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Segregazione fisica e psicologica
Ogni volta che litigavano sua madre le ripeteva: “Non dobbiamo mai separarci arrabbiati. Non si sa, infatti, se ci rivedremo!” Ma la mattina del 2 marzo 1998 la delusione e il risentimento per l’ennesimo battibecco che le due hanno avuto la sera precedente sono talmente forti in Natascha da convincerla ad uscire di casa per recarsi a scuola senza salutare la mamma. E’ decisa a non darle più un bacio e a punirla con il proprio silenzio. E poi, in fondo, cosa può mai succedere? Invece qualcosa, purtroppo, succede. Durante il tragitto infatti la piccola incontra un uomo che istintivamente le provoca un moto di paura apparentemente irrazionale. Ha l’impulso di cambiare strada ma non lo fa, a ben guardarlo le sembra più debole ed insicuro di lei. Ma è la prima impressione a rivelarsi giusta: quest’individuo la ferma, la costringe a salire su un furgone bianco, la porta in casa sua e la rinchiude in una sorta di bunker ricavato nella sua cantina. E’ l’inizio di un lungo periodo di segregazione fisica e psicologica che si concluderà 3096 giorni dopo, quando la ragazza ormai maggiorenne troverà la forza ed il coraggio di fuggire costringendo il suo rapitore, Wolfgang Priklopil, al suicidio. Fredda e lucida la Kampusch ripercorre la sua lunga e terribile parentesi di prigioniera e schiava raccontando con poche riserve molti particolari di questa esperienza che lascerà in lei per sempre un ricordo indelebile. Natascha spiega quali meccanismi psicologici abbia attivato la sua mente per poter sopportare le violenze, gli abusi, le umiliazioni a cui il suo aguzzino l’ha sottoposta, come non si sia mai lasciata sopraffare completamente dalla situazione sopportando l’insopportabile ma riservandosi sempre quel minimo di ribellione e di orgoglio che le hanno permesso di restare comunque se stessa e di non rassegnarsi davanti a quello che poteva sembrare un destino ineluttabile, finché non è riuscita a realizzare il suo sogno di raggiungere la libertà spezzando le catene che la tenevano prigioniera grazie alla sua forza e alla sua determinazione. Eppure la sua condanna nei confronti di Priklopil non è totale come ci si potrebbe aspettare. In molti hanno parlato al riguardo di sindrome di Stoccolma, ma la ragazza rifiuta fermamente che le si appiccichi addosso questa etichetta. Natascha non se la sente di parlare del suo carceriere come di un essere assolutamente malvagio, preferisce definirlo un essere umano con un lato oscuro e uno un po’ più chiaro, con il quale ha vissuto momenti orribili ma anche brevi istanti di normalità e di comprensione reciproca. Un atteggiamento che ha provocato non poche polemiche in una società che vede un netto confine tra il bene e il male, come se esistessero soltanto il bianco e il nero e non le loro varie sfumature. Una società che, dice la Kampusch, “ha bisogno di criminali come Wolfgang Priklopil, per dare un volto al Male che vi risiede e per scinderlo da se stessa. Ha bisogno delle immagini delle segrete nelle cantine per non dovere guardare alle tante case e ai giardini, dove la violenza mostra il suo volto conformista, piccolo borghese. Usa le vittime di casi spettacolari come il mio per non sentirsi responsabile delle tante vittime dei crimini di tutti i giorni che rimangono senza nome e che non vengono aiutate, neppure quando chiedono aiuto.”
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Commenti
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Ciao Mariangela
Proprio non lo so, ma se lo dice lei...
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Non dici, Enrico, delle tue sensazioni durante la lettura... quando si dice: un silenzio che parla...