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Melanconia e creazione in Vincent van Gogh
 
Melanconia e creazione in Vincent van Gogh 2019-07-04 07:44:46 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    04 Luglio, 2019
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Come Icaro

Nel suo saggio Recalcati affronta un artista affascinante e unico: Vincent Van Gogh. Nato lo stesso giorno della nascita e morte del fratellino, gli viene dato lo stesso nome del fratello morto. Il nome rappresenta per il nuovo nato una proiezione del desiderio dell’Altro cioè del genitore, una specie di dono simbolico della fata buona al neonato come succede nella favola della Bella Addormentata. Ma nel suo caso l’augurio è infausto, cioè il genitore vorrebbe riavere indietro al posto suo il figlio morto e idealizzato. Da qui la melanconia e il senso di colpa che non nasce dalla castrazione del desiderio di godimento ma da un senso di inadeguatezza ben comprensibile e insuperabile. La risposta a questo stato di disagio psichico può essere di diverso tipo. Esiste il rimedio immaginario, abbastanza pericoloso, che consiste nella identificazione con altre persone, per esempio con il fratello Teo, e che consiste in una relazione sbilanciata e simbiotica in cui l’uno è il prolungamento dell’altro, l’uno rispecchia l’altro. Questo introduce un disequilibrio nella relazione in cui l’uno fatica a vedere l’altro. Vincent vorrebbe che il fratello Teo si buttasse nell’arte come lui, e mal tollera il suo matrimonio e la nascita del figlio (ahimè, un altro Vincent): le due cose matrimonio e Vincent III scatenano in lui una crisi psicotica. Van Gogh tende a stabilire relazioni di questo tipo: con il fratello, con le donne e con gli amici (Gaugin), relazioni sbilanciate e pericolose.
Altro rimedio sano alla melanconia è quello simbolico che rafforza l’identità barcollante del soggetto e che consiste nella realizzazione professionale e vocazionale.
La terza compensazione, possibile solo dopo l’attacco psicotico, è invece la metafora delirante, cioè il tentativo di ridare un senso al vissuto che però diventa un senso del tutto soggettivo e irrimediabilmente disconnesso dalla realtà.
Per quanto riguarda il rimedio sano, cioè quello simbolico, oltre alla realizzazione professionale come artista consiste anche nel tentativo di Van Gogh di fare il predicatore e nel suo tuffarsi in una religiosità che non è formale e dogmatica ma punta alla follia della figura di Cristo e ha come simbolo la croce. E’ una religiosità assoluta e spiazzante (inassimilabile a quella della società borghese e benpensante), una religiosità così come la intendeva anche Kierkegaard. Della figura di Cristo lui coglie più che la vittoria (ovvero la Resurrezione), l’abbassamento dalla sua divinità e la rinuncia, cioè l’incarnazione e lo spossessamento di ogni bene, il farsi povero tra i derelitti. Van Gogh persegue una imitazione di Cristo. Nel Vangelo all’oggetto di scarto è dato un altissimo valore in quanto soprattutto i diseredati e gli emarginati entrano in autentica comunione con Cristo. Su questa strada, la melanconia di Van Gogh da passiva (essere relegato al ruolo di oggetto di scarto) si fa attiva (è lui a occuparsi di oggetti di scarto, cioè si fa predicatore tra i minatori). La spinta mistica viene poi trasferita al campo artistico nel senso che la sua arte è sempre una ricerca di infinito e l’amore resta per lui la calamita. La sua è un’arte sacra in senso lato, oltre che una ricerca di penetrazione nel mistero del dolore della vita e del suo non senso. La sua arte come la sua religiosità trova nella compensazione simbolica una estrema forza e una grande libertà per l’assoluta mancanza di vincoli con la tradizione e la maniera. In lui la scelta per la pittura e la scelta per la follia (della croce) tendono a coincidere. Essere pittore (come essere cristiano) implica un senso di indignazione etica e il contrasto con le accademie e tutto ciò che è commerciale. Essere artista non comporta per lui come per Joyce l’essere artefice del proprio Nome ma uno totale sradicamento dalla tradizione del Padre e dalla società oltre che dalla cultura dominante. Quindi non lo porta a imporre il suo Nome ma a una identificazione melanconica attiva, cioè a scegliere se stesso come scarto: in questo la sua arte ha una forza straordinaria. Questa forza non è di tipo narcisistico di autoproclamazione ma è più simile a una preghiera. L’arte è un appello al mistero, un ponte verso l’esperienza religiosa. Per questo in un certo senso l’arte viene meno alla sua funzione di rimedio simbolico alla psicosi, precipitando Van Gogh nella psicosi, dato che lo avvicina troppo al dolore del mondo e al mistero della sofferenza in una tensione alla fine insopportabile. Van Gogh è il creatore che si consuma nell’opera. Le sue opere danno proprio l’idea di un avvicinarsi alla luce e al calore (dunque al colore) senza filtri proprio come Icaro. E’ un avvicinamento quasi mistico, una spinta religiosa. Basti pensare alla pietà dell’89 in cui Vincent presta il suo volto al Cristo morto.

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Presentazione davvero bella Mario! Ci ricorda anche come idealizzare gli artisti che ci piacciono, sia totalmente arbitrario.
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