Dettagli Recensione
NON E' PIU' IL TEMPO DEGLI DEI
“Ho dimestichezza con l’odore della morte.”
Colm Toibin è l’autore di alcune interessanti biografie romanzate (una per tutte, forse la più notevole, “The Master” su Henry James), l’ultima delle quali, “Il Mago”, mi piace ricordare in apertura di questa recensione perché Thomas Mann (il Mago, appunto, come veniva chiamato per scherzo dai figli) ha secondo me segretamente influenzato “La casa dei nomi”. Leggendo il romanzo di Toibin, ispirato alle ben note, mitiche vicende di Agamennone e Clitennestra, di Oreste ed Elettra, non ho potuto infatti non pensare alla tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli”. A parte una chiara, anche se forse involontaria, citazione (Clitennestra viene seppellita per un giorno intero in una fossa per toglierla di torno durante il sacrificio della figlia Ifigenia, allo stesso modo in cui Giuseppe viene gettato dai fratelli in una cisterna abbandonata), analogo è il modo di prendere una storia antichissima, patrimonio indiscusso dell’immaginario collettivo, spogliarla della sua aura mitica, del suo afflato leggendario, e riscriverla con una sensibilità affatto moderna. Se già l’Orestea di Eschilo presentava di per sé indubbi elementi di modernità (basti pensare, nelle “Eumenidi”, al tribunale chiamato a giudicare l’atto contro natura di Oreste, il quale può essere considerato il primo processo della storia), Toibin vi aggiunge uno psicologismo che, mentre mette in primissimo piano le figure dei tre protagonisti principali, elimina definitivamente tutto il coté divino, così importante nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Nelle “Coefore” di Eschilo, ad esempio, Oreste torna ad Argo per uccidere la madre ed Egisto su ordine di Apollo, mentre nelle “Eumenidi” è Atena ad assolverlo, respingendo le accuse delle Erinni. Ne “La casa dei nomi” invece l’epos è riportato a motivazioni esclusivamente umane e naturali, come la brama di potere, il desiderio di vendetta o la ragion di stato. Agamennone sacrifica sì la figlia primogenita per conciliarsi il favore degli dei, ma egli (un po’ come Labano, per tornare al paragone con “Giuseppe e i suoi fratelli”) è l’uomo vecchio, superato dai tempi e giustamente destinato a essere soppresso e dimenticato. La nuova mentalità è piuttosto l’ateismo ante litteram di Clitennestra, che non crede più nell’esistenza degli dei, o per meglio dire non crede nella loro influenza sui destini umani. “Gli dèi sono distanti, alle prese con altre cose. Si preoccupano dei desideri e delle buffonate umane come io mi preoccupo delle foglie di un albero. So che le foglie sono lí, che appassiscono, ricrescono e appassiscono, come le persone nascono, vivono e poi sono sostituite da altre come loro. Non posso fare niente per aiutarle o per impedire che appassiscano. I loro desideri non sono affar mio”. L’uomo moderno, in assenza di un dio a cui rivolgersi, è desolatamente solo e vive quella che Georges Bataille chiamava la “morte del sacro”, ossia l’angosciosa, “tremante consapevolezza che non è più tempo degli dei”. Fare affidamento agli dei è diventata una pura formalità, una mera convenzione esteriore. Se essi continuano ad essere invocati e pregati è solo per un’antica, inveterata abitudine, ma in fondo più nessuno crede veramente in loro, in quanto “le nostre suppliche agli dèi sono come le suppliche che una stella rivolge al cielo sopra di noi prima di cadere, un suono che non ci è dato sentire, un suono che, se pure lo sentissimo, ci lascerebbe del tutto indifferenti”.
