Dettagli Recensione
Veri e falsi orchi
IL RE DEGLI ONTANI
di MICHEL TOURNIER (1970)
Come tutti i romanzi di Michel Tournier, anche questo è complesso e affascinante, riflettendo la formazione filosofica dell’autore (che per esempio nell’intervista fattagli da Bernard Pivot postata su YouTube definisce i suoi romanzi “filosofia di contrabbando”), l’originalità della sua rilettura di miti en soggetti narrazioni archetipiche e infine la sua propensione a provocare il lettore sia con riflessioni finanche spiazzanti sia - ed è il caso di questo romanzo così come de “Le meteore” - con pagine talora volutamente sgradevoli. Quanto alla lingua di Tournier, essa non finisce di stupirmi per la sua precisione lessicale, qualunque sia l’oggetto del discorso, oggetto su cui molto evidentemente l’autore si documenta approfonditamente, che si tratti de … il palco dei cervi (sì! è incredibile quanto vocabolario esista per definirne gli aspetti) o dei modi di fecondazione di insetti e piante. Nell’opera di questo scrittore, tuttavia, con la precisione, e quindi con l’estrema ricchezza lessicale, va di pari passo un’altissima capacità evocativa, di suggestione poetica, soprattutto quando descrive i paesaggi, che in questo romanzo sono quelli della Prussia Orientale, quella parte d’Europa affacciata sul Baltico che fino al ‘45 faceva parte dell’impero tedesco. Tournier aveva peraltro conosciuto e amato la Germania fin da giovanissimo, essendo figlio di due germanisti, avendo vissuto in Germania proprio tra la seconda metà degli anni ‘30 e il 1949, e essendo infine filosofo germanista lui stesso: la Germania, di cui si dichiarava “amico molto critico” e che nell’intervista sopra ricordata lui definisce il suo “dramma politico personale”.
DI CHE PARLA “IL RE DEGLI ONTANI”?
Per un lettore medio come me questo romanzo così denso racconta fondamentalmente, attraverso un narratore extradiegetico e il diario del protagonista (“Scritti sinistri”: sinistri!), la storia di un uomo, Abel Tiffauges, la quale si intreccia sempre più strettamente con quella della Germania ai tempi del nazismo, fino alla catastrofe del ‘45. Che i romanzi di Tournier siano piuttosto filosofici che realistici in senso stretto, lo prova già il semplice fatto che Tiffauges, garagista di incerti natali, riflette e si esprime come Tournier stesso potrebbe riflettere ed esprimersi; cionondimeno molte pagine, come per esempio quelle che descrivono l’esodo delle popolazioni sotto la pressione della minaccia bellica, sono realistiche quanto quelle dei maestri del Realismo Flaubert o Zola, testimoniando del lavoro di documentazione dell’autore.
CHI È ABEL TIFFAUGES E QUAL È LA SUA STORIA? A lungo, fin dall’incipit, lo scrittore mantiene il lettore, secondo me un po’ furbescamente, nel dubbio che l’erculeo Abel (Abel!) sia nientedimeno che un orco divoratore di bambini, un po’ come il protagonista del film “M. Il mostro di Düsseldorf” di Fritz Lang (1931). In realtà, gradualmente, molto gradualmente, il lettore si rende conto che Abel ama “davvero”, non perversamente, tutto ciò che è tenero e innocente, e quindi gli animali che gli vengono via via affidati e soprattutto i bambini, e amandoli ama tutto di loro, anche la loro “carne”, cioè il corpo: piaghe escrementi cerume peluria, non meno che le voci le risate gli sguardi i movimenti. Per lui tutto ciò che è da poco sbocciato alla vita e ha bisogno di accudimento e protezione è fonte di un godimento che lo coinvolge tutto, anima e corpo, giacché il piacere non si lascia ingabbiare nei soli organi sessuali (elemento su cui Tournier insiste in tutte le sue opere). La sua vocazione di accuditore, se così si può dire (lo scrittore lo definisce spesso “porte-enfant”), di cui egli diviene consapevole via via, nasce dalla sua esperienza di bambino umiliato e solitario fra i tanti altri ospiti di un tetro collegio e rinato in un certo senso grazie alla protezione affettuosa del ragazzo più temuto di tutta la scuola, Nestor, personaggio di cui a dire il vero mi sfuggono alcuni aspetti. Non basta. Fin dal giorno in cui un incendio divampa in collegio come lui aveva desiderato che accadesse, Abel si convince che nella vita lui è guidato da qualcosa di superiore alla sua stessa volontà: nella “sua anima credula e puerile” (cap. “L’orco di Rominten”) lui nutre la convinzione di avere “un destino rettilineo, imperturbabile, inflessibile, che ordina[va] gli avvenimenti mondiali più grandiosi solo in ragione di lui” (cap. Iperborea).
