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Pagine troppo spesso dimenticate
È il 2015 quando negli archivi regionali di Turku Johanna Holmstrom incontra Amanda. Di punto in bianco le esplode innanzi, con il suo temperamento impetuoso e la sua tendenza ad urlare e comandare a bacchetta. Chiede i suoi vestiti, quegli abiti che le sono stati portati via quando è sbarcata lì, all’ospedale di Själö. Ha ventisei anni, è una vagabonda in un’epoca in cui vagabondare per le strade senza scopo è proibito, è una ribelle che non esita a prostituirsi e a ubriacarsi. Giunta sull’isola, non è altro che una delle tante che vengono osservate e il cui decorso della malattia è annotato dalle infermiere con cura e dovizia. Ma non è certo la prima. Perché la storia delle donne di Själö non comincia con lei e non comincia nemmeno in quel lontano 1889 quando quell’ospedale su un’isoletta diviene un luogo destinato esclusivamente al gentil sesso. Comincia negli anni Cinquanta del Settecento in Francia con il medico Pierre Pomme che prende appunti accanto a una vasca da bagno in cui siede la sua paziente dal nome ignoto ma che sappiamo essere isterica. La terapia adottata consiste in un perpetrarsi di bagni in acqua fredda che ti consumano dall’interno sino a renderti “un pomodoro da sbucciare” che può salvarsi soltanto con la morte.
Turku, 1891. Kristina Andersson è una madre sola e instancabile che cresce in solitudine i suoi due bambini; Helmi di otto anni e un maschietto ancora in fasce. La sua vita è sempre stata molto dura, in particolare la primogenita è il risultato di una violenza sessuale subita che l’ha condannata ad essere una emarginata. È sola anche in quella notte di ottobre, su quella barchetta che scivola controcorrente sull’acqua nera del fiume Aura. Rema con gli occhi fissi sulla baia che si è appena lasciata alle spalle. È spossata, sfiancata e infreddolita. È al limite, le dolgono le mani, è preda di una stanchezza che non abbandona mai il suo corpo e che le fa fluire i pensieri con la stessa lentezza dell’acqua nera. Al contempo, seppur l’imminente inverno sia alle porte, è sudata. Se vuole arrivare a casa deve alleggerire la barca liberandosi della zavorra. È un attimo. I due corpi addormentati dei suoi figli sono calati nella gelida corrente. Il corpo della bambina, gettato per secondo, viene assorbito immediatamente dai fanghi, quello del maschietto calato su una sorta di imbarcazione di fortuna per primo, si allontana inesorabile ma certo è che non può esser sopravvissuto a quel clima così avverso. Il giorno dopo il risveglio e la domanda: dove sono i bambini? Perché i loro letti sono vuoti? La ricerca, la memoria del crimine commesso, la disperazione, l’arresto, il confino in quel luogo abitato soltanto da donne considerate incurabili in cui avrà quale unica compagnia – sino alla morte – la voce nella mente della sua bambina.
Marzo 1934, Isola dei pazzi. Il suo nome è Ellinor Augusta Curtèn, di anni 17, studentessa, alta 162 cm, di peso pari a 59 kg. La sua diagnosi è di “grave psicopatia, demenza precoce, mitomania e ninfomania”. Tuttavia, Elli è in realtà totalmente sana. La sua unica colpa è quella di aver desiderato l’amore della madre, un amore che mai arriva e che, a seguito della sua fuga da casa, le comporta l’internamento perché “pericolosa”.
Due anime che non sono sole in questo percorso di isolamento forzato e che sono accompagnate nel decorso degli eventi da due infermiere, Fredika e Singrid, a cui si contrappongono la personalità impietosa di Mikander, medico duro e rude, il viscido pastore Erland e le altre tante ragazze “interrotte” quali Karin e Martha.
Un romanzo corale è “L’isola delle anime” di Johanna Holmström, un volume che riesce a catturare il lettore grazie ad uno stile narrativo evocativo che conduce e scorta tra il susseguirsi delle vicende e che ben descrive anche gli aspetti più psicologici, medici e introspettivi dei vari protagonisti. È un elaborato che non lascia indifferenti, che commuove. Ciò accade anche perché il lettore ha la consapevolezza che, per quanto romanzato, quello che ha tra le mani è uno scritto che si basa sui fatti realmente accaduti tra le fine del 1800 e il 1962 senza nulla risparmiare su quelle che erano le crudeltà, le angherie, le vessazioni a cui erano sottoposte le persone considerate disagiate, matte.
È un libro che ci parla di molteplici tematiche che vanno dalla malattia, alla malattia indotta, al dolore, alla violenza, alla femminilità come colpa, alla guerra e dei suoi orrori in quegli anni in cui infuria in tutta Europa, ai luoghi, agli usi, ai costumi e ai pensieri di popoli che ci sembrano sempre così lontani e distanti. Un componimento che ricostruisce una pagina buia e che resta. Non stupisce quindi che la giovane scrittrice, appena ventiduenne, abbia vinto il premio letterario svedese YLE.
Suggestivo, indelebile, intimo, profondo, forte. Da leggere.
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