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Ehi, prof!
 
Ehi, prof! 2008-05-27 23:57:02 galloway
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galloway Opinione inserita da galloway    28 Mag, 2008
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Per favore non chiamatemi "Ehi, prof!"

Che dire dell’autore Frank McCourt? Prendi in mano il suo libro in una libreria del centro commerciale, leggi il risvolto, ti incuriosisce, scopri che è un collega, irlandese, emigrato ed in servizio docente oltremare, insegna la tua stessa lingua, che per te è di lavoro. La sua è la stessa, ma lingua madre, anche se la insegna da irlandese agli americani. Come dire un terrone che insegna l’italiano a un polentone leghista. Decidi di comprarlo, inizi a leggerlo e scopri che non puoi più fermarti a leggerlo.E’ come scoprire te stesso in quelle situazioni: la lingua, la letteratura, la poesia, le classi, le scuole, i compiti, la precarietà, la passione, le illusioni, le delusioni, insomma tutto il mondo di un docente di lingua inglese, che insegna da irlandese la lingua inglese a giovani americani di variegate origini linguistiche, culturali, sociali.

Sembrerebbe che ci possa essere una differenza tra lui e te stesso, quello che hai fatto anche tu per circa 40 anni nelle scuole italiane. Ed invece scopri che in fondo tutto si tiene a questo mondo, nel senso che, io e lui, quasi della stessa età, abbiamo fatto le medesime cose, anche se su sponde diverse. E chissà quanti altri come noi, nei posti più nascosti ed improbabili di questo pianeta, hanno fatto, fanno e faranno le medesime cose, insegnando.

Ma allora vi chiederete che senso ha questo libro? Ed invece ce l’ha, e come! E’ come se l’avessi scritto, con quelle stesse idee, impressioni, situazioni. Solo che lui è stato davvero brillante e poi ho scoperto che ha avuto anche tanto successo con un altro libro. Insomma, a quella età, a questa nostra età, è arrivato al successo. Mica male, davvero. Ma che tipo di insegnante è questo irlandese a New York? Ecco le impressioni di un altro collega Gianfranco Giovannone, che ho pescato in rete. Ecco cosa scrive:

“Non ha una grande autostima: dopo anni passati negli istituti professionali e un penoso tentativo di ottenere un dottorato al Trinity College di Dublino sbarca allo Stuyvesant di New York , il liceo di diversi premi Nobel che apriva subito le porte delle migliori università del paese. Scrive McCourt: “Avrei insegnato in una scuola che non mi avrebbe mai accettato come allievo” .

Ci si chiede che diavolo ci faccia dietro la cattedra, e spesso se lo chiede lui stesso, perennemente alla ricerca di un modello pedagogico, perennemente invidioso dei colleghi più seri e autorevoli, perennemente incerto del suo status: “C’erano insegnanti di tutta New York che si contendevano un posto allo Stuyvesant; ma io non volevo rinchiudermi. Alla fine di una giornata a scuola esci che nelle orecchie ti ronzano ancora il chiasso dei ragazzi, le loro preoccupazioni, i loro sogni. Che ti seguono a cena, al cinema, in bagno, a letto… Avrei voluto fare qualcosa di adulto e importante, essere in riunione, dettare cose alla mia segretaria, sedermi con gente elegante al lungo tavolo di mogano di un consiglio di amministrazione, andare a congressi internazionali, rilassarmi in un locale alla moda, infilarmi a letto con donne voluttuose, divertirle prima e dopo con qualche spiritoso pettegolezzo, tornare la sera nella mia villa nel Connecticut”.