Solitario adulto dal pene infantile ma dalla forza erculea, titolare di un garage a Parigi, a un certo punto il suo destino subisce un’accelerazione: dopo essere stato ingiustamente incarcerato per una supposta violenza carnale perpetrata su una bambina, egli viene liberato per andare in guerra e poi fatto prigioniero dai Tedeschi che nel frattempo hanno sbaragliato l’esercito francese. Lungi dall’abbatterlo, questi avvenimenti lo inducono a sperare: “[D]alla sua infanzia calpestata, dalla sua adolescenza in rivolta, dalla sua giovinezza ardente - a lungo celata sotto l’apparenza più mediocre, ma poi smascherata e schernita dalla feccia umana - si leva[va] come un grido la condanna di un ordine ingiusto e criminale. E il cielo [ha] risposto. La società sotto cui Tiffauges [ha] sofferto [è] spazzata via coi suoi magistrati, i suoi generali e i suoi prelati, i suoi codici, le sue leggi e i suoi decreti” (cap. Iperborea).
Nei luoghi in cui viene mandato, sempre più sperduti nell’estremo Est dell’Europa, egli, pur senza essere servile e anche avendo uno sguardo lucido, … “serve”! e riesce con le sue qualità a conquistare la fiducia dei funzionari nazisti, questi sì veri orchi: l’ “orco di Rominten”, Göring, quasi sempre designato come “il capocaccia” (“le grand veneur”), dalla smodata voracità nel mangiare e nel cacciare, e poi “l’orco di Kaltenborg”, il fanatico responsabile della NaPolA di Kaltenborg, cioè la scuola per addestrare giovani belve alla più cieca obbedienza e poi mandarle in guerra, sacrificati all’“orco di Rastenburg”.
La storia di Abel Tiffauges e del suo piccolo protetto si conclude drammaticamente con una scena dalla risonanza assolutamente sacrale che peraltro ricorda quella finale de “I lavoratori del mare” di V. Hugo: nell’estremo tentativo di salvare un bambino ebreo che si esprime come un piccolo santo - Gesù … bambino? - Abel Tiffauges lo carica sulle sue spalle di gigante buono come un novello San Cristoforo e lo porta via: “Quando alzò per l’ultima volta la testa verso Ephraïm, non vide altro che una stella d’oro a sei punte che girava lentamente nel cielo nero”. La stella a sei punte, quella di Davide ...
IL TITOLO. Il riferimento è alla ben nota ballata omonima di Goethe. Ora, come si legge in wikipedia, in realtà “ontani” sarebbe la traduzione scorretta della parola contenuta nel titolo della ballata danese cui si ispira Goethe, significante “elfi”, laddove “elfi” sta per creature malefiche, non per simpatici folletti. E infatti la ballata racconta di un bimbo che il padre cavalcando porta tra le braccia verso casa e che una creatura malefica cerca di attrarre a sé con lusinghe privandolo infine della vita. Trovo questo titolo assolutamente appropriato per un romanzo in cui è centrale l’opera di seduzione maligna esercitata dal regime nazista sulle anime più inermi. Inoltre, nel romanzo c’è un episodio che contiene un riferimento ad un “re degli ontani”: un giorno Abel Tiffauges assiste al ritrovamento di due cadaveri mummificati riemersi straordinariamente da chissà quale epoca della storia dell’umanità dalla torba formatasi nelle sconfinate foreste di ontani: sono un uomo ... o era forse una donna? insomma un “porte-enfant”, e un bambino. La vista dei due corpi colpisce Abel come ennesimo segno della sua vocazione. Sì, perché per lui “tutto è simbolo, tutto è parabola” (epigrafe del cap. Iperborea) e spesso un segno annuncia un fenomeno che è la sua “inversione benigna”, talaltra la sua “inversione maligna”, nel senso che ogni cosa può annunciarne una uguale ma di segno opposto. Per esempio la precisione maniacale con cui i cacciatori tedeschi misurano e valutano gli innumerevoli aspetti del palco dei cervi uccisi nel cap. “L’orco di Rominten” prelude alla precisione falsamente scientifica con cui vengono analizzate e soppesate le parti del corpo umano per stabilirne la purezza razziale. Queste pagine, peraltro, sono del tutto prive di qualsivoglia espressione di un qualunque sentimento tanto da diventare stranianti, come se si osservasse un oggetto con una lente troppo ravvicinata e perciò deformante: così che quelle pratiche appaiono tanto più aberranti quanto più neutra sia la lingua con cui esse vengono descritte.
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