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L'inferno di Treblinka
 
L'inferno di Treblinka 2023-05-18 21:34:26 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Mag, 2023
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La fabbrica della morte

«Allo stesso modo il delirio di un malato riflette – deformati e mostruosi – pensieri e sentimenti precedenti alla malattia. Allo stesso modo un folle con la mente annebbiata agisce sovvertendo la logica tipica dei comportamenti e delle intenzioni di un normale essere umano. Allo stesso modo un criminale che infligge alla sua vittima una martellata fra gli occhi unisce l’abilità professionale – la mira e la precisione del fabbro – al sangue freddo del mostro.»

Cosa resta oggi di Treblinka? Sei esistita davvero Treblinka? Forse ci sarà chi potrà affermare che no, non sei esistita, ma tu, al contrario, puoi dimostrare di esserci stata, di aver lavorato con furiosa attività per tredici interminabili mesi con un numero di morti giornaliere a dir poco spaventoso e i cui dati se moltiplicati, anche facendo una stima al ribasso, sono a dir poco indeterminabili. Oltre tre milioni in poco più di dieci mesi di effettiva attività per un numero molteplice di convogli giornalieri, minimo tre, trasportanti la bellezza di 150/180 prigionieri a vagone per almeno 60 vagoni a convoglio.

«Era una fabbrica di morte, una catena di montaggio improntata a quella moderna produzione industriale su larga scala.»

Solo che a Treblinka ad essere oggetto di “larga scala” erano volti di uomini e donne, corpi ammonticati, corpi privati di tutto, dei loro beni come della loro umanità. Uomini e donne usati come schiavi, come cavie, come reietti, come oggetti di piacere, come oggetti destinatari di una violenza gratuita e la cui origine atavica è inspiegabile. Ed è scomoda Treblinka, prima con la sua ribellione interna dei detenuti del 2 agosto 1943 che portò alla fuga di quei pochi e alla conseguente distruzione del luogo stesso. Per celare, nascondere, obliare. Perché la sussistenza del lager stesso era una testimonianza sconveniente di cui era necessario liberarsi quanto prima, prima che altri potessero vedere e sapere, odorare e respirare di quei corpi morti tra violenza, camere a gas, pestaggi, di quei morti in stato di decomposizione perché numericamente maggiori anche a quelli che volta volta potevano essere bruciati. In tal senso basti pensare che Himmler medesimo, dopo la sconfitta della Battaglia di Stalingrado, optò per un convinto negazionismo seppur l’opera stessa di distruzione di massa fosse in vita e i cadaveri in visibile decomposizione tra insetti grassi e variegati. Che mosche grandi e grosse, osservavano i prigionieri al loro arrivo al campo, mosche sempre sfamate da quegli stessi ignari futuri pasti. E allora via con i forni, i cadaveri devono bruciare e quanto più rapidamente possibile, nulla deve riemergere dal fondo della terra e per questo devono essere costruiti strumenti di eliminazione delle prove adatti. Una macchina della morte che nulla poteva lasciare al caso era Treblinka e lo è stata anche nell’arte del suo scomparire. Una ruota continua, un congegno preciso e puntuale come un orologio svizzero, una catena di montaggio che mai poteva fermarsi e per nessuna ragione.

«La presidente riusciva a soddisfare i suoi desideri, almeno in parte, usando in modo arbitrario il potere di cui disponeva. Lo considerava un male minore, anche perché era fermamente convinta di fare il bene della comunità. (…) doveva essere successo un fatto talmente grave da superare l’ampio margine di tolleranza che lei concedeva a se stessa e agli altri. Un fatto che la tormentava e la riempiva di sensi di colpa.»