Perché è consapevole della diversità tra gli insegnanti e qualsiasi altra categoria di lavoratori e professionisti, una specificità non esattamente lusinghiera, come dimostra l’immagine che gli studenti hanno degli insegnanti: “E’ risaputo: dopo scuola i professori se ne vanno dritti a casa, con una borsa piena di compiti da correggere. Magari prendono il tè con la moglie e il marito. Oh no, un bicchiere di vino mai. I professori mica fanno così. I professori non escono. Magari il sabato vanno al cinema. Cenano. Mettono i figli a letto. Guardano il TG e poi si siedono comodi a leggere quei compiti per il resto della serata. Alle undici è ora di prendere un altro tè oppure un bicchiere di latte caldo che favorisce il sonno. Poi si infilano il pigiama, danno un bacio alla moglie o al marito e si addormentano… Qual è l’ultima cosa che pensano i professori prima di addormentarsi? Prima di addormentarsi, tutti quei professori belli caldi nel loro pigiama di cotone pensano solo a cosa potrebbero insegnare l’indomani. I professori sono buoni, ammodo, seri, coscienziosi, e a letto non allungherebbero mai una gamba sulla moglie o sul marito. Sotto l’ombelico i professori sono morti”.

Diciamo la verità, talvolta il collega McCourt ci mette un po’ in imbarazzo, non sappiamo bene cosa pensarne, ma sa raccontarci magnificamente quanto c’è di vitale, irritante, esaltante o insopportabile in questo mestiere. Quando leggerete i brani relativi alle montagne di compiti da correggere che si accumulano come in un incubo, o quando McCourt vi parlerà della petulanza dei genitori ai ricevimenti generali capirete cosa voglio dire. Altro che i convegni del CIDI sull’educazione nella società immateriale. Per quanto talvolta possiamo trovare i suoi metodi un po’ scombinati e bizzarri, e magari di una bizzarria non sempre interessante, McCourt va dritto al cuore di un mestiere in fondo tutt’altro che “normale”: “E’ tutto qui?Possibile che sia questa la mia realtà per venti, trent’anni? Sì, è possibile, e ricordati: se questa è la tua realtà, tu sei uno di loro: un teenager. Vivi in due mondi, Mac. Passi con loro un giorno dopo l’altro e non capisci che effetto ha questa convivenza sulla tua testa. Teenager per sempre. Arriverà giugno e ciao ciao prof, è stato bello conoscerti, a settembre viene da te mia sorella. Ma c’è un altro risvolto Mac. In classe succede sempre qualcosa. La classe ti mantiene attento, ti tiene la mente fresca. Non invecchierai mai. L’unico pericolo è che potresti avere per sempre la testa di un adolescente. E quello, Mac, è un problema serio. Ti abitui a parlare con i ragazzi mettendoti al loro livello, poi vai a farti una birra al bar e ti scordi come si parla con gli amici. Gli amici ti guardano. Ti guardano come se fossi appena arrivato da un altro pianeta e hanno ragione. Passare un giorno dopo giorno in aula, Mac, significa vivere in un altro mondo”.

Sì, eterni fanciulloni, non c’è niente da fare, è questo che ci distingue da un bancario o da un ingegnere, da un dottore o da un manager, diciamo la verità, spesso ci chiediamo noi stessi se il nostro è un lavoro “vero”, spesso dubitiamo che sia un lavoro finto, un lavoro finto con uno stipendio simbolico. Ma è un lavoro in cui si sputa sangue, non solo per i compiti da correggere o per la petulanza aggressiva dei genitori, non solo per quelli tra di noi che sono in trincea in un istituto tecnico o professionale, con un unico obiettivo didattico, sopravvivere. Con semplicità, a naso, McCourt ha compreso la natura sostanzialmente conflittuale del nostro lavoro, croce e delizia di ogni insegnante vero che sa che la cosa veramente vitale è conquistarsi l’attenzione e il rispetto degli studenti. Ed è dura, mattina dopo mattina, entrare nella fossa dei leoni, spesso maledicendosi per non essere dietro una rassicurante scrivania o lo schermo di un computer: “Dover affrontare ogni giorno decine di adolescenti ti riporta con i piedi per terra. Alle otto di mattina i ragazzi se ne infischiano di come ti senti tu – stai pensando a cosa ti aspetta, cinque classi, fino a centosettantacinque ragazzi americani scorbutici, affamati, innamorati, ansiosi, allupati, gagliardi, provocatori, e sai di non avere scampo. Ti ritrovi lì con il mal di testa, la gastrite, gli echi della litigata con tua moglie, con la fidanzata, col padrone di casa, quel rompicoglioni di tuo figlio che vuole diventare Elvis ed è un ingrato. Stanotte non hai chiuso occhio. Hai ancora la borsa piena di compiti, i cosiddetti temi di centosettantacinque studenti, scarabocchi buttati giù alla meno peggio. Ehi, capo, l’hai letto il compito mio? Non che glene importi qualcosa…Per loro sono solo l’ennesimo professore, quindi che cosa conto di fare?Incenerirli uno a uno?Bocciarli tutti? Svegliati bello. Quei ragazzi ti tengono per le palle, e ti ci sei ficcato dentro da solo in questa situazione. Mica c’era bisogno che usassi quel tono. A loro non importa del tuo umore, del tuo mal di testa, dei tuoi guai. Hanno i loro problemi, e uno di questi problemi sei tu”.

