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Per non fermarsi ad un "povera patria!"
E' un Paese complesso, il nostro. Fatto di ispirazione e miseria, di scintille creative e sprechi, di intelligenti e di furbi (che in realtà simboleggiano più d'ogni altra categoria la stupidità all'italiana), di povertà e di poveracci, di cittadini che ritengono questo paese non più alla loro “altezza” e di stranieri che sono disposti a lottare per rappresentarlo degnamente.
Un Paese il cui tratto distintivo era ieri la bellezza, e oggi le contraddizioni.
Di un Paese così, dal dopoguerra ad oggi, è difficile raccontare la storia in un unico libro. E' più facile ricostruirla da tanti libri diversi.
Uno di questi è “Quarant'anni di mafia” (sottotitolo: “Storia di una guerra infinita”) e riguarda quel capitolo oscuro – e ancora da completare – che è il violento conflitto tra Stato e antistato in Italia.
La narrazione inizia dagli anni '70, e non è un caso: sono gli anni in cui l'autore, il giornalista Saverio Lodato, è a Palermo come corrispondente de “L'Unità”, e racconta del fenomeno mafioso ciò che realmente vede (cadaveri compresi). Così, evitando ogni riferimento alla genesi della mafia siciliana, non si sofferma più di tanto sulla sociologia del fenomeno. Piuttosto, Lodato ricostruisce il passaggio dalla vecchia mafia latifondista dei “padrini” a quella guerrafondaia dei corleonesi: un passaggio di consegne, ma prima ancora un cambio di mentalità.
Sono anni di “artigianato investigativo”, dice l'autore a proposito degli anni '70, ma anche di poliziotti dal notevole fiuto. Sono anni in cui la potenza di fuoco dei boss e la loro anima “malata” porta lutti di Stato. Passano le figure, e le esistenze, dei giudici Terranova, Costa, Chinnici e Ciaccio Montalto; del generale Dalla Chiesa; degli investigatori Cassarà, Montana, Giuliano, Basile e Zucchetto; dei politici Mattarella e La Torre; figure tutte scrupolosamente ricostruite con le loro caratteristiche di uomini e di servitori dello Stato. Per tacere degli imprenditori che non si piegano alla logica del pizzo e di incolpevoli cittadini che si trovano, loro malgrado, sulla linea di tiro.
Si arriva all'offensiva delle istituzioni: al maxiprocesso di metà anni '80, al pentito Buscetta, ai giudici Caponnetto, Falcone, Borsellino, Ayala e Guarnotta, all'omicidio Lima e al coinvolgimento di Giulio Andreotti. Poi le stragi del 1992 e la reazione dello Stato, con l'arresto dei capi indiscussi della mafia “vincente” degli anni '70 e '80. Infine i giorni nostri, quelli della “trattativa”, passando per figure come Cuffaro, Mannino, i giudici Caselli e Ingroia, Dell'Utri e Berlusconi, il generale Mori, Contrada e via discorrendo.
“Il giorno della civetta” si fa storia e cronaca, e non è più romanzo.
“Quarant'anni di mafia” è un resoconto eccezionale, nella sua estrema crudezza, per quasi due terzi.
Quel che Saverio Lodato vuole raccontare è la bestialità mafiosa, l'escalation di spietatezza e come lo Stato abbia potuto permetterla; rintracciarne le motivazioni in quello che continua a succedere (ora che la mafia è silente, ma non vinta, e le notizie clamorose sembrano arrivare principalmente dagli sviluppi giudiziari e da opache sedi istituzionali).
Per quasi due terzi, si diceva, ed è bene spiegare il perché.
La prima volta che il libro fu pubblicato, il titolo era “Dieci anni di mafia”, il sottotitolo “La guerra che lo stato non ha saputo vincere”, l'anno era il 1990, e giudici come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone intervenivano a commentare il libro alla sua presentazione. Poi seguirono “Quindici anni di mafia” e “Diciotto anni di mafia”, via via che il giornalista aggiornava il suo lavoro, o gli eventi lo aggiornavano per lui.
