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Vivere per amare o amare per vivere?
Il saggio di Fromm costitisce un classico della letteraratura psicoanalitica non specialistica e credo sia presente nelle bibilioteche di parecchie generazioni di studenti, adulti, genitori, insegnanti, figli.
Personalmente ho letto il volume durante l'adolescenza e recentemente ho avuto modo di riprenderlo in mano, trovandomi a considerarla adesso da un punto di vista molto diverso.
Fromm apparteneva alla categoria degli "umanisti radicali", era cioè convinto che l'individuo potesse, attraverso l'impegno e la conoscenza di sè, emanciparsi sino a divenire in grado di esprimersi compiutamente nel mondo, quindi ad amare in modo maturo e responsabile sè stesso e gli altri.
Si tratta di una visione idelistica dell'uomo, che può facilmente far presa su un giovane idealista, ma credo che queste argomentazioni siano oggi più difficilmente riproponibili.
Possiamo ancora oggi, in una società sempre più impersonale, tecnicamente organizzata e sempre meno interessata ai sentimenti e alle emozioni umane, emanciparci come individui, costruire la nostra libertà e divenire capaci di vero amore?
Non è che forse oggi l'amore è invece un'ancora di salvezza per non precipatare nel baratro di una società, in cui solitudine e disagio di vivere sono sempre più forti?
La domanda è forse in questi termini: è davvero possibile vivere sino a diventare capaci di amare, o forse si ama per cercare, in qualche modo, di sopravvivere?
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Commenti
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Io sono sicura soltanto di una cosa, in proposito: che non sono sicura di nulla! :D
Scherzi a parte, bella filosofia..
In un'altra vita ti risponderò con la mia, invece! :D
Sono d'accordo Qetanea! :)
La vita è fin troppo imprevedibile.
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