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Essere o vivere
 
Essere o vivere 2018-12-09 23:20:41 Martin
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Martin Opinione inserita da Martin    10 Dicembre, 2018
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Pensieri dalla Cina

François Jullien è uno studioso che, dopo essersi formato in Francia studiando filosofia greca, ha lavorato per anni in Cina, affascinato dal pensiero dei suoi saggi (Confucio, Mencio, Mozi, Laozi, Zhuangzi, ecc…). Il suo soggiorno in Estremo Oriente è stata un’occasione straordinaria per guardare il pensiero occidentale non più dal suo interno, da un punto di vista situato, “emico” , come direbbe un antropologo, ma dall’esterno, in modo “etico”.
Il saggio “Essere o vivere” (2015) non è un’opera che definisce le differenze fra le due culture analizzate; è, invece, un armamentario di concetti, attinti dalla saggezza orientale, in grado di operare degli squarci nell’arazzo della cultura occidentale e mostrare delle possibilità di pensiero, incarnatesi in Cina, che da noi sono stati germogli che non sono riusciti a fiorire. In seno ad ogni cultura, sostiene Jullien, ci sono le stesse possibilità di pensiero, non esistono modi di vedere tipicamente cinesi o tipicamente greci. Non esistono differenze culturali, ma scarti: ci sono culture che si sono focalizzate su certi aspetti, lasciando che gli altri rimanessero sullo sfondo, e culture che, invece, hanno rovesciato tale struttura. Le culture non sono, dunque, incomunicabili, come porterebbero a far credere testi di successo come quelle contenute in “Lo scontro delle civiltà” del politologo Huntington; sono capaci degli stessi slanci, delle stesse riflessioni, degli stessi moti interiori. Si tratta soltanto di far emergere i non detti, l’inespresso, ciò che è rimasto nascosto, inascoltato, sotto-sviluppato. Diversi sono per Jullien i filosofi occidentali le cui parole sembrano insaporite dalle foglie del tè: Eraclito, Montaigne, Spinoza, Montesquieu, Nietzsche.
“Essere o vivere” è un dizionario che consta di venti concetti cinesi, ciascuno dei quali è presentato affiancato dall’alternativa occidentale: il concetto cinese di “disponibilità” è affiancato da quello di “libertà”, alla parola “coerenza” fa da contraltare il “senso”, al termine “evasivo” fa da contraltare “assegnabile”.
Ciò che costituisce il nucleo originario della filosofia occidentale è la nozione di “soggetto”: è intorno a un soggetto pensante che si struttura la ricerca libera delle verità morali e naturali; è il soggetto l’elemento di cui Descartes non riesce a fare a meno, discendendo negli abissi dello scetticismo. Confucio, invece, non si fa problemi a dire: “Quattro cose il maestro non aveva: né idea, né necessità, né posizione, né io”.
Il minimalismo della filosofia cinese porta a sbarazzarsi del fardello di oggetti metafisici come il “soggetto”, a cui possiamo aggiungere “Dio”, “volontà” e “verità”, e a concepire il mondo non come un paesaggio che mi sta dinanzi e che mi trovo a dominare, quanto piuttosto come una situazione in cui sono inglobato e da cui non emergo prepotentemente. Le azioni morali, invece, non sono il risultato causale di una volontà libera, ma un liquido scivolare negli anfratti della trama dell’energia del cosmo (qi). Mencio sostiene che non bisogna pretendere di ottenere ciò che si cerca, perché questo sarebbe una forzatura, ma bisogna che ciò venga da sé. La scelta si limita ad essere una selezione di contesti che si profilano. Il taoismo, ancora, si fonda sul concetto di “wu wei”, che letteralmente significa “azione senza azione”.
L’occidentale pensa tramite modelli da applicare al mondo, modelli che stritolano il vivere per produrre ontologie, classificazioni; il cinese aspetta che le cose arrivino a un punto di maturazione tale da essere colte naturalmente. L’occidentale è colpito dalla sonorità dell’evento, dallo scoppiare della rivoluzione, che pone quale punto di partenza di un nuovo corso; il cinese è attento al silenzio della trasformazione e non si stupisce di certe esplosioni, che non vengono mai assurte a nuovi inizi. L’occidentale è sincero, non può tradire se stesso e può sacrificarsi per la propria idea; il cinese è, invece, affidabile, aspetta che le condizioni siano giuste (che, ad esempio, la relazione di amicizia si infittisca) per dire ciò che ha da dire. L’occidentale è retore, ama scontrarsi con l’altro e far confliggere le proprie opinioni con quelle dell’altro, mentre il cinese è obliquo, cerca di far sua la posizione avversaria per imprimergli una nuova direzione. L’occidentale attende l’evento, possiede un Dio che si rivela e spezza il continuum della storia, ha un medico che lo cura da una malattia; il cinese attende che la situazione si regolarizzi, crede in un Cielo (tien) che placa i disordini e produce il continuum, ha un medico che mantiene la salute.
Jullien è abilissimo nel tracciare le possibilità incarnate dal pensiero cinese e quelle fatte proprie dalla filosofia occidentale, possibilità che spesso ritiene conseguenza delle strutture stesse delle lingue sino-tibetane e delle lingue indo-europee (egli è debitore della tesi di Sapir-Whorf), ma il suo linguaggio non può che apparire ostico, appesantito da tecnicismi filosofici, talvolta inconcludenti. Il rischio maggiore non è però quello di non essere capito. Il problema vero è che le descrizioni di Jullien, che pure sono state scritte con l’intento di dare agli occidentali modi di pensare inconsueti, possono essere utilizzate per fomentare immagini stereotipate: quella dell’occidentale teatrante, sempre pronto a vomitare il proprio ego, che si dibatte in questioni di lana caprina e che tende sempre a intellettualizzare le sue esperienze di vita; e quella dell’orientale sfuggente, anonimo, poco dedito all'astrazione e i cui occhi a mandorla sembrano essere lì appositamente per nascondere le verità del suo sguardo.

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