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Chi vuol essere numero uno...
La strada. La strada per diventare numero 1.
Potrebbe valere per qualunque cosa: pilota di aerei, matematico, chef, chitarrista…
Qui è tennis, e la strada per diventare il migliore al mondo in uno sport così duro non è quella che ci si aspetterebbe – un percorso lineare tracciato dalla pianificazione, dalla programmazione nel tempo, dal graduale dominio di sé e delle proprie capacità, e progressivamente di ogni competitore – ma diventa un tortuoso sentiero che passa attraverso frustrazioni, senso di inadeguatezza, imposizioni e trasgressione ad esse, solitudine adolescenziale, incapacità di sapere chi si è veramente.
È questo il motivo per cui l’autobiografia di Andre Agassi, costringe gli appassionati dell’epoca – quelli che l’hanno conosciuto attraverso le sue battaglie sull’erba, il cemento, la terra battuta – a riconsiderare quasi tutto quello che hanno visto del suo gioco e del suo modo di stare in campo, a partire dall’orecchino e dai completi sgargianti che ne hanno imposto l’immagine al mondo.
Così si scopre che dietro il fatto oggettivo di essere il numero 1 (quella posizione raggiunta, persa e riconquistata svariate volte tra il 1995 e il 2003), la ricerca della perfezione nei colpi non ha contato per Andre Agassi quanto la scelta delle persone giuste cui affidarsi fuori dal campo.
“Open” è una storia di rapporti umani, risolutivi o mancati, che condizionano in profondità le abilità sportive e la voglia di primeggiare, e non viceversa.
Il libro alterna ritratti destinati tutti a rimanere impressi, che appartengano o meno a persone note. A cominciare da papà Mike, convinto prima di ogni altro – e ancor prima che il figlio prenda confidenza con una racchetta – che quel ragazzo sarà un giorno il numero 1 del tennis mondiale; capace, in vista di questo solo obiettivo, di inventare e via via perfezionare la spaventosa macchina lanciapalle che tormenta l’Andre ragazzino, e di negargli ogni istruzione scolastica, nella certezza che lo studio potrà essere solo di ostacolo al suo futuro da primo del mondo.
Poi i ritratti di Philly (il fratello), Nick Bollettieri, Gil Reyes (il preparatore atletico), Brad Gilbert, dell’attrice Brooke Shields e della tennista Steffie Graf (che avrà il ruolo decisivo nella definitiva realizzazione di Andre). E, sullo sfondo, le rivalità con i grandi interpreti del tennis di quegli anni, a partire da Michael Chang e Jim Courier.
Alla fine della lettura si ha la sensazione che Andre Agassi avrebbe potuto essere n.1 del mondo più a lungo e più incisivamente di quanto sia stato, rubando a Pete Sampras (l’altro ragazzo prodigio della racchetta a stelle e strisce di quegli anni) il merito di rappresentare il meglio di una generazione di tennisti.
Ma non è ciò che conta, perché la fine della lettura non coincide con la fine della storia: evitando di fermarsi a cercare in quello spazio che separa la linea di fondocampo dalla rete, ci si accorge di come la storia di Andre Agassi si stia ancora svolgendo, in una dimensione che va oltre la sua carriera sportiva. E’ lui a dire, nel corso del racconto: “È l’unica perfezione che esista, la perfezione di aiutare gli altri. È l’unica cosa che possiamo fare che abbia un valore o un significato duraturo. È per questo che siamo qui. Per farci sentire sicuri a vicenda”.
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Bella analisi.