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Elena e gli eroi dell’Orsa maggiore
Tra il 1940 e il 1943 un pugno di giovani, travolti nell’orrendo tritacarne che fu la Seconda Guerra Mondiale, si offrì volontario per affrontare quella che, all’epoca, era la più potente Marina del Mondo: la Royal Navy. Misero eroicamente a rischio la libertà o, assai più spesso, la propria vita: a cavalcioni di un siluro o su barchini carichi di esplosivo, andarono a sfidare portaerei, corazzate e tutto l’enorme potenziale bellico dell’allora Impero britannico, potendo fidare praticamente solo della propria determinazione e abnegazione.
In questo libro possiamo leggere la storia romanzata di uno di loro, il 2° capo Teseo Lombardi, e del gruppo Orsa Maggiore, di cui faceva parte, che, nel 1942-43, dalla base segreta ad Alcesiras, partì più volte all’assalto delle navi inglesi a Gibilterra. Ma soprattutto questa è la storia di Elena Arbués, una giovane spagnola, vedova di un marinaio ucciso dagli inglesi (per sbaglio!) a Mers-el-Kébir, nel 1940, quando la flotta britannica cannoneggiò le navi francesi lì ancorate. Elena troverà Teseo svenuto sulla sabbia davanti a casa sua, nel paese di La Linea, e, invece di consegnarlo alla Guardia Civil, lo soccorrerà e chiamerà i suoi compagni perché vengano a riprenderselo. Da quel momento, per un destino inspiegabile, si sentirà legata a quell’uomo, al punto da innamorarsene e rischiare la vita per raccogliere informazioni a favore degli incursori italiani che preparavano gli attacchi al difesissimo porto di Gibilterra.
Giunto all’ultima pagina del libro i primi aggettivi che affiorano alle labbra sono tutti positivi: avvincente, coinvolgente, emozionante; toccante quando non commovente; accurato e obiettivo. Come italiano non ho potuto non sentirmi orgoglioso che uomini simili a quelli protagonisti della storia siano realmente esistiti e abbiano compiuto quelle audaci imprese. Conoscevo e stimavo già prima la bella prosa di Perez-Reverte, ma qui ho apprezzato moltissimo la sua abilità di calarsi perfettamente nella mentalità e nel modo di sentire di noi italiani, senza cadere in facili luoghi comuni o in sfacciate piaggerie. La guerra non viene mai glorificata (anzi!), ma se ne accetta l’inevitabilità in quel contesto con tutte le sue orrende crudeltà relative. Soprattutto, viene esaltato il coraggio di coloro che, per amore della propria Patria, furono in grado di giocarsi tutto con la lealtà, l’onestà e la determinazione di un cavaliere da epopea medievale.
Lo stile è incalzante e sobrio, anche se, magari, non sempre perfettamente fluido e, talvolta, sia necessario rileggere una frase per comprenderne meglio il senso. Comunque, una volta preso a leggere quelle pagine, difficilmente si riescono a staccare gli occhi dalla stampa. La storia in sé, poi, per la sua assoluta verisimiglianza è degna della massima attenzione. Semmai ho trovato doloroso che si sia dovuto attendere la mano di uno scrittore straniero per poter leggere dell’epopea degli incursori della Regia Marina inquadrati nella Xa Flottiglia MAS che, da soli, causarono alle Marine Alleate il 38% delle perdite di navi da guerra inflitte dalle nostre Forze. A dare ancor maggiore dignità alla storia, poi, c’è la figura di Elena, davvero toccante e commovente, per la sua singolare umanità, tempra e determinazione, nonostante potesse considerarsi estranea a quella guerra combattuta ai confini della sua patria.
Reso il doveroso tributo al bravo autore spagnolo, mi rendo conto, però, come sia necessario commentare obiettivamente il romanzo e, quindi, non posso non evidenziare alcune perplessità che mi sono restate per il suo carattere ibrido. Infatti “L’italiano” non è un libro di storia militare, né un romanzo storico propriamente detto, e neppure una cronaca giornalistica drammatizzata.
