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Migranti
Riportando alla luce, con un piglio alla Truman Capote, la tragica sorte di cinque siciliani di Cefalù impiccati in Louisiana sul finire del diciannovesimo secolo, Deaglio non solo si sforza di mettere sotto agli occhi deìgli italiani di oggi un mondo in cui i migranti erano i nostri trisnonni, ma racconta una pagina dimenticata in cui il neonato Regno d’Italia non ci fa una figura molto migliore degli ignoranti e feroci abitanti di Tallulah. In poche parole, per ovviare al calo di manodopera dovuta alla fine della schiavitù, i governi di Washington e Roma si accordarono per trasferire nelle coltivazioni dello Stato ex confederato i contadini più poveri della Sicilia: da una parte si reclutavano lavoratori a buonissimo mercato, ingannati ovviamente sulle condizioni che li attendevano, e dall’altra ci si liberava di una massa diseredata che – sull’eco lontana delle promesse garibaldine – chiedeva una più equa distribuzione della terra. L’autore ben descrive la vita dei nostri connazionali, spediti in un posto di cui non conoscevano la lingua e dove non c’era molto altro oltre che lavoro massacrante, umidità e zanzare; in una comunità che si va ingrandendo, però, qualcuno riesce inevitabilmente a emergere ed è qui che cominciano i (nuovi) guai. Ai cinque capita in piccolo quel che è successo in modo più grave qualche anno prima a New Orleans: la minima affermazione nata dal commercio della frutta, soprattutto della loro isola, unita a un atteggiamento senza troppi preconcetti – ‘vendono anche ai negri’ – finisce per stuzzicare la rabbia dei concittadini, già resi sospettosi dal pregiudizio della razza. I siciliani appaiono difatti come una via di mezzo tra bianchi e neri (Deaglio sottolinea che l’idea, sulle orme di Lombroso, era condivisa pure in Italia), il che consente ai suprematisti ante litteram di Tallulah di non farsi eccessivi scrupoli prendendo due piccioni con una fava: allo stesso tempo vengono cancellate le fisionomie poco rassicuranti e i concorrenti commerciali in una purtroppo ben conosciuta guerra fra poveri sobillata ad arte facendo leva sull’elemento razziale. Insomma, un trappolone che non fu l’unico, visto che furono numerosi gli italiani che condivisero il destino degli ‘strani frutti’ di colore: l’autore ne racconta il dramma con una prosa brillante che riesce nel contempo a narrare con grande lucidità e a toccare le corde dell’indignazione. Il libro si rivela così interessante e, malgrado tutto, piacevole, minato solo in piccola parte da un eccesso di salti temporali e di argomento nonché da un paio di capitoli conclusivi troppo frammentari e forse non indispensabili.