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Soste
C’erano una volta, Jean Paul Sartre, André Breton, Simone de Beauvoir, Hemingway, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, in epoche diverse, in silenzio o in conversazione, seduti nei bistrot. E, insieme, bobo (bourgeois-bohème) o flâneurs oppure, semplicemente, turisti, viaggiatori e viandanti.
E Marc Augé, con saggezza, dopo aver attraversato i non luoghi affollati di individui, riscopre e ricorda il senso del bistrot come sosta, possibile incontro con il prossimo e con un sé protetto che guarda fluire le vite degli altri.
L’etnologo racconta la sua storia nei diversi bistrot frequentati, le abitazioni, le strade, le pause, lo stile di una vita altrove che si ritrova accolta, dopo ogni viaggio.
Marc Augé, oggi ottantenne, ricorda come la frequentazione dei bistrot divenne, nella sua giovinezza, simbolo di indipendenza, segno di essere diventati grandi e le fotografie di Cartier-Bresson e di Doisneau, per esempio, testimoniano per sempre la tenacia di una vita che decise di rivelarsi, intima, dopo il baratro vuoto della guerra.
: negli anni, la voce normativa di mia madre che riconferma il bar come il luogo del peccato, dove si incontrano tutti, la borghesia perbene e la gente di basso rango. Ecco, anche lei, più anziana dell’autore, se ne avesse esperienza, benedirebbe il bistrot. Apprezzerebbe le parole dette perché il prossimo esiste e lo si riconosce, oppure gradirebbe i silenzi e lo sguardo sulla vita degli altri che scorre, sapendo che la propria operatività, sospesa di diritto nel bistrot, ricomincia fra un po’.
Senza subire contaminazioni con la crêperie o il troquet o la brasserie: bancone di zinco e comunicazioni senza impegno, sguardi e parole seriamente scambiate per riconoscere solo la presenza dell’altro e la propria, in relazione.
“Il bistrot è il luogo in cui si mischiano i generi, il luogo della tragedia e della commedia, delle parole che non dicono nulla e dei silenzi che la dicono lunga, delle risate squillanti, dei sospiri soffocati e delle malinconie inspiegate” p.51
Salotto, ufficio, posto di riflessioni e di scambi di idee, occasione di incontri imprevisti e intimità complici: nel bistrot, il tempo considerato perso, morto, ritrova le sue ragioni in uno sguardo, nella espressione di un volto, nella lentezza prima che il pensiero si manifesti, nello stare con l’attesa della strada da percorrere ancora.
La formula del bistrot, esportata, appare in molte città europee. E’ triste quando, in molti locali neutri di aggregazione e di sosta manca l’anima, a favore di spudorate e incaute operazioni commerciali. Il nome, bistrot, osa strutturare tempi e spazi, osa misurare il dentro e il fuori, osa proporsi corridoio fra l’abitazione e il posto di lavoro.
Credo che esista un sentimento del bistrot: pigrizia dolce e gioia relazionale di superficie, non superficiale, espressione di modalità diverse di passatempo, di isolamento, di rituale, di gioco psicologico, di contaminazione possibile.
So che non basta, ma nel bistrot, è sempre la novità e la curiosità di ricominciare: il luogo delle persone, prima del pensiero compiuto della comunità. “Gli altri esistono, e io li ho incontrati. Al bistrot.” p.76
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