Dettagli Recensione
Meglio màrtiri che violenti
IL COLLARE ROSSO
di JEAN CHRISTOPHE RUFIN (2018)
Di Rufin ho letto diverse opere e ho apprezzato moltissimo Rosso Brasile, Le tour du monde du roi Zibelin, L’abissino, Profumo di Adamo e Le grand Coeur (titolo italiano L’uomo dei sogni, che racconta la storia di Jacques Coeur), più originali e di spirito più moderno rispetto a quello su cui esprimo qui la mia opinione.
Nel breve romanzo in oggetto Rufin racconta il disvelamento progressivo dei veri motivi che il 14 luglio 1919, in occasione dei primi festeggiamenti dell’anniversario della Rivoluzione francese dopo la Grande guerra, hanno indotto un uomo, Morlac, a irridere la Legione d’onore ricevuta per meriti di guerra appendendola al collo del suo cane Guillaume, che lo aveva accompagnato per tutta la guerra. L’ufficiale, Lantier, incaricato di condurre l’indagine in vista del processo è dotato di una sensibilità così poco militaresca da intuire le vere ragioni che hanno spinto quell’ex-soldato a compiere un gesto che sicuramente non sarebbe rimasto impunito. Lo scontro coi soldati bulgari in cui lui e il suo cane erano stati “eroicamente” feriti - spiega Morlac a Lantier - era stato causato dal cane stesso e non doveva affatto aver luogo, e anzi, col suo intervento l’animale aveva mandato all’aria il piano nato fra i soldati dei due eserciti contrapposti, i quali avevano deciso di sbarazzarsi degli ufficiali, cessare la guerra e dare inizio alla rivoluzione, come era accaduto in Russia poco tempo prima. “(Guillaume) aveva tutte le qualità - dice Morlac - che si aspettavano da un soldato. Era leale fino alla morte, coraggioso, senza pietà verso i nemici. Per lui il mondo era fatto di buoni e di cattivi (…). A noi che non eravamo cani chiedevano la stessa cosa. Distinzioni, medaglie, citazioni, promozioni, tutte queste cose erano fatte per ricompensare atti da bestie”. Morlac pensa sinceramente di aver sfidato “l’establishment” e di detestare la povera bestia per motivi ideali/ideologici, ma Lantier lo induce a riconoscere infine che in realtà la sua trasgressione era dettata da un motivo di altra natura, squisitamente sentimentale: punire la donna amata, da cui riteneva a torto di essere stato tradito. E, simile a un padre buono e saggio, Lantier lo restituisce all’amore di Valentina e al figlio avuto da lei.
A dire il vero, leggendo questo libro avevo l’impressione di leggere l’opera di uno scrittore non di oggi, ma della prima metà del ‘900, diciamo pure degli anni in cui si colloca la vicenda, anzi direi che per come è articolata (dialoghi in un paio di luoghi nel giro di un tempo brevissimo), questa narrazione dall’impianto teatrale ricorda il teatro filosofico del primo e del secondo dopoguerra, per esempio di Jean Giraudoux o di Sartre, per essere costruito su tesi che l’azione teatrale vuole dimostrare. In questo libro - ed è perché vuole dimostrare qualcosa invece che raccontare che l’ho apprezzato meno degli altri suoi - a Rufin preme mostrare che i motivi ideali / ideologici addotti per giustificare la violenza sono pretesti con cui nascondere rancori personali. Per cui sarei curiosa di sapere perché Rufin ha scritto proprio durante la “primavera araba” questo libro che non condanna, però smaschera chi si ribella in nome della giustizia. Come dire che Antigone e Navalny sono buoni in quanto martiri.