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Keith Richards con James Fox: “Life”
Che Keith Richards fosse (sia) un tipo poco raccomandabile non è una sorpresa. Non molto alto, magro e tutto nervi – come certi mediani grintosi di estrazione proletaria – si porta a spasso per l’intera vita un’attitudine ribelle maturata nelle condizioni difficili dei suoi primi anni, quando da vessata voce bianca nel coro della scuola si trasforma in adolescente riottoso inadatto a qualsiasi tipo di scuola e di ordinamento. Da qui viene l’uomo che dorme con la pistola sotto il cuscino (guai a chi lo sveglia!) e che è capace di azioni inconsulte quando la nebbia rossa gli annebbia il cervello. Però è anche lo stesso tizio che mette il gruppo e gli amici prima di ogni cosa (a differenza del suo sodale Mick Jagger, almeno così la racconta) oltre che il giovanotto che, ereditata l’attitudine musicale dalla madre e dal nonno, trasforma la chitarra, anzi la musica stessa, in una superiore ragione di vita (del resto, che può fare un povero ragazzo eccetera eccetera). James Fox registra e mette in bello stile il torrenziale racconto che Keef fa della propria vita in un libro di oltre cinquecento pagine che si fa leggere tutto d’un fiato anche da parte di chi il rock ‘n’ roll non sa neppure dove stia di casa: magari, per favorire il neofita, l’edizione italiana avrebbe potuto segnalare i titoli e i versi di canzone sparsi nel testo. Da queste pagine esce lo spaccato di un mondo – almeno fin quando la storia arriva agli anni Ottanta – irripetibile con i suoi meravigliosi alti e gli orribili sprofondi. Ecco allora sfilare l’accanito studio dei vinili di blues, i primi passi e il successo improvviso, il sesso e gli amori, la deboscia della rockstar, l’improbabile cura dei figli, i litigi feroci con Jagger, la droga a fiumi (attenzione: per Keith ‘essere pulito’ non significa non assumere droghe, ma, semplicemente, stare lontano dall’eroina) e soprattutto la musica, la grande passione che è panacea di tutti i mali, fisici e psicologici: le accordature aperte, l’emozione di riuscire a comporre (lui e Mick chiusi da Oldham in cucina…), la ricerca del suono perfetto anche in uno stadio dall’acustica difficile, la gioia di poter suonare assieme ai propri miti di gioventù. Tutto questo è raccontato da un unico punto di vista – che, oltretutto, è quello di un riccone seduto su un mucchio di soldi che neanche Zio Paperone, per non parlare delle proprietà immobiliari (in Inghilterra, nel Connecticut, in Giamaica, a Turks and Caicos e chissà dove…) – ma in attesa di confrontare le versioni, è innegabile che questa funzioni molto bene, tanto che neppure il leggero calo nelle ultime cento pagine riesce a danneggiare il risultato finale. In ogni caso, si può discutere sulla visione malgrado tutto edulcorata dei tossici anni Settanta, ma è incontestabile la convinzione – che traspare nettamente fra le righe – di aver scritto un pezzo di storia della cultura popolare e della musica. E poi, a prescindere dalle chiacchiere, io da grande voglio fare il Rolling Stone: magari uno di quelli che, in Costa Azzurra dopo aver lavorato a ‘Exile on Main St.’ fino alle cinque del mattino, prendevano il motoscafo per andare a far colazione in Italia…
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Ti devo ringraziare, in quanto è uno di quei titoli che mi sono riproposto di leggere ma...
Ora non ho piu scuse, ho sempre ammirato Keith Richards, Devo leggere assoplutamente di uno degli uomini che hanno fatto la storia degli ultimi 50 anni di musica, e l'hanno vissuta in prima persona; nel bene o nel male !