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Un prete giusto e perciò scomodo
“ Era l’estate del 1982 quando don Raimondo Viale, il prete ribelle di Borgo San Dalmazzo, manifestò all’amico Mario Cestella il desiderio d’incontrarmi il più presto possibile. Quale il motivo di tanta urgenza? Aveva appreso che intendevo dedicarmi a una indagine sul clero della campagna povera, e voleva inserirsi nel discorso, ma subito, come se temesse di perdere l’ultima occasione di *consegnarmi* la sua storia di vita.”
Don Raimondo Viale (1907 – 1984) è stato un sacerdote piemontese della zona di Cuneo. Partigiano durante la seconda guerra mondiale, è stato insignito dell’onorificenza di Giusto d’Israele per aver soccorso e assistito dopo l’8 settembre 1943 centinaia di ebrei.
Si è sempre battuto contro le ingiustizie, patendo anche un soggiorno al confino, in uno spirito cristiano volto a soccorrere chi più ne avesse bisogno; uomo che non abbassava la testa nemmeno a rischio della vita, sarebbe rimasto poco conosciuto se Nuto Revelli non ne avesse scritto la biografia, frutto di diverse ore di registrazione, durante le quali il vecchio prete ha raccontato la sua storia, dalla nascita fino al dopoguerra.
Antifascista e anticomunista, in nome di quella libertà a cui ha sempre aspirato fermamente, Don Viale è indubbiamente un prete scomodo, uno che non sa tacere, né chinare la testa, e in questo contesto subirà un vero e proprio oltraggio con la “sospensione a divinis”.
Soldato di Cristo e non della Chiesa, scettico nei confronti del clero, tranne che nel caso di pochi sacerdoti, è contro qualsiasi potere che sovrasti gli uomini, uno spirito ribelle quindi, con caratteristiche di anarchico, un anarchico di altri tempi, pronto a sacrificare se stesso per portare avanti le sue idee e difendere i deboli.
La biografia è scritta in prima persona, insomma è Don Viale che racconta e si avverte chiara la trepidazione, o la commozione, quando ricorda l’infanzia, il seminario, la sua parrocchia, la persecuzione fascista. E’ un uomo anziano che parla, sconfitto e in preda a scoramento, ma nelle sue parole non c’è mai odio, magari un po’ di risentimento, ma questo è temperato dall’amore per tutti, compresi gli avversari e i nemici.
Non c’è discrasia fra il Don Viale prete e il Raimondo Viale uomo, anzi sono fusi mirabilmente in un’immagine di grande pathos. E così, come assiste spiritualmente tredici partigiani condannati alla fucilazione, porta conforto anche a una spia fascista condannata a morte dopo la Liberazione.
Ma quel suo non chinare mai la testa, dire sempre ciò che pensa, criticare anche la Chiesa finirà per fargli patire una condanna ben più grave del confino. Infatti, privato della sua parrocchia, chiuderà la sua esistenza in un ospizio.
A Revelli va dato il merito di aver portato alla luce un personaggio di così grande spessore, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, un altro Perlasca, un altro Schiendler, gente che in umiltà ha dato prova di nobilitare l’umanità, in epoche in cui era più comodo e salubre tacere.
La biografia non è tuttavia completamente esauriente, poiché Don Viale va a memoria e molte cose si confondono o si dimenticano. Quel che manca, soprattutto, è il periodo di continui richiami, di reiterate diffide, che sfociarono nella “sospensione a divinis”. E’ possibile intuire il motivo, ma non è la stessa cosa che avere degli elementi certi, e non è improbabile che non sia stata una dimenticanza di Revelli, bensì una naturale ritrosia del prete a scavare in una ferita che non si sarebbe più rimarginata.
Il prete giusto è un libro intriso d’amarezza, ma è anche un grido, il grido di un uomo vecchio, malato e stanco che chiede giustizia, la prima volta per sé.
Da leggere, senza dubbio.
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