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Le tre vite di Josef Klein
 
Le tre vite di Josef Klein 2021-05-31 11:23:02 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    31 Mag, 2021
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La spia che venne dalla Germania

La colpa è di certi film, e di certi autori, che ci hanno abituato a considerare la vita di una spia come una serie pressoché infinita di mirabolanti avventure, vissuta non tanto per patriottismo o in lotta contro un cattivo di turno, ma quasi esclusivamente per la goduria delle scariche di adrenalina.
Con tanto di sparatorie, inseguimenti spericolati, spettacolari corse frenetiche con tutti i mezzi a disposizione, automobili, motoscafi, aerei, bella vita e onori a profusioni per aver salvato l’intero pianeta dal pazzoide di turno.
Niente di così prosaico: la vita di un agente segreto è per forza di cose di quanto più anonimo e ordinario ci possa essere, ammantata di discrezione, di ordinaria amministrazione come e più di un banale travet.
Secondo il principio per cui il posto migliore per un albero dove confondersi è la foresta, un agente segreto che opera in terra straniera, per servire il proprio paese sprovvisto di protezione diplomatica, deve mimetizzarsi il più possibile con l’ambiente a lui estraneo, assimilarne alla perfezione la lingua, gli usi, i costumi, le abitudini di ogni tipo, da quelle alimentari ai normali ritmi quotidiani, scanditi dalle usuali attività del luogo dove agisce.
Vive, lavora, segue abitudini e consuetudini secondo uno stile di vita modesto ma dignitoso, mantiene sempre basso tenore di vita, non ha lussi o vizi eccentrici fuori portata al suo status, e per questo è insospettabile: si comporta come chi ha pochissimo, ma quel poco non vuole perdere, per cui è metodico, ligio, ossequioso e fedele alle leggi. Più spesso gentile, timido, modesto.
I suoi obiettivi vengono perseguiti con calma, tempo, pazienza; poco alla volta, senza parere, sottraggono segreti ed informazioni badando non solo a non lasciare traccia, ma nemmeno a far trapelare il minimo sospetto che quanto si custodisce è già stato trafugato.
L’agente segreto al servizio di una potenza straniera c’è senza mai apparire, agisce clandestinamente, guarda, vede, osserva, scruta, raccoglie informazioni e riferisce in silenzio, continuando a svolgere le normali attività dell’esistenza, tenendo un profilo basso.
Per questo le spie più efficienti e redditizie sono quelle di cui neppure si sospetta l’esistenza, appaiono inverosimili in tale veste, non hanno il profilo, il fisico del ruolo, passano inosservati, esattamente come dai loro intendimenti.
Sempre a causa di un certo modo spettacolare di trattare l’argomento, si è portati a credere che i migliori servizi di controspionaggio siano quelli dei maggiori paesi occidentali usciti trionfatori dall’ultimo conflitto mondiale, Stati Uniti e Inghilterra in testa, e i servizi di sicurezza crudeli e sbrigativi del colosso sovietico.
Si fa fatica a credere che invece uno dei servizi segreti più efficienti e redditizi fu quello della Germania nazista, guidata dall’Ammiraglio Canaris.
A torto o a ragione, gli efficientissimi uomini dell’ammiraglio Canaris agirono, anche a guerra finita, perché spinti da motivazioni fortissime sull’egemonia tedesca, continuarono ad agire fruttuosamente perché arruolarono nelle loro file agenti con il profilo dismesso a cui abbiamo accennato, quelli di sicura riuscita proprio per la “normalità” del loro esistere.
Ulla Lenze ci parla di questo nel suo romanzo, “Le tre vite di Josef Klein”, avvincente e avventuroso, seppure a tinte soft, che altro non è che una riconsiderazione del controverso ruolo di spia.
Date le premesse che abbiamo fatto, non esiste spia migliore di Josef Klein.
Emigrato negli Stati Uniti, svolge una esistenza normalissima, è letteralmente un uomo modesto e invisibile, a cui nessuno dà peso, o gli rivolge uno sguardo di troppo.
Ha una casa, un lavoro, una compagna, ed un’unica grande passione, la radio, di cui acquisisce in breve tempo eccezionali competenze.
Josef Klein si sente americano, senza neppure sforzarsi troppo, il tipico brav’uomo della piccola-media borghesia americana.
Come un americano vive, è per tutti Joe e non più Josef, si destreggia abilmente nelle contraddizioni della società americana, come un bravo americano ha sofferto e superato la grande depressione rimboccandosi le maniche, è uno di loro; ma dimentica che sopra ogni altra cosa è un tedesco.
