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Musica e letteratura, maestre di vita...
Tutto nella famiglia Aubrey sembra esprimere eccentricità e lontananza da un qualsivoglia schema di normalità.
Una madre piuttosto scialba e disordinata, ex pianista di grande talento, un padre scrittore ed acuto editorialista dedito al giuoco, quattro figli cresciuti in fretta per dovere e necessità, piuttosto indipendenti e più grandi della loro età, una domestica nonostante la povertà acclarata.
E se Cordelia, la primogenita, coltiva lo studio del violino senza possederne il talento, Rose, la voce narrante, e Mary suonano il pianoforte sulle orme materne aspirando a risollevare le finanze famigliari, il piccolo Richard Quin, in attesa del proprio talento, sprizza acume ed obiettività.
In verità il primo capitolo di questa trilogia di ispirazione autobiografica si apre ad una prosa fluente, gradevole, tersa, ma piuttosto povera di accadimenti, impegnata a descrivere e definire un senso di famigliarità, caratteri, manie, debolezze, aspirazioni dei singoli, una quotidianità di vita e relazioni inserita nei primi del’ 900 all’ interno di canoni sociali acclarati ma lontana da una socialità manifesta e somma di particolarismi.
Da subito è chiara l’ incapacità gestionale genitoriale all’ interno della famiglia Aubrey, l’ assenza di una figura maschile, e sarà Rose a cercare di sopperire a questa manchevolezza.
Un destino segnato da partenze, ritorni, illusioni, delusioni, debiti, ed una speranza colorata di amore.
Genitori incapaci di venire a patti con i propri simili, una madre amabile ed amorevole ma che non sa rapportarsi agli estranei, consapevole di crescere i propri figli in uno stato di completo isolamento sociale, un padre mai puntuale che deride tutto in modo sprezzante e si assenta per lunghi periodi, la cui grazia ne compensa la trasandatezza.
Risuona ed emerge una eco interiore, ed una sostanza che riporta alla essenza del romanzo, quel complesso sistema affettivo e relazionale che ne esprime il carattere peculiare.
C’è un soffio vitale coagulato nel termine “ amore “, una gioia di vivere oltre ogni banalità, un respiro culturale fondato sull’ arte, in primis la musica, e su ottima letteratura, dolce compagnia e fonte ispirante, che lega e preserva la famiglia da un destino acquisito.
La lotta per il quotidiano, tra stenti e disillusioni, si alimenta di eccezionalità, di grazia ed amore in un’ epoca, un po’ per necessità ed un po’ per scelta, assai cupa.
Ed allora gli Aubrey utilizzano un linguaggio condiviso per descrivere gli altri, i non musicisti, quelli che con i propri discorsi ed azioni esprimono esattamente la stessa musicalità, paragonandoli a personaggi shakespeariani, e c’ è sempre una gioia interiore ad accompagnare i loro sentimenti.
La realtà rimane piuttosto cruda, raggelata dalla smisurata indifferenza di un padre verso la sorte dei figli, un uomo coraggioso, crudele, disonesto, gentile, con una serie di qualità paradossali, un estraneo, ed una madre che chiede di lui ai figli, come vivesse in un posto molto lontano e desiderasse avere sue notizie.
Rose chiuderà gli occhi immaginando il proprio padre nascosto in ogni luogo, moltiplicato e presente in ciascuno di essi, consapevole di poterlo sempre trovare e che, se lui volesse respingerla, accetterebbe anche quello.
Questo il potere rigenerante dei sogni, e delle illusioni, ma in primis dell’ arte, respirata, coltivata, amata, una forma interiore che da’ senso alla vita, che origina dalla esternazione delle proprie paure per approdare ad una profonda conoscenza di se’ ed a quel segreto ultimo espressione e suono di un amore totalizzante.
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