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Due giganti a confronto
Il confronto tra Publio Cornelio Scipione ed Annibale Barca è uno tra i più avvincenti della storia antica se non di tutta la storia umana.
Furono entrambi personaggi singolarissimi per genio e vitalità. Il Cartaginese è da annoverare tra i generali più abili che il Mondo abbia mai veduto. Scipione ne fu un validissimo emulo ed allievo a distanza. Infatti ne studiò diligentemente le strategie e le tattiche e, in un certo modo, riuscì pure a migliorarle e renderle adatte alla struttura militare romana sino a trasformare la legione nella più micidiale macchina bellica che la storia avesse mai veduto. In combattimento si scontrarono solo una volta, sul campo di battaglia di Zama, alle porte di Cartagine, poi la sorte li divise e non ebbero neppure l’occasione di rivedersi, ma l’impatto emotivo che l’uno esercitò sull'altro fu comunque decisivo.
Nella battaglia in terra libica risultò vincitore il romano, più per fortuna che per effettiva superiorità, ma la loro vita continuò a procedere parallela per decenni. Addirittura morirono a poca distanza di tempo l’uno dall'altro, entrambi in disgrazia ed in esilio, anche se per Scipione si trattò più che altro di un ritiro “in Aventino” per sfuggire agli oppositori in Senato, mentre per Annibale fu sempre una fuga per la vita e la vana ricerca di una rivincita. Nonostante avessero dato tanto ai loro Paesi, senza risparmiare energie e salute, la gratitudine per le loro gesta si dissolse più in fretta delle loro vite: nessuno dei due fu sepolto in patria (“ingrata terra non avrai neppure le mie ossa” farà scrivere Publio come epitaffio). L’eredità che lasciarono, però, si protrasse nei secoli.
L’opera di Brizzi ripercorre queste due straordinarie vite allo specchio calandosi nella realtà dell’epoca e raccontando gli avvenimenti quasi fossero riferiti da un testimone oculare.
Sotto l’aspetto meramente storico la ricostruzione è precisissima e assolutamente dettagliata: documentatissima e rispettosa delle numerose fonti a cui si è attinto a piene mani come dimostra la postfazione e il lungo elenco bibliografico finale. Del resto nulla di meno ci si poteva aspettare dall'A. che è stato professore ordinario di Storia antica presso l’Università di Bologna ed altri atenei nel mondo e che gode tuttora di un prestigio internazionale di prim'ordine.
Molto interessante, poi, è il criterio narrativo adottato, quello della narrazione “in presa diretta”, cioè non limitandosi a svolgere una diligente rievocazione che si appoggi sulla citazione dei testi, per offrire una asettica cronaca degli eventi, ma che tenta di descrivere i protagonisti come persone in carne ed ossa, calandosi nelle loro emozioni e nei loro sentimenti da far rivivere al lettore.
Su questo secondo aspetto, però, il risultato è meno pieno e completo. Bisogna, infatti, rilevare come il libro, pur non essendo un testo storico in senso accademico, non divenga neppure mai un romanzo storico con la relativa drammatizzazione degli eventi. La preoccupazione principale dell’A. rimane quella di esporre i fatti e gli avvenimenti obiettivamente, nella loro corretta successione cronologica e nella relativa concatenazione. L’A. cioè non si cura di rendere più concrete e tangibili le personalità dei protagonisti, magari aggiungendo un arbitrario (per lo storico) tocco personale che li umanizzi e ce li consegni come persone vive nel pieno della loro azione. Giacché le fonti non concedono nulla sotto questo aspetto, i sentimenti e le emozioni di Publio e di Annibale sono estrapolate in modo un po’ freddo ed impersonale, facendo perdere quel contatto emotivo che avrebbe catturato ulteriormente l’attenzione del lettore, magari a spese della piena fedeltà a quanto ci tramandano i documenti.
Nonostante ciò il libro effettivamente può essere letto come un romanzo avvincente e ci si può lasciar trascinare dalle vicende appassionanti e coinvolgenti, che raramente hanno una battuta d’arresto, un momento di stasi o di calo della tensione nonostante l’esito finale sia conosciuto.
Il vero punto debole, e lo dico con immenso rammarico, risiede nello stile espositivo adottato. Ormai il lettore moderno è assuefatto alla cosiddetta prosa “alla francese” fatta di frasi brevi, di periodi nervosi e scattanti. Invece in “Scipione ed Annibale” è tutto un susseguirsi di periodi lunghissimi (quasi spagnoleggianti) infarciti di incisi e subordinate come in una agghiacciante matrioska letteraria. Soprattutto nei primi capitoli la frase reggente si perde all'interno della superfetazione di precisazioni e frasi incidentali al punto che, non di rado, si smarrisce il senso complessivo del discorso e si rende necessario rileggere il tutto daccapo, sfrondando dagli elementi superflui il concetto principale. Il desiderio dell’autore di fornire la maggior quantità possibile di informazioni, di sensazioni, di commenti, di stati d’animo (e l’A. è un pozzo senza fondo di notizie) esonda dagli argini che dovrebbero contenere la frase per avere una esposizione agile e di facile lettura, portando alla composizione di periodi involuti e di faticosa comprensione. In tal modo il lettore perde il filo come un novello Teseo all'interno di un labirinto.
Alla fine, per riuscire a procedere con una certa speditezza e scioltezza nella lettura, diviene necessario spesso procedere per saltum, operando una sintesi che induce a ignorare interi incisi per concentrarsi solo sul concetto principale delle proposizioni. E ciò è una vera disdetta.
Secondo neo, assai più piccolo, invero, è da individuarsi nell'abitudine di utilizzare con eccessiva frequenza termini latini quando esisterebbe il lemma italiano in grado di chiarire il concetto senza tradirne il senso. E’ un vezzo un po’ snob che non appesantisce (questo no) la lettura, ma la rende forse un po’ troppo leziosa.
Concludendo il volume è decisamente interessante, fortunatamente anche in presenza dei citati difetti, e la lettura è consigliabile sia a chi non conosce (o non ricorda più) la storia di questo periodo cruciale per la civiltà occidentale, sia a chi desidera approfondirne i vari aspetti attingendo alle innumerevoli informazioni che vengono fornite. In fondo le radici della nostra cultura affondano anche nell’humus che questi grandi uomini seppero produrre.