Ma McCourt non è solo un insegnante, ha il temperamento del vero scrittore, e questo spiega tante stranezze ed eccentricità: “Stai invecchiando. Ma allora dimmi se sei o non sei un mick chiacchierone e un po’ cialtrone, che sprona i ragazzi a scrivere sapendo che il suo sogno sta morendo. Ti consoli pensando che un giorno uno dei tuoi alunni più dotati vincerà il Pulitzer o il National Book Award, ti inviterà alla cerimonia e nel suo brillante discorso riconoscerà che deve tutto a te”. E, a rebours, alcuni “esperimenti” didattici apparentemente un po’ strampalati si spiegano proprio con l’intreccio della prospettiva dello scrittore con quella del professore, ed è sempre la prima a prevalere. Come in quella pagina irresistibile sulle giustificazioni che voglio citare per intero perché il lettore, soprattutto se insegnante, possa avere un assaggio del divertimento che lo attende tra le pagine di Ehi, prof!:

“Come avevo fatto a trascurare quel tesoro, quei gioielli di inventiva, fantasia, creatività, santarellismo, autocommiserazione, problemi familiari, caldaie esplose, soffitti crollati, incendi che radono al suolo interi isolati,poppanti e animali che fanno pipì sui compiti, parti inattesi, attacchini cuore, ictus, aborti spontanei, rapine a mano armata?Quello era il meglio della prosa scolastica americana: cruda,concreta incalzante, lucida, breve, menzognera. La stufa ha preso fuoco, la tappezzeria si è incendiata e i pompieri ci hanno fatto restare fuori di casa tutta la notte.
Siccome il gabinetto era otturato siamo dovuti andare a liberarci giù al bar Kilkenny dove lavora mio cugino ma anche lì il gabinetto era otturato dalla sera prima e fra tutte queste difficoltà Ronnie non ce l’ha proprio fatta a prepararsi per l’interrogazione. La prego per stavolta di giustificarlo. La cosa non si ripeterà più… Il cane di mia sorella gli ha mangiato il compito, guardi io spero proprio che ci si strozza”.

Fin qui Giovannone. Qui riprendo io. Ecco, mi sembra che si sia detto tutto su questo libro. Forse per i non addetti ai lavori, anche troppo. In effetti per me è stato come un ritrovarmi in queste pagine, alla fine dei miei giorni nella scuola italiana. Senza rimpianti, rimorsi o recriminazioni e nemmeno senza strapparmi i capelli, che ormai da tempo non ho più, nè tantomeno rimpiangere gente, colleghi e non, che non si faranno affatto rimpiangere. Come anche migliaia e migliaia di giovani ai quali si aggiungono quella altre migliaia di studenti di mia moglie. Perchè, dovere sapere, che la mia vita di docente l’ho condivisa con quella di marito con una moglie che faceva e ha fatto le mie stesse cose: docente di lingua e letteratura inglese nelle scuole della Repubblica Italiana in gran parte della seconda metà del secolo e millennio scorsi. Se qualche nostro e mio studente dovesse incontrarmi/ci, ne incontriamo sempre di tanto in tanto, una preghiera vorrei rivolgere loro: per favore non ci/mi avvicinate lanciandomi/ci la frase “Ehi, prof!” Mi/Ci irriterremmo moltissimo e lo manderemmo a quel paese anche se dovesse essere quello sfaticato della IV B diventato sindaco o presidente del consiglio!

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