Non è storia perché i fatti narrati sono solo in minima percentuale aderenti alla realtà fattuale. È esistita la nave Olterra, base per il gruppo Orsa Maggiore che attaccò più volte la Rocca britannica. Ma non sono mai esistiti un Teseo Lombardo, un Gennaro Squarcialupo, un Lauro Mazzantini o un Domenico Toschi che abbiano prestato servizio nella X MAS. La Royal Navy non ha mai avuto in linea una nave chiamata Nairobi (né molte altre di quelle citate); nel porto di Gibilterra non fu mai attaccato e gravemente danneggiato un incrociatore pesante. Molte delle azioni narrate e dei fatti riferiti sono il frutto di un abile mixage di avvenimenti accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche in luoghi molto distanti da quello descritto. Tutto ciò, peraltro, sarebbe lecito in un romanzo se l’A. non pretendesse di riferirci fatti storici reali, addirittura raccontando di come gli furono narrati dai superstiti o di come abbia reperito i documenti relativi. Insomma se l’invenzione non venisse così strettamente mischiata alla realtà al punto di rendere complicato distinguere le sue tessere dal parto della fantasia. La perplessità nasce dal fatto che, una volta scoperto che la vicenda è (quasi totalmente) inventata, possa nascere il sospetto, in chi non conosce la vera storia, che lo sia anche tutto il contesto, sminuendo l’importanza di ciò che fu realmente compiuto. Forse si sarebbe potuto ambientare un racconto non molto diverso, con maggior rispetto dei fatti certi e documentati.
Detto questo, però, il libro è comunque da leggere e da consigliare a coloro che già conoscono l’epopea degli “uomini gamma” italiani e a coloro che, invece, ne ignoravano l’esistenza (forse la maggioranza di noi italiani). Soprattutto lo consiglierei alle giovani generazioni per mostrar loro di quale tempra fossero fatti i nonni dei loro genitori. Inoltre è pure una bella storia d’amore e d’avventura, godibilissima anche solo sul piano narrativo.
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Avrei preferito non inserire questa postilla per l’angolo del pignolo perché mi spiace sollevare critiche a un libro che per mille motivi non se le meriterebbe. Poi è anche vero che per noi poveri terricoli destreggiarsi nell’esoterico vocabolario di termini marinareschi è un’impresa difficilmente esente da errore. Ma il lettore attento, da un libro di questo genere, si aspetterebbe se non la perfezione, almeno di non imbattersi in errori banali e nel rispetto di un certo rigore storico. Purtroppo, però, il caher de doleance è ricco di rilievi. Mi limiterò a indicare solo qualcuno dei più evidenti errori, forse anche da addebitare solo al traduttore italiano, a cui Perez-Reverte si dice grato per l’aiuto offerto nelle ricerche, ma che, evidentemente, è incorso in più di uno scivolone linguistico.
Innanzi tutto, mai un marinaio italiano userebbe i francesismi “babordo” e “tribordo” al posto di sinistra e dritta: li percepirebbe fastidiosi come uno schiaffo in pieno volto dato a mano aperta. Purtroppo è un vizio che non si riesce a sradicare da tutti coloro che credono di parlare “marinaresco” senza averne le conoscenze. Ma il libro è farcito di quei termini fasulli.
Nel testo, poi, si fa, più volte, riferimento a misteriosi “incrociatori da combattimento”, tipologia di navi mai esistita. Probabilmente nel testo originale si parlava di “crucero de combate” espressione che potrebbe essere resa solo con l’italiano “incrociatore da battaglia”; peccato che nel 1942 nessuna delle marine combattenti avesse più in linea un “battlecruise”.
Poi, visto che i gradi degli italiani sono stati scritti, nel testo spagnolo, con la loro denominazione italiana, perché tradurli per il personale britannico? Ad esempio, nella Royal Navy non ci sono sottotenenti di vascello, ma unicamente sub-lieutenant.
Infine, ma qui sono meno certo del rilievo, viene usata con una certa frequenza l’unità di misura “gomena”. Nella marineria britannica esiste il “cable length” pari a un decimo di miglio marino e la traduzione “gomena” sarebbe pure corretta, ma non mi risulta che sia in uso presso la nostra Marina da molto, molto tempo.
Si potrà obiettare che queste siano solo minuzie di importanza nulla nel contesto narrativo, e posso concordare su ciò. Tuttavia, il valore di un’opera di questo genere si apprezza anche dalla precisione nei dettagli e spiace incappare i questi svarioni.