La maledizione degli Atridi, quel “veleno nel sangue” che sembra condizionare l’esistenza dei personaggi de “La casa dei nomi è il punto di partenza canonico della storia, cui Toibin si guarda bene dal sottrarsi, ma poi il romanzo imbocca la strada di una tragedia elisabettiana, piena di congiure, cospirazioni, rivolte e lotte per il potere. Se lo scrittore irlandese mantiene tutto sommato intatta la cornice della storia, egli si prende tuttavia enormi libertà narrative, come si può vedere nel capitolo dedicato ad Oreste, di cui racconta l’adolescenza (da sempre trascurata dagli autori classici, come se fosse un misterioso buco nero lungo ben dieci anni) alla stregua di un coming of age dickensiano (con vaghi echi, mi è parso, anche di più recenti romanzi aventi come protagonisti delle figure di orfani, come la “Trilogia della città di K.” o “Il cardellino”). Ritornando ancora una volta all’esempio di partenza di “Giuseppe e i suoi fratelli”, è come se Toibin avesse voluto trasporre sulla pagina una propria versione, più verosimile e psicologicamente plausibile, della tragedia, spiegando – come diceva Mann – “come i fatti realmente si svolsero”. Così Egisto non viene ucciso da Oreste, ma è più prosaicamente risparmiato per poter sfruttare le sue conoscenze pregresse e le sue capacità di amministratore del regno, e Oreste stesso non impazzisce per il matricidio compiuto, ma viene tristemente relegato in una condizione di emarginazione e di solitudine, sposato a una donna che aspetta un figlio non suo. Una delle novità più considerevoli del romanzo è il continuo cambio di prospettiva, con i personaggi di Clitennestra, di Oreste e di Elettra che si alternano per raccontare la storia dal proprio punto di vista. Se nel caso di Oreste Toibin utilizza la terza persona, facendo prevalere un registro più aneddotico e narrativo, per Clitennestra ed Elettra egli sceglie la prima persona. Il tono si fa in questo caso più introspettivo, con un approfondimento psicologico dei personaggi che il flusso di coscienza rende estremamente interessante. L’autore ci consegna il sorprendente e affascinante ritratto di due donne che sono diventate, con il loro fatale antagonismo, un simbolo della moderna psicanalisi (il famoso complesso di Elettra), ma che alla fine si rivelano più simili che contrapposte: lo spiritualismo di Elettra (l’assidua frequentazione con i fantasmi del padre e della sorella) fa ben presto i conti con la ragion di stato e la donna che prima viveva nell’ombra, in “un rapporto intimo con il silenzio”, diventa una disinvolta e spregiudicata reggitrice del regno. Del resto le donne sono le autentiche protagoniste del romanzo, facendo dei lutti e delle ingiustizie patite il loro punto di forza (al prezzo però della inesorabile perdita della loro umanità), mentre gli uomini, di cui pure, a causa della struttura sociale che le penalizza, hanno bisogno per portare a termine i loro piani (così Egisto per Cassandra e Oreste per Elettra), gli uomini – dicevo – sono, nonostante il potere fallocratico che è nelle loro mani, poco più che fantocci, che si illudono di essere i motori della storia, mentre sono solo delle marionette in balia del destino.
La scrittura di Toibin è fluida, scorrevole, a tratti delicata e poetica, ma dietro le parole si nasconde una realtà sanguinosa e cruenta, con orrendi sacrifici umani, stragi raccapriccianti e bambini che vengono rapiti per intimidire e sottomettere le loro famiglie. E’ un mondo barbaro e violento, quello narrato da Toibin, che ha sullo sfondo un perenne stato di guerra. La guerra de “La casa dei nomi” non è quella di Omero, di Elena, di Menelao e di Achille, la quale tutt’al più è una favola da raccontarsi la sera intorno al focolare, ma è una guerra senza nome (“-Dove sono adesso? – chiede Oreste. – In guerra. – Quale guerra? – La guerra, disse lei – La guerra”), quasi uno stato ontologico dell’umanità, che lascia dietro di sé solo dolore e fatica, odio e povertà, carestia e disperazione, tutto il contrario di quello a cui l’epica antica, con l’orgoglio guerresco e l’eroismo elevato a massima virtù, ci aveva abituati. Qui c’è soltanto una volgarità di fondo, una mediocrità di valori e una falsità di intenzioni, che tutto svilisce e tutto riduce a macabra farsa. Resta, in fondo a tutto questo, una intensa nostalgia di amore, che il mondo non consente di esprimere e che solo nell’aldilà (come nel breve, bellissimo capitolo in cui Clitennestra parla in una sorta di bardo, in uno stadio cioè liminale tra vita e dissolvenza dell’io) è forse possibile sperimentare, al prezzo però della solitudine più agghiacciante e dell’oblio più profondo. Con questa lettura originale e seducente, Toibin firma un’opera più che dignitosa, capace di distinguersi per elevatezza di linguaggio e acutezza psicologica, e si pone a pieno titolo nel novero di quegli scrittori che, come Christa Wolf, Madeline Miller e Pat Barker, hanno riscritto negli ultimi decenni con sensibilità contemporanea i miti dell’antichità.
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