dieci anni di differenza, una contrapposizione caratteriale, relazionale, culturale, fisica, esposti alla propria inettitudine, a una contrapposizione evidente, a una non frequentazione di lungo corso, un odio-amore che sottende diversità e gelosia, trame irrisolte e strani convincimenti, una lontananza imbrattata di un’ incomunicabilità di fondo.
In un’ alternanza di presenza-assenza spicca una vita sentimentale controversa, Peter, avvocato trentaduenne che vive all’ interno di un’ egocentrica superficie apparente, diviso tra una relazione di lungo corso corrosa da un grave incidente (Sylvia) e vissuta come amicizia particolare e la passione irrazionale per una giovane studentessa (Naomi) che attinge continuamente dalle sue risorse, Ivan, scacchista ventiduenne, solitario, introverso, goffo, inadeguato, si imbatte in un’ affascinante trentaseienne reduce da un matrimonio fallimentare con la quale vivere un amore profondo e appagante ( Margaret).
Alla morte del padre i fratelli sostano in un intermezzo prolungato, un tentativo di recupero relazionale abortito precocemente, un viaggio sentimentale caotico e controverso in cui specchiarsi nella propria mediocrità e riconoscere l’ impossibilità di un amore senza futuro osteggiato da una comunità cattolica e benpensante.
In questo dolore onnipresente la rabbia imperversa, i rimpianti ritornano, il lutto rimane, immobilizzati dalla propria insensatezza, con la paura dell’ amore, del fallimento, di essere ricambiati, respinti, di perdersi in una dipendenza affettiva, il proprio senso di solitudine compagno da sempre.
Ivan e Peter, riuniti da divergenze complementari, desideri legati agli accadimenti, entrambi navigano nel passato, nei propri rimpianti, nel dolore della perdita, nel flusso di coscienza, nell’ impossibilità di assumere lo status di pater familias.
L’ autrice dosa il linguaggio ai tratti dei protagonisti e alla loro essenza, quello di Peter tronco, freddo, rivolto al passato, quello di Ivan imbrattato di un algido romanticismo sentimentale.
Le figure femminili del romanzo sono assai presenti, anch’esse reduci da un passato doloroso e controverso, bisognose d’ amore, dentro un caos relazionale contraddittorio, disposte a scelte radicali in una vita senza certezze, fragilmente esposte al caos sentimentale dell’ altro, abbandonate alla solitudine in uno stato di anestesia apparente.
Nell’ incedere del romanzo la singola voce dei protagonisti e dell’ io narrante si fa incalzante, collettiva, il turbinio emozionale imperversa, il tempo stringe, le scelte incombono, gli accadimenti riflettono una vita segnata e stravolta da una persona o da una relazione, ma è
“ la vita stessa a dare un senso a quelle relazioni “
e sono le persone a creare e a dare senso alla vita il cui incedere attraversa precarietà, perdite, dolori, immaginazione, pensieri, quello smisurato mistero irrisolto riproposto quotidianamente.
“ niente è fisso. Lei, l’ altra. Ivan, la sua fidanzata. Christine, il padre, dall’ oltretomba. Non sempre funziona, ma faccio del mio meglio. Vedi come va, continua comunque a vivere “
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Trovare un senso! E se il senso non ce l'ha?
Questo libro - papale papale - non mi è piaciuto.
Ho faticato fortemente a portarlo a termine, così come ho faticato a rintracciare un senso.
Premesso e doveroso un gran bel bagno di umiltà, a lettura ultimata, ciò che mi è rimasto è solo un punto di domanda: tutto qui?
È un libro strano e surreale. Mancano, a mio avviso, sostegno, spessore e credibilità a personaggi e accadimenti. Non mi ha coinvolta, mi ha più che altro respinta.
Non è un'idiosincrasia personale con Murakami, che invece ho apprezzato grandemente in Norwegian wood.
Per quanto riguarda Dance Dance Dance, devo constatare con dispiacere che probabilmente non possiedo gli strumenti perché possa io valutarlo positivamente.
Non mi sento pertanto di consigliarne la lettura, anzi avrei preferito navigare verso altri lidi letterari.
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Bentornato Cesare
«Ma così va il mondo, c’è sempre qualcuno pronto a spiegarti qualcosa, e quel qualcuno spesso nelle tue scarpe non ci ha mai camminato.»
Quando uscì per la prima volta “La tentazione di essere felici”, il ricordo è quello di aver provato un senso di curiosità che poi è stato totalmente appagato dalla lettura. Cesare Annunziata si era rivelato sin dalle prime pagine un personaggio forte, magnetico, energetico, uno di quei volti che ti fa sorridere, ti suscita immedesimazione, empatia e al contempo ti trattiene con sé facendoti riflettere. Quando Feltrinelli ha annunciato la nuova pubblicazione con lui protagonista, la paura è stata tanta: un’opera così ben riuscita può ri-eguagliarsi? O addirittura superarsi?
