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UN PONTE CROCEVIA DI CULTURE
“Il ponte sulla Drina” è la storia di Visegrad, una piccola cittadina bosniaca situata al confine tra mondo cristiano e mondo musulmano, e quindi crocevia di etnie, fedi e culture molto diverse tra loro; ed è anche, come si evince dal titolo, la storia del suo ponte, costruito nel XVI secolo e fatto assurgere dall’autore a muto e apparentemente inalterabile testimone dell’avvicendarsi di generazioni umane e di avvenimenti storici, sociali e naturali, ora drammaticamente incalzanti ora prosaicamente quotidiani. Proprio come il fiume che passa maestoso sotto il ponte, Ivo Andric nel suo libro osserva il lento scorrere degli anni con lo sguardo imperturbabile e impassibile di chi giudica gli eventi, le persone e le cose “sub specie aeternitatis”. Molte pagine sono cruente, quasi al limite dell’insopportabilità (nei primi capitoli un uomo viene impalato vivo, e il supplizio è descritto nei più minuti dettagli, più avanti un altro è inchiodato a un palo per un orecchio), eppure ciò non turba più di tanto il ritmo pacato e fluente della sua prosa. Allo stesso modo i cambiamenti politici e socio-economici (il passaggio dall’impero ottomano a quello austro-ungarico, i progressi portati dalla modernità) sono narrati con quella saggia e lungimirante filosofia di chi sa che solo il tempo è il vero giudice della storia e perciò guarda con compassione ai patetici tentativi degli uomini di contrastare la sua inesorabile legge. Alluvioni, epidemie e rivolte lasciano così dietro di loro immani strascichi di distruzione e di sofferenza ma pian piano vengono dimenticate e sostituite dall’indifferenziato trascorrere della vita di tutti i giorni, così come presto dimenticati (o per meglio dire trasferiti nella sfera idealizzata della leggenda e del mito) sono i vari Radisav (il serbo impalato per avere boicottato i lavori di costruzione del ponte, che l’immaginario collettivo trasforma in una sorta di invincibile eroe cristiano), Arapin (l’attendente moro rimasto schiacciato da un grosso blocco di pietra, il cui spirito si pensa continui a vivere all’interno del ponte), Ilinka la matta (la povera idiota convinta che i suoi due figli, in realtà nati morti, siano stati rapiti dai turchi per essere murati in un pilastro del ponte), Fata (la bellissima ragazza gettatasi nel fiume il giorno delle sue nozze), Milan Glasincanin (il giocatore d’azzardo che passa un’intera notte a scommettere col diavolo in persona), e ancora Pop Nikola e Mula Ibrahim (i maggiorenti della città, grandi amici pur essendo i capi delle due opposte comunità religiose, quella cristiana e quella islamica), Fedun (il militare suicidatosi per aver fatto passare alla “porta” il brigante Jakov travestito da donna), Lotika (l’affascinante e infaticabile albergatrice che dopo una vita di sacrifici e di abnegazione finisce pazza), Mujaga (l’eterno profugo, perseguitato ad ogni suo spostamento dagli inattesi cambiamenti dei governi e delle dominazioni) e tante altre figure (tra cui quella di Alihodza, presenza ricorrente degli ultimi decenni della narrazione, con la cui morte si chiude il libro), che tutte insieme vengono a comporre un suggestivo mosaico collettivo. Alla luce di tutto ciò, è facile capire come per rintracciare una visione morale nella disincantata e cronachistica scrittura di Andric sia necessario andare a spulciare con pazienza ed attenzione tra le pieghe di considerazioni apparentemente neutre e distaccate: soltanto così è possibile far emergere, dalla semplice successione di aneddoti tragici o divertenti cui “Il ponte sulla Drina” rischia di essere sbrigativamente ridotto, quell’orrore per la “famelica bestia” che di quando in quando, dopo essere rimasta per tanto tempo celata all’interno di leggi, usi e consuetudini civili, fuoriesce incomprimibile sotto forma di intolleranze etniche, di esplosioni di violenza bestiale, di laceranti conflitti che distruggono in pochi giorni le fortune faticosamente costruite in un’intera vita (e la mutilazione finale del ponte, un pilastro del quale viene, dopo essere stato minato, fatto saltare dai soldati austriaci in ritirata, è un eloquente simbolo di quanto ora detto). Andric non è un Saramago, e gli abitanti di Visegrad non hanno lo stesso spessore emotivo di quelli dell’Alentejo, ma “Il ponte sulla Drina” è ugualmente un romanzo intrigante, se non altro perché con mezzi espressivi semplici e lineari, di facile e immediata “leggibilità”, porta alla ribalta una regione del tutto sconosciuta ai più, cui la dizione “di frontiera” si addice perfettamente non solo dal punto di vista geografico ma anche e soprattutto da quello letterario.
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