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Un caso di doppia personalità
Alessandro Pavolini (Firenze, 27 settembre 1904 – Dongo, 28 aprile 1945) e Benito Mussolini, quando si allontanarono da Como il 27 aprile 1945, diretti verso la Valtellina (il primo per un’ultima disperata difesa nel ridotto fra i monti appena abbozzato, il secondo, tentennante fra la morte eroica e la fuga da vigliacco, con ogni probabilità con la speranza di valicare il confine e rifugiarsi in Svizzera), erano senz’altro, all’epoca, gli uomini più odiati dagli italiani. Del Duce sono state scritte tante biografie, più o meno riuscite, mentre assai meno sono state quelle relative ad Alessandro Pavolini, uomo dalla complessa personalità, e quindi assai difficile da descrivere. Tuttavia, Arrigo Petacco con Il superfascista ci ha provato e, secondo me, con risultati eccellenti. Il saggio storico inizia con la colonna, di cui fanno parte fra gli altri Benito Mussolini e Alessandro Pavolini, bloccata dai partigiani sulla sponda occidentale del lago di Como. Si parlamenta, si discute e infine si arriva un accordo: si lasceranno passare gli uomini della FlacK, a cui come è noto si aggregò il Duce travestito da tedesco. Per gli italiani, per i fascisti che disperati alternano momenti di abulismo o di sconforto ad altri di speranza, c’è da attendere le decisioni del comando partigiano. In questo tempo che per i gerarchi e gerachetti sembra non trascorrere mai Petacco , con stile snello, scevro di accademismo, ci narra la vita di Alessandro Pavolini, intellettuale fiorentino di buona e nota famiglia (il padre era uno dei più noti filologi esistenti al mondo, accademico d’Italia), dedito con passione e capacità alle arti e alla letteratura, di per sé buon giornalista e ottimo scrittore; era persona amabile, rispettosa dell’opinione altrui fin tanto che l’argomento era quello letterario, ma rivelava un’insospettabile ferocia quando nutriva timori per la stabilità del fascismo e per l’incolumità di Mussolini, che addirittura idolatrava. In breve, da vice federale a Firenze, ne divenne il federale, distinguendosi per alacrità, per la realizzazione di opere pubbliche utili e indispensabili, come la nuova stazione della città e i numerosi alloggi popolari. Era capace e onesto e inoltre fedele, ma la sua carriera nel partito non sarebbe stata così rapida se non avesse avuto la sorte di conoscere, divenendone amico, il genero del duce, il potente Galeazzo Ciano. Alla sua corte, senza essere un lacché, si dimostrò fedele e disponibile e quindi gli si aprirono le porte per un luminoso avvenire, diventando, fra l’altro, ministro della cultura popolare, dicastero importantissimo che aveva il compito di istruire non solo fascisticamente i giovani italiani, ma anche quello, non meno rilevante, di manipolare l’informazione e con essa le coscienze. Era un traguardo prestigioso, ma l’uomo non era evidentemente soddisfatto, anche perché l’entrata in guerra dell’Italia, le cui forze armate erano del tutto impreparate, circostanza a lui ben nota, gettava un’ombra sulla sua vita. Si incupì, cominciò a temere, giustamente, che il fascismo avesse le ore contate. Un rimpasto governativo, voluto dal Duce per gettare fumo negli occhi e distogliere il popolo dalle continue disfatte, lo esonerò dall’incarico, compensato dalla ben più modesta investitura di direttore del Messaggero. Era un posto defilato, in cui Pavolini avrebbe potuto attendere relativamente sicuro la fine del conflitto, ma con la defenestrazione del 25 luglio 1943 di Mussolini deliberata dal Gran Consiglio del Fascismo sentì crescere in sé un odio irrefrenabile che lo portò a rifugiarsi in Germania, nonostante disistimasse i tedeschi, e a predisporre con loro un piano di rinascita del fascismo. É così che, dopo l’8 settembre 1943 e successivamente alla liberazione del Duce anche lui condotto in Germania, che nacque lo stato fantoccio della Repubblica sociale italiana. Pavolini diventò il segretario del partito fascista e di fatto l’uomo che decideva anche per un Mussolini ormai depresso e abulico. Fu sua l’idea di fare un esercito fascista ed è così che nacque la Guardia Nazionale Repubblicana che, con ferocia combattè i partigiani, con crimini di tale portata da far intervenire ogni tanto perfino i tedeschi per chiedere un po’ di moderazione. Nel crepuscolo del regime Pavolini finì con il sognare la “bella morte” e in tal senso era spesso in prima linea, tanto che fu anche ferito. Però il libro del destino del fascismo stava per arrivare all’ultima pagina e l’odio e la ferocia si accrebbero in Pavolini che addirittura lasciò numerosi cecchini a Firenze, prossima alla liberazione, affinché uccidessero, più che i soldati alleati, gli stessi cittadini.
L’avanzata dei tedeschi nelle Ardenne risvegliò le speranze di naufraghi morituri, ma fu solo una piccola fiammata e nella primavera del 1945 si annunciò la resa dei conti. É noto come andò a finire, con Pavolini che cercò disperatamente di opporsi all’arresto, combattendo, ma che poi con altri suoi camerati venne fucilato sul lungolago di Dongo. Il suo corpo, come quello di Mussolini e degli altri giustiziati in riva al lago di Como, venne poi appeso a un distributore di benzina di Piazzale Loreto a Milano.
Petacco é stato molto bravo perché non solo ha messo in giusta luce le due personalità contrastanti, ma ha saputo narrare questa biografia come se fosse un romanzo, rendendola avvincente e indimenticabile.
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Siccome amo frequentare, con grandissimo piacere, le sponde del Lago di Como, sono andato non casualmente a Dongo, dove ancora si riscontrano le tracce fisiche di ciò che accadde nel '45. Non ho avuto però l'opportunità di individuare il luogo dell'ultimo scontro di Pavolini.