È un lungo agosto quello che si apre innanzi a noi. Un mese umido, caldo e spregioso in quel di una Napoli vuota dei suoi canonici abitanti. Cesare si aggira per la città, respira afa e diffonde consigli anche a chi delle sue parole importa meno che zero. È un Cesare ben diverso da quello che abbiamo conosciuto. Ha qualche anno in più, o almeno sembra, è ancora più stanco ed è anche più solo di quel che ricordavamo. Non è più quell’orso chiuso e burbero che avevamo conosciuto, non è più un uomo che evita l’umanità cercando di non essere da questa contaminato. Ha tanto, troppo, tempo per pensare e paradossalmente inizia a desiderare di condividere qualcosa con gli altri, a maggior ragione se donne e a maggior ragione se nei loro occhi vede un dolore nuovo ed oscuro. Perché Cesare adesso aggiusta. Cosa? Aggiusta ciò che è rotto e in particolare cura le anime di chi ha bisogno di essere rattoppato. E se Eleonora pensa a rimettere in libertà i suoi gatti, ecco che Federico, il nipote, vive in un mondo tutto suo e affronta il tempo della scontrosità con il mondo intero, ed ecco ancora che Marino persiste con il suo gioco di scacchi. Attende settembre Cesare, attende e pensa al susseguirsi delle stagioni della vita. Ripensa a quelle scatole di fiammiferi che gli regalava la moglie per un suo mancato coraggio di dirle la verità, si sente inetto per non aver davvero amato la sua Caterina, per averla giudicata fino alla fine, per non essere stato un buon padre e per non essere riuscito a intessere con Sveva un rapporto vero e forte, anela ancora in lui un rumore sordo che lo fa sentire da sempre in gabbia. Ci guarda e ci osserva, Cesare. Ci fa notare come siamo diventati una generazione fatta di fretta, corse, telefonini, schermi e rapidità. Ci invita a guardarci intorno, ci invita a camminare nel parco, ad osservare. Ed è qui che lui per primo osserva quella ragazzina che incontra per caso proprio lì.
Se con Emma ci aveva provato senza riuscire, con Iris si incaponisce e diventa una questione di principio. Per l’ex ragioniere e Batman, il cucciolo di cane che gli appioppa la figlia Sveva in occasione delle vacanze, è fondamentale aiutare la ragazza incontrata per caso ai giardinetti in un giorno di pianto. Riuscirà il buon vecchio Cesare (modo di dire eh, non ti arrabbiare Annunziata!) ad aiutarla? A salvarla?
«La solitudine è terribile, che credi, significa non poter parlare di sé a nessuno, che ascolti i tuoi problemi, che condivida le tue gioie, i dolori.»
“La vita a volte capita” è un romanzo per chi cerca ristoro, per chi cerca una coccola per ripartire, per chi vuole cogliere una mano tesa, per chi ha voglia di aprire il cuore e la mente. Lorenzo Marone ci riporta al suo personaggio più importante con tante emozioni, ci invita ad aprirci e soprattutto a guardarci dentro, ci fa assaporare cosa sia la solitudine, cosa sia la paura, cosa sia il dolore e ancora la rabbia, che si sia in una fase dell’adolescenza o in una più matura. Perché alla fine l’ordine degli addendi, non cambia.
Si inizia a leggerlo con calma, questo libro. Poi la lettura accelera e accelera ancora di più sino a quello che è un epilogo che è vivido negli occhi e nel cuore. Cesare ci saluta con un cenno e continua a camminare e a vivere la sua vita sino a che gli sarà concesso. E lo stesso ci invita a fare. Chissà, forse un giorno, se saremo fortunati, lo rincontreremo anche.
Il mio grazie sincero a Feltrinelli per questa occasione di lettura e per questo ritorno a Cesare che da sempre scalda e resta nel cuore.
«[…] Mia madre non perdeva troppo tempo dietro a noi figli, era un’altra epoca quella, si cresceva per strada, ma uno dei suoi insegnamenti lo ricordo bene: mai giudicare le persone al primo sguardo, come ha fatto quella signora, siamo tutti molto più complessi di quel che crediamo.»
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Se morisse mio marito... ma davvero!
Adesso ho letto tutti i libri di Waters, e non so proprio se essere felice per aver recuperato l'intera produzione della (forse) mia autrice preferita, oppure disperata perché nel mio futuro -nei miei autunni futuri- non ci saranno più le sue storie. Ammenoché non si decida prima o poi a pubblicarne di nuove, cosa che purtroppo non fa da un intero decennio, ossia dall'uscita in lingua inglese de "Gli ospiti paganti". In diversi aspetti, si tratta di un romanzo simile ai suoi precedenti lavori (per l'ambientazione storica o per la romance queer, ad esempio) eppure risulta molto difficile inquadrarlo, perché tocca elementi parecchio diversi.