Fino a quel momento le pagine hanno mantenuto la loro omogeneità: Lodato è riuscito brillantemente nell'intento di narrare i peggiori anni del conflitto Stato-mafia con una mirabile capacità di connessione tra gli eventi, di raccontare in stretta conseguenzialità cronachistica e potente stile di scrittura gli snodi di questo capitolo fondamentale nella storia del Paese.
I successivi sviluppi, invece, sono stati solo “accostati” dall'autore a quelli già scritti, senza più preoccuparsi dell'omogeneità complessiva: con il risultato che ognuno dei capitoli “sopraggiunti” ha un po' il sapore della storia a sé; si nota la differenza tra una prima ed una seconda parte concepite in maniera diversa. Non basta a ricucire lo strappo l'aggiunta, nel libro, di una nutrita serie di articoli dell'epoca e ritratti giornalistici di eventi o personaggi, pur interessanti, poiché anch'essi funzionano come storie a sé.
Resta un libro che, della fase più violenta dello scontro tra Stato e antistato, rappresenta una fonte insostituibile di informazioni e un preciso racconto di indubbio valore, anche letterario.
Resta un indimenticabile omaggio, a tratti davvero commovente, a tante persone che hanno creduto in quello che facevano, fino all'ultimo... dal giudice che ha pagato di tasca sua il soggiorno in un'isola sarda, mentre approntava la requisitoria per il maxiprocesso, al giovanissimo poliziotto che, fuori dagli orari di servizio, girava per i paesini sulla sua Vespa, solo per guardarsi intorno e incamerare notizie che poi gli sarebbero state utili al momento di riprendere il proprio lavoro. Quei cosiddetti “santi laici” - come li definisce qualcuno – che, in tempi di contraddizioni come gli attuali, dovremmo tenerci stretti nella memoria.
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Proprio come in quel libro - dove la mafia era in Sicilia ma anche nei due anonimi inseriti nella politica romana - abbiamo saputo che la mafia è stata in Sicilia (da Riina a Messina Denaro) ed è stata a Roma (in quella trattativa che tutti ora si affrettano a dichiarare orfana di padri). A presto...
Mi sembra - ma posso anche sbagliare - che tu abbia messo una punta di polemica nei confronti di quegli italiani che non ritengono più il Paese alla loro “altezza” (i cosiddetti cervelli in fuga).
Analisi interessante ed esaustiva come sempre!
Non so dove sia casa tua, ma anch'io lo considero un complimento, e ti ringrazio.
Tutto scolorisce, specie le bandiere esposte a vento e pioggia, ma nulla vieta di rimetterne di nuove al loro posto :)
In realtà, dopo 150 anni di storia, questo paese resta un "laboratorio" fatto di luoghi e mentalità diverse: la mia opinione è che siamo un unico paese. La propaganda politica separatista ha altre motivazioni, molto più personalistiche di quanto si possa scorgere.
Ciao.
Per Emilio:
ti ringrazio. Anche io considero gli "intervalli" dedicati alla saggistica (che si tratti di impegno civile o biografie o altro) un buon diversivo dal resto delle recensioni. Per il resto ti confesso che leggo spesso di criminalità organizzata: tra le altre cose mi piacerebbe recensire presto Saviano, di cui ho letto tutti i libri. E' uno scrittore che, nonostante la sua giovane età, ha una capacità d'analisi "mostruosa". A presto..
Gli stranieri a cui mi riferisco sono quelli che vivono in Italia - addirittura ci nascono - e hanno tutti i doveri di noi italiani, ma non i diritti (a partire dalla cittadinanza). Per gli adolescenti nati in Italia e vissuti qui, dove conseguono titoli di studio, mi sembra, senza esagerare, un'aberrazione.
Il riferimento agli italiani, invece, non è ai cervelli "in fuga" (quelli li posso capire), ma alle varie categorie di "illuminati" i cui cervelli sono perennemente in fuga, salvo il fatto che i loro corpi, purtroppo per noi, restano sempre qui: tutta gente che potrebbe fare qualcosa ma che preferisce sentirsi incompresa (perfino l' "architettura costituzionale" ce l'ha con loro, e non permette di sviluppare le loro "idee meravigliose"). Ma non vado oltre, perché sarebbe un dibattito non adatto a questo sito.
Ciao.
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