Per patriottismo, o per altro, sempre tedesco resta, e come tale è ricercato.
Viene reclutato suo malgrado dei servizi, non tanto per quello che è, ma per quello che non appare essere; e per reclutarlo, si fa leva sull’identità dell’essere tedesco, sui complessi di colpa di dover servire la patria, insomma sul fatto di spiare per i tedeschi semplicemente perché è tedesco.
E dove non arrivano a ricordarglielo i servizi, glielo ricordano altri, finanche la sua famiglia di origine.
Come tedesco lo ritroviamo dapprima rinchiuso ad Ellis Island, ma non bussa come emigrante in cerca di fortuna alle porte dell’eldorado americano, bensì rinchiuso a forza come ospite coatto, in qualità di cittadino di paese nemico, prigioniero nell’isolotto che una volta fungeva da ingresso in America per tanti disperati in fuga da guerra e miseria:
“…Nel 1946, nelle sue prime lettere, aveva dovuto spiegare al fratello che dall’inizio della guerra Ellis Island era diventata un campo d’internamento per stranieri nemici…”
Verrà in seguito espulso dall’FBI americano per sospetta attività di spionaggio e costretto a ritornare nella “normalità”, quella vera, non fittizia per ragioni di servizio, della sua famiglia di origine, o di quanto ne rimane, suo fratello Carl, la moglie Edith ed i loro figli, ai quali non è ancora ben chiaro chi sia in realtà questo loro congiunto, che un tempo assai poco lontano provvedeva al loro sostentamento inviandogli dalla prospera America ricchi pacchi di derrate alimentari e altro di prima, e introvabile, necessità:
“…caffè, strutto, latte in polvere, burro, uova in polvere, sapone, sapone da barba, tabacco, sigarette, aghi e filo, aspirina, saccarina, dadi da brodo, cioccolata, pepe, noce moscata, chiodi di garofano, lana da rammendo…fiocchi d’avena, farina, fecola, riso, gelatina, bende, aspirina, lievito in polvere, cioccolata, filo, nastro adesivo, aghi, lana, tabacco, pettine, calzini, lamette da barba…”
Ed ora ritorna da loro inspiegabilmente senza nulla della lontana prosperità, con un costosissimo volo diretto New York – Francoforte a spese dell’FBI, senza documenti, senza bagaglio, senza nessuna “normalità”, quella che il comune cittadino tedesco perseguita negli anni dell’immediato dopoguerra come il bene supremo dell’esistenza:
“…perché dalla ricca America è tornato come un povero diavolo? Non è neppure a zero, è in negativo…”
Infine, Josef Klein lo ritroviamo nella sua terza vita come Josè, nelle foreste del Costarica, impiegato come tecnico geografico nel tracciare i rilievi del paese.
Un uomo normale, quasi banale, che in effetti cova un suo segreto.
E lo cova suo malgrado.
Se è vero che ha tre nomi, Josef, Joe, Josè, tanto uomo normale non è: è infatti un agente segreto, date le sue caratteristiche, e le sue competenze tecniche sulla radio, assoldato agli ordini del servizio di Canaris, con le sue propaggini sparse ovunque sia in America che nei territori sudamericani.
Ulla Lenze ci racconta di una spia, ma allo stesso tempo ci ricorda che anche un agente segreto ha una famiglia, una sua normalità; allora la scrittrice mette insieme i servizi segreti come fossero un servizio alla famiglia, che è quello che in effetti è. E che serve ad inquadrare nei ranghi Josef.
Quella di Josef Klein, Joe l’americano, don Josè l’ecuadoriano non è una storia, è un’epopea; Ulla Lenza intende dar voce all’anima tedesca che nessuno ha ascoltato, quella a cui è stato assai subdolamente promesso di agire non a scapito di altri paesi, ma a difesa del proprio.
Come dire dare voce agli esclusi, e sono esclusi gravati dalle colpe terrificanti dei loro capi, e da loro coinvolti in prima persona. A loro difesa, a loro scusante: non erano i nazisti i cattivi, lo era tutto il popolo tedesco, quindi come dire non lo era nessuno, tutti colpevoli e nessun colpevole, ho solo obbedito agli ordini. Storia vecchia, scuse puerili per giustificare la banalità del male.
Liberarsene, e restituire onore e decoro alla propria terra, è forse l’unica, normalissima motivazione che sostiene Josef Klein e altri come lui, agenti segreti al di sopra di ogni sospetto.
Ulla Lenze ci offre la possibilità di capire, e per farlo deve parlarne, serve delimitare per apprendere:
“…Parlare di una determinata cosa era perlopiù un segno che non la si era capita...”
Ecco, la possibilità ci viene offerta, è cosa buona e giusta raccoglierla. E divulgarla.

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