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Affinché non si ripeta
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Primo Levi
Quarant’anni dopo di Se questo è un uomo, Primo Levi torna a scrivere dei Lager, non con un romanzo, oppure con una puntualizzazione di quella che fu la sua tragica esperienza di recluso, bensì per effettuare un’attenta e approfondita analisi del sistema dei campi di concentramento come mezzo per affermare il potere assoluto, nonché, altro aspetto di rilevante interesse, per evidenziare i comportamenti degli esseri umani, sia a livello individuale che collettivo, così come determinato dalla vita non vita del Lager. Il suo approccio non è per niente enfatico, anzi Levi dimostra una straordinaria lucidità, come se il tempo trascorso dall’evento di cui è stato vittima avesse smussato quella carica interiore di rabbia e di dolore; anzi, ritiene opportuno premettere come la memoria sia sempre fallace e come l’aspetto temporale, cioè gli anni trascorsi, possano nuocere alla trattazione per involontarie omissioni, oppure trasgressioni dei fatti accaduti. L’autore è un uomo di scienza e come tale persegue quotidianamente la ricerca della verità, nel suo caso tanto più importante non per comprendere, ma per poter determinare come un orrore simile sia potuto accadere. Non si tratta solo di un’analisi storica, ma anche di un’indagine antropologica le cui risultanze non sono fini a se stesse, ma travalicano il fatto, di per sé un unicum fino ad ora, al fine di conoscere, affinché non si debba ripetere. In questo modo Levi trova delle risposte che sono basilari per una corretta interpretazione della storia del secolo scorso e per una definizione stratigrafica delle caratteristiche individuali e sociali dell’uomo contemporaneo. Fra l’altro, ho rilevato la straordinaria visione d’insieme che porta l’autore a proiettare la tragedia dell’olocausto ad analoghi avvenimenti successivi che hanno interessato popoli che noi europei ben poco conosciamo, come per esempio la follia omicida del regime di Pol Pot in Cambogia.
E’ questo il risultato delle risposte alle domande che consistono essenzialmente in una metodologica ricerca della verità. Levi si chiede, infatti, quali siano le strutture gerarchiche su cui basa un regime autoritario, quali sono i metodi per annichilire un individuo, per distruggere insomma la sua personalità, quali rapporti intercorrono fra i carnefici e le vittime, come può sussistere una forma di collaborazione, la cosiddetta zona grigia. Tutto questo costituisce questo splendido saggio, diviso schematicamente in capitoli che trattano di volta in volta un argomento, con le inevitabili domande accompagnate da risposte del tutto logiche, che costituiscono per l’autore non la verità assoluta, ma un’interpretazione, e in questo credo di poter dire che tuttavia si avvicina di molto alla realtà oggettiva. Devo pure riconoscere a Levi che già il titolo del libro ci offre uno spaccato esatto della divisione degli internati fra quelli inevitabilmente destinati alla morte (lo erano tutti, ma la maggior parte, annichilita, si lasciava andare, non reagiva), cioè cosiddetti sommersi, e i salvati, quelli che si arrangiavano, magari con un lavoro particolarmente richiesto (sarto, ciabattino, muratore, ecc.) e che nonostante tutto cercavano di porre ostacoli al loro crudele destino di morituri, vale a dire insomma chi lottava ancora per sopravvivere. A differenza del suo romanzo più famoso (Se questo è un uomo), anche qui da testimone l’autore va oltre la ristretta visione del suo essere per giungere a una visione, che potrei dire universale, dei comportamenti, sia degli internati, che degli aguzzini, in cui cerca di trovare le attenuanti (l’educazione ricevuta, l’indottrinamento). Ma c’è anche una terza categoria, fuori dai reticolati, cioè il popolo tedesco, che è poi la più importante, perché l’aver creduto prima ciecamente a un populista come Hitler, subendone il fascino, e l’averlo poi assecondato sono pregiudiziali senza le quali non ci sarebbero state né la guerra, né la Shoah; e quel che è peggio è il silenzio indifferente dei tanti che pur non essendo aguzzini, sapevano e tacevano, a loro modo in preda a una sottomissione della propria personalità a quella artefatta costruita dal nazismo. Per loro in effetti di scuse non ce ne sono ed è proprio per questo comportamento, per questa ardente o indifferente assuefazione a un regime, che la tragedia potrebbe ripetersi, in altre zone, in altre forme, con vittime diverse.
Levi sembra volerci ammonire affinché mai e poi mai una collettività, un popolo, affidino il loro destino a un potere assoluto, con un mandato irrevocabile con cui viene segnata la sorte non solo dei mandatari, ma soprattutto dei soggetti più deboli, di coloro che un regime, anche per nascondere le sue incapacità e scelleratezze, va ad indicare di volta come i responsabili di fallimenti, capri espiatori dati in pasto alle belve dell’odio e dell’indifferenza.
La lettura non è solo consigliata, ma è caldamente raccomandata.
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