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Andre Agassi: “Open”
Non ho mai amato il tennis di Andre Agassi. Al netto degli ultimi, encomiabili anni l’ho sempre visto come uno di quegli sparapalle – l’attaccante dal fondo – che hanno trasformato uno sport di tocco ed eleganza in una sorta di braccio di ferro tra energumeni (con conseguente aumento esponenziale della noia per lo spettatore). Veder confermato che la scuola di Nick Bollettieri, che molto ha contribuito a tale trasformazione, fosse una specie di lager per ragazzini e che lo stesso Nick si dimostri persona mediocre è solo uno dei pregi minori di questo libro che, sorta di confessione catartica, è capace di appassionare anche chi di racchette e palline non ha mai sentito parlare. Agassi riversa nel registratore di J.R. Moehringer (che però non ha voluto comparire sul frontespizio) l’intera sua vita, dall’infanzia segnata dai massacranti allenamenti paterni all’adolescenza ribelle e contromano per finire a una maturità conquistata con molta fatica e quindi fonte di ancor maggiore soddisfazione. Due cose colpiscono nell’autore, la capacità di guardarsi dentro e quella di riconoscere in maniera quasi istintiva le persone di cui circondarsi. La prima gli consente di analizzare le azioni compiute e, soprattutto, il rapporto con il gioco, magari odiato – adesso sappiamo il perché di certe sconcertanti sconfitte al primo turno contro il primo carneade di passaggio - ma spesso insostituibile fonte di adrenalina. La seconda è alla base della creazione di un piccolo clan affidabile che si rivela molto importante quando è necessario risollevarsi dopo le numerose cadute o attutire le insicurezze che la vita randagia del tennista moderno finisce per accentuare. Non pare un caso che Andre abbia sempre cercato donne più vecchie di lui, compresa – seppur per meno di un anno - quella giusta, Stefanie (mai chiamata Steffi) Graf, un’altra che colpiva dritti e rovesci mentre i suoi coetanei erano all’asilo. Il libro parte subito molto bene – con il racconto dell’ultima vittoria, sul cipriota Baghdatis agli U.S. Open del 2006 – e mantiene per tutte le sue pagine un ritmo invidiabile che tiene desta l’attenzione anche nella parte più difficile, il racconto delle partite: la sincerità non viene mai meno e risultano così eccessive le critiche di alcuni sportivi, in attività o meno, per l’ammissione riguardo all’uso di metanfetamine e la confessione dei trucchi escogitati per salvarsi dalla positività all’antidoping (anche perché si fa riferimento a un periodo in cui Agassi non vinceva quasi più e pareva, a meno di trent’anni, già finito).