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Damnatio memoriae
Lucio Domizio Enobarbo (Anzio, 15 dicembre 37 – Roma, 9 giugno 58), più noto come Nerone, è stato il quinto e ultimo imperatore romano della dinastia giulio-claudia, figlio adottivo dell’inetto imperatore Claudio. Conosciuto per l’incendio di Roma, di cui diede la colpa ai cristiani, che per questo furono ferocemente perseguitati, depravato oltre ogni limite, è sempre stato considerato come il simbolo del male assoluto. Ma fu veramente così? Non poco, anzi tanto, contribuirono a questo quadro altamente negativo sia la Chiesa cristiana, che poté così portare al suo mulino i non pochi – ma non furono comunque tanti – martirizzati e due storici romani, di epoca successiva, Svetonio e Tacito, entrambi membri dell’aristocrazia, che trovava la sua naturale collocazione in quel senato così tanto disprezzato da Nerone. Appare evidente, quindi, che le notizie su questo imperatore romano finiscono con il mancare di quel requisito di obiettività che dovrebbe essere proprio dello storico, tanto che in epoca moderna gli studiosi, esaminando i testi che ci sono pervenuti, pur senza poter arrivare a una certezza, hanno rivalutato il personaggio. Non è stato da meno Roberto Gervaso, con questo suo Nerone, opera che, a differenza delle sue altre che ho letto, non mi ha convinto del tutto. Certamente le poche fonti a disposizione, peraltro come si è visto prevenute, non contribuiscono a un chiarimento e di ciò deve essere dato atto all’autore che in buona sostanza, sulla base di congetture, magari anche non improbabili, perviene a un giudizio salomonico, nel senso che Nerone non fu né peggiore, né migliore degli altri imperatori, fatta forse eccezione per Augusto e per Adriano. Si trattava, come nel caso degli altri, di un tiranno, di un padrone assoluto, spesso oggetto di congiure che, scoperte, si risolvevano in bagni di sangue. Né gli si può imputare di aver provocato l’incendio di Roma, anche se la plebe, opportunamente manovrata dagli onnipresenti cospiratori, cercò di incolparlo e lui trovò un miglior capro espiatorio rappresentato da quei cristiani che, benché Roma fosse ampiamente tollerante in materia religiosa, preferivano, come una setta, professare il loro credo di nascosto. Se è indubbio che i primi anni del suo impero furono i migliori e i più proficui per Roma, grazie alla costante presenza di due abili consiglieri come il filosofo Seneca, che era stato il suo precettore, e Afranio Burro, prefetto del pretorio, successivamente, con il ricorrere delle congiure, una delle quali ordita dalla stessa madre, che lui poi fece uccidere, lo portarono a disinteressarsi del lavoro di statista e a occuparsi esclusivamente di due passioni che aveva fin da giovane, e cioè l’ars poetica e le gare con i cavalli. Quando poi conobbe un commerciante di equini, tale Tigellino, fu come un colpo di fulmine, poiché trovò in questo individuo la perfidia e la cattiveria che ancora non si erano manifestate nel suo primo periodo di regno; lo nominò capo dei pretoriani e da allora esplose a Roma la violenza, fiorì il terrore, di cui tuttavia non fu vittima il popolino, a cui Nerone continuò a dimostrare il proprio interesse con donazioni di cibo e con l’allestimento di spettacoli gladiatori. In effetti lo scontro avveniva fra il potere assoluto del tiranno e quello nominale del senato, e in verità prevalse sempre Nerone, fino a quando Tigellino, nella sua sete di odio, non cercò di considerare fra i partecipanti a una congiura gente che non c’entrava, ma che aveva un potere notevole, quello militare; inoltre, i Pretoriani, con la promessa di un ingente guadagno, si ribellarono e il senato lo depose. Nerone fuggì dal suo palazzo e si diede la morte in una dimora suburbana di proprietà di un liberto. Il Senato, sperando così forse di riacquistare i pieni poteri – ma non fu così - decretò per lui la damnatio memoriae e iniziò così quella cattiva fama che è pervenuta ai giorni nostri. Gervaso, comunque, con grande e anche forse troppa prudenza, preferisce darci un ritratto tutto sommato positivo nei primi anni di governo e assai negativo nei successivi, lasciando comunque intendere che non è da considerare il mostro che ci è stato dipinto, bensì un uomo dei suoi tempi, con innumerevoli vizi, ossessionato dalle congiure e violento quel tanto che serviva in uno stato che per stare in piedi aveva bisogno di reiterare la forza.
In tutta franchezza quest’opera non ha particolarmente arricchito la mia conoscenza, ma comprendo i limiti di una pressoché impossibile ricerca, attesa la scarsa attendibilità delle poche fonti storiche. Tuttavia, la capacitò dell’autore di inquadrare il personaggio in un ben preciso periodo storico, in un contesto che giustifica per certi aspetti il comportamento del tiranno, sono elementi che se non portano a una certezza in ordine all’operato di Nerone, consentono però una lettura assai piacevole e ricca di spunti di sicuro interesse.
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