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IL DESTINO IN UN LAGER
Sulle esperienze vissute dagli ebrei in un campo di concentramento la pietra miliare in letteratura è stato certamente “Se questo è un uomo” di Primo Levi: secco, dettagliato, antiretorico e impietoso. “Essere senza destino” introduce una novità nel genere concentrazionario: il protagonista è un ragazzo di quindici anni, quindi un essere immaturo, non ancora pienamente formato, in crescita. La cosa è molto interessante dal punto di vista narrativo, in quanto permette al lettore di verificare cosa succede alla mente umana, specie in una mente ancora da plasmare, priva di esperienze, in un certo senso vergine, quando viene esposta alle atrocità più mostruose e inimmaginabili. L’autore fin dalle prime righe introduce il protagonista mettendo in rilievo la sua inadeguatezza ad affrontare le insolite circostanze che si ritrova suo malgrado a vivere (“Ma forse mi sbaglio… forse non ricordo bene… Non sapevo cosa rispondere e così non ho detto niente… A dire il vero, io non ero riuscito a seguire bene il suo ragionamento… Non so esattamente. Non ricordo nemmeno le circostanze”, e così via). Gyurka vive il precipitare degli eventi (il lavoro obbligatorio alla Shell, la deportazione in Germania) senza minimamente cogliere la gravità delle conseguenze: trova esagerato che la sua vicina di casa creda che la gente la odi in quanto ebrea, anzi non crede che esista neppure un’identità ebrea che non sia quella assegnata dal caso alla nascita; il lavoro cui è costretto insieme ad altri ragazzi ebrei è “persino divertente”; l’episodio di quando viene fatto scendere dall’autobus mentre si sta recando in fabbrica è “davvero singolare”; e quando viene rastrellato insieme a centinaia di altri ebrei e condotto in una caserma gli viene quasi da ridere, per l’impressione di trovarsi in una commedia dell’assurdo senza conoscere la parte che deve recitare. Persino l’arrivo ad Auschwitz è accompagnato da espressioni di stolida soddisfazione: le SS non sembrano “per niente pericolosi”; hanno sì in mano una frusta, “ma, dopo tutto, non avevo visto farne alcun uso”; il medico della selezione ispira fiducia “perché aveva un aspetto gradevole, la faccia lunga e simpatica, … occhi azzurri…. dallo sguardo benevolo; ebbi la vaga sensazione di piacergli”; il passaggio della selezione genera esultanza; “era tutto in movimento, tutto funzionava, ciascuno era al proprio posto e faceva il proprio dovere, tutto si svolgeva in modo preciso, sereno, filava via liscio”; ci si reca alla doccia “chiacchierando e ridendo”; “quello che vidi dei dintorni nella breve strada percorsa tutto sommato mi lasciò soddisfatto”. La conoscenza degli orrori che lo attendono nei vari lager frequentati è graduale ed implacabile: è un piano inclinato che, passo dopo passo, conduce il ragazzo a una progressiva disumanizzazione, a un costante annientamento di sé, senza che quasi ci sia un vero momento di discontinuità che possa innescare una autentica presa di coscienza. Solo voltandosi indietro è possibile rendersi conto che “esistono cose che fino ad allora io non avevo compreso e che difficilmente avrei potuto credere”. Tutto avviene in maniera insensata, cioè senza che sia possibile dare un senso all’impressionante cambiamento che la fame, la dissenteria, le percosse, il sonno, il freddo, i pidocchi, le piaghe provocano nel fisico e nello spirito di Gyurka e dei suoi compagni, fino a renderli estranei gli uni agli altri (concentrati solo in una disperata lotta per la sopravvivenza, dove spesso “mors tua vita mea” – vedi ad esempio l’episodio dove il protagonista non rivela la morte del vicino di branda pur di potersi accaparrare per qualche giorno una doppia porzione di zuppa) e persino a se stessi (l’estraneità del proprio corpo, troppo rapidamente cambiato per essere ancora riconoscibile). L’arbitrio, le coincidenze, il caos governano gli eventi, la vita è letteralmente appesa a un filo, e Gyurka si salva solo per circostanze fortuite (una malattia che lo costringe in un’infermeria del lager fino all’arrivo degli Alleati). Al suo ritorno a Budapest, la città natale, un anno dopo la sua partenza, Gyurka è un ragazzo invecchiato, quasi saggio: senza rendersene conto ha subito un’evoluzione impressionante. La sua ossessiva ricerca di un senso, di un destino alla propria vita lo rende estraneo alla persone che sono rimaste e che non lo capiscono, vedendo solo le immani conseguenze di una tragedia di proporzioni bibliche, e non i piccoli, impercettibili passi che l’hanno resa possibile, rendendoci tutti corresponsabili. Il suo futuro è un’aporia, un ossimoro: proseguire a tutti i costi una vita “che non è proseguibile”, e guardare al lager quasi con nostalgia, cercando di riempire con un significato quell’enorme buco nero che altrimenti minaccerebbe di trasformarlo in un “essere senza destino”.
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