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Collaborare, o non collaborare?
Arrigo Petacco affronta un tema che non è molto noto ed è senz’altro meno conosciuto di quello che, relativamente ai nostri soldati imprigionati dopo l’8 settembre 1943 nei lager tedeschi, vide offerta loro la possibilità di abbandonare le dure condizioni di vita per arruolarsi nel neonato esercito della Repubblica Sociale Italiana, offerta che fu accolta da un numero assai limitato di prigionieri. Lo storico spezzino qui invece si interessa della condizione dei nostri militari catturati dalle truppe angloamericane con riferimento a una particolare data, l’8 settembre 1943, cioè quella dell’armistizio, data in cui erano presenti nei campi di concentramento alleati sparsi un po’ ovunque fra Africa, Asia, Australia, Europa e America, circa 600.000 soldati italiani. Preciso che la distinzione fra il prima e il dopo ha più un carattere giuridico che un effettivo aspetto pratico, perché ben poco cambiò con la cessazione delle nostre ostilità nei confronti degli anglo-americani, mentre qualcosa di più significativo avvenne con la nostra successiva dichiarazione di guerra alla Germania. Di questo argomento già sapevo parecchio in quanto mio padre fu catturato nel gennaio del 1941 in Libia durante la vittoriosa avanzata inglese e la nostra ignominiosa rotta; portato ad Alessandria d’Egitto, dopo una lunga marcia nel deserto, fu imbarcato con destinazione Durban in Sud Africa dove rimase fino alla primavera del 1946, allorché rientrò in Italia. Già quasi da subito fu offerto agli italiani di collaborare, che non voleva dire combattere accanto agli inglesi, ma di essere utilizzati per tutti quei lavori di carattere non militare previsti dalla Convenzione di Ginevra. Chi accettava doveva firmare una dichiarazione e diventava un collaboratore, con modesti vantaggi, tuttavia non trascurabili per un prigioniero, quali una minor restrizione. Chi non era di questo parere veniva messo in un lager riservato ai fascisti, in cui il trattamento non era disumano, salvo qualche tentativo un po’ troppo violento per far cambiare idea. Dopo l’8 settembre 1943 e ancor più successivamente alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania, la figura del collaboratore assumeva una luce particolare, tanto che la qualifica diventava di cobelligerante, non comunque di combattente alleato, ma in ogni caso con un trattamento migliore e con una certa, per quanto non completa, libertà. Gli altri continuavano a restare nei lager dei non collaborazionisti, per quanto il loro numero continuasse a diminuire per le defezioni. Questi ultimi erano tutti ferventi fascisti? In buona parte sì, ma c’era anche chi aveva un senso rigido dell’onore e che riteneva sconveniente l’idea di dare una mano all’ex nemico. Petacco parla soprattutto di chi scelse di non collaborare, cercando di comprenderne le ragioni, tema senz’altro interessante, ma, se devo essere sincero, affrontato dallo storico spezzino in modo un po’ superficiale, senza mai affondare il bisturi per portare alla luce motivazioni anche recondite, ma basandosi prevalentemente sull’etichetta di fervente fascista. Il saggio diventa così un po’ noioso, anche se a tratti presenta delle impennate di interesse con delle notizie poco conosciute ai più, se non agli addetti ai lavori, come per esempio il lavorio intrapreso dagli inglesi, quando ancora non l’avevano preso prigioniero, per far diventare Amedeo Duca d’Aosta la guida dell’Italia libera, così come era De Gaulle per i francesi, tentativo non riuscito e poi definitivamente abbandonato con la sopravvenuta morte in prigionia dell’eroe dell’Amba Alagi. Inoltre, già si sapeva, ma qui viene riconfermato il pessimo trattamento dei nostri militari nei lager francesi, forse ancora infuriati per la famosa pugnalata alla schiena inferta ai transalpini da Mussolini. A parte qualche altra notizia e la descrizione delle nostre operazioni militari in Africa il saggio di Petacco non riserva altre sorprese, o motivi d’interesse, e si trascina, un po’ stancamente, fino alla fine. Non che non meriti di essere letto, ma mi sembra che l’autore, in altre occasioni meticoloso, qui sia stato un po’ superficiale, mancando di effettuare quegli approfondimenti indispensabili per la natura del tema trattato.
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