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Una vicenda allucinante
Nei quattro anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, in un paese come il nostro che era stato dilaniato da una lotta fratricida e che vedeva contrapporsi ora i filoamericani ai filosovietici, non pochi furono gli atti di violenza, frutto spesso da un insano desiderio di vendetta. In particolare, nell’Emilia vi fu una zona, ricompresa fra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara che venne chiamata Triangolo della morte o anche Triangolo rosso, in cui partigiani e militanti di formazioni comuniste uccisero all’incirca 4.500 persone.
Il tale contesto il 18 giugno 1946 viene assassinato con un colpo di pistola Don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo, in provincia di Reggio Emilia.
A prima vista può sembrare uno dei tanti atti di violenza che funestano la zona ed è così, ma ciò che lo differenzia da altri tragici analoghi episodi è la reazione nelle gerarchie ecclesiastiche, perché la Chiesa e il Vaticano colgono l’occasione per cercare in qualsiasi modo un colpevole, ma non il colpevole o un colpevole qualunque, bensì uno che serva a sostenere la campagna anticomunista così cara a Pio XII. Allo scopo un grande inquisitore viene trovato in monsignor Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia, che, con l’aiuto non certo disinteressato dell’investigatore capitano Vesce (in seguito diventerà generale dei carabinieri, ottenendo anche un’altissima onorificenza vaticana) e in presenza di un sistema giudiziario che ancora risente della dipendenza politica propria del fascismo, ha per le mani il capro espiatorio ideale. E non è un personaggio sconosciuto, ma un valoroso comandante partigiano (nome di battaglia Diavolo), sindaco comunista di Correggio, stimato anche dagli avversari per la sua rettitudine e lealtà. Viene imbastita così una tela di ragno per accusare del delitto Germano Nicolini, perché così si chiama quest’uomo di grandi qualità, un comunista non ortodosso, cioè non privo di idee liberali, un buon cristiano, ma non deferente verso una chiesa che troppo ha spartito con il fascismo, un abile stratega militare, ma anche un pacificatore, visto che in quei difficili anni, in cui la maggior parte della gente faceva la fame, istituisce una mensa che possa garantire un pasto al giorno a tanti ex partigiani disoccupati e poveri, e non solo a loro, ma anche agli ex nemici, pesci piccoli che mai si erano macchiati di nefandezze.
Così fra false testimonianze, verbali di interrogatori contraffatti, testimonianze vere (come quelle di due dei tre colpevoli), ma che vengono dichiarate false nonostante l’evidenza dei fatti, il povero Nicolini viene incarcerato, insieme ad altri due disgraziati. La condanna, in tutti i gradi, era scontata, perché nessun elemento probatorio a discarico, benché inoppugnabile, venne accolto, mentre invece le prove di colpevolezza, evidentemente artefatte, furono sempre sostenute e considerate vere. I tre vennero condannati a 22 anni di reclusione, di cui ne furono scontati per fortuna solamente dieci. Oltre al teorema accusatorio del tutto infondato, vi è da rilevare lo strano silenzio del Partito Comunista, che preferì lasciar condannare degli innocenti invece di fare i nomi dei veri colpevoli che ben conosceva. Del resto Nicolini, per quanto famoso, era troppo democratico per essere considerato un autentico comunista staliniano e troppo rivolto a sinistra per classificarlo come un uomo di centro, tutte circostanze che giocarono a suo sfavore. Non fecero però i conti con un essere umano che, più di ogni altra cosa al mondo, desiderava dimostrare la sua innocenza. Con l’evoluzione politica che portò prima alla fine dello stalinismo, poi a quella dell’Unione Sovietica, e con il consolidarsi della democrazia nel nostro paese che condusse a un’autentica autonomia dell’apparato giudiziario si vennero così a creare i presupposti per pervenire a una seria ricerca della verità. . Si dovrà attendere tuttavia il 1994, allorché alla luce di nuove prove e anche della confessione di uno dei tre veri colpevoli il caso venne riaperto, ci fu un nuovo processo e la piena assoluzione per non aver commesso il fatto.
Frediano Sessi ha saputo porre mano alla vicenda assai intricata, riuscendo a delineare un quadro della situazione e di tutto ciò che accadde con encomiabile completezza, dando luogo a un libro che è sì un saggio storico, ma che si svolge incalzante come un romanzo, punteggiato dalle puntuali e condivisibili osservazioni dell’autore che ha il pregio nelle prime pagine, più introduzione che capitolo, di saper ben delineare la situazione dell’Italia nel primo dopo guerra, documento indispensabile per comprendere il perché di tante violenze.
Scorrevole, per nulla greve, Nome di battaglia: Diavolo è uno di quei libri che si leggono con piacere, anche se poi rimane dentro una sorta di rabbia per tanta ingiustizia che nemmeno la piena assoluzione dell’ultimo processo riesce a mitigare.
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