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Di battaglia e di poesia
Ambientato alla fine del 1400 nel bel mezzo di una cruenta guerra civile, lo shogun si scontra coi signori locali e con le frange più umili del popolo, intenzionate a cancellare il passato e ogni criterio che attribuisca cariche nobiliari.
Due sono le figure principali che emergono e spiccano, seppur mortali, in una caratterizzazione che li eleva ad un profilo spirituale, quasi potessero sfiorare l’immortalità, mentre la battaglia imperversa.
Una giovane donna si dice nata dai resti dei soldati ammucchiati sul greto del fiume, incarna un demone la bellissima Koma e si muove con il guizzo di un puledro, non ha paura del nemico incapace di afferrarla, non teme l’uomo incapace di non amarla.
Ikkiyu, il saggio monaco zen si incammina senza meta, muovendosi come lo scorrere dell’acqua o il vagare delle nuvole, laddove credeva di trovare i morti si imbatte invece nel fiore di un giovane e forte albero.
Oltre alla trama piacevole, seppur poco articolata, si apprezzi il connubio di prosa e versi poetici che richiama gli antichi scritti di corte. Ci si ritrova così, beatamente, a osservare due guerrieri che si fronteggiano con le lame, ma la cui vittoria in battaglia è sancita dalla composizione più propizia.
“Il gelo delle mie palpebre è tale che non riesco a vedere altro che la pioggia. Laddove si nasconde una furia omicida il colore dei fiori scarlatti scompare.”
Il romanzo di Ishikawa Jun è, nel suo genere, bellissimo.