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Una bellissima storia d’amore
Se si osserva con attenzione l’immagine della copertina, una fotografia di Rosa Vercellana, meglio conosciuta in piemontese come la Bela Rosin, non si può far a meno di rilevare la floridezza del personaggio, bene in carne e nei punti giusti (fianchi e seno), con un bell’ovale in cui spiccano gli occhi scuri, dolci, ma non succubi, insomma quella tipologia femminile che tanto piaceva a Vittorio Enanuele II, impenitente donnaiolo, padre della patria e di non pochi italiani bastardi. È anche vero, però, che oltre a queste doti fisiche, la signora ne possedeva altre, tali da far innamorare in modo duraturo il re d’Italia, uomo avvezzo a ad assai frequenti incontri sessuali con qualunque femmina destasse il suo interesse – e ce ne furono moltissime -, a cui si presentava senza tanti preamboli per andare al sodo, in un’alcova che poteva essere il grande letto di un palazzo, come una brandina da campo, o anche un fienile e perfino sull’erba. Erano smanie di cui Vittorio Emanuele era preda e che servivano a temperare per un po’ la sua esuberanza, insomma si trattava di amore soltanto fisico, e non anche di affetto, di quel sentimento che porta due persone a confidarsi, a parlare, a sognare insieme, quello che invece ci fu anche e solo per la Bela Rosin. Di questo legame, durato una trentina d’anni, ci parla in questo libro Roberto Gervaso, con la sua consueta ironia, non scevra di simpatia per una donna capace, con le sue qualità, di accrescere i pregi del monarca e di attenuarne i difetti, un porto sicuro a cui rifugiarsi nei periodi bui o a cui approdare per condividere i pochi, ma sostanziosi, momenti di felicità. Il re, come noto, era sposato con Maria Adelaide d’Austria, un matrimonio combinato per cementare alleanze e dunque non ravvivato dall’amore, il che non impedì tuttavia a Vittorio Emanuele di adempiere ai suoi doveri di consorte, come testimoniano le sette gravidanze della moglie, l’ultima delle quali le fu fatale. Maria Adelaide era un tipo fine, riservato, veramente innamorata di Vittorio e che aveva capito che con quell’uomo non c’era nulla da fare, se non ignorare le sue frequenti scappatelle; lui nutriva un certo affetto per lei e in fondo era grato di avere una moglie che lo lasciava fare, come del resto analogamente si comportava la Rosina. Questa, figlia di un tambur maggiore, e quindi plebea, aveva solo quattordici anni quando Vittorio, non ancora sovrano, le mise gli occhi addosso e fu un colpo di fulmine, che durò fino alla scomparsa del re. Lei era assai bella e aggraziata, lui non era brutto, ma aveva un che di rozzo e un aspetto somatico che neula aveva in comune con i suoi ascendenti (i Savoia per parte di padre e gli Asburgo per parte di madre); anche il carattere era del tutto diverso, contrario a ogni etichetta, forse credente, ma non certo bigotto come il padre e la madre, andava più d’accordo con il popolino che con i nobili e per l’insieme di queste cose correva la voce che non fosse un Savoia, in quanto aveva preso il posto del legittimo erede, perito ancora in culla in un incendio; le stesse voci asserivano che fosse figlio di un macellaio fiorentino, ma secondo Gervaso tali notizie sarebbero da considerarsi infondate, pur restando ancora da spiegare le differenze fisiche e caratteriali.
La relazione con Rosina, con cui fu prodigo di regali in denaro, gioielli e proprietà, fu in realtà un matrimonio, anche se non ufficiale, da cui nacquero tre figli, di cui uno morto subito e ai superstiti (un maschio, chiamato Emanuele, e una femmina chiamata Vittoria) il re volle particolarmente bene, preferendoli ai figli legittimi avuti da Maria Adelaide. Questo menage era ben noto a tutti e trovò la dura avversione di Cavour, che nel libro viene descritto come un individuo della peggior specie, sempre in disaccordo con il re. Ciò nonostante, Vittorio Emanuele, pur consapevole di non poter prendere in sposa la Rosa (dopo la scomparsa della moglie) e di non poter legittimare Emanuele e Vittoria, il tutto per questioni dinastiche, prima investì del titolo di Contessa di Mirafiori la Vercellana, poi arrivò all’unica soluzione possibile, una sorta di compromesso, unendosi in matrimonio con lei morganaticamente. Gli anni migliori furono forse quelli dopo il 1860, quando, senza calmarsi nelle sue passioni (donne, guerra, caccia) il re, rimasto vedovo nel 1855, poté stare più vicino alla Rosina. I due colombi già cominciavano a pensare alla vecchiaia quando improvvisamente il 9 gennaio 1878 il re moriva per una broncopolmonite; la Vercellana non era presente al trapasso perché malata e per lei fu un gran colpo e un autentico dolore. La grande storia d’amore era finita, o forse continuava nel ricordo; non trascorse molto tempo dalla dipartita del re e anche la bella Rosina il 26 dicembre 1885 chiuse per sempre gli occhi.
Gervaso è uno storico e biografo che ho avuto modo apprezzare per la puntigliosità nella ricerca della verità e anche in questo libro tali caratteristiche sono presenti; forse, per la prima volta, si sbilancia, porta alla luce la sua simpatia per il personaggio, ma se veramente le cose sono state così è impossibile non sentirsi attratti da Rosa Vercellana, venuta dalla polvere e salita sull’Olimpo, una donna che tuttavia riuscì sempre ad aver ben chiare le sue origini, insomma non si montò la testa. Le notizie che fornisce l’autore sono tante che è impossibile descriverle e come suo solito all’inizio dedica un capitolo alla descrizione dell’ambiente e del periodo storico, indispensabile per proseguire la lettura avendo ben presente lo sfondo su cui si svolge questa bellissima storia d’amore che dapprima ruota intorno a Torino, capitale del Regno di Piemonte e poi, per un brevissimo periodo, d’Italia. È una città di militari e di preti, nonché di una massa di poveracci, quasi tutti analfabeti. Vittorio e Rosina sapevano leggere e scrivere, ma non erano certo dei letterati e al riguardo basta leggere i testi delle numerose lettere che Gervaso ha scelto e che, pur negli errori di grammatica frequenti, evidenziano tuttavia in modo chiaro l’intensità di un sentimento a cui pose fine solo la morte.
La lettura è senza dubbio consigliata.
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Nei castelli sabaudi piemontesi ancora aleggia il fantasma di questa signora, come il ricordo delle sue passeggiate nella torinese Via Po, quando transitava tutta bardata e piena di ostentazione (questa sì poco signorile), quasi caricatura di se stessa.