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Ci si deve offrire alla fortuna
Il "De Providentia" è il primo dei “Dialoghi” senecani, raccolta di opere filosofiche del più grande esponente della letteratura filosofica latina. Tema centrale di questo dialogo è un interrogativo sempre attuale: perché molti mali capitano agli uomini buoni? Con una non troppo ampia quanto convincente argomentazione, Seneca si propone di dimostrare che è la provvidenza a stessa a far sì che ciò accada, non per beffarsi dell'onestà ma per mettere alla prova la resistenza dell'animo del "vir bonus". Gli uomini buoni non temono il male, perché sanno che il male più grande è l'eccesso di prosperità. Da questo deriva infatti l'ozio che fiacca gli animi e, come non si può considerare vincitore colui che ha vinto contro nessuno, non si può considerare felice chi non ha mai sperimentato e superato l'altro volto della vita.
Ma perché il fato si concentra sugli uomini buoni? Molto semplice: non vi è alcun gusto in una battaglia già vinta, dunque meglio colpire un animo robusto per indurirlo ancor di più, trovando così pane per i propri denti, che annientare una nullità. E' qui che si rivela la bontà delle intenzioni divine: il dio infatti vuole educare l'uomo buono alla sofferenza a tal punto da farlo giungere a disprezzare i piaceri voluttuosi, gioie del momento, affinché riconosca la vera felicità: la virtù. La virtù va però per le altezze, pertanto è quanto mai necessario che l'uomo si presti al gioco della fortuna ("Praebendi fortunae sumus": Ci si deve offrire alla fortuna), allontanando da sé l'atavico timore di ciò che comunemente viene considerato un male. I grandi uomini sono coloro che hanno vinto l'esilio, preferendolo alla vita nella corruzione (Rutilio), coloro che hanno vinto il dolore, preferendolo all'impunità di un errore (Muzio), coloro che hanno vinto la tortura, preferendola al diniego della lealtà (Regolo), coloro che hanno vinto la morte, preferendola alla schiavitù del pensiero pubblico (Socrate) o alla sottomissione a una politica ingiusta (Catone).
L'invito di Seneca è quello a non disperare mai, ma anzi a gioire delle avversità, dimostrazioni della stima del dio e mezzo di innalzamento spirituale verso la "Virtus", termine che l'autore utilizza più volte come sinonimo di "Felicitas", in contrasto con "Miseria"-"Infelicitas". "La sventura è occasione di virtù": la ricchezza smodata non è la vera essenza della vita e la felicità costante non è la condizione naturale dell'animo umano, pertanto non è che illusione. Il male esiste ed è necessario affinché l'uomo giunga a non curarsene e a conviverci quotidianamente, patendo sull'esempio di uomini gloriosi. Solo allora sarà in grado di andare incontro al proprio fato impavidamente, poiché sa che il bene si trova all'interno, non nel mondo esterno. "Il viaggio vale il rischio di cadere"; chi non è pronto a cadere, abbandoni: il dio senecano ha concesso all'uomo innumerevoli vie d'uscite dalla vita.
Il "De Providentia", dando credito alla datazione che va per la maggiore, il 64 d.C., dunque agli sgoccioli della vita del filosofo, risente dell'ormai definitiva rottura col suo ex-allievo Nerone, dal cui regime Seneca è stato escluso totalmente e nei confronti della quale mostra un plateale distacco e disprezzo, rivendicando l'indipendenza morale, rispetto alla spregiudicatezza politica dell'imperatore.
Per quanto riguarda lo stile, Seneca fonde con grande maestria una prosa artisticamente elaborata e tecniche e canoni dell'oratoria, regalandoci un testo di immediata comprensione e di impatto emotivo, grazie anche alle sue tipiche sentenze morali e, talvolta, all'utilizzo di un sempre elegante sarcasmo.
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