Dettagli Recensione
La tragedia degli "ismi"
Scelta curiosa quella di Adelphi: pubblicare a breve distanza il primo e l’ultimo romanzo di Singer, i suoi Satana a Goraj e Keyla la Rossa. Una lettura tanto ravvicinata permette di avere subito un’idea dell’evoluzione stilistica dell’autore: la scrittura resta poderosa, quadrata, solida e permette di sostenere una trama che altrimenti finirebbe per cedere su più punti, ma nel corso degli anni Singer matura una certa rarefazione linguistica, una più delicata e saggia scelta delle parole e degli eventi da narrare. Di contro, il tema centrale della sua narrativa, non cambia: il rapporto tra uomo e Dio e le annose vicissitudini della cultura ebraica permeano ogni lembo di pagina e dominano le fila del racconto. Anche qui, però, è lo sguardo dell’autore a cambiare: dall’analisi della comunità, dalla descrizione del collettivo, l’occhio autoriale si fa via via più intimo e privato, la penna si ripiega su se stessa e non mancano sprazzi francamente lirici.
In questo Satana a Goraj, Singer si dimostra una penna promettente, per quanto manchi un respiro narrativo sufficiente a rendere più fluida l’azione, che tra eventi mirabili e grandiose apparizione, demoni e minuziosi riti ebraici, stanca un poco il lettore. La fatica, alla fine del libro, si sente, ma la lettura merita soprattutto per la acuta analisi degli effetti del fanatismo sulla società, ovvero di come voci vaghe, complotti millenaristici, credulità e bigottismo, sfocino in inaudita ferocia. Singer ci ricorda come abili personaggi, mossi dalla fame di potere, sfruttino abilmente paure e difficoltà economiche, ignoranza e ingenuità, per raggiungere i propri scopi e come la manipolazione dell’informazione permei, fin da sempre, la civiltà umana. E possiamo forse perdonare il tono incostante del libro per aprirci a questo mondo incredibilmente attuale, per ricordarci che ogni “ismo” ha in sé i germi dell’oppressione e le stigmate dell’atrocità. Un libro che sarebbe piaciuto a Umberto Eco, se ancora fosse vivo, perché ci insegna che gli uomini, alla fine, credono più alle parole che ai fatti, contro ogni ragionevole dubbio.