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Due promessi sposi nella tormenta religiosa
La Languedoc della metà del XVI secolo, in piena guerra di religione tra ugonotti e cattolici, fa da sfondo alle vicende di due giovani: Marguerite (Minou) Joubert, figlia diciannovenne di un pacifico libraio di Carcassonne - le cui idee troppo liberali gli sono costate l’incarcerazione e la tortura per sospetta collusione con gli ugonotti - e Piet Reydon, un baldo uomo di ventisette anni di madre olandese, combattente sotto la guida del principe di Condè e fervente sostenitore delle ragioni dei protestanti.
A Carcassonne Minou deve badare ai due fratellini più piccoli (Aimeric e Alis) e alla bottega del padre. Costui, infatti, versa nella più profonda depressione per quello che ha subito nelle carceri dell’Inquisizione e che non osa neppure rivelare alla famiglia. In più ha l’animo oppresso da un terribile segreto che si porta dietro da vent'anni, un segreto che parla di un erede della casata dei Puivert. Questo segreto ora minaccia la sicurezza della sua famiglia e, soprattutto, la vita di Minou. Per questo decide di far partire la ragazza assieme al giovane, irrequieto, Aimeric per Tolosa, dove vive la sorella della defunta moglie. Ma là i due ragazzi saranno davvero al sicuro? L’odio religioso sta montando ovunque e gli scontri sanguinosi sono sempre più frequenti. La piccola Alis, poi, come se la caverà senza la sorella che ormai da cinque anni le sta facendo pure da mamma?
Piet, invece, è coinvolto in un pericolosissimo gioco: è entrato in possesso della preziosissima Sindone di Anversa, reliquia trafugata anni prima dalla chiesa in cui era custodita. Per finanziare la causa ugonotta, ma soprattutto per dar vita all'ospizio per poveri a cui dedica tutto sé stesso, ha fatto preparare una copia perfetta del lino che ha venduto ad alcuni conoscenti, trattenendo con sé l’originale. Tuttavia i cacciatori, sguinzagliati per recuperare la preziosa reliquia, adesso sono sulle sue tracce e dovrà guardarsi soprattutto da chi lui reputa come il suo più fidato amico.
Le vite dei due giovani finiranno per incrociarsi e tra loro, inevitabilmente, sboccerà l’amore, ma dovranno lottare strenuamente per non soccombere alla tempesta religiosa che farà strage attorno a loro.
Kate Mosse torna alla Linguadoca, la terra in cui ha ambientato molti delle sue storie (a cominciare dal best-seller “I codici del labirinto”), per un nuovo romanzo storico, questa volta non all'epoca della crociata contro i catari, ma nel ‘500 quando i protestanti ugonotti vennero perseguitati dall'ortodossia cattolica.
“La città dei labirinti senza fine” (titolo originale, più calzante, “The burning Chamber” con riferimento ai roghi dell’Inquisizione) è stato un grande successo editoriale in Gran Bretagna. Si tratta soprattutto di un romanzo d’azione, scritto, però, nei toni del bianco e del nero, senza alcuna sfumatura, dove i cattolici, con l’esclusione dei soli Joubert e di poche altre anime candide, sono feroci persecutori degli ugonotti, mentre, questi ultimi sono quasi tutti buoni d’animo, povere vittime sacrificali di una ferocia insensata e inumana che ben poco ha a che fare con l’interpretazione dei dogmi di fede, ma parla solo di brama di potere, crudeltà gratuita, follia e intrighi spietati.
Questo manicheismo esasperato, dove il bene si trova solo da una parte e il male solo dall'altra, è il peggior difetto del libro che risulta così piuttosto schematico e banale. Non è tanto il palese tifo dell’autrice per la causa ugonotta a lasciare interdetti, quanto l’uso di stereotipi e luoghi comuni, con i cattivi tali pure nell'aspetto e con le contrapposizioni banalizzate e prevedibili. Ciò conduce a personaggi costruiti con l’accetta, poco strutturati: dei veri cliché e, in taluni casi, quasi “macchiette” caratteriali. I dialoghi, poi, spesso non brillano per originalità.
La fin troppo meticolosa descrizione delle scene in cui si muovono i protagonisti e l’ambientazione accurata e studiata attentamente non sono sufficienti a redimere il romanzo da questo peccato originale.
La trama è piuttosto elaborata (quasi aggrovigliata), ma non originalissima e fa tanto “Promessi sposi” o, se si vuole, “La Colonna di Fuoco” di Follett. La storia parte abbastanza lenta e accelera verso il finale, ma i vari accadimenti e le varie rivelazioni che la scrittrice dissemina nella narrazione non giungono quasi mai inaspettati: al contrario sono per lo più attesi quale necessarie preparazioni dell’edulcorato happy end conclusivo in perfetto stile hollywoodiano del “e vissero tutti felici e contenti”. A un certo punto il lettore viene preso dall'ansia di giungere alla parola fine, giacché, capito quale sarà l’epilogo, ogni ulteriore artificio narrativo appare come dilatorio.
Il libro, comunque, conserva una certa dose di interesse per i suoi risvolti storici e per la rievocazione di quei sanguinosi e insensati anni di conflitti religiosi con gli occhi delle persone, spesso inermi, che dovettero subirne gli effetti. Anche se le vicende dei personaggi sono predominanti, e soffocano un poco l’aspetto prettamente cronachistico, questo tuffo nel passato non è spiacevole.
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Per l’angolo del pignolo ho notato qualche refuso di troppo e, soprattutto, un prologo sudafricano del tutto incomprensibile se non come suggerimento che la storia dovrà avere un seguito da sviluppare in successivi romanzi. Se è così l’ho trovato un adescamento decisamente scorretto …