Treblinka non perdeva tempo. Perché far patire la fame, far lavorare in modo estenuante, dover rifornire i prigionieri di abiti seppur usati e smunti, perché doverli anche solo tollerare nella loro esistenza quando questi potevano immediatamente essere eliminati previo precedente annientamento di quell’ultimo rimasuglio di umanità? Giusto qualche violenza antecedente alla morte atta a soddisfare questo fine era prevista e poi basta, nessuna perdita di tempo e per nessun motivo. I prigionieri venivano stipati verso le camere a gas e si sperimentavano anche diversi modi di uccisione in queste. Un primo modo poteva ad esempio essere quello di sottrarre poco alla volta l’ossigeno dalla stanza, ma ci sarebbe voluto troppo tempo. Il metodo doveva essere affinato. Un secondo modo poteva essere quello di usare il vapore ma anche in questo caso ci sarebbe voluto troppo tempo e il metodo non sarebbe stato sufficientemente efficace. Usare lo Zyklon B? No, perché mai dover usare questo se si poteva fare semplicemente ricorso al gas di scarico del carro armato, una morte tale da essere paragonata a quella di uno strangolamento. Bastava calcolare la giusta quantità da immettere onde evitare che ci potessero di nuovo mettere ore a tirare il calzino. La stessa struttura della camera a gas viene modificata e migliorata nel tempo approntando una giusta pendenza per essere certi che i corpi potessero essere rimossi in tempi più rapidi e dunque al fine di rendere più snelle e celeri le operazioni di “pulizia”. Treblinka non ha tempo da perdere! Avanti con il prossimo convoglio, avanti con il prossimo gruppo da stipare! Avanti con i corpi da rimuovere! Veloci!

«Solo la cosa più preziosa al mondo – la vita veniva calpestata. Intelletti generosi e robusti, anime pure, occhi innocenti di bambino, cari volti di anziani, belle teste altere di ragazza che la natura aveva faticato secoli e secoli a crear, scivolarono come un fiume silenzioso e infinito nell’abisso del nulla. Bastano pochi secondi per distruggere ciò che il mondo e la natura hanno creato nella gestione lunga ed estenuante della vita.»

È lì Grossman in quell’autunno del 1944, è lì che scrive, che raccoglie testimonianze, che osserva il terreno e che conta, annota, conserva nella memoria quel che vede apparire. Cappelli, pantaloni, scarpe, candelabri, corpi scampati al forno, vesti, tessuti, capelli pare destinati ai sottomarini, ricami ucraini e tanto tanto altro ancora. Ed ancora ci sono le voci. Voci di contadini che osservavano l’arrivo in quel luogo geograficamente strategico ma sinonimo di condanna a morte, voci di pochi e fortunati superstiti, voci di quelle stesse guardie. Apparso sulla rivista “Zamja”, “L’inferno di Treblinka” è letto al processo di Norimberga dove arriva con tutta la sua grande e infinita forza evocativa. Una prosa rapida, descrittiva, concreta e complessa che oscilla tra orrore, incredulità, impotenza ma volontà che quanto accaduto non riaccada. Un monito per il passato al futuro che verrà. Un allora futuro oggi diventato presente che ha fin troppo dimenticato quel che è in realtà stato.

«La crudele esperienza degli ultimi anni ci insegna che un uomo nudo perde ogni capacità di ribellarsi, si rassegna al proprio destino, insieme agli abiti dismette anche l’istinto di sopravvivenza e accetta la sua sorte come un fatto ineluttabile. Chi prima aveva una fame inesauribile di vita diventa passivo e indifferente. Eppure, a scanso di sorprese, in quest’ultima tappa della catena mortale le SS aggiunsero comunque un nuovo tassello – annichilivano le loro vittime, le riducevano in uno stato di shock psicologico. Come? Sfoderando all’improvviso, brutalmente, una crudeltà assurda, illogica. Esseri umani nudi ai quali è stato tolto tutto restano tenacemente mille volte più umani delle bestie in divisa nazista che li circondano, continuano a respirare, a guardare e a pensare, i cui cuori battono ancora.»

Un piccolo reportage nella mole, una grande testimonianza nella sua essenza. Uno di quegli scritti che oggi come oggi dovrebbero essere letti e riletti anche e soprattutto dalle generazioni più giovani che sentono come troppo lontani fatti che sono al contrario del tempo di uno ieri.

«Che grande cosa è il dono dell’umanità! Un dono che non muore finché non muore l’uomo. E se anche sopraggiunge un’epoca storica breve ma tremenda in cui la bestia ha la meglio sull’uomo, l’uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente lucida e cuore ardente.»

«Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il nazismo, il razzismo, non serberanno soltanto l'amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia stato facile uno sterminio di massa.
E dovrà tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l'onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell'umanità intera.»

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Molto bella e interessante la tua recensione, Maria.
Dell'autore ho letto solamente "Vita e destino" , ma ho capito subito di avere di fronte un grande scrittore.
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