Questa volta il periodo scelto dalla cara Sarah è il primo dopoguerra, ma la location rimane la sua amata Londra. Nel quartiere di Camberwell la precaria situazione economica -data dai cattivi investimenti del padre defunto e dalla morte in battaglia dei fratelli- convince Frances Wray e sua madre Emily ad affittare alcune stanze; stanze nelle quali si trasferiscono ad inizio volume Leonard "Len" e Lilian "Lil" Barber, una giovane coppia. Stanca di una routine domestica fatta di piccole economie e tristi uscite con la madre, Frances si fa coinvolgere sempre più nella vita dei ben più vivaci inquilini, subendo in particolare il fascino della bella Lil.
Un intreccio quindi abbastanza lineare e prevedibile, seppur colorato da un paio di svolte per nulla scontate. Nonostante ciò, la trama rimane il tallone d'Achille in questa narrazione, con una prima metà composta soprattutto da semplici episodi domestici ed una seconda in cui l'autrice tenta di dare un guizzo alle vicende senza però pestare abbastanza il piede sul pedale del ritmo, che rimane parecchio fiacco per tutto il volume. L'altro limite del libro si cela nella scelta di mescolare due generi (il romance ed il thriller) molto distanti tra loro; non si tratta di una scelta sbagliata a prescindere, perché le commistioni di storie diverse possono portare a risultati interessanti, Waters non trova però il coraggio di stravolgere l'attitudine dei protagonisti, ed è questo a rendere la miscellanea poco efficacie.
Eppure io mi sono sentita incredibilmente coinvolta nella storia di Frances e Lil: la travolgente prosa della cara Sarah mi ha trasportata all'interno del libro, facendomi avere davvero a cuore le sorti dei personaggi. Una gran parte del merito và sicuramente all'ambientazione, che non solo è inappuntabile dal punto di vista storico -senza per questo sfociare nella pedanteria-, ma risulta anche di vitale importanza per fornire un contesto socioeconomico rilevante e per motivare le azioni degli stessi protagonisti. La Londra dei primi anni Venti non rimane quindi un fondale impersonale delle vicende raccontate ma le influenza direttamente, e l'autrice sottolinea in più passaggi come diverse azioni cruciali siano da imputare tanto all'indole del carattere che le compie quanto alla condizione (dettata dal potere economico, dal genere di appartenenza o perfino dalla mera apparenza fisica) in cui la società lo ha relegato: in un'altra epoca Len sarebbe meno strafottente, Emily meno pedante, Lil meno ritrosa e Frances meno impaurita.
Parlando quindi dei personaggi, non si può che sottolineare come tutti siano scritti con grande attenzione e coerenza; per quanto riguarda le due protagoniste, assistiamo inoltre ad un corposo percorso di crescita personale, costellato da incertezze ed ostacoli reali. Ciò rende estremamente soddisfacente assistere alla loro maturazione, anche in un'ottica relazionale. In realtà, penso che tutti i rapporti descritti nel volume siano validi -perfino quelli maggiormente fatalisti e distruttivi- perché rendono credibile l'evoluzione delle vicende e toccanti le scene più emotive.
Per quanto mi riguarda, ritengo impossibile restare indifferenti di fronte allo stile sempre curato e piacevole di Waters, soprattutto quando arriva a toccare degli argomenti molto rilevanti e delicati, come l'emancipazione, il senso di colpa o l'aborto. In quest'ultimo caso, viene presentata una descrizione parecchio cruda nella sua verosimiglianza, che non escludo possa mettere a disagio il lettore. Allo stesso modo, il finale potrebbe lasciare interdetti dal momento che non fornisce una chiusura definitiva a tutte le sottotrame; non posso però dire che abbia infastidito me, perché l'ho trovato semplicemente perfetto per il tono della storia.
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Caccia all’uomo per Colter Shaw
Colter Shaw, il cacciatore di ricompense, è stato ingaggiato dalla Harmon Energy Products, una piccola società del Midwest che si appresta a lanciare sul mercato un nuovo tipo di reattore nucleare portatile (SMR). Pare che un dipendente infedele abbia sottratto uno dei componenti essenziali e innovativi del reattore e si appresti a venderlo a qualche potenza straniera. Il compito di Colter è quello di individuare il colpevole, recuperare il sistema sottratto e, possibilmente, scoprire chi siano i compratori.
Ma, non appena Colter ha compiuto la missione principale, il titolare della società, Marty Harmon, lo chiama allarmato. L’ex marito della sua ingegnere capo, un poliziotto condannato a tre anni di reclusione per violenza domestica ai danni della donna, è stato rilasciato sulla parola con oltre due anni di anticipo, ma sembra che, prima di uscire, abbia confidato ad altri due detenuti che ha intenzione di ritrovala al più presto per ucciderla.
Nel frattempo lei, Allison Parker, è scomparsa assieme alla figlia sedicenne, Hannah e, avendo pianificato la fuga da tempo, si sta muovendo con astuzia e preveggenza. Ritrovarne le tracce non sarà facile, né per Colter, né per Jon Merritt (l’ex), né per due killer professionisti che un boss della zona gli ha fornito come supporto.
Comincerà una caccia frenetica volta a individuare indizi e tracce che svelino dove si trova il nascondiglio delle due donne in fuga e una corsa disperata nella speranza, per chi vuole portare in salvo la donna, di ritrovarla prima di coloro che la vogliono morta.
