Dettagli Recensione
missing children.ch
122 pagine, intervallate da capitoli brevi, tutti d'un fiato, rapidi...troppo rapidi.
E' un libro difficile, è una storia difficile...è una storia vera. Irina parla, sogna, vive...è italiana, vive in Svizzera per lavoro ma è altrove, in quell'altrove dal 28 gennaio 2011.
Chi legge, chi ha scritto questo libro non può non chiederselo:"io che cosa farei in quella condizione?". Questo testo nasce da una richiesta di una madre, senza figli, da una necessità sfiancante di "mettere fuori di me quest'oggetto rotto". E poi, mentre scorrono le pagine, si rimane agghiacciati da un discorso che la scrittrice fa dire ad Irina: "Il nulla non basta. Anche se fossero 99 le probabilità. anche se ne restasse 1 su 100 che le mie figlie siano in un luogo del mondo, magari separate, lontanissime, magari in un paese di cui non conoscono la lingua, magari invece accudite in segreto da qualcuno che amano e dunque, persino quiete ormai nel loro dolore, persino in qualche modo serene. Ecco! E' quell'unica possibilità che devo percorrere".
Lo stile non è ridondante, non vi sono momenti particolarmente struggenti, da togliere il fiato.
Usa belle metafore, Concita, per giungere nel modo più preciso alla reale e tangente sofferenza.
Irina è una donna, una madre, che sta tentando faticosamente, con estremo dolore, a risalire da quel pozzo in cui è piombata da ormai otto anni. E non è affatto facile specialmente quando una gran parte dell'io è concentrata a tradurre certi sguardi, alcune affermazioni, come un immenso macigno: quel dannato senso di colpa. La subdola vocina che si insinua nelle risate, in un frangente di spensieratezza, e sussurra "come puoi dimenticare, come puoi lasciarti indietro quello che ti è successo...".
Ogni riga è una piccola conquista per permettersi di raccontare, per rispondersi ai quesiti posti durante questi infiniti otto anni.
Mi piacciono moltissimo le lettere che Irina scrive alla nonna tenendola aggiornata sulla sua faticosa risalita verso l'amore: con lei non ha filtri, si racconta nel dolore ma anche nella ricerca disperata di poter vivere anche un pallidissimo raggio di sole, purché sia caldo e accogliente. "Ma io sono viva, nonna, il dolore da solo non uccide e io sono viva. Dunque devo vivere, perché finché ci sono, ci sarà il ricordo di chi non è più con noi". Poi ci sono quei capitoli in corsivo, quello spazio lasciato all'altro, a un'altra voce, quella che vorrebbe prendere il "pacchetto dolore" e gettarlo in mezzo al mare, il più lontano possibile. Il resto dello scritto sono lettere che questa madre invia a una psicoterapeuta, a una segretaria di un archivio anagrafico...perché ha bisogno di dare un significato a quello che le è successo, trovarne una spiegazione.
Il dolore in questo libro si accarezza dolcemente. Non è cruento, né disperato, ma c'è. Non può essere ignorato, il dolore, perché altrimenti si presenta in tutta la sua violenza e ti fa pagare anche gli interessi. Però si può alleviare, diluire e permettersi di pensare, dopo aver esaurito tutte le lacrime consentite, "ora però facciamo due passi, che ne dici? Andiamo a vedere, perché mi sa che fuori è primavera".
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