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Le catene della vita
Venerdì 31 Dicembre 1976. È il giorno della tragedia, che finirà sul giornale di Denver insieme a dettagli di cronaca, date e alle foto dei fratelli Edith e Lyman Goodnough. Ma quella non è la storia, è solo un fatto, argomento di chiacchiere da bar e facili giudizi. E il come? E il perché? Per provare a capire bisogna allora tornare indietro, e indietro, a quasi cent'anni prima, quando i genitori di Edith e Lyman arrivarono in Colorado, e percorrere insieme a loro una lunga strada fatta di speranze deluse, fatica e attese infinite.
Iniziamo allora questo cammino, lentamente, incamerando nei polmoni l'aria afosa della provincia rurale americana, sollevando la polvere di quella terra arida, con la consapevolezza che, pur andando avanti, la felicità sarà sempre dieci passi più in là, irraggiungibile.
Ad attendere i coniugi Goodnough nel 1896 è una terra brulla e inospitale, così diversa dai campi verdi e fertili che avevano immaginato. Ada vorrebbe scappare, ma la dispotica determinazione del marito Roy, che non ammette repliche né sentimenti, la vincolerà per sempre a un'esistenza di rassegnata fatica e grigio dolore. A liberarla, la morte. Allora è la volta dei figli. Saranno loro a dover prendersi carico del raccolto e della mungitura, della fattoria e della casa, e soprattutto di Roy, con la sua personalità soverchiante, le sue imposizioni, la sua crudeltà. A volte, la vita è capace di diventare davvero una prigione. C'è chi muore nel tentativo di liberarsi, chi si abbandona alla rabbia, chi si trasfigura nella follia. Invece Edith rimane in piedi, solida, gentile e premurosa, rassegnandosi a quelle catene indissolubili, fatte di legami famigliari e sensi del dovere. Inutile combattere, inutile credere in quell'amore che per un istante è sembrato un miraggio di salvezza, inutile immaginarsi un futuro diverso. Solo lavoro e sopportazione, senza però dimenticarsi di una crostata per il figlio dei vicini, o un sorriso. E poi, a quasi ottant’anni, quel fatto, a cambiare il corso della storia, a offrire una prospettiva diversa con cui osservare ciò che è stato e immaginare le emozioni di questa donna indimenticabile, che non ha mai saputo varcare i confini di casa.
In un mondo come quello che ci circonda che pare misurare la vita solo in termini di successo e soddisfazione, potrebbe sembrare di poco valore un'esistenza come quella di Edith, segnata dalla monotonia e dalla privazione. Invece quest'esistenza ha tanto da raccontare, ha tanto da regalare al lettore. La grandezza di queste pagine sta proprio nella capacità di farci immedesimare nel dolore, di farci comprendere il coraggio del sacrificio, di farci percepire il nostro stesso corpo legato da quelle corde che hanno imprigionato Edith un giorno dopo l'altro. Per farlo, Haruf non ha bisogno di ricorrere a virtuosismi stilistici o metafore ardite, perché la forza della sua voce sta nell'immediatezza con cui arriva al cuore, nella semplicità, nella dolce comprensione che avvolge quest'umanità così genuina e reale.
Duro e malinconico, poetico e delicato, crudele e balsamico, in altre parole, imperdibile.
"Certo che non è giusto. Niente in questa faccenda è giusto. La vita non lo è. E tutti i nostri pensieri su come dovrebbe essere non servono a un cavolo, a quanto pare. Tanto vale che tu lo sappia subito."
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Commenti
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Adesso ho la Trilogia ad attendere in libreria, ma aspetto un po': Haruf lo centellino!
Grazie come sempre per l'attenzione.
Manuela
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