Quarto romanzo che vede protagonista Colter Shaw, l’uomo, esperto survivalista, che si guadagna la vita con le ricompense offerte per ritrovare persone scomparse o rapite. Per chi ha ormai familiarità con il personaggio, un gradevole ritorno.
Ormai per l’Inquieto (come l’aveva soprannominato il padre Ashton) i fantasmi del passato, che per anni lo hanno assillato, sono sepolti: gli assassini del padre sono stati tutti catturati o uccisi, però lui continua nella vita di girovago sul suo camper Winnebago, andando ovunque si offrano premi, ma soprattutto gli si prospettino missioni che lui reputa interessanti e stimolanti per assecondare il suo istinto di cacciatore e cercatore di tracce.
Come consueto la storia è ben narrata, sfruttando, almeno per l’avvio, uno dei tanti mali che ammorbano l’America di oggi: dopo la ludopatia virtuale, il settarismo e la speculazione edilizia, ora di scena è l’inquinamento selvaggio. La narrazione scorre fluida sotto gli occhi del lettore. Come scenografia è stata scelta non l’assolata California delle prime storie, ma la provincia americana, cuore pulsante del passato manifatturiero del Paese e, ora, landa abbandonata e derelitta, devastata da contaminazioni chimiche o radioattive e degrado.
L’avventura, iniziata come una spy-story con tanto di furto di ritrovati tecnologici di punta, si trasforma in una ricerca angosciosa e snervante per salvare le due donne. Ma chi sono i veri nemici? Chi si deve guardare da chi?
I toni del romanzo si discostano abbastanza da quelli dei libri che lo hanno preceduto. Qui Colter ci appare più umano e meno supereroe un paio di passi avanti ai suoi antagonisti, che prevede sempre le loro mosse; che ha sempre una risposta per ogni incidente di percorso. Spesso, ora, lo vediamo incerto, in snervante attesa di fatti nuovi che lo aiutino della missione, a volte pure impacciato.
Dei due chi appare più previdente e veramente abile nel muoversi è Allison, la quale, abile nei calcoli come nelle strategie, sembra poter prevenire ogni manovra avversaria e, pure, le sventatezze della riottosa Hannah. Ma, ovviamente, per rendere avvincente la trama, colpi di scena e improvvisi rovesciamenti di fronte provvedono, con ottimo tempismo, a smuovere le acque e a togliere ogni certezza.
Sotto quest’ultimo aspetto, imprevedibile e sorprendente è il coup de theatre nel finale che, effettivamente, ribalta completamente le prospettive con cui tutta la vicenda era stata inquadrata sino a quel momento. La rivelazione che ci viene fatta è così poco prevedibile da far venire persino il sospetto che i fatti narrati precedentemente non siano tutti perfettamente e logicamente coerenti con quelli successivi. A mio avviso, tra l’altro, la storia poteva reggere benissimo anche senza questa inversione a U della trama. Ma è tipico della narrativa di Deaver cercare sempre l’occasione per spiazzare i suoi lettori e, in questo caso, il risultato è stato pienamente ottenuto, con l’aggiunta di un tocco di buonismo e di edulcorato happy end che contrasta con il resto della vicenda.
Ho trovato ben scelti e descritti i personaggi principali, a partire dalla muscolare e determinata Sonja Nilsson, responsabile della sicurezza della Harmon Energy, che affiancherà Colter nelle ricerche, per giungere ai due killer, con i loro chiaroscuri. Ma soprattutto spicca l’accurata personalizzazione della giovane Hannah, irrequieta, terribilmente reale adolescente. La ragazzina – presa in un gioco più grande di lei in cui si trova, suo malgrado, a ricoprire un ruolo essenziale che non le è proprio - avrà tutte le reazioni, contraddittorie e innocenti tipiche della sua “età di mezzo”, che la rendono, contemporaneamente, adorabile e irritante oltre ogni sopportazione. Perfetta!
Sempre meticolosa, poi, è la descrizione d’ambiente, anche se, come in questo caso, le località in cui si dipana la storia sono frutto della fantasia dell’A. piuttosto che luoghi topograficamente identificabili, ma ben epitomano tutte le periferie americane, abbandonate dalle grandi industrie del Novecento e ora, lasciate allo sbando lungo il pendio del loro mesto declino con gli stessi abitanti ormai depauperati pure della speranza di una redenzione.
In definitiva si tratta di un buon libro, divertente e intrigante, nel quale l’azione avvince e travolge con piacevole coinvolgimento.
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Stupendo
Joseph Roth potrebbe romanzare il verbale di un'assemblea condominiale e farlo con un lirismo e una profondità tale da renderlo appassionante.
