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"Dell'Amicizia"
Il sette agosto 1582 il trentenne Matteo Ricci sbarcava dal galeone portoghese che in due mesi di viaggio lo aveva trasportato da Goa a Macao, passando per Malacca. Chiamato dal Visitatore delle missioni gesuitiche d'Oriente Alessandro Valignano, veniva ad aiutare il confratello Michele Ruggeri, che già da tre anni si misurava con la lingua e i classici cinesi, tentando a più riprese di entrare nel misterioso Paese, fino a quel momento impenetrabile a ogni straniero. Ricci aveva trascorso quasi quattro anni in India, dove aveva studiato teologia ed era stato ordinato sacerdote. Nell'aprile del 1578 si era imbarcato a Lisbona, dopo aver soggiornato sei mesi nel collegio di Coimbra, studiando la lingua portoghese. A Roma era stato quasi nove anni: aveva frequentato dapprima la facoltà di diritto alla Sapienza; quindi, entrato nell'Ordine dei gesuiti e finito il noviziato, aveva ricevuto la migliore educazione umanistica e scientifica al Collegio Romano.
Questo libro mi ricorda delle ore trascorse a studiare in quelle stanze della biblioteca a lui intitolata dell'Istituto Universitatio Orientale di Napoli. Un viaggio nel tempo ed attraverso le sue dimensioni.
Io, Matteo, venuto per mare dal grande Occidente, entrai in Cina ammirando le nobili virtù del Figlio del Cielo dei grandi Ming e gli insegnamenti tramandati dagli antichi re. Dimorai al di là del Monte dei Susini per diverse mutazioni di astri e di nevi.
Quest'anno, in primavera, valicando il monte e navigando per fiumi, arrivai a Jinling, dove, con mia grande gioia, ho ammirato la luce del nobile regno, pensando che forse non avevo fatto questo viaggio invano. Prima ancora di finire il lungo viaggio, remando indietro, mi recai a Nanchang e fermai la barca a Nanpu. Qui alzai gli occhi verso la montagna dell'ovest, apprezzai il paesaggio di singolare bellezza e pensai che in questa terra erano certamente ritirate persone nobili: non riuscendo a distaccarmi, lasciai la barca e presi una casa.
Perciò sono andato a vedere il principe di Jian'an, il quale non mi ha disprezzato, mi ha permesso di fargli il grande inchino, mi ha fatto sedere al posto dell'ospite, mi ha offerto del vino dolce e mi ha fatto gran festa.
[Terminato il banchetto], il principe ha lasciato il suo posto, è venuto da me e, tenendomi le mani, mi ha detto: "quando uomini nobili di grande virtù si degnano di passare nella mia terra, non c'è una volta che non li inviti, li tratti come amici e li onori. Il grande Occidente è il paese della moralità e della giustizia: vorrei sentire ciò che in esso si pensa dell'amicizia".
Io, Matteo, mi ritirai con ossequio, scrissi quello che avevo udito sin da fanciullo, composi un opuscolo sull'amicizia e lo presentai con rispetto...