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Accozzaglia commerciale
Sarò tranchant, ma mi perdonerete: Recalcati (paraculo) finge di scrivere un libro sui libri e sulla bellezza dell’essere letti dai libri e confeziona invece una collezione di autocitazioni (ci saranno almeno cinquanta note con rimandi ad altri suoi lavori), sulle orme di Lacan (che nomina a ogni piè sospinto), tramite cui nutrire il proprio narcisismo evidentemente non superato con uno stile che vorrebbe essere evocativo, ma che, invece, finisce per essere stucchevole. L’idea di base è bella: i libri ci scelgono e hanno la capacità di leggerci, non hanno senso se non interpretati e restano fissi nel nostro vissuto quando sanno parlare alla nostra radice più pura, alla nostra forma primaria, alle più infantili delle nostre esperienze. Certo lo dice raffinando il discorso, ribadendolo all’infinito con sinonimi vari e mutevoli, ma il succo è questo. E non gli sfugge che i libri possono diventare una prigione, un mondo di vetro che ci allontana dalla nostra esistenza. Il libro fin qui sarebbe anche passabile (e per un lettore è sempre bello capire di più della propria passione), ma nella seconda parte del libro, quando Recalcati analizza nove testi che hanno segnato la sua vita, il gioco si scopre e la struttura perde davvero ogni forma. Ogni libro che esamina diventa l’occasione per un percorso di autoanalisi, per nutrire ancora una volta il discorso sulla sua vita, oppure si trasforma in articolata discettazione sulla filosofia di Heidegger o Sartre (piegati naturalmente alla sua visione psicoanalitica), oppure al tributo, inevitabile, al suo maestro Lacan. Recalcati critica i filosofi speculativi, ma ne eredità la verbosità espressiva e nutre la mia insofferenza per questa cultura non dico da baci Perugina, ma da documentario di seconda serata. Non ci sarebbe nulla di male nell’essere divulgativi, ma non bisogna mai mentire ai propri lettori: questo non è un libro sulla forza e sulla bellezza dei libri, o meglio, lo è solo nella sua prima parte; è piuttosto un’autobiografia psicoanalitica che usa i libri come pretesto per affrontare i propri temi ricorrenti (e d’altronde sono sempre gli stessi, se riesce a pubblicare tre o quattro libri l’anno). Insomma questo libro è talmente ibrido da risultare fastidioso. Ciononostante ci sono un paio di capitoli che, estratti, mi paiono ben riusciti: quello su “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern e quello sull’”Idiota di famiglia” di Sartre, che parlando di Flaubert, mi sembra cogliere bene un elemento cardine del suo stile. Per il resto, il libro non è né carne né pesce, poteva fermarsi a pagina sessanta ed evitare di inserire a forza una parte slegata, oppure avrebbe potuto dichiara in apertura che in fondo questo libro non è altro che la sua biografia.
Per non rendere del tutto inutile questo libro, voglio raccontarvi brevemente una storia. Conoscendo i miei gusti, non lo avrei mai comprato spontaneamente. Mi è arrivato come regalo da una mia professoressa della scuola media che, dopo aver letto il mio libro, ha sentito il bisogno di scrivermi un bigliettino nascosto tra le pagine di questo volume. Ha sbagliato la scelta, ma mi fa pensare alla capacità bellissima che i libri hanno di creare relazioni, di richiamarsi tra loro, anche a distanza di anni, di riportare le persone ad avvicinarsi, di costruire comunità. Non a caso di questa professoressa ricordo ancora la bellezza di una lezione su Carlo Magno e i suoi paladini, Durlindana e il corno suonato sull’orlo della disfatta: con quale incredibile potenza espressiva certe immagini ci fissano e ci accompagnano per tutta la vita. E in fondo questo libro ha permesso, nel piccolo, quello che tutti i libri permettono di fare qui su Qlibri: unire le persone e creare relazioni.
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