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Gli scimpanzé che si narrano storie
Tempo addietro, leggendo un volume di divulgazione scientifica, avevo scoperto una tesi piuttosto sconvolgente. È noto che dal punto di vista biologico noi differiamo pochissimo dagli altri primati. In particolare dalle due specie di scimpanzé (Pan troglodytes, cioè gli scimpanzé comuni e Pan paniscus, i bonobo) ci separano solo poche manciate di geni, meno dell’1% del DNA. Secondo detta teoria la differenza tra noi e loro starebbe solo nel fatto che noi basiamo i nostri comportamenti sulle storie che ci raccontiamo; storie inventate, ma in cui crediamo, a cui ci conformiamo e che cerchiamo di tramutare in realtà. Sono storie che ci parlano di entità superiori che ci guidano, di modi per assoggettare la natura al volere dell’uomo, storie di atteggiamenti “etici” o “legali”, ma anche storie di volo umano o di viaggi tra le stelle. In quello scritto si concludeva che sarebbe stato più onesto definire la specie umana, invece che Homo sapiens, Pan narrans, cioè lo scimpanzé che si racconta delle storie.
Nel volume di Harari mi aspettavo una riconferma ed un approfondimento di questa teoria, piuttosto affascinante. In realtà “Da animali a déi” non è solo questo, ma molto di più.
Yuval Noah Harari è dottore di ricerca in Storia all'Università di Oxford, professore presso il Dipartimento di Storia della Hebrew University di Gerusalemme e specializzato in Storia mondiale. In questo volume, un best-seller mondiale, l’A. parte da una constatazione fondata su dati scientifici difficilmente confutabili: sino a circa 70.000 anni fa le molteplici specie del genere Homo, all'epoca esistenti (erectus, neanderthalensis, soloensis, floresiensis, sapiens, etc.), erano solo alcune tra le tante specie del panorama faunistico che lottavano per la sopravvivenza. Nonostante fossero già presenti da oltre due milioni e mezzo di anni, gli Homo si erano ricavati una nicchia in cui vivere, ma nulla di più: erano creature marginali e deboli. La loro evoluzione, pur con il dominio del fuoco e la manualità che consentiva loro la costruzione di semplici utensili, si era sostanzialmente stabilizzata.
Poi è avvenuto qualcosa che ha cambiato radicalmente i giochi: l’Homo sapiens (una delle specie) ha cominciato ad elaborare una forma di comunicazione più complessa, che gli consentiva di trasmettere informazioni anche su entità che non esistevano. Da quel momento ha cominciato a fare cose davvero speciali e in poche migliaia di anni le popolazioni sono aumentate, si sono diffuse con ampiezza esplosiva sulle terre emerse ed hanno cominciato a modificare l’ambiente naturale con sempre maggiore incisività. Non sappiamo come né perché, ma quella che Harari definisce la rivoluzione cognitiva ha cambiato il nostro modo di pensare e, di conseguenza, di vivere.
Cominciandoci a raccontare storie, i miti (come li definisce il testo), a cui uniformare il nostro comportamento, noi Sapiens abbiamo iniziato a collaborare assieme, anche tra estranei, riuscendo a piegare la natura al nostro volere. Pur restando animali, non dissimili dagli altri, abbiamo superato i limiti che il patrimonio genetico ci imponeva. Ciò è avvenuto anche a spese degli altri animali, ivi compresi i rappresentanti delle altre specie di Homo che, una dopo l’altra, si sono estinte (o sono state parzialmente assorbite). Alla rivoluzione cognitiva è seguita, 12000 anni fa, quella agricola. Essa - per quanto il libro la definisca la grande impostura perché con essa si è avuto un generale peggioramento delle condizioni dei singoli individui - ha dato il via ad un boom demografico impensabile per le precedenti popolazioni di raccoglitori-cacciatori: sono nati villaggi e città, strutture sociali ampie ed il commercio. Per organizzare queste moltitudini in continua relazione sono stati ideati sistemi di memorizzazione fisica (la scrittura) che ha consentito di superare i limiti fisici del nostro cervello. I miti sono stati così tramandati in modo stabile alle generazioni future, pure attraverso codici di leggi o precetti religiosi. Poi si è giunti all'invenzione del denaro, che ha favorito gli scambi anche tra persone che non si conoscono ed ha determinato la fiducia universale su un bene frutto solo della nostre costruzioni mentali. Così di seguito Harari esamina tutti i costrutti della mente umana analizzandone le caratteristiche e gli effetti sulla storia (gli imperi, le religioni monoteiste, etc.).