L'autore austriaco è uno splendido cantore del crepuscolo , nella Cripta dei Cappuccini fu il crepuscolo di un regno, di una struttura sociale, nei Cento giorni, periodo che va dal ritorno di Napoleone Bonaparte dalla fuga dall'Elba all'esilio a Sant'Elena, si narra del crepuscolo di un imperatore ma anche di un sogno, il sogno di uomo e il sogno del suo popolo. Quell' imperatore che ha incarnato l'ambizione e la grandeur di conquista della Francia , la Francia stessa si è rispecchiata nella potenza e nella grandezza del suo imperatore in una sorta di scambio di sguardi in cui nessuna delle due parti accetta l'essenza dell'altra oltre la necessità .
Roth mette come sempre in secondo piano l'analisi accurata degli avvenimenti storici , lo scorrere tumultuoso degli eventi è il contesto nel quale avvengono i tumulti dell'anima dei protagonisti ,Napoleone Bonaparte ma anche una umile servetta segretamente innamorata della figura dell'imperatore oltre le miserie dell'uomo. E' proprio dei dubbi, dei tormenti e delle miserie dell'uomo Napoleone che si occupa Roth in un racconto che narra dei primi giorni dal rientro a corte in cui l'imperatore sembra silenziosamente consapevole che, per quanto sia temuto, gli stessi membri di un certo grado del suo esercito lo considerano semplicemente un uomo fortunato che ha raggiunto sua gloria grazie
a loro. Napoleone pare scivolare lentamente verso un declino che lui stesso sente ma a cui non riesce a dare forma quasi presago della sconfitta in arrivo.
Parallelamente alle sue vicende c'è la vita dei semplici, dei piccoli, di tutte quelle persone che vedono nell'imperatore colui che anima il loro orgoglio, una figura più grande dell'uomo che la porta sulle spalle forse troppo fragile e umano per un peso così grande.
Vediamo la vita della giovanissima Angelina Pietri, serva di corte, amante di un bifolco maresciallo dell'esercito, madre di un tamburino ma soprattutto donna sola, con la solitudine dei suoi sogni scritti sulla sabbia.
Nelle parole di un calzolaio polacco che ha servito l'imperatore e perso una gamba al fronte sta la grande verità che rimane a chi serve e ammira i grandi della storia :"Noi piccoli non dovremmo far dipendere la nostra vita dai grandi. Se vincono soffriamo e se perdono soffriamo anche di più."
Mentre a corte tra i domestici e la gente comune circolano voci più o meno infondate sulle gesta dell'imperatore in battaglia tutte sostenute da una indistruttibile fiducia nelle capacità di Bonaparte quasi che fosse un essere invincibile perchè parte dei loro sogni e i sogni non muoiono mai.
Negli stessi momenti sul campo di battaglia, l'Imperatore viene amaramente sconfitto dall'esercito nemico prima e dal destino poi, che gli nega anche l'agognata e secondo lui più dignitosa morte.
Napoleone Bonaparte rientra a Parigi affranto e stordito e si espone al giudizio di chi lo aveva sostenuto in nome della sua potenza.
A corte la giovane Angelina riceve la notizia di aver perso il figlio, giovanissimo tamburino dell'esercito, nella battaglia di Waterloo : "Il cuore era pesante, ma i suoi occhi rimasero asciutti.
Piangeva suo figlio, ma nello stesso tempo lo invidiava. Morto era, morto! Ma a seppellirlo erano state le mani dell'imperatore".
Roth descrive i giorni seguenti in cui la corte dell'imperatore, fatta di lacchè, militari, ministri e varia umanità che lo aveva sostenuto ed ora è più preoccupata dei propri privilegi o diritti
che della sorte della Francia . Bonaparte ha un ultimo impeto di orgoglio prima di capire che tutto è perduto e trovare conforto nella rassegnazione " L'ascoltavano, ma ascoltavano soltanto
la voce, il suono delle parole, non il loro significato. Anche l'imperatore sapeva benissimo che parlava invano. Di colpo si interruppe. Ogni parola era inutile. Non aveva nemmeno più voglia
di lottare per il trono. Per la prima volta nella sua vita, da quando era salito al potere, provava la beatitudine che viene dalla rinunzia. Così, nel bel mezzo del discorso, la grazia dell'umiltà scese su di lui.
Egli sentì di colpo il bene della sconfitta e una segreta, segretissima soddisfazione al pensiero che in ogni istante, purché volesse, poteva allontanare, imprigionare, persino far decapitare o fucilare i ministri ai quali adesso parlava,
quei parlamentari che aspettavano soltanto di rovesciarlo. Purché volesse!... Ma il fatto è che non voleva."
" ...Per la prima volta nella sua vita forte e superba intuiva la nobile letizia dei deboli, degli sconfitti, di coloro che rinunciano."
Dopo anni passati ad essere l'imperatore perchè fortte e potente ora, sconfitto e provato, si sente per la prima. volta imperatore di fronte alle grida di qualche cittadino che ancora lo
acclama in strada mentre Napoleone Bonaparte, di fronte al grande nemico Fouché firma la sua abdicazione e si accommiata così da un giovane domestico che piange "Ora finalmente
voglio tentare di vivere".
