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La guerra... la guerra...
“Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo. E da oltre un anno che io faccio la guerra, un po' su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! E' orribile! E' per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall'altra.”
Non c'è grande opera sulla guerra (libro o film o altro che sia) che non induca alla stessa domanda, sempre la stessa: come è possibile che una cosa di cui sono protagonisti così intensi gli uomini, sia tanto profondamente disumana?
E non c'è grande libro che cada nella trappola di rispondere direttamente a questa domanda, quando è molto più efficace “fermarsi” a delle constatazioni, a delle tracce: quella sulla catena causale di un conflitto bellico, ad esempio, per cui c'è chi lo decide, chi lo dirige, chi lo combatte, e infine chi lo perde. Se non ci fosse questa “suddivisione di ruoli”, probabilmente non ci sarebbero uomini disposti a farsi guerra.
“Un anno sull'altipiano” di Emilio Lussu è un grande libro che parla della guerra: pone la domanda, e, invece che avventurarsi a rispondere, declina tutta l'assurdità di cui essa si nutre. Negli sguardi sulla vallata, negli ordini ai sottoposti, nei dialoghi tra persone prima che tra soldati, nelle promesse reciproche nate sul timore di non tornare più, si aprono le feritoie che controllano l'intero fronte avversario, scorre tutto il cognac che serve da anestetico, trovano un motivo le esercitazioni così come le maledizioni.
Mario Rigoni Stern – uno che di guerra ha scritto, e si trattava proprio di prima guerra mondiale – ha amato questo libro perché in esso vi ha visto i luoghi in cui è cresciuto, la profanazione dell'altopiano d'Asiago in una stagione di vite sacrificate al nulla.
Ogni altro lettore che non conosca i posti narrati troverà un motivo per non dimenticare quest'opera, la vita di trincea così come essa viene spiegata, nella più estenuante guerra di posizione che la storia ricordi.
Intanto il conflitto va avanti, si continua a farlo... se non per convinzione, per rassegnazione, perché la paura più grande è quella di avere di fronte un nemico impazzito, perciò un nemico pronto a tutto. Così la guerra si fa anche se non lo si vuole, per non farsi sopraffare, per non farsi togliere tutto. E a pensarla così – ad un certo punto di ogni conflitto – sono l'una parte e l'altra, senza distinzione tra chi attacca per primo e chi risponde.
La domanda giusta, allora, spetta a chi assiste alla guerra, non a chi la subisce. Ma è un esercizio fine a se stesso, giacché è una domanda che non prevede definitiva risposta.
“Ho fatto tutta la guerra libica e ho preso parte a molti combattimenti. Sono stato decorato al valore, come vede, e credo di non aver paura. Io credo di non aver più paura di un altro. Sono ufficiale di carriera ed è probabile che io avanzi ancora di grado. Ma le assicuro che le più belle soddisfazioni della mia carriera sono come questa d'oggi. Noi siamo professionisti della guerra e non ci possiamo lamentare se siamo obbligati a farla. Ma, quando siamo pronti per un combattimento, e, all'ultimo momento, arriva l'ordine di sospenderlo, glielo dico io, mi creda, si può essere coraggiosi finché si vuole, ma fa piacere. Sono questi, lealmente, i più bei momenti della guerra.”
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