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Un messaggio quanto mai attuale
“Credo che non ci sia Paese al mondo dove abbondi nel popolo il buon senso, e dove insieme comandi tanto quella minorità che non ha cultura, né carattere, né giudizio…
…Onde l’Italia veramente risorga v’è qualche cosa che passa innanzi all’Indipendenza e alla libertà…V’è una base da porre a fondamento di tutto l’edifizio, senza la quale si sarà edificato sulla rena; la base della probità politica, del senso morale.
Massimo d’Azeglio”
Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio, più conosciuto come Massimo d’Azeglio, in quanto lui stesso detestava quel cognome così poco aristocratico, è un personaggio famoso, almeno di nome, ma se ai più si chiede a che cosa sia dovuta questa sua notorietà, le risposte diventano vaghe, perché ben pochi riescono a inquadrare esattamente questa importantissima figura del nostro Risorgimento. Quasi con lo scopo di fare ampia chiarezza Paolo Pinto ne ha scritto al riguardo un’ampia, esauriente e interessante biografia.
Massimo d’Azeglio è uno dei non infrequenti geni italici che spuntano qua e là nel nostro paese, ma alla causa della nostra indipendenza poco interessano le sue qualità di pittore, un po’ di più invece quelle di letterato, visto che è l’autore di opere tese a riscoprire l’italianità come Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta, e, soprattutto, Degli ultimi casi di Romagna, ispirato ai moti di Rimini del 1845, e I miei ricordi, autobiografia di grande valenza politica.
Animo irrequieto, soprattutto in gioventù, girò in lungo e in largo per l’Italia, non solo a caccia di gonnelle – il suo sport preferito -, ma anche per verificare sul campo le enormi e profonde differenze esistenti fra gli italiani dei vari staterelli in cui allora era diviso il nostro paese.
Sinceramente liberale, ma non solo puramente idealista, bensì anche dotato di un invidiabile pragmatismo, si adoperò per unificare in unico stato tutti gli italiani, e non lo fece da comprimario, ma da regista, sia pure non così eccelso come il suo amico e avversario Camillo Benso conte di Cavour.
La consapevolezza delle tante differenze esistenti fra italiani del nord, del centro e del sud, lo portò a considerare l’ipotesi, non certo fantasiosa, di conservare gli stati preesistenti, unificandoli tuttavia in una grande confederazione sul modello dell’unità tedesca.
Come è noto, non riuscì nell’intento, e assume quindi ancor più significato la sua famosa frase “Abbiamo fatto l'Italia ora dobbiamo fare gli italiani”. Comunque, oggi, forse più che allora, si avverte l’esigenza di uno stato, libero e democratico, non accentratore, bensi strutturato come una confederazione.
Nonostante gli incarichi di rilievo ricoperti da d’Azeglio, fra i quali la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la sua visione così avveniristica non poté concretizzarsi da un lato per l’immobilismo politico e istituzionale della monarchia sabauda, e dall’altro per l’ostruzionismo pressante dei mazziniani e di quelle correnti innovative che nella seconda metà del XIX secolo sarebbero state poi chiamate socialiste.
Resta, comunque, un personaggio da onorare fra quelli che furono i padri fondatori dello stato Italiano, per la sua costante attenzione a pervenire all’unificazione delle popolazioni italiane; lui, che era piemontese, per primo si sentiva italiano, lui, che era aristocratico, per primo era liberale, per nulla conservatore, aperto al dialogo, abile diplomatico (sarà merito suo se le condizioni di pace imposte dall’Austria dopo l’infausto esito della prima Guerra di indipendenza furono alquanto ridimensionate nelle richieste avanzate dal vincitore e ovviamente a beneficio del Regno di Piemonte).
Inoltre, cristallino com’era, aveva ben capito che un nuovo Stato, come del resto ogni stato, per poter progredire necessita di probità politica e di senso morale, condizioni che evidentemente all’epoca latitatavano e che a distanza di 150 anni dall’Unità ancora reclamiamo a viva voce.
Scritto in modo snello, intercalando vita pubblica e privata, Massimo d’Azeglio è uno di quei libri che si leggono con grande piacere, con la consapevolezza di imparare qualche cosa di nuovo, o comunque di comprendere il perché di un’unità senza identità, di uno stato tanto lontano dai suoi cittadini quanto questi lo sono spesso fra di loro.