Di fronte alla possibilità di sfuggire al suo destino Bonaparte non si tira indietro "«Sei in pericolo» osservò il fratello. «Ti possono uccidere».«Vuol dire che perderò un'altra vita» rispose l'imperatore.
«Ne ho già perdute tante!». Per la prima volta la sua vita non vale un soldo di più di quella di uno dei suoi soldati.
La caduta dell'imperatore viene celebrata dalle parole recitate dal Papa in un sogno di Bonaparte : «Tu sei transeunte,» disse il vecchio «effimero come una cometa. Tu brilli di troppa luce.
La tua luce si consuma mentre brilla, il suo brillare la consuma. Tu vieni dal grembo di una madre terrena».
E mentre Bonaparte per evitare ritorsioni al suo popolo si consegna al nemico e va incontro alla sua fine chi , come la giovane Angelina, lo ha amato incontra a sua volta il proprio destino .
Roth è una di quelle penne toccate dal dono di saper raccontare l'anima dei personaggi e fargli rivivere attorno il loro tempo e i loro luoghi mentre la Storia gli scorre accanto lasciando
però ai loro umani tormenti il ruolo da protagonista. Semplicemente stupendo.
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Schiavone impegnato su due fronti.
Mi preme subito dire che si tratta di un giallo appassionante,, ben strutturato, avvincente sino all'ultima pagina, forse uno dei migliori di Antonio Manzini. E poi il suo protagonista, il vicequestore Rocco Schiavone, romano de Roma, trapiantato suo malgrado ad Aosta emerge a tutto tondo con il suo formidabile intuito e le sfaccettature di un carattere ombroso, non certo facile, tormentato da ricordi e delusioni di un passato tribolato.
Le storie raccontate sono due : quella di Paolo Sanna, un cinquantenne che vive di rendita, solitario, fratello di un medico proprietario di una clinica privata ad Ancona, giramondo, ciclista dilettante, e quella di Sandra Buccellato, giornalista, già legata sentimentalmente a Schiavone. La trama narrativa principale riguarda Sanna che, un brutto giorno, viene investito intenzionalmente, così chiariscono gli indizi trovati sulla macchina, mentre , pedalava su una strada di montagna e scaraventato in un burrone. Il delitto è palese, Schiavone ed i suoi (i ben noti agli affezionati lettori di gialli Deruta, D'Intino, Casella e il viceispettore Scipioni) iniziano le indagini, spulciando cellulare e agende del defunto. Dalle indagini sui dati emersi, si scopre che da tempo il ciclista investito viveva nel timore costante di un imminente pericolo e che altri amici di Sanna risultavano deceduti negli anni passati in circostanze mai chiarite, e che tutti, guarda caso, avevano prestato servizio militare in Friuli nel 1989: un filo lega le loro scomparse improvvise, su cosa capitò realmente in quel lontano anno Schiavone e i suoi iniziano ad indagare minuziosamente viaggiando per mezza Italia, incontrando risposte evasive, muri di silenzio, omertà anche ad alti livelli. Sapranno alla fine dipanare l'intricata matassa, portando alla luce colpevoli e moventi.
Il caso che riguarda invece la giornalista costringe Schiavone a perlustrare ben altri ambienti. Sandra è scomparsa da tempo, non dà notizie di sè, la famiglia, altolocata, non riesce o non può dare precise indicazioni, sembrando sotto ricatto. Schiavone scopre contatti di Sandra con un noto criminale, ex terrorista. Le speranze di ritrovare la giornalista sembrano affievolirsi, ma Schiavone saprà agire da par suo, questa volta con metodi più spicci e inconsueti, fino alla conclusione della vicenda, che lascia la povera Sandra sospesa tra la vita e la morte e porta alla luce segreti familiari insospettabili.
Dalla trama narrativa emerge, questa volta forse più di altre, il personaggio di Rocco Schiavone, figura enigmatica, tutta luci e ombre. Ad Aosta, dopo la scomparsa di Marina, vive solo, intristito dai ricordi, con la sola compagnia della fedelissima "cagnolona" Lupa, di pacchetti di sigarette e di qualche canna nei momenti più difficili. Se non ci fossero i colleghi, che lo stimano, e soprattutto il lavoro, sarebbe un uomo disperato, preda di ricordi non sempre cancellabili e di un passato denso di ombre e rimpianti. Al lavoro di indagine dedica caparbiamente tutto sè stesso, quasi fosse ogni volta l'ultima spiaggia, con il suo intuito formidabile che lo porta, quasi fosse un segugio, a stanare la preda con ogni mezzo, lecito o, talvolta, anche illecito, usando, quando occorre, metodi sbrigativi. Manzini ha creato un personaggio unico: capace anche di tenerezze commoventi, quando, in soliloqui disseminati nel romanzo, si confida con Marina, l'amore scomparso, traendone conforto e coraggio.
C'è anche altro, nelle pieghe della trama: riflessioni sulla condizione umana, sulle lacune della giustizia umana, su certi movimenti di ribellione giovanile che, pur originando da presupposti condivisibili, non di rado degenerano in atti violenti.