Infine, con la rivoluzione scientifica, intervenuta solo cinquecento anni fa, le regole con cui l’uomo si muove nel mondo sono nuovamente cambiate. Ciò ci ha portato alla felicità?
Il libro percorrendo l’intera storia umana, espone, in modo limpido ed estremamente razionale, questa avvincente teoria sul nostro passato di specie animale e getta le basi per alcune ipotesi sul nostro futuro.
Ho trovato il volume molto stimolante e istruttivo. Alcune delle tesi e delle conclusioni raggiunte possono forse apparire scontate, ma globalmente la novità dell’approccio è indubitabile. Su altre asserzioni si può restare scettici, non tanto perché discutibili in sé, quanto, piuttosto, perché dovrebbero essere perfezionate ed approfondite. In ogni caso il libro ha il merito di porre in chiara, innovativa luce l’intera evoluzione umana. La trattazione è lucida e logica, senza tecnicismi o inutili complessità accademiche. Soprattutto l’analisi della storia umana viene fatta in modo scevro da preconcetti o, per dirla con Harari, dai miti che l’uomo stesso si è costruito. Questi miti ci consentono di tenere le nostre società unite, ordinate ed organizzate, ma possono essere gabbie pericolose per il nostro pensiero, il bene più prezioso che abbiamo sviluppato, e possono portarci a conclusioni pericolose, come la discriminazione di razza o genere, la sopraffazione o il ragionamento per pregiudizi.
Si può dire che non ci sia pagina, asserzione del libro che non stimoli una riflessione, una analisi e, magari, un approfondimento. Poi, magari, ognuno può restare fedele ai propri miti (e in alcuni casi è praticamente indispensabile!), ma avrà raggiunto una consapevolezza diversa ed una accettazione basata su un ragionamento razionale e non su una mera ricezione passiva.
Proprio perché fornisce una potente guida per un pensiero autonomo, facendo osservare le cose da una diversa prospettiva, ritengo che sia un libro da consigliare, anzi, da giudicare quasi obbligatorio se vogliamo aprire la mente ad una lettura nuova su cos'è l’Homo sapiens e su cosa rappresenti effettivamente la storia della sua evoluzione.
Concludo con un breve assaggio del pensiero di Harari:
“Dopo la rivoluzione agricola, le società umane crebbero diventando sempre più ampie e complesse, mentre i costrutti dell’immaginazione che sostenevano l’ordine sociale si facevano anch'essi molto elaborati. Miti e finzioni abituarono le persone, fin quasi dalla nascita, a pensare in un certo modo, a comportarsi in linea con certi parametri, a volere certe cose e a osservare certe regole. Crearono con ciò istituti artificiali che consentirono a milioni di estranei di cooperare con efficacia. Questo sistema di istinti artificiali si chiama cultura”.
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Mi sento in dovere di precisare che il grosso della recensione l'avevo già buttato giù prima di raggiungere la fine, proprio sull'onda dell'ottima impressione ricevuta sin dall'inizio.
Quando l'A. comincia ad occuparsi del presente alcuni dubbi si accrescono, non sulla tesi esposta o sulle basi da cui parte l'argomentazione, ma su certe conclusioni, che sono sociologiche, economiche e, in qualche caso, etiche. Quindi hai il sospetto che Harari, storico, stia seminando in terreni non suoi.
Inoltre a quel punto Harari non espone più una sua teoria scientifica, ma ci mette anche un po' (troppo?) delle sue sensazioni personali, dei suoi stati d'animo nei confronti dell'odierna civiltà. Ciò non sminuisce di una virgola il valore del libro, ma forse, comporterebbe una più ampia discussione su quanto viene via via affermato.
Il che, tutto sommato, è anche un bene, visto che stimola al ragionamento personale e, credo, questo è uno dei fini ultimi del libro.
Ripeto un libro consigliabilissimo.
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