E il nostro Schiavone, con la sua filosofia di vita, della vita ha capito molte cose, dandone una definizione illuminante. "La vita" afferma "è un insegnante terribile: prima te fa l'esame, poi te spiega la lezione". Sembra proprio così: si è sempre impreparati agli eventi che la vita ci pone sul cammino, solo alla fine si riesce a capire (non sempre) il senso di tutto.
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Direi piuttosto Scolosseum
ATTENZIONE: leggeri spoiler che comunque non influiscono sulla lettura del libro
Mai un libro era riuscito a ingannarmi in modo simile. L'autore si propone di romanzare la storia della costruzione dell'Anfiteatro Flavio seguendo le vicende di due uomini realmente esistiti, Verus e Priscus, gladiatori che combatterono nei giochi inaugurali del Colosseo nell'anno 80 d.C. come narrato dal poeta Marziale.
L'inizio parte bene, un po' banale, ma tutto sommato godibile, uno dei tanti emuli del successo di Scarrow. Ma con un dettaglio di quel "nomen omen" dato al protagonista che avrebbe dovuto mettermi in guardia su quello che stava per arrivare. I problemi iniziano all'incirca ad un terzo del libro, con, ed esattamente come, la Peste (che nella realtà era più probabilmente febbre tifoide e non Peste bubbonica): si nota l'insistenza delle descrizioni gratuitamente grafiche, una pornografia verbale del sordido che inizia a farsi prepotente a discapito della narrazione (e della verosimiglianza, quando descrive una latrina che mai un romano avrebbe tollerato esistere, men che meno in una scuola gladiatoria).
Inoltre diventa sempre più pesante lo stile di scrittura, con continui tentativi di frasi ad effetto, di chiose salomoniche e di frasi fatte degne del peggiore filmaccio noir poliziesco. Frasi tipo: "la lupa(Roma) dormiva dopo il pasto di sangue, benvenuto a Roma, bastardo!", vengono ripetute alla nausea, siamo a metà libro e praticamente ogni paragrafo finisce in questo modo.
Poi il "colpo di genio" dell'autore, inserire un triangolo amoroso forzato all'inverosimile in quello che poteva benissimo essere la storia di due uomini, e che anzi avrebbe beneficiato dell'essere unicamente incentrato sui due personaggi storici romanzati, simili e contrapposti, fratelli e tuttavia costretti a lottare fino alla morte, senza dover per forza inserire il solito love interest per cui il protagonista si strugge, non ricambiato, nel suo amore impossibile, fino a quando ovviamente non salverà la damigella in pericolo dai cattivi che vogliono abusare di lei.
Siamo al culmine del libro, l'originalità ha ormai abbandonato la scena da un pezzo, e fra l'uso sempre più pesante e palloso di aggettivi inutili e forzati per descrivere ogni cosa, come: "...l'elmo disegnò un arco saccente (un arco saccente?!?) nell'aria...", l'autore spinge al massimo sulla caratterizzazione molto sottilmente inculcata a martellate dei due personaggi: Verus, il toro scatenato, guerriero di fuoco, contro Priscus, il texano dagli occhi di ghiaccio, fino a descrivere minuziosamente come le armature dei due ricalchino il loro stereotipo. Non manca poi la descrizione fantasiosa dei giochi inaugurali del Colosseo, con assurdità incomprensibili (coccodrilli ammaestrati, ippopotami che nuotano sul dorso in figure improponibili e vele gonfiate dal vento che soffia dentro lo spazio chiuso del Colosseo) e descrizioni cruente e crude.
Quello che é importante é che questo libro ha anche un finale, e ovviamente il finale é il più scontato possibile, in cui la pietà e la forza dell'amore smuovono il cuore peccaminoso della giovane patrizia viziata, e in cui i due amici, dopo aver tentato senza esitazione di ammazzarsi con ogni mezzo, anche inverosimile (ridicolo inserire pugni di ferro e coltelli nello stivale in un combattimento fra gladiatori, che avevano arbitri e regole ferree), come nel più classico film di Hollywood, ritrovano la loro profonda unione, per poi sparire nelle trame della Storia.
Concludendo si può dire che senza dubbio gli elementi più pesanti di questo libro siano lo stile, troppo pesante, ridondante nella ricerca della frase ad effetto, pedantemente infarcito di allegorie, e troppo gratuitamente scabroso, tanto che a tratti sembra quasi l'autore ne trovi godimento, e davvero penso che di più sordido ci sia soltanto J.N. Schifano nelle sue Cronache Napoletane, e ho detto tutto.
Appare inoltre chiaro che per quanto l'autore si sia evidentemente documentato sugli avvenimenti e sui dettagli storici, non é riuscito a comprenderli a pieno, mostrando spesso una comprensione sommaria, o abbia preferito reinterpretarli, piegandoli alla narrazione invece di incentrare la narrazione su di essi, una mancanza che risalta agli occhi del lettore, soprattutto a quelli del lettore di romanzi storici.
Ma il suo maggior peccato a mio parere é quello di non aver saputo sfruttare neppure l'unica felice intuizione avuta, il complesso rapporto fra i due protagonisti, che poteva reggere da solo la trama del libro, e con maggiore rilevanza di un banale triangolo amoroso. Ma d'altronde, se l'autore stesso nei ringraziamenti parla della sua come di una "fantasia Hollywoodiana"...
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Raro esemplare di grimdarkromantasy
Confesso che "Mezzo mondo" aveva notevolmente raffreddato il mio entusiasmo verso la serie per ragazzi di Abercrombie. Ed a gettar acqua sul fuocherello delle mie aspettative c'era anche la media delle valutazione assegnate a "La mezza guerra", molto più bassa rispetto a quella del secondo capitolo. Però con un ribaltamento degno di Alessandro Borghese, vi informo che questo libro non solo mi è piaciuto, ma è riuscito perfino a diventare il mio preferito della trilogia.
La trama ci porta due anni in avanti e ad un totale di ben tre POV tra i quali destreggiarsi. Quello principale è affidato sicuramente a Skara, nipote ed erede di re Fynn, che all'inizio del romanzo vede il Throvenland cadere sotto l'attacco di Yilling lo Splendente; dopo aver chiesto l'aiuto dei sovrani vicini, la ragazza assume un ruolo di comando nella guerra contro il Gran Re con il fine di riscattare il suo regno. Fortemente collegato al suo, troviamo il punto di vista di Raith -un guerriero del Vansterland tormentato dalla sua stessa propensione per la violenza-, mentre la terza prospettiva ha una maggiore autonomia, oltre ad essere un gradito ritorno: si tratta di Koll, il giovane liberato dalla schiavitù per merito di Padre Yarvi, che ora lui sta addestrano per farne a sua volta un ministrante.
Chiaramente il conflitto contro il Gran Re e la sua ministrante Wexen rappresenta ancora una volta l'obiettivo finale della narrazione, ma questo non impedisce all'autore di dedicare ad ognuno dei protagonisti parecchio spazio; sia per esplorare i loro trascorsi, sia per crescere e superare le situazioni di stallo in cui si trovano imprigionati. Skara, Raith e Koll sono infatti combattuti tra una sorta di obbligo che sentono di dover rispettare e la propria indole personale, ed i loro percorsi individuali li portano a capire come potersi liberarsi delle pressioni esterne e scegliere in modo indipendente. Non tutte le risoluzioni sono però felici, perché il caro Joe ha ben pensato di donarci un finale dolceamaro, eppure molto soddisfacente.
La presa di coscienza non è l'unica tematica del romanzo perché, in particolar modo attraverso la prospettiva di Skara, si affronta l'argomento delle responsabilità, delle quali la ragazza deve farsi carico in quanto sovrana. Sempre tramite il suo POV, ma anche quello di Raith, si parla del modo in cui elaborare un trauma subito; affrontare le consegue delle proprie azioni è invece il tema principale nel punto di vista di Koll. Tutti questi spunti non solo sono perfettamente adeguati per gli adolescenti che costituiscono il target di riferimento (sì, sto ancora rosicando per colpa di "Graceling"!), ma vengono anche declinati in diverse prospettive, portando a delle conclusioni per nulla scontate.
Tra i pregi del romanzo voglio includere anche i personaggi, senza troppe distinzioni: che si tratti di caratteri già presentati nei capitoli precedenti (e penso specialmente al burbero Jenner il Gramo) oppure figure del tutto nuove -come la protettiva Madre Owd-, tutti ottengono una caratterizzazione più che degna e coerente. L'unico aspetto negativo su questo frangete è rappresentato dalla rapidità, che incide sia sulla partenza in cui non si fa in tempo ad inquadrare bene i nuovi personaggi, sia su alcune morti molto affrettate a livello narrativo, seppur non pecchino di incisività emotiva.
Pur avendo apprezzato molto come l'autore ha portato a compimento la trilogia, voglio togliermi qualche altro sassolino dalla scarpa. Per i miei gusti, la componente romance è eccessiva: non dico andasse esclusa, ma di certo non avrei sentito la mancanza di un soapoperistico quadrangolo amoroso. Non posso dirmi un'entusiasta neppure delle scene di battaglia -che in alcuni casi risultano un po' noiose a causa della loro lunghezza- e della sinossi scelta dalla CE italiana, ancora una volta falsa come una moneta da tre euro ed incapace di rendere il contenuto del volume.
Concludiamo però su delle note positive, date in particolare dal world building e dal foreshadowing. Come nel secondo libro, sono presenti degli sviluppi del mondo immaginato da Abercrombie, ma in questo caso arriviamo a delle rivelazioni estremamente interessanti, che gettano un'ombra del tutto nuova sull'ambientazione; il tutto rimanendo allo stesso tempo fedeli a quanto mostrato finora. Mi è piaciuto molto anche il modo in cui tanti dettagli dei primi libri sono stati qui ripescati, diventando utili all'intreccio e mostrando un'evoluzione di storie e caratteri che farebbe una figura di tutto rispetto anche in una narrazione